31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

Bush sull'Iraq ha ingannato gli Usa


Quando i vari blogger portavano avanti articoli che affermavano che la guerra in Iraq era solo un pretesto, quell'informazione non valeva nulla. Adesso che tutti lo dicono, anche il vice di Bush, allora diventa materiale per un libro, forse per un best-seller. Ma come siamo messi con l'informazione? Chi giudica Chi?

WASHINGTON (Stati Uniti) - Le motivazioni per muovere guerra all'Iraq furono un colossale inganno ordito da Karl Rove, da Dick Cheney e dalla Cia con la compiacenza - o quantomeno il silenzio - di George W. Bush e Condoleezza Rice. Ad affermarlo è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, un uomo che per sei anni ha vissuto all'interno di quelli che oggi chiama «meccanismo di propaganda».

LE ACCUSE - Nel libro intitolato Cosa è successo: all'interno della Casa Bianca di Bush e della cultura washingtoniana dell'inganno, McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l'ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia; la Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere «il mago» che manovra la politica da dietro le quinte senza lasciare tracce. L'ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l'Iraq, ma afferma che lu e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che «la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l'unica opzione praticabile». Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell'estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una «campagna di propaganda politica» mirata a «manipolare le fonti alle quali attinge l'opinione pubblica» e a «minimizzare le reali ragioni della guerra».


IL RIMPASTO E L'ADDIO - McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove. «Ammiro ancora Bush» scrive McClellan nelle 341 pagine del libro, anticipato dal Washington Post, «ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l'onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell'opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale».

STAFF NEL MIRINO - L'ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall'uragano Katrina nel 2005. «Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare» scrive McClellan, «così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush».

La svolta ecologista dei Rockefeller



Neva, pronipote del mitico John D., presenta una mozione agli azionisti della Corporation

«Exxon cambi rotta sull'ambiente»

L'appuntamento è per mercoledì prossimo a Dallas, dove si terrà l'annuale assemblea degli azionisti della multinazionale petrolifera più ricca del mondo che è anche l'unica a non fingere nemmeno d'interessarsi alla crisi ecologica in corso. Anzi, com'è noto, Exxon si batte da anni con ogni mezzo, legale e illegale, per annacquare gli studi sul cambiamento climatico e tenere lontana qualunque normativa che possa imporre dei limiti alle emissioni inquinanti.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare: con una mossa senza precedenti gli eredi del fondatore hanno organizzato una cordata per costringere l'azienda a impegnarsi contro dl'effetto serra e nelle energie rinnovabili. L'insurrezione, guidata da Neva Goodwin Rockefeller, pronipote del fondatore e stimata economista, vuole la testa dell'attuale presidente Rex Tillerton e una totale inversione di rotta: a fronte degli enormi profitti che Exxon sta intascando grazie all'aumento del prezzo del petrolio, secondo Neva la corporation deve aiutare i poveri, cercare fonti alternative di energia e tutelare l'ambiente anche - o soprattutto - per non restare tagliata fuori dal business ecologico, l'unico che sembra avere un futuro.

Quella dei Rockefeller è una saga che va avanti da un secolo e mezzo fornendo materiale per film, romanzi e perfino fumetti, come si evince dal successo di un certo John D. Rockerduck, nemico storico di Paperon De Paperoni che deve il suo nome a John D. (sta per Davison) Rockefeller mitico fondatore della Standard Oil, praticamente la madre di tutte le corporation petrolifere e non. Tanto per far capire quanto il fondatore abbia influenzato l'immaginario degli americani, basti pensare che quando Disney lanciò il nuovo personaggio la Standard Oil aveva chiuso i battenti già da cinquant'anni, e non certo perché gli affari andavano male.
Al contrario, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ai dirigenti di smembrare la compagnia, nel 1911, Rockefeller controllava il 64% del mercato: un monopolio decisamente illegale secondo le leggi statunitensi. Dalla Standard Oil nacquero ben 34 compagnie, alcune ancora vive e vegete come Continental Oil (ribattezzata Conoco), Standard of Indiana (poi Amoco), Standard of California (poi Chevron), Standard of New York poi Mobil) e infine Standard of New Jersey, (ribattezzata Esso e poi Exxon). Quest'ultima, certamente la più potente, nel 2007 ha realizzato profitti per 40 miliardi di dollari.
Sono decenni che i discendenti del fondatore non mettono bocca nelle decisioni del management e tengono lontane dai riflettori le loro proverbiali liti.

Ora però, sull'onda dell'impegno di Neva, le nuove leve hanno deciso di farsi sentire e accusano l'attuale gestione di ignorare la volontà degli azionisti e di non pensare minimamente al futuro del pianeta. Mercoledì a Dallas i "cugini" - come sono chiamati dalla stampa - presenteranno cinque mozioni per chiedere il totale cambiamento della politica aziendale e le sosterranno anche contro il parere del patriarca David (92 anni), ex presidente della Chase Manhattan e fiero oppositore dei capitalisti «attivisti» che considera semplicemente dei pazzi. Sul fronte opposto c'è Peter M. O'Neil, uno dei cugini, che ha irritato particolarmente gli anziani rompendo l'antica vocazione familiare all'omertà e prestandosi a fare da testimonial della fronda sui media. Una battaglia campale, dunque, che tiene l'industria e la finanza statunitensi con il fiato sospeso anche perché i Rockefeller sono sempre stati notoriamente molto litigiosi ed è già una notizia il fatto che abbiano fatto fronte comune contro quelle che considerano «la cecità e l'ingordigia della Exxon».

Per quanto la battaglia sembri impari, visto che attualmente la famiglia detiene una percentuale molto piccola di quote azionarie, i Rockefeller hanno sempre avuto grandi ambizioni. Non a caso Peter Johnson, lo storico della dinastia, sospetta che il loro obiettivo sia di riformare non solo la Exxon ma l'intera industria petrolifera. «E' gente con un impegno ambientale e sociale preciso» ha spiegato al Corriere della Sera «Mirano alla riduzione delle emissioni di gas nel mondo e al sostegno delle comunità meno abbienti». Dalla loro i cugini hanno il sostegno di un'opinione pubblica sempre più preoccupata dagli effetti del riscaldamento globale e sempre più arrabbiata per gli aumenti del prezzo del greggio, che si traducono in profitti da record per le compagnie.

Naturalmente Rex Tillerton non ha nessuna intenzione di cedere: «Siamo un'azienda petrolifera e petrolchimica e tale resteremo. Il nostro bilancio dimostra che abbiamo ragione». Le trattative con i rivoltosi - in corso dal 2004 - sono arrivate a un punto morto quando il management ha rifiutato ogni proposta di compromesso. Si è arrivati così alle quattro mozioni: tre che riguardano gli investimenti nell'energia rinnovabile - che altre aziende, come Chevron o BP, fanno massicciamente - e una quarta ben più radicale per ottenere la nomina di un presidente indipendente. Secondo Tillerton la rivoluzione dei Rockefeller è destinata a fallire «perché non hanno nemmeno l'1% delle azioni». Ma Peter O' Neill ribatte che il pacchetto azionario della dinastia è «difficile a calcolarsi perché messo in vari trust» ma è certamente superiore alla quota indicata e che comunque molti azionisti si sono schierati con i cugini proprio perché infastiditi dalla totale cecità degli attuali dirigenti sulle questioni ambientali. Secondo il Wall Street Journal, la fronda ambientalista avrebbe il consenso del 40% degli azionisti. Anche perchè, se così non fosse, difficilmente i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto.
di Sabina Morandi

28 maggio 2008

Quando la libertà di parola non è così libera


Parlare liberamente non è così privo di conseguenze. Negli Stati Uniti, per esempio, criticare Israele equivale ad un'eresia. Jimmy Carter, già Presidente degli Stati Uniti, dopo la pubblicazione l'anno scorso del suo libro 'Palestina: Pace, non Apartheid' nel quale condannava le politiche isolazioniste israeliane nei territori palestinesi occupati, ha avvertito una forte reazione pubblica avversa. Come conseguenza, senza alcun fondamento, Carter fu marchiato da molti nella stampa americana come propagandista anti-semita di-parte.

Analogamente, Stephen Walt - Professore alla Harvard - e John Mearsheimer - all'Università di Chicago - sono stati additati per uno scritto che metteva in discussione il potere della lobby israeliana ed i suoi effetti negativi sulla politica americana.

Da ultimo, Norman Finkelstein, stimato Professore alla DePaul University ed autore del bestseller 'L'Industria dell'Olocausto', è stato testimone di una campagna in stile maccartista montata contro di lui al ricevimento dell'incarico. Finkelstein, figlio di sopravvissuti all'olocausto, ha sempre parlato contro gli abusi dei diritti umani commessi da Israele e contro gli apologeti pro-Israele, tipo il Professor di Harvard, Alan Dershowitz. Presumibilmente, è stato quest'ultimo a montare la campagna anti-incarico contro Finkelstein, al quale alla fine è stato negato l'incarico ed ha perso la cattedra alla DePaul.

Gli attacchi contro Carter, Finkelstein, Walt e Mearsheimer sono un piccolo gruppo di esempi ben noti sulle conseguenze alle quali scrittori ed intellettuali vanno incontro quando oltrepassano la linea e criticano Israele. La condanna che ricevono, poi, scrittori ed intellettuali di origine araba è invariabilmente più alta di quella ricevuta dai Giudei responsabili, dai già presidenti e dagli accademici rispettati.

Così, molto scrittori spesso seguono la corrente e la loro auto-censura si manifesta nell' "abbassare i toni del messaggio" sia compiacendo l'editore che i critici, essenzialmente conformandosi alla realtà di un cosiddetto pragmatismo. Ma tale "pragmatismo" è un eufemismo al posto di "accettazione" di uno status quo repressivo ed è analogo a quel "necessario" modo di pensare "pratico" che aveva zittito una moltitudine di commentatori durante gli anni di Oslo - il presunto periodo della pace. Logicamente, l'effetto delle taciute sofferenze dei Palestinesi fu un aumento dell'espansione degli insediamenti dei coloni, della confisca di territori, del numero dei posti di controllo e degli attacchi, così come del fallimento di Camp David, nel 2000.

Schivare argomenti percepiti come controversi può aiutare a salvare una carriera ben allineata, ma lo scopo di un analista politico non dovrebbe essere produrre dei lavori di fantasia. Durante la corsa alla guerra in Iraq, la maggior parte degli americani non era disponibile a sentire critiche alla politica americana, ciò soprattutto a causa della complicità dei mezzi di comunicazione ufficiali a sostegno della guerra; ma le critiche erano assolutamente appropriate dato l'andamento dei fatti e gli americani oggi ne avrebbero beneficiato.

Un uomo che è riuscito a combinare con maestria i propri principi, l'attivismo e gli aspetti umani, è stato il noto educatore e commentatore Edward Said. Said è visto senza dubbio come la quintessenza del radicalismo nell'intelligentia e nel campo dell'analisi del Medio-oriente. Nondimeno, le sue posizioni erano radicali se confrontate con la "comprensione convenzionale" : era infatti un fautore della soluzione ad uno-stato, un critico solitario del governo israeliano ed un ardente sostenitore dell'apparentemente controverso diritto di ritorno. Said è stato oggetto di critiche durante tutta la sua carriera ed ha sostenuto pesanti attacchi dai suoi detrattori, eppure il suo modo di fare comprensibile e le sue argomentazioni motivate, gli hanno fatto conservare un ruolo rilevante.

Purtroppo, questa relativa accettazione a favore di Said è l'eccezione e non la regola. Negli anni recenti c'è stato un aumento dell'attenzione per un preteso dialogo pragmatico. Nei fatti, questa attenzione al pensiero cosiddetto razionale ed equilibrato è risultata essere poco di più di un mezzo subdolo per fare pressioni sugli oppressi per accettare gli oppressori.

I più grandi leaders degli ultimi cento anni, non hanno evitato le contrapposizioni, sono rimasti sulle loro posizioni ed hanno visto le loro intuizioni diventare realtà; che si trattasse di Martin Luther King o Nelson Mandela o del Mahatma Gandhi. Ma non si può ignorare che anche personalità di spicco sono state punite per aver "oltrepassato" i confini ritenuti leciti, segnatamente Martin Luther King, che fu criticato per aver parlato contro la guerra in Vietnam, contro l'imperialismo e contro le ingiustizie sociali che infestano gli Stati Uniti.

Questa settimana, i Palestinesi negli Stati Uniti hanno commemorato i 60 anni del loro confinamento. Eppure, in base alla visione dei pragmatisti, la lente attraverso la quale il popolo palestinese dovrebbe osservare le cose dovrebbe far vedere loro che un popolo depredato è la vittima necessaria perchè prenda forma uno stato di diritto. Sfortunatamente, folle di scrittori e commentatori si accodano su questa linea per paura di perdere lo stipendio, in cambio di case più belle e di una vita più lussuosa, o per una combinazione di tali aspetti. Questo è il libero arbitrio. Parlare liberamente non è privo di conseguenze, eppure l'unica conseguenza che uno scrittore dovrebbe temere è la perdita della pace della propria mente.

Remi Kanazi

Politica, Camorra e Fantasia: le nostre Specialità


I carabinieri del NOE hanno eseguito il 27 maggio 25 ordinanze di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di dipendenti e funzionari del Commissariato ai rifiuti della regione Campania. I reati contestati sarebbero traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato e l’indagine nata da un’intercettazione avrebbe come oggetto il trattamento improprio delle ecoballe frantumate e sversate in discarica.

Il Prefetto di Napoli Alessandro Pansa ha ricevuto un avviso di garanzia concernente un atto da lui firmato, riguardante alcune prescrizioni alle quali avrebbe dovuto attenersi Fibe s.p.a. La società Fibe del gruppo Impregilo che gestiva l’intero ciclo dei rifiuti in Campania è attualmente sotto inchiesta insieme al presidente della Regione Antonio Bassolino. Michele Greco, attuale dirigente della Regione Campania e precedentemente alla Protezione civile, risulta fra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare, così come resterà “confinata” ai domiciliari Marta De Gennaro, già vice del sottosegretario Guido Bertolaso e responsabile del settore sanità della Protezione civile...

La nuova inchiesta culminata con le ordinanze del 27 maggio, portata avanti dai PM Paolo Sirleo e Giuseppe Loviello che in precedenza avevano già rinviato a giudizio i vertici della società Impregilo e lo stesso presidente Bassolino, mette in luce in maniera impietosa le profonde connivenze che intercorrono fra quella multinazionale del malaffare che è la camorra, molti rappresentanti della classe politica campana e delle istituzioni, unitamente ad elementi di spicco dell’imprenditoria nostrana. Non è facile comprendere (e forse non lo sarà mai) se sia stata la camorra a gestire la politica, le istituzioni e le società private, oppure viceversa sia stato il “carrozzone istituzionale” a gestire la camorra, ma dovrebbe essere ormai chiaro a tutti come l’emergenza dei rifiuti di Napoli sia stata ingenerata dall’operato di questo sodalizio criminale che proprio all’interno dell’emergenza ha costruito e continua a costruire profitti miliardari sulle spalle di tutti i cittadini italiani e in particolar modo di quelli campani che oltre a pagare il conto economico come tutti gli altri, hanno perso il diritto alla salute come le esperienze di chi vive nel “triangolo della morte” stanno tristemente a dimostrare.

Il parlamentare Italo Bocchino, capogruppo vicario del Pdl alla Camera, sembra invece vivere in un microcosmo costruito ad hoc dove le inchieste dei magistrati restano relegate nel novero della fantasia e la camorra, quella vera, è costituita dai cittadini napoletani che protestano, non perché si rifiutino di accettare di buon grado un futuro di tumori per sé stessi e per i loro figli, ma semplicemente in quanto “pagati” per farlo dalla camorra stessa.
Bocchino in un’intervista resa al Giornale, a metà fra il delirio onirico e l’esercizio della più becera disinformazione, rende noto perfino il “tariffario camorrista” oltretutto superscontato dal momento che a suo dire basterebbero 20 euro per far bruciare un cassonetto, 50 euro per costituire un blocco stradale e 100 euro per un’intera giornata di protesta.

Non sappiamo quanti euro siano stati necessari per indurre il deputato Bocchino a gettare discredito sulle spalle dei cittadini napoletani che protestano, anche se probabilmente si è trattato di un conto abbastanza salato, ma siamo certi che questo fulgido esempio di uomo politico nostrano non si è mai avventurato fra le fila dei contestatori di Napoli per cercare la conferma delle sue parole. Avrebbe trovato uomini e donne che stanno difendendo con i denti il loro diritto ad avere un futuro e sono costretti a combattere “gratis” ogni giorno, non solo contro la camorra ma anche contro beceri politicanti senza arte né parte che ne sostengono l’operato dispensando a piene mani la disinformazione.
Marco Cedolin

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RIFIUTI: PM, COLOSSALE OPERA INQUINAMENTO DEL TERRITORIO
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Una "colossale opera di inquinamento del territorio, posta in essere anche grazie a connivenze presenti ai più alti livelli e perseguita anche confidando nella possibilità di nascondere, proprio sotto le tonnellate di quei rifiuti che si dovrebbero smaltire correttamente, la pessima gestione degli stessi". Così i pm della procura di Napoli Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo descrivono, nell'ordinanza firmata dal gip Rosanna Saraceno, lo scenario dei presunti illeciti alla base dell'operazione "Rompiballé. Secondo i magistrati, per quanto riguarda i soggetti privati coinvolti nell'inchiesta "le vicende dimostrano la persistenza di un modello di gestione piegato esclusivamente ad interessi economici e quindi incline, anzi aduso a violare qualsiasi interesse collettivo" compresi "quelli della salute e dell'ambiente". Le responsabilità dei soggetti pubblici riguardano invece "l'assoluta lontananza dell'anelito, o quantomeno, dal 'mero' dovere di garantire il rispetto della legge e, attraverso questa, la tutela degli interessi pubblici sottesi, in favore di una attività preordinata solo a garantire l'apparenza della 'propria efficienza ed efficacia di funzionari addetti''.

RIFIUTI: PM,GRAVISSIMI DANNI AMBIENTALI ED A SALUTE PUBBLICA
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Le irregolarità nella gestione dei rifiuti, al centro della nuova inchiesta della procura di Napoli, hanno prodotto - secondo gli inquirenti - "gravissimi risvolti sia ambientali che in danno della salute pubblica". E' stato accertato, ad esempio, che nelle discariche di Villaricca (Napoli) e di Lo Uttaro (Caserta) sono stati smaltiti rifiuti diversi da quelli per i quali gli impianti erano stati progettati e autorizzati. E in questi conferimenti, "nella consapevolezza piena" di alcuni funzionari del commissariato così come di esponenti e collaboratori delle società di gestione Fibe e Fisia, "non sono mancati neppure rifiuti pericolosi". (ANSA).

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I 25 destinatari dei provvedimenti di arresto:

- Marta Di Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, in passato il vice di Bertolaso all'epoca in cui era stato commissario straordinario per l'emergenza rifiuti
- Lorenzo Bragantini, direttore tecnico Ecolog, l'azienda che organizza il trasporto dei rifiuti in treno verso la Germania
- Roberto Cetera, amministratore delegato Ecolog
- Massimo Malvagna, amministratore delegato Fibe spa
- Andrea Orazio Monaco, capo impianto Cdr, combustibile derivato da rifiuti, presso l'impianto Caivano
- Sergio Asprone, responsabile gestione impianti Fibe
- Elpidio Angelino, capo impianto Cdr Giugliano (Napoli)
- Silvio Astronomo, capo impianto Cdr Casalduni (Benevento)
- Pasquale Moschella, capo impianto Cdr Santa Maria Capua a Vetere (Caserta)
- Giuseppina Marra, funzionario Provincia di Caserta
- Alessandro Di Giacomo, capo impianto Cdr di Pianodardine (Avellino)
- Ernesto Picarone, responsabile ambiente ingegneria di Fibe e Fisia-Italimpianti
- Domenico Ruggiero, capo impianto Cdr di Battipaglia (Salerno)
- Giovanni De Laurentiis, responsabile operatore Fisia-Italimpianti
- Angelo Pelliccia, dirigente Fibe e Fibe Campania
- Leonello Serva, ex Commissariato, oggi dipendente dell'Apat, agenzia per la protezione dell'ambiente
- Filippo Rallo, responsabile per i Cdr Campania della Fisia
- Massimo Cortese, responsabile gestione dei Cdr campani
- Giuseppe Sorace
- Michele Greco, dirigente della Regione Campania, già dipendente della Protezione civile.

27 maggio 2008

Il decreto Rifiuti


A qualcuno serve necessariamente aprire nuove discariche per continuare a nascondere di tutto. Questa tensione, questa crisi, è stata studiata a tavolino per creare con la forza discariche e inceneritori non solo per il grande business dell'incenerimento, ma anche e soprattutto per far sparire o bruciare qualcosa di veramente grosso. Il business dei rifiuti tossici è IL BUSINESS per eccellenza e la Campania è da decenni meta privilegiata di rifiuti tossici di ogni genere sversati nei campi, sui rifiuti urbani in strada poi dati alle fiamme, nelle cave e nelle discariche poi legalizzate dallo Stato.

Mentre la crisi, che si acuisce ad arte, continua, la produzione e lo stoccaggio di scorie terrificanti procede, e il loro smaltimento diventa sempre più pressante ed improrogabile.
L'unica via di fuga, l'unico mezzo possibile era quello di scavare altre buche col pretesto di ripulire la Campania dai rifiuti tal quale e costuire inceneritori per bruciare le ecoballe (che nessuno vuole perchè zeppe di rifiuti cancerogeni) ed i rifiuti via via prodotti una volta esaurite le discariche.
La realtà invece supera la fantasia ed il Comitato Allarme Rifiuti Tossici rende noto...
quello che il testo del decreto, a prima vista un'accozzaglia di articoli di legge e codici incomprensibili, afferma in maniera sconcertante.

Gli artt 8 e 9 sono quelli della verità, sono quelli dove va ricercata la motivazione di tutto.
Sia i termovalorizzatori e sia le discariche devono nascere con lo scopo ben preciso di bruciare o interrare (in discariche su cui non viene effettuata alcuna VIA) anche rifiuti pericolosi o non meglio specificati.
Le stesse ceneri tossiche, prodotte dalla combustione dei futuri inceneritori, che andrebbero conferite in discariche speciali, si prevede vengano sversate nei 10 siti stabiliti dal decreto: tutti dicono che l'inceneritore non fa male, nessuno che le ceneri prodotte sono vere e proprie bombe ecologiche.

I comma 2 dell'art 8 e 9 sono di portata criminale e per questo sono scritti in un modo scarsamente comprensibile. L'urgenza di aprire nuove discariche appare così una scusa con cui poter aggirare normative nazionali ed europee in tema di smaltimento rifiuti.

Ancora una volta sorge il dubbio che la crisi campana sia stata studiata a tavolino per avviare, con la scusa dell'emergenza, discariche ed inceneritori, col pericolo di affossare eventuali procedimenti in corso (si veda la vicenda Lo Uttaro) e far sparire dietro 2 commi di un decreto un po' di disastri ambientali pregressi.
Il business dei rifiuti tossici è il business per eccellenza, più del petrolio e del tabacco. Questi rifiuti pericolosi vengono prodotti tutti i giorni in ogni parte del mondo e in quantità mostruose: del loro smaltimento è in atto una rudimentale semplificazione ai danni della salute dei cittadini campani.

Di seguito gli articoli incriminati:

Art. 8, comma 2: In deroga alle disposizioni di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, ed agli articoli 191 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e' autorizzato nella regione Campania, per un triennio rispetto al termine di cui al citato articolo 2, l'esercizio degli impianti in cui i rifiuti, aventi codice CER 19.12.10, 19.12.12, 19.05.01, 19.05.03, 20.03.01, sono scaricati e stoccati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento.

Art. 8, comma 3: E' prorogato per un triennio rispetto al termine di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, lo stoccaggio dei rifiuti aventi codice CER 19.12.10, 19.12.12, 19.05.01, 19.05.03, 20.03.01, in attesa di smaltimento, nonche' il deposito dei rifiuti stessi presso qualsiasi area di deposito temporaneo.

Art. 9, comma 2: Gli impianti di cui al comma 1 sono autorizzati allo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER: 19.12.12; 19.05.01; 19.05.03; 20.03.01; 19.01.12; 19.01.14; 19.02.06; presso i suddetti impianti e' inoltre autorizzato lo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER: 19.01.11*; 19.01.13*; 19.02.05*, nonche' 19.12.11* per il solo parametro «idrocarburi totali», provenienti dagli impianti di selezione e trattamento dei rifiuti urbani, alla stregua delle previsioni derogatorie di cui all'articolo 18.

Come si legge, gli impianti individuati dal decreto sono autorizzati allo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER:

19.12.12:: altri rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, diversi da quelli di cui alla voce 19.12.11 (che sarebbe altri rifiuti. compresi i materiali misti, prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.05.01: parte di rifiuti urbani e simili non compostata

19.05.03: compost fuori specifica

20.03.01: rifiuti dei mercati

19.01.12: ceneri pesanti e scorie, diverse da quelle di cui alla voce 19.01.11 (ceneri pesanti e scorie, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.01.14: ceneri leggere, diverse da quelle di cui alla voce 19.01.13 (ceneri leggere, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.02.06: fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici, diversi da quelli di cui alla voce 19.02.05 (fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici contenenti sostanze pericolose) [comunque previsti sotto]

ed ancora:

19.01.11*: ceneri pesanti e scorie, contenenti sostanze pericolose (tipicamente ceneri prodotte dagli inceneritori)
19.01.13*: ceneri leggere, contenenti sostanze pericolose (tipicamente ceneri prodotte dagli inceneritori, sono considerate pericolose e vengono solitamente smaltite in discariche speciali)
19.02.05*: fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici contenenti sostanze pericolose
19.12.11*: altri rifiuti (compresi i materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, contenenti sostanze pericolose
marco M.

Deliri Nucleari

La classe dirigente italiana continua a mostrare limiti sempre più evidenti che prendono corpo in questi primi giorni di governo Berlusconi, durante i quali il nuovo esecutivo sta tentando in maniera molto maldestra di dipingersi addosso un’immagine di modernità ed innovazione assolutamente inesistente.
Riuscire ad immaginare come elementi di novità i personaggi che compongono l’armata Brancaleone creata dal Cavaliere richiede l’ausilio di davvero molta fantasia, in quanto politicanti imbolsiti come Matteoli, Schifani, Maroni, Sacconi e tanti altri, in questa veste risultano davvero impresentabili. Ma neppure la fantasia potrebbe venirci in aiuto se tentassimo d’interpretare in chiave di modernità ciò che il governo si propone di “creare” nell’ambito dell’energia e dei rifiuti.

La costruzione “a pioggia” di nuovi inceneritori (in Campania sono già diventati quattro) in mancanza di qualunque strategia concernente la creazione di un circolo virtuoso dei rifiuti, lascia semplicemente basiti, in quanto nulla risulta essere...
più anacronistico dell’incenerimento del pattume e basterebbe gettare una rapida occhiata verso gli altri Paesi, non solo europei, per rendersi conto che siamo rimasti gli unici a destinare ogni risorsa disponibile verso una tecnologia nella quale all’interno dei paesi “sviluppati” ormai più nessuno crede.

All’insana passione per la pratica dell’incenerimento, nuova come potrebbe esserlo un dinosauro, sta affiancandosi in questi giorni anche una martellante ed ossessiva campagna in favore del ritorno delle centrali nucleari, bandite dal nostro Paese nel 1987 grazie al risultato di un referendum.
L’armata Berlusconi, che ancora dovrebbe spiegare agli italiani cosa intenderà fare delle tonnellate di rifiuti radioattivi attualmente stipati in depositi di fortuna, come quello di Saluggia, dove inquinano le falde acquifere e migrano regolarmente nell’ambiente, sta tentando in ogni modo di riportare l’Italia sulla via dell’atomo, spacciando la scelta nucleare come un qualcosa di nuovo e moderno.

Non esistono elementi di novità nella scelta atomica, così come negli inceneritori, anche se si tentano giochi di prestigio sintattici definendoli nucleare di “nuova generazione” e “termovalorizzatori”, così come non esiste novità nella banda di governo che pretenderebbe di “rialzare l’Italia” mentre non riesce neppure a rialzare gli occhi da terra per volgere lo sguardo verso i Paesi che le stanno attorno. Quasi tutti i Paesi “sviluppati” con l’eccezione della Francia, del Giappone e pochi altri hanno da tempo smesso d’investire nel nucleare in quanto la gestione (lo smaltimento in quest’ambito non esiste) delle scorie radioattive risulta troppo costosa e pericolosa. Quasi tutti i Paesi “sviluppati” stanno orientando altrove i propri programmi energetici, ma di questo il “nuovo” governo sembra non essersi assolutamente accorto, tanta e tale risulta la limitazione di capacità e d’idee che affligge i componenti del nuovo esecutivo.

Se lor Signori, come dicono, intendono raccogliere l’eredità del “vecchio nucleare”, inizino a parlarci delle scorie di Saluggia e dell’acquedotto del Monferrato che ne raccoglie la radioattività, delle centrali dismesse che nessuna osa demolire perché darebbero origine a nuove scorie che non si saprebbe dove stipare, della realtà incontrovertibile che testimonia come il Gotha della scienza mondiale di fronte al problema delle scorie nucleari si sia da tempo arreso ed abbia abdicato da quello che avrebbe dovuto essere il suo ruolo.
Inizino a parlarci di queste cose gli illuminati del nuovo governo e soprattutto inizino a guardare anche i paesi che stanno loro intorno, così potranno evitare di continuare a proporre come novità inusitate pratiche che altrove si stanno abbandonando come vecchie, antieconomiche ed ambientalmente insostenibili.

MarcoCedolin

La “Gladio dei carburanti”



Attraversa 6 Regioni, 17 Province e 136 Comuni italiani. Totalmente finanziato dall’Alleanza Atlantica, e’ stato costruito negli anni Sessanta per rifornire in modo autonomo e continuativo carburante Jet A1 (kerosene) ai velivoli dislocati negli aeroporti militari di tutta Europa.
Il suo nome è NATO-POL (acronimo che sta per Petroleum Oil Lubrificant) ed è un sistema completo di terminal marini, depositi di stoccaggio sotterranei e gruppi di pompaggio: una rete di oleodotti le cui condutture corrono per oltre 11.000 chilometri, dal mare fino al cuore dell’Europa.
Il sistema POL è una delle infrastrutture NATO meno note: la frazione italiana della rete - denominata North Italian Pipeline System (NIPS) - raggiunge le basi USA-NATO di Ghedi (Brescia), Aviano (Pordenone), Rivolto (Udine) e Cervia (Ravenna), nonché altre infrastrutture utilizzate esclusivamente dall’Aeronautica Militare Italiana. Dal terminale marino di Vezzano, in Val Mulinello, nei pressi di La Spezia, giunge al nodo di Collecchio (Parma) e lì si ramifica in tre direzioni, per un’estensione dcomplessiva pari a circa 850 chilometri. Importanti depositi si trovano anche a Mestre, ad Augusta per rifornire la base US Navy di Sigonella, ed a Taranto.
Un braccio arriva fino in Germania, attraversando l’Austria. Un altro capo è in Portogallo, a Lisbona, dove un intero molo è riservato al NATO-POL. Altri depositi sono in Gran Bretagna. Reti analoghe a quella italiana sono inoltre presenti in Norvegia, Grecia e Turchia. Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda sono invece collegate da un sistema centrale europeo.
Di approfondirne la natura si era fatto carico il senatore Severino Galante (PdCI), con un’interrogazione parlamentare in cui chiedeva al governo italiano chiarimenti in merito alla segretezza dell’oleodotto e ad un’eventuale autorizzazione concessa alla NATO per ampliarlo nel tratto che da Vicenza (dove recentemente si è verificato un guasto)¹ porta ad Aviano. L’allora ministro della Difesa Parisi si era affrettato a precisare che “l’aeroporto Dal Molin di Vicenza non è alimentato da tale rete” e che l’opera non riveste “carattere di segretezza” in quanto il tracciato è punteggiato, ogni duecento metri, da un cartello con la dicitura “Amministrazione dello Stato”.
Il combustibile dalle petroliere approdate a La Spezia viene riversato in Val Mulinello fino a 20.000 litri all’ora, quindi stoccato in serbatoi di cemento armato rinforzati da una lamina in acciaio e ricoperti di terra, non solo per impedire eventuali sversamenti ma anche per protezione da ipotetici attacchi. La portata dell’oleodotto nella parte italiana raggiunge, secondo dati aggiornati al 1999 (durante l’aggressione NATO alla ex Jugoslavia) un massimo di 1 milione e 600mila litri al giorno. Logisticamente, esso dipende dall’Aeronautica Militare Italiana (AMI), ed in particolare dal Comando situato presso l’Aeroporto di Parma, in via Cremonese 35.
La gestione e la manutenzione dell’impianto in Italia sono invece affidate alla società privata IG (Infrastrutture e Gestioni) S.p.A., con sede a Roma in via Castello della Magliana 75. Controllata dalla holding francese Technip, la IG vanta una consolidata esperienza tecnica ed organizzativa acquisita in oltre trenta anni di attività nei settori della realizzazione e gestione di impianti industriali ed infrastrutture in Italia ed all’estero, in campo civile e militare.
Il relativo contratto, stipulato nel 2000 con la Direzione Generale degli Armamenti Aeronautici del Ministero della Difesa, ha durata di 14 anni e comprende: l’esercizio con presa in consegna e riconsegna nelle aree di impiego dei prodotti petroliferi; la manutenzione ordinaria e straordinaria;
il controllo delle servitù e concessioni; i servizi tecnici; l’addestramento del personale; la custodia delle aree; il management generale.
Qualcuno, argutamente, ha parlato di “Gladio dei carburanti”.

NOTE:
1)“«Un vero e proprio disastro ambientale»: se lo dice l’assessore provinciale alle risorse idriche Paolo Pellizzari, c’è da crederci. L’incidente all’oleodotto Nato che da Pisa porta il cherosene ad Aviano ha compromesso i fiumi Astichello e Bacchiglione; e nessuno aggiunge che il luogo dell’incidente, avvenuto a Monticello C.Otto, è un territorio di ricarica della falda acquifera vicentina, quella che dà da bere alle province di Vicenza e Padova: uno tra i bacini idrici sotterranei più grandi d’Europa.
Decine di ettolitri di cherosene riversati nella acque dell’Astichello: sono queste le dichiarazioni delle fonti ufficiali. L’incidente, avvenuto questa mattina alle 7, è stato segnalato dalle agenzie di stampa solo in serata, alle 20. Nel frattempo migliaia di cittadini hanno avuto il tempo di allarmarsi, pur non sapendo cosa era successo, sentendo l’intenso odore di cherosene in prossimità dei due corsi d’acqua vicentini; in poche ore la chiazza inquinante ha raggiunto la città attraversando Ponte degli Angeli e si è spinta almeno fino alla Riviera Berica.
Ma non dicevano che gli impianti militari sono sicuri? L’oleodotto di cui si parla, infatti, serve a portare il cherosene da Pisa ad Aviano, dove viene imbarcato sugli aerei militari in partenza per i loro voli di guerra e di addestramento. Una struttura che, a detta dei militari, non dovrebbe procurare alcun danno al territorio, ma che oggi si è resa responsabile di «un vero e proprio disastro ambientale».
Nei prossimi giorni conosceremo esattamente le dimensioni di questo disastro; per ora registriamo le prime voci che parlano di un miliardo di euro soltanto per le valutazioni del danno. Nel frattempo il cherosene è filtrato nel terreno, si è mescolato con l’acqua dei nostri fiumi, ha iniziato la sua opera di distruzione della fauna e della vegetazione fluviale.
Nessuno provi più a darci false rassicurazioni: le installazioni militari sono pericolose per gli abitanti dei territori nei quali sono situate. Se verrà realizzata, lo sarà anche la base statunitense al Dal Molin, situata proprio sopra la nostra falda acquifera e nei pressi di una zona naturale protetta; cosa potrebbe avvenire se, in un giorno disgraziato, dovesse verificarsi un incidente ad una delle cisterne di carburante? O agli edifici in cui saranno accatastati gli armamenti della 173° Brigata Aereotrasportata e magari - chi può escluderlo? - proiettili all’uranio impoverito? Potremmo fare una lista infinita dei rischi legati alle basi militari: ci fermiamo qui perchè ognuno può identificarli da se; e perchè tutti sanno che una base militare, per la sua semplice presenza, è già dannosa.
Seguiranno aggiornamenti.”
di byebyeunclesam

26 maggio 2008

Aggiotaggio sul Petrolio: i soliti noti


Da settimane ormai i media ripetono la «previsione» emessa da Goldman Sachs: «Il barile arriverà a 200 dollari». E ciò, «inevitabilmente». Quel che non dicono i media è che Goldman Sach gestisce (e manipola) il GSCI, l’indice dei prezzi delle materie prime più usato nel mondo, e nel GSCI il greggio ha un «peso» sproporzionato.

Goldman Sachs ha anche contribuito a far nascere il London ICE Futures Exchange, attraverso l’Atlanta Georgia ICE (International Commodities Exchange), che possiede la filiale di Londra, e di cui Goldman è comproprietaria: e l’ICE, dal gennaio 2006, è stato esentato dall’amministrazione Bush persino dalle lievissime regole vigenti in America. L’organo di controllo sui futures americani, la Commodities Futures Trading Commission, che già non brilla per poteri di repressione, non ha accesso nemmeno ai dati degli scambi dell’ICE di Londra.

L’ICE di Londra è stato oggetto di due inchieste del Congresso USA (al Senato nel giugno 2006, alla Camera bassa nel dicembre 2007) le quali hanno appurato che i rincari del greggio sono causati da contratti futures per miliardi di dollari, improvvisamente aumentati in quantità, che avvengono appunto in quel «buco nero» finanziario.

Il rapporto senatoriale del 2006 ha scritto: «Ci sono là pochi gestori di fondi che sono maestri nello sfruttare le teorie sul picco petrolifero e i momentanei colli di bottiglia della domanda-offerta (1), e facendo audaci previsioni di straordinari rincari imminenti, essi gettano benzina sul fuoco rialzista in una sorta di profezie auto-avverantisi».

Insomma è chiaro: Goldman Sachs si è data i mezzi per manipolare al rialzo i prezzi del petrolio, e lo sta facendo con grande zelo. La sola domanda è come mai, dopo un simile rapporto del Senato USA, i suoi dirigenti non siano stati chiamati in giudizio per aggiotaggio o, come minimo, per conflitto d’interesse. Misteri del popolo eletto.

Manipolare i rincari attraverso i futures è facilissimo, perchè all’ICE si può comprare sulla carta una partita di petrolio ad una data stabilita (future, appunto), versando in anticipo solo il 6% del prezzo. Con un margine così lieve, gli speculatori hanno in mano una leva moltiplicatrice da 16 ad 1. Rischiando mille dollari, generano una domanda di 16 mila dollari di petrolio. Domanda fittizia.

William Engdahl (2) infatti avanza il sospetto che la bolla speculativa petrolifera stia per scoppiare (come già quella edilizia sub-prime), e Goldman usi la sua «profezia» e le sue manipolazioni per rifilare agli ingenui investitori (tipicamente, i devastati fondi-pensione USA) contratti di cui la stessa Goldman si sta silenziosamente disfacendo. Sarebbe interessante vedere le posizioni sui futures petroliferi della stessa Goldman, dice Engdahl, per constatare se ha impiegato i suoi capitali sulla scommessa che il greggio andrà a 200; se, insomma, crede alla sua profezia.

Naturalmente, dato che l’ICE di Londra è una stanza oscura o un buco nero, è quasi impossibile saperlo. Ma Engdahl ricorda che nel 2001, quando a salire prodigiosamente erano i titoli delle «dot.com», ossia di micro-aziende neonate, con due o tre dipendenti, che promettevano mirabolanti avanzamenti nel software e nelle telecom e il cui valore azionario saliva in modo astronomico in base a quel che i media magnificavano di loro, avvenne proprio questo: alcuni lupi di Wall Street spingevano all’acquisto di tali azioni sopravvalutate, mentre loro, zitti zitti, le vendevano; o magnificavano le azioni di compagnie in cui le loro banche-madri avevano interessi.

Poi, la bolla delle dot.com scoppiò, l’indice NASDAQ crollò, e un’altra inchiesta del Congresso appurò che i lupi di Wall street avevano rifilato anche notizie esagerate ai grandi media ufficiali proprio per vendere a caro prezzo le azioni che stavano per cadere. Anche allora si seppe tutto «dopo», quando ormai i lupi avevano le tasche piene, i fondi-pensione le casse vuote, e senza conseguenze penali.

I segnali che la bolla petrolifera sia gonfiata deliberatamente dalla speculazione finanziaria non mancano. In aprile, l’analista petrolifero di Lehman Brothers, Michael Waldron, intervistato dal Telegraph, ha dichiarato: «L’offerta di petrolio sta superando la crescita della domanda. Le riserve sono in aumento dall’inizio dell’anno». Pochi giorni dopo a Dallas, si riuniva la American Association of Petroleum Geologists, da cui usciva questa indiscrezione: «I prezzi del greggio caleranno presto drammaticamente; sarà il gas naturale a mantenere una tendenza al rialzo a lungo termine». Infatti, «una delle cose che è molto importante comprendere è che la crescita della domanda mondiale in petrolio non è tanto forte», ha detto David Kelly, l’analista strategico della J.P.Morgan funds. Infatti la domanda è piatta, e ciò non giustifica i rialzi.

Cresce alquanto in Cina, ma cala in USA per la recessione americana: attualmente di 190 mila barili al giorno secondo i dati ufficiali dell’Energy Information Administration (ente del governo USA). E per valutare il dato occorre aver presente la differenza tra USA e Cina: la Cina consuma 7 milioni di barili al giorno, gli USA il triplo, 20,7 milioni barili al giorno. Un calo americano conta dunque molto più, sui mercati, di una accresciuta domanda cinese.

La quale, peraltro, non è poi così esplosiva come ci raccontano i media (e Goldman): secondo l’ente ufficiale USA suddetto, la domanda cinese aumenterà quest’anno di 400 mila barili/giorno, un aumento non tale da turbare i mercati, rispetto ai 3,2 milioni di barili al giorno che la Cina importa.

E’ nel più grosso consumatore mondiale, l’America, che si sta profilando un calo dei consumi, che diverrà via via più pronunciato quanto più la recessione americana morderà i consumi delle famiglie, colpite dai pignoramenti, dai debiti, dalla disoccupazione crescente. Secondo Master Card, in un rapporto del 7 maggio, la domanda americana di carburanti è scesa di un imponente 5,8 %.

Difatti, le riserve petrolifere americane aumentano («Per prepararsi alla guerra con l’Iran», dicono gli aggiotatori: ogni allarme è buono per tener alti i futures), mentre le raffinerie hanno ridotto i loro ritmi di raffinazione per affrontare la domanda calante: oggi lavorano all’85 per cento delle capacità, contro l’89 dell’anno scorso. E tengono basse le loro riserve di benzina allo scopo di sostenere i prezzi e i profitti.

Come non bastasse, nuovi giacimenti entreranno in produzione nel 2008, aumentando l’offerta. L’Arabia Saudita ha in progetto di aumentare di un terzo l’attività estrattiva, e di accrescere gli investimenti nel settore del 40%, per soddisfare la crescente domanda dell’Asia. Dall’anno prossimo la sua capacità di estrazione aumenterà dell’11% rispetto all’attuale.

Già nell’aprile scorso funziona il nuovo campo petrolifero saudita di Khursanyah, aggiungendo all’offerta globale mezzo milione di barili al giorno di pregiato Arabian Light Crude; dal 2009 il giacimento di Khurai, il più grosso dei nuovi progetti di sfruttamento sauditi, aggiungerà 1,2 milioni del miglior greggio (e al più basso costo estrattivo) alla offerta mondiale.

In Brasile, la Petrobras sta cominciando a sfruttare il giacimento offshore di Tupi, che si valuta in 8 miliardi di barili, e dovrà portare il Brasile fra i primi dieci produttori globali, sotto la Nigeria ma sopra il Venezuela. In USA, la US Geological Survey ha riferito di nuove riserve in un’area che va dal North Dakota al Montana, e che stima in 3,65 miliardi di barili.

L’Iraq ha riserve valutate non inferiori a quelle saudite, se solo il disordine americano non ne impedisse lo sfruttamento. E si tenga presente che già a 60 dollari il barile, diventano convenienti economicamente una quantità di pozzi chiusi quando il barile era a 27.

Insomma: la domanda non cresce, l’offerta aumenta - eppure, misteriosamente, i prezzi salgono. Non durerà molto: anche questa bolla scoppierà. Quando?

Questo lo deciderà Goldman Sachs, quando riterrà di averci depredato e impoverito abbastanza. Per intanto, tutti i media gridano con il padrone: «Petrolio a 200!».
M. Blondet

La falsa guerra di Berlusconi alle banche

La misura presentata a sorpresa dal governo due giorni fa in materia di mutui ha spinto molti a credere che Berlusconi abbia deciso di dichiarare guerra ai poteri forti, quei “salotti buoni” dove non è mai stato accettato davvero. “Se le banche non accettano, allora gli mandiamo la guardia di Finanza”, ha infatti commentato scherzando il presidente del Consiglio, lanciando un segnale al mondo della finanza. Non sono mancati però coloro che hanno evidenziato che il provvedimento, a ben vedere, non risolve il problema e rappresenta al contrario l’ennesimo regalo alle banche, seppur differito nel tempo. Vediamo come stanno davvero le cose. La misura voluta dal ministro Tremonti prevede la possibilità per 1.250.000 famiglie che hanno stipulato un mutuo prima del gennaio 2007 di sostituire l’attuale rata variabile con una fissa, il cui importo è inferiore e pari a quello pagato in media nel 2006, quando i saggi di interesse non avevano ancora iniziato a crescere. La scadenza, ha assicurato l’inquilino di via XX settembre, “sarà quella del mutuo” e, se nel frattempo i tassi saranno saliti, il contratto durerà un po’ di più, altrimenti le banche restituiranno i soldi in più versati dal cliente. Stando ai calcoli dell’Abi, per un mutuo ventennale di 80.000 euro si potrebbe arrivare a circa 850 euro l’anno. I tassi di interesse però, è giusto sottolinearlo, rimarrebbero variabili: il saldo finale dare/avere quindi non potrà che dipendere dall’andamento dei saggi nei prossimi decenni. Ciò significa che la misura attutisce nel breve periodo le difficoltà delle famiglie, oberate dalle rate crescenti dei mutui per la prima casa e dal reddito fermo e corroso dall’inflazione, coerentemente con la visione lievemente “sociale” sostenuta da Tremonti nel suo discusso libro sulla globalizzazione; nel lungo periodo, però, se i tassi di interesse dovessero essere sfavorevoli per i clienti, la misura finirebbero per far pagare loro di più dal momento che nei primi anni del mutuo, per il noto meccanismo di calcolo alla francese degli interesse, il capitale restituito sarebbe inferiore e le rate coprirebbero solo gli interessi crescenti. Come ha sottolineato Gianni Pittella, presidente della Delegazione italiana del Gruppo socialista al Parlamento europeo, inoltre, “l’accordo siglato tra il governo Berlusconi e le banche non affronta il problema principale”, il fatto cioè che “nel settore dei servizi bancari al dettaglio il livello di mobilità dei consumatori non è garantito adeguatamente”. “Finché i consumatori non saranno messi in grado di passare da una banca all’altra con la facilità a cui hanno già diritto grazie alla Legge Bersani - ha spiegato - il mercato non sarà competitivo dal punto di vista dei costi per i consumatori”. Non affrontando nel suo negoziato con le banche il nodo mobilità, richiesto anche dalla Commissione e invano rincorso dal precedente governo con il decreto Bersani, l’esecutivo ha in sostanza attuato un “pannicello caldo”, proteggendo il sistema creditizio dalla corsa al ribasso delle tariffe innescata dalla mobilità. “Bene poter rinegoziare a tassi favorevoli il proprio mutuo, ma molto meglio sarebbe potere anche scegliere di rinegoziarlo” con una banca che offra tassi migliori, ha concluso non senza ragioni Pittella, esortando l’esecutivo ad impegnarsi a far rispettare la legge Bersani.
Che l’attacco alle banche sia stato per ora rinviato, d’altronde, si evince anche da un’altra scelta: il rinvio della misura che prevedeva di far restituire alle banche i pingui regali fatti dal governo Prodi con il taglio dell’aliquota fiscale delle imprese bancarie e i lauti extra-profitti derivati dalla congiuntura. Ufficialmente la ragione è che il governo vuole studiare meglio la questione; non è da escludere però che il contro-documento presentato dall’Abi con la richiesta di concrete contropartite all’esecutivo abbia influito non poco alla decisione finale.
Di certo l’atmosfera per le banche è cambiata rispetto al periodo Prodi, come ha ammesso il presidente dell’Abi, Corrado Fissola, parlando di “sacrifici da fare per le banche” per dare sollievo alla pianificazione finanziaria delle famiglie e “per il sostegno dell’economia nazionale”. Il compromesso raggiunto, però, alla lunga potrebbe addirittura essere favorevole per il settore, basti pensare che il comitato esecutivo dell’Abi ha approvato all’unanimità l’intesa, confermando che tali sacrifici non sono poi così grandi. Il numero uno di Unicredit Alessandro Profumo, inoltre, ha definito l’accordo raggiunto sui mutui “ottimo”, confermando così indirettamente che il “nuovo rapporto con le banche”, voluto dal Pdl, ha solo slittato i vantaggi economici delle banche, costringendole a pagare di più oggi sul mercato interbancario la liquidità mancante a causa del provvedimento. Frasi come “questa volta devono pagare” o “non possono più dettare legge”, riferite alle banche si riveleranno quindi solo bandiere demagogiche se non saranno accompagnate presto da misure cogenti sulla mobilità, che diano al consumatore la possibilità di ottenere un’offerta migliore dagli istituti di credito. I primi segnali si vedranno già con il tavolo negoziale che sarà istituito tra Abi e governo per redigere la Convenzione che renderà operativo il decreto.
Nonostante ciò, non si può non sottolinearlo, Tremonti ha ottenuto un importante obiettivo: risparmiare ingenti risorse pubbliche da destinare, in un momento molto difficile dell’economia, a necessità più urgenti, tagliando da 4 a 2,8 miliardi le risorse destinate al decreto e scaricando sulle banche parte dello sforzo finanziario odierno. Il maggior reddito su cui i consumatori potranno contare pagando una rata inferiore consentirà infatti di dare più fiato ai bilanci familiari ma anche di stimolare immediatamente i consumi del Paese, fermi da tempo. L’effetto della misura taglia rate sulla crescita sarà infatti sicuramente maggiore di quello garantito dal taglio dell’Ici e dalla detassazione degli straordinari.
di Diana Pugliese

25 maggio 2008

I mutui e la truffa governativa



A quanto pare il governo ha fatto una cosa che dipinge come "aiuto alle famiglie", ovvero ha rinegoziato (al posto vostro) il vostro mutuo. Solo che non ci ha fatto un grande affare.

Quello che ha fatto il governo e'stato di dare alle famiglie la possibilita' di trattare ai tassi di sconto del 2006 i mutui, a patto che diventino dei mutui a rata fissa (col tasso del 2006) ma lunghezza variabile.

I mutui a lunghezza variabile sono sempre esistiti, e si fanno generalmente per cifre piccole, perche' e' piu' facile poterli estinguere. Io ne feci uno anni fa per finanziare il mio tetto di casa, con una rata di un centinaio di euri/mese, che infatti ho estinto quest'anno. Per una semplice ragione: il vantaggio di quel mutuo e' di avere una rata che non possa dare sorprese , ma lo svantaggio e' che, al crescere dei tassi reali, il numero di mesi possa crescere enormemente.

Il problema e' il seguente: che se cresce il numero di rate, viene ricalcolato l'interesse. Cosa puo' portare, questo, nella peggiore delle ipotesi?

Nella peggiore delle ipotesi puo' portarvi, come e' ovvio, a pagare "e" volte la cifra di interessi che avreste pagato prima. "e" volte significa che fa 2,71828 18284 59045 23536 02874 71352 66249 77572 47093 69995 95749....

In pratica, quello che fa il governo e' trattare una rata uguale a quella pagata nel 2006, per poi dire che siccome i tassi sono cresciuti, allora il mutuo diventa a rata fissa ma la durata cambia.

L'inculata non e' cosi' evidente, perche' la successione neperiana inizia ad avvicinarsi ad e gia' per numeri inferiori a quelli del numero di rate di un mutuo ventennale, ma vorrei far presente che passare da 2,5 a 2,6 significa averci perso un cazzo bel 4%, ovvero che alla fine del mutuo alla banca avrete pagato un bel 4% in piu'.

Allora direte: si', ma fissando la rata le famiglie non hanno piu' sorprese, e anche un semplice abbassamento di rata e' quanto di meglio un bilancio sofferente possa desiderare.

Ni.

Si' perche' ovviamente pagare meno fa piacere.Ni perche' un allungamento del 4% del montante significa passare da 20 anni di mutuo a quasi 30. Il problema e': supponiamo che abbiate fatto un mutuo a 30 anni, vabe', andrete in pensione e lo chiuderete.

Se lo avete fatto a 40 anni, sara' difficile che a 70 lavoriate, e sarete dei pensionati che pagano un mutuo. La sorpresa per voi potrebbe essere la quantita' di rate che potrebbero aggiungersi alla fine del vostro mutuo!

Se posso dare un consiglio:

Il tasso euribor e' attorno al 3.2. Probabilmente, mano a mano che la tempesta subprime si affievolira' perche' i danni saranno noti leggendo i bilanci, e' destinato a calare ancora. Lasciate il vostro tasso come variabile LEGATO all' EURIBOR.
Se e' passato qualche anno da quando avete aperto il mutuo, la cifra capitale dovrebbe essere calata. Se rispalmate il mutuo sullo stesso numero di anni, la rata calera'. Avrete perso anni, e molta della cifra versata (perche' le prime rate coprono la parte interessi), ma potreste avere , chiedendo un mutuo EURIBOR con uno spread decente, un calo considerevole della rata.
Se siete in difficolta', avrete probabilmente contratto altri debiti. La vostra banca lo vede in centrale dei rischi. Quello che potete fare e' riaccendere un mutuo, per la stessa rata, per lo stesso numero di anni, perdendo la cifra pagata sinora ma chiudendo i debiti al consumo che avete aperto: ricordate che nel mondo del credito al consumo i tassi arrivano al 25% e non sono mai inferiori al 15%!!!!!
In definitiva, la cosa migliore e' di andare nella vostra banca, dicendo che volete consolidare il debito , facendo sparire il credito al consumo. Aprirete un altro mutuo "casa + liquidita'", col quale chiuderete il vecchio mutuo e i debiti al consumo.(Agos, Findomestic, etc etc) .

La banca sara' piu' tranquilla perche' avra' un cliente meno a rischio, migliorando il proprio tasso di rischio insolvenza, guadagnandoci in sede di riassicurazione, e voi potreste alleggerire di molto il bilancio domestico.

Ma di certo, l'operazione di Berlusconi NON e' un grande affare. Anche perche' se volete proprio un mutuo a rata fissa e durata variabile, la banca ve lo dava gia': come si dice a Bologna, a dare via il culo in zona fiera i clienti li trovate sempre.
di Uriel

24 maggio 2008

Il signoraggio: fra il sacro e il profano


l denaro è un simbolo, letteralmente, poiché, come tutti i simboli, esso sta per. Già questo basterebbe per trasferirlo da mondo della venalità ad una sfera superiore, ermeneutica. Siamo, però, abituati a considerare il denaro come qualcosa di concreto, di solido, su cui fondare le nostre sicurezze economiche, eppure esso possiede una natura mercuriale, fuggevole, mobile. I soldi circolano: circolante è sinonimo di denaro. I beni mobili sono quelli monetari.

Tralasciate complesse e sovente astruse questioni di tipo economico, riscopriamo il vero valore dei lingotti e delle monete nell'antichità. Il loro valore non era solo nel conio e nel titolo, ma nel baluginio divino ed astrale che l'oro, l'argento e l'elettro custodivano. L'oro è il sole, l'argento la luna. Nei tempi remoti i metalli scintillanti riverberavano una luce sacra, sia pure destinata a stimolare la virgiliana sacra fames auri, un'esecranda avidità. Allora le monete, che portavano l'effigie di un dio, a volte erano tesaurizzate, tenute come talismani o gioielli: per gli scambi si poteva ancora ricorrere al baratto, ai doni reciproci, al bestiame. Era questa l'economia della cultura omerica.

I primi banchieri furono i sacerdoti delle città di Sumer: a loro già si deve la lenta, funesta trasformazione della pecunia da amuleto, da strumento per le transazioni commerciali in merce. Dall’uso del denaro all’usura il passo è breve. Con usura, ci ammonisce Ezra Pound, si può solo corrompere e rovinare. Non è un caso se Dante, condannando i prestatori ad essere tormentati nell'inferno, li reputa peccatori contro l'arte. L'arte è il lavoro onesto: nulla è disonorevole e disonesto come l'arricchimento frutto di speculazioni e di frodi. Che cosa penserebbe il sommo poeta dell'ignobile sistema definito signoraggio bancario?

A Cesare quel che è di Cesare; a Dio quel che è di Dio;... a me quel che è mio, come chiosa Gesù in un altro Vangelo. Dubitiamo che il Messia intendesse avallare, con la sua risposta ad una domanda insidiosa dei Farisei, il tributo all'imperatore. Piuttosto, come ritiene Elémire Zolla, si può congetturare che egli, esortando a rendere il denaro a Cesare, dichiarasse che la coniazione è un atto di forza. "Il Messia accusa i banchieri di essere dei ladri, perché speculano sui cambi. Se si fosse ascoltato il Cristo, o il denaro non esisterebbe o solo una moneta sacra avrebbe circolato, con un rapporto fisso tra oro ed argento." Il numerario, benché non più sacro, può essere, se frutto di attività probe, giovevole, favorendo i commerci ed un certo benessere, purché si creda nel suo portentoso potere di trasformarsi in un oggetto d'uso o in una prestazione d'opera. Le persone che dimostrano fede non sono tanto quelle che credono in Dio, ma coloro i quali si affidano alla magica virtù del denaro: fede, fido, fideiussione... sono termini dell'economia.

E' quindi possibile pensare ad una società in cui la moneta sonante sia usata per acquistare e vendere, ma senza che essa sia gravata di interessi. Anche un interesse dell'un per cento annuo è usura: peccato che la Chiesa di Roma l'abbia dimenticato, anzi apprendendo perfettamente le scaltre, spregiudicate pratiche dei feneratori, si è trasformata in una banca. Se, invece, il denaro diventa banconota, carta forzosa, cifra digitata sullo schermo di un elaboratore si smaterializza in un'entità astratta. Pur non esistendo, essendo un ente creato dal nulla per dominare tutto e tutti, opprime i deboli, depaupera i derelitti, stringe in un cappio soffocante i debitori, rende schiavi di tesori chimerici gli avari, rafforza lo scellerato dominio dei potenti che impiegano i loro immensi, insanguinati capitali per uccidere, distruggere, inquinare, compiere delitti di ogni genere.

A Cesare quel che è di Cesare, dunque: come il Messia rifiutiamo in toto il potere. Poco importa se un celebre interprete del suo messaggio raccomandava che gli schiavi obbedissero ai padroni, legittimando così de facto e de iure quelle inique autorità politiche e religiose contro cui Cristo (o chi per lui) aveva consigliato la spada.
by Zret

Scandali finanziari


Nel nostro paese gli scandali finanziari, in cui svaniscono nel nulla enormi quantità di denaro, sono frequenti quasi quanto le elezioni, ed hanno come costante il fatto che i soldi non vengono mai ritrovati (esattamente come per i mandanti di stragi ed omicidi eccellenti).

Il denaro pare si volatilizzi.

Tesoretti ipotizzati, sussurrati, rincorsi…. ma mai ritrovati.

Eppure da qualche parte devono pur essere finiti, possibile che rintracciarli sia così difficile?

Migliaia di miliardi non viaggiano in contanti, chiusi in valigette e portate in ogni parte del mondo da spalloni, no?

Viviamo nell’era digitale, possibile che questi passaggi non lascino traccia? Ed infatti è impossibile.

Tutto lascia traccia….basta seguirla.

A leggere il libro nero della finanza internazionale la soluzione del problema esiste. Dicono gli autori:

“Si è soliti pensare che il denaro, soprattutto quello virtuale, quello dei computer delle banche, non lasci traccia e sfrecci, alla velocità della luce, da un conto ad un altro, da un paradiso fiscale ad un altro senza lasciare traccia dei suoi passaggi. E’ falso. [1]



Ogni movimentazione di denaro o valori mobili (titoli, obbligazioni, ecc…) viene registrata e conservata. E non da adesso. Sin dagli anni ’30 tra alcuni paesi (38), ed a livello mondiale dagli anni ‘60.

Questo perché da quando il trasferimento di denaro e di valori immobiliari hanno iniziato ad avvenire, non più materialmente ma, attraverso la c.d. “faxmoney”, le banche hanno avvertito la necessità di garantire queste transazioni conservando prova di questi scambi. Hanno, quindi, deciso di creare una sorta di “notaio internazionale” che potesse registrare, avvallare e conservare, in luogo sicuro, la prova degli scambi avvenuti.

Tale “notaio internazionale” è costituito dalle società di clearing, ovvero camere internazionali di compensazione.

Queste società, dunque, si occupano di registrare, avvallare e conservare, in luogo sicuro, la prova degli scambi per risolvere eventuali casi di contestazione da parte dei clienti.


In Europa sono due le società che fungono da “notaio internazionale”per gli scambi transfrontaliferi:

1. La Clearstream, nata in Lussemburgo il 28 settembre 1970 con il nome di Cedel e, nel 2000, ribattezzata Clearstream);

2. La Euroclear, nata a Bruxelles nel 1968.

“Queste due società hanno il monopolio quasi completo degli scambi di obbligazioni a livello internazionale. Il commercio di obbligazioni permette di raccogliere ed impiegare del denaro senza apparire nominalmente tranne che nei documenti interni alle banche. E’ uno dei prodotti preferiti dagli addetti al riciclaggio e dai clienti che maneggiano molta liquidità…[2]”.

Ovviamente queste società sono state fondate da banche ed hanno banche come soci. Tutto tra loro insomma.

Fondate queste due società per la registrazione degli scambi dei valori mobili rimaneva, però, scoperto il mercato del denaro contante.

Così i due principali azionisti di Clearstream ed Euroclear hanno fondato, nel 1973, la Swift, ovvero una società che permette, grazie sempre alla registrazione, avvallo e conservazione la trasmissione rapida della moneta nelle varie divise.

Dunque, fin dal 1973, grazie a queste tre società (Clearstream, Euroclear e Swift) nessuna transazione internazionale di valori mobili o denaro contante può avvenire senza che venga registrata e conservata.

Naturalmente le tre società, nate per una iniziativa bancaria privata, si sono sempre opposte a qualsiasi controllo pubblico sulle loro attività. E ti pareva.

Attenzione perché stiamo parlando di colossi.

Si pensi che la sola Clearstream, nel 2000, trattava circa 450 volte il bilancio del Belgio, qualcosa come 50 trilioni di euro all'anno, una cifra paragonabile a quanto trattato annualmente da Euroclear.
Nelle sue casse, nel 2000, aveva depositati qualcosa come 9000 miliardi di euro.

Recentemente ha ammesso errori contabili per un totale di 1,7 trilioni di euro (l'equivalente del debito pubblico del terzo mondo), senza che nessuno sollevasse obiezioni.

Nessun controllo pubblico e nessuna domanda per questi piccoli errorini.

Ma non solo.

Da principio il regolamento interno di Cedel prevedeva che tutti i conti di tutti i clienti associati di clearing venissero pubblicati in una lista. Tale lista veniva, poi, pubblicata regolarmente e distribuita agli aderenti al sistema.

Intorno agli anni ’80 Cedel, dietro richiesta di due grandi banche italiane e di varie banche tedesche, ha creato un sistema di conti “non pubblicati”, ovvero “conti invisibili” che non appaiono nelle liste ufficiali.

La persona incaricata di concedere le autorizzazioni all’apertura di questi conti invisibili era Gèrard Soisson.

Gèrard Soisson però, da un lato era preoccupato dell’uso illecito che si potesse fare di questi conti invisibili, dall’altro desiderava anche fortemente che la Cedel fosse controllata da un Ente Pubblico.

Indovinate che fine a fatto?

Gèrard Soisson è morto il 28 luglio 1983 durante una vacanza in Corsica. Il certificato medico non precisa l’origine del decesso. Si parla di “morte naturale”. Eppure Gèrard Soisson era un quarantenne sano, sportivo, cintura nera di karatè. Ma muore improvvisamente dopo aver fatto jogging mentre beve un bicchiere d’acqua al bar dell’albergo.

Può capitare.

Ciò che non si capisce però è perché subito dopo la morte il corpo di Gèrard Soisson sia stato stranamente eviscerato (certo è che, una volta tolte le viscere ad un corpo, diventa difficile trovare tracce di avvelenamento).

Non solo ma la sua salma ha impiegato ben 4 giorni per arrivare dalla Corsica in Lussemburgo (probabilmente, per il trasporto, hanno usato un barchino a remi).

Comunque sono in molti a ritenere, compresa la sua famiglia, che Gèrard Soisson, in realtà sia stato avvelenato.

Il perché è facile da intuire.

Dopo la sua morte più del 50% dei conti sono diventati “non ufficiali” o “non pubblicati”.

La conseguenza di tutto ciò è che noi, ancora oggi, ci chiediamo dove siano finiti i soldi del Crack del Banco Ambrosiano, Cirio, Parmalat, della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, ecc…

Eppure tutte le transazioni di denaro o valori mobili sono registrate in queste società che non sono situate in paradisi fiscali, ma in Europa: due sono a Bruxelles ed una in Lussemburgo.

E…..provare a chiedere?

Tutto questo noi oggi lo sappiamo grazie al coraggio di un ex dipendente di Clearstream, Ernest Backes, che insieme a Denis Robert ha scritto il libro “Soldi, il libro nero della finanza internazionale”.

Il libro, ovviamente, è stato poco pubblicizzato (meglio sapere le avventure amorose di Bettino Craxi) ma è di grande interesse.

Leggendolo si possono capire molte cose su alcune delle vicende mondiali più inquietanti (Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, Michele Sindona, IOR, Vaticano, scandalo Iran-contra, BCCI, Gladio, mafia, riciclaggio, ONU, organizzazioni non governative, Bilderberg, Trilateral, Opus Dei, Saddam Hussein, massoneria, P2, ecc…).


Cosa dobbiamo concludere dopo aver letto il libro?

Che la possibilità di sapere dove va il denaro, chi lo maneggia, e per quali fini, esiste. Ma lo Stato (sia il nostro, sia gli altri stati esteri, che in questo non sono da meno di noi), non ha alcun interesse a scoprire la verità su queste vicende e farle sapere.

E chi ci ha provato, appunto, è morto.

Solange Manfredi

31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

Bush sull'Iraq ha ingannato gli Usa


Quando i vari blogger portavano avanti articoli che affermavano che la guerra in Iraq era solo un pretesto, quell'informazione non valeva nulla. Adesso che tutti lo dicono, anche il vice di Bush, allora diventa materiale per un libro, forse per un best-seller. Ma come siamo messi con l'informazione? Chi giudica Chi?

WASHINGTON (Stati Uniti) - Le motivazioni per muovere guerra all'Iraq furono un colossale inganno ordito da Karl Rove, da Dick Cheney e dalla Cia con la compiacenza - o quantomeno il silenzio - di George W. Bush e Condoleezza Rice. Ad affermarlo è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, un uomo che per sei anni ha vissuto all'interno di quelli che oggi chiama «meccanismo di propaganda».

LE ACCUSE - Nel libro intitolato Cosa è successo: all'interno della Casa Bianca di Bush e della cultura washingtoniana dell'inganno, McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l'ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia; la Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere «il mago» che manovra la politica da dietro le quinte senza lasciare tracce. L'ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l'Iraq, ma afferma che lu e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che «la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l'unica opzione praticabile». Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell'estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una «campagna di propaganda politica» mirata a «manipolare le fonti alle quali attinge l'opinione pubblica» e a «minimizzare le reali ragioni della guerra».


IL RIMPASTO E L'ADDIO - McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove. «Ammiro ancora Bush» scrive McClellan nelle 341 pagine del libro, anticipato dal Washington Post, «ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l'onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell'opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale».

STAFF NEL MIRINO - L'ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall'uragano Katrina nel 2005. «Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare» scrive McClellan, «così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush».

La svolta ecologista dei Rockefeller



Neva, pronipote del mitico John D., presenta una mozione agli azionisti della Corporation

«Exxon cambi rotta sull'ambiente»

L'appuntamento è per mercoledì prossimo a Dallas, dove si terrà l'annuale assemblea degli azionisti della multinazionale petrolifera più ricca del mondo che è anche l'unica a non fingere nemmeno d'interessarsi alla crisi ecologica in corso. Anzi, com'è noto, Exxon si batte da anni con ogni mezzo, legale e illegale, per annacquare gli studi sul cambiamento climatico e tenere lontana qualunque normativa che possa imporre dei limiti alle emissioni inquinanti.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare: con una mossa senza precedenti gli eredi del fondatore hanno organizzato una cordata per costringere l'azienda a impegnarsi contro dl'effetto serra e nelle energie rinnovabili. L'insurrezione, guidata da Neva Goodwin Rockefeller, pronipote del fondatore e stimata economista, vuole la testa dell'attuale presidente Rex Tillerton e una totale inversione di rotta: a fronte degli enormi profitti che Exxon sta intascando grazie all'aumento del prezzo del petrolio, secondo Neva la corporation deve aiutare i poveri, cercare fonti alternative di energia e tutelare l'ambiente anche - o soprattutto - per non restare tagliata fuori dal business ecologico, l'unico che sembra avere un futuro.

Quella dei Rockefeller è una saga che va avanti da un secolo e mezzo fornendo materiale per film, romanzi e perfino fumetti, come si evince dal successo di un certo John D. Rockerduck, nemico storico di Paperon De Paperoni che deve il suo nome a John D. (sta per Davison) Rockefeller mitico fondatore della Standard Oil, praticamente la madre di tutte le corporation petrolifere e non. Tanto per far capire quanto il fondatore abbia influenzato l'immaginario degli americani, basti pensare che quando Disney lanciò il nuovo personaggio la Standard Oil aveva chiuso i battenti già da cinquant'anni, e non certo perché gli affari andavano male.
Al contrario, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ai dirigenti di smembrare la compagnia, nel 1911, Rockefeller controllava il 64% del mercato: un monopolio decisamente illegale secondo le leggi statunitensi. Dalla Standard Oil nacquero ben 34 compagnie, alcune ancora vive e vegete come Continental Oil (ribattezzata Conoco), Standard of Indiana (poi Amoco), Standard of California (poi Chevron), Standard of New York poi Mobil) e infine Standard of New Jersey, (ribattezzata Esso e poi Exxon). Quest'ultima, certamente la più potente, nel 2007 ha realizzato profitti per 40 miliardi di dollari.
Sono decenni che i discendenti del fondatore non mettono bocca nelle decisioni del management e tengono lontane dai riflettori le loro proverbiali liti.

Ora però, sull'onda dell'impegno di Neva, le nuove leve hanno deciso di farsi sentire e accusano l'attuale gestione di ignorare la volontà degli azionisti e di non pensare minimamente al futuro del pianeta. Mercoledì a Dallas i "cugini" - come sono chiamati dalla stampa - presenteranno cinque mozioni per chiedere il totale cambiamento della politica aziendale e le sosterranno anche contro il parere del patriarca David (92 anni), ex presidente della Chase Manhattan e fiero oppositore dei capitalisti «attivisti» che considera semplicemente dei pazzi. Sul fronte opposto c'è Peter M. O'Neil, uno dei cugini, che ha irritato particolarmente gli anziani rompendo l'antica vocazione familiare all'omertà e prestandosi a fare da testimonial della fronda sui media. Una battaglia campale, dunque, che tiene l'industria e la finanza statunitensi con il fiato sospeso anche perché i Rockefeller sono sempre stati notoriamente molto litigiosi ed è già una notizia il fatto che abbiano fatto fronte comune contro quelle che considerano «la cecità e l'ingordigia della Exxon».

Per quanto la battaglia sembri impari, visto che attualmente la famiglia detiene una percentuale molto piccola di quote azionarie, i Rockefeller hanno sempre avuto grandi ambizioni. Non a caso Peter Johnson, lo storico della dinastia, sospetta che il loro obiettivo sia di riformare non solo la Exxon ma l'intera industria petrolifera. «E' gente con un impegno ambientale e sociale preciso» ha spiegato al Corriere della Sera «Mirano alla riduzione delle emissioni di gas nel mondo e al sostegno delle comunità meno abbienti». Dalla loro i cugini hanno il sostegno di un'opinione pubblica sempre più preoccupata dagli effetti del riscaldamento globale e sempre più arrabbiata per gli aumenti del prezzo del greggio, che si traducono in profitti da record per le compagnie.

Naturalmente Rex Tillerton non ha nessuna intenzione di cedere: «Siamo un'azienda petrolifera e petrolchimica e tale resteremo. Il nostro bilancio dimostra che abbiamo ragione». Le trattative con i rivoltosi - in corso dal 2004 - sono arrivate a un punto morto quando il management ha rifiutato ogni proposta di compromesso. Si è arrivati così alle quattro mozioni: tre che riguardano gli investimenti nell'energia rinnovabile - che altre aziende, come Chevron o BP, fanno massicciamente - e una quarta ben più radicale per ottenere la nomina di un presidente indipendente. Secondo Tillerton la rivoluzione dei Rockefeller è destinata a fallire «perché non hanno nemmeno l'1% delle azioni». Ma Peter O' Neill ribatte che il pacchetto azionario della dinastia è «difficile a calcolarsi perché messo in vari trust» ma è certamente superiore alla quota indicata e che comunque molti azionisti si sono schierati con i cugini proprio perché infastiditi dalla totale cecità degli attuali dirigenti sulle questioni ambientali. Secondo il Wall Street Journal, la fronda ambientalista avrebbe il consenso del 40% degli azionisti. Anche perchè, se così non fosse, difficilmente i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto.
di Sabina Morandi

28 maggio 2008

Quando la libertà di parola non è così libera


Parlare liberamente non è così privo di conseguenze. Negli Stati Uniti, per esempio, criticare Israele equivale ad un'eresia. Jimmy Carter, già Presidente degli Stati Uniti, dopo la pubblicazione l'anno scorso del suo libro 'Palestina: Pace, non Apartheid' nel quale condannava le politiche isolazioniste israeliane nei territori palestinesi occupati, ha avvertito una forte reazione pubblica avversa. Come conseguenza, senza alcun fondamento, Carter fu marchiato da molti nella stampa americana come propagandista anti-semita di-parte.

Analogamente, Stephen Walt - Professore alla Harvard - e John Mearsheimer - all'Università di Chicago - sono stati additati per uno scritto che metteva in discussione il potere della lobby israeliana ed i suoi effetti negativi sulla politica americana.

Da ultimo, Norman Finkelstein, stimato Professore alla DePaul University ed autore del bestseller 'L'Industria dell'Olocausto', è stato testimone di una campagna in stile maccartista montata contro di lui al ricevimento dell'incarico. Finkelstein, figlio di sopravvissuti all'olocausto, ha sempre parlato contro gli abusi dei diritti umani commessi da Israele e contro gli apologeti pro-Israele, tipo il Professor di Harvard, Alan Dershowitz. Presumibilmente, è stato quest'ultimo a montare la campagna anti-incarico contro Finkelstein, al quale alla fine è stato negato l'incarico ed ha perso la cattedra alla DePaul.

Gli attacchi contro Carter, Finkelstein, Walt e Mearsheimer sono un piccolo gruppo di esempi ben noti sulle conseguenze alle quali scrittori ed intellettuali vanno incontro quando oltrepassano la linea e criticano Israele. La condanna che ricevono, poi, scrittori ed intellettuali di origine araba è invariabilmente più alta di quella ricevuta dai Giudei responsabili, dai già presidenti e dagli accademici rispettati.

Così, molto scrittori spesso seguono la corrente e la loro auto-censura si manifesta nell' "abbassare i toni del messaggio" sia compiacendo l'editore che i critici, essenzialmente conformandosi alla realtà di un cosiddetto pragmatismo. Ma tale "pragmatismo" è un eufemismo al posto di "accettazione" di uno status quo repressivo ed è analogo a quel "necessario" modo di pensare "pratico" che aveva zittito una moltitudine di commentatori durante gli anni di Oslo - il presunto periodo della pace. Logicamente, l'effetto delle taciute sofferenze dei Palestinesi fu un aumento dell'espansione degli insediamenti dei coloni, della confisca di territori, del numero dei posti di controllo e degli attacchi, così come del fallimento di Camp David, nel 2000.

Schivare argomenti percepiti come controversi può aiutare a salvare una carriera ben allineata, ma lo scopo di un analista politico non dovrebbe essere produrre dei lavori di fantasia. Durante la corsa alla guerra in Iraq, la maggior parte degli americani non era disponibile a sentire critiche alla politica americana, ciò soprattutto a causa della complicità dei mezzi di comunicazione ufficiali a sostegno della guerra; ma le critiche erano assolutamente appropriate dato l'andamento dei fatti e gli americani oggi ne avrebbero beneficiato.

Un uomo che è riuscito a combinare con maestria i propri principi, l'attivismo e gli aspetti umani, è stato il noto educatore e commentatore Edward Said. Said è visto senza dubbio come la quintessenza del radicalismo nell'intelligentia e nel campo dell'analisi del Medio-oriente. Nondimeno, le sue posizioni erano radicali se confrontate con la "comprensione convenzionale" : era infatti un fautore della soluzione ad uno-stato, un critico solitario del governo israeliano ed un ardente sostenitore dell'apparentemente controverso diritto di ritorno. Said è stato oggetto di critiche durante tutta la sua carriera ed ha sostenuto pesanti attacchi dai suoi detrattori, eppure il suo modo di fare comprensibile e le sue argomentazioni motivate, gli hanno fatto conservare un ruolo rilevante.

Purtroppo, questa relativa accettazione a favore di Said è l'eccezione e non la regola. Negli anni recenti c'è stato un aumento dell'attenzione per un preteso dialogo pragmatico. Nei fatti, questa attenzione al pensiero cosiddetto razionale ed equilibrato è risultata essere poco di più di un mezzo subdolo per fare pressioni sugli oppressi per accettare gli oppressori.

I più grandi leaders degli ultimi cento anni, non hanno evitato le contrapposizioni, sono rimasti sulle loro posizioni ed hanno visto le loro intuizioni diventare realtà; che si trattasse di Martin Luther King o Nelson Mandela o del Mahatma Gandhi. Ma non si può ignorare che anche personalità di spicco sono state punite per aver "oltrepassato" i confini ritenuti leciti, segnatamente Martin Luther King, che fu criticato per aver parlato contro la guerra in Vietnam, contro l'imperialismo e contro le ingiustizie sociali che infestano gli Stati Uniti.

Questa settimana, i Palestinesi negli Stati Uniti hanno commemorato i 60 anni del loro confinamento. Eppure, in base alla visione dei pragmatisti, la lente attraverso la quale il popolo palestinese dovrebbe osservare le cose dovrebbe far vedere loro che un popolo depredato è la vittima necessaria perchè prenda forma uno stato di diritto. Sfortunatamente, folle di scrittori e commentatori si accodano su questa linea per paura di perdere lo stipendio, in cambio di case più belle e di una vita più lussuosa, o per una combinazione di tali aspetti. Questo è il libero arbitrio. Parlare liberamente non è privo di conseguenze, eppure l'unica conseguenza che uno scrittore dovrebbe temere è la perdita della pace della propria mente.

Remi Kanazi

Politica, Camorra e Fantasia: le nostre Specialità


I carabinieri del NOE hanno eseguito il 27 maggio 25 ordinanze di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di dipendenti e funzionari del Commissariato ai rifiuti della regione Campania. I reati contestati sarebbero traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato e l’indagine nata da un’intercettazione avrebbe come oggetto il trattamento improprio delle ecoballe frantumate e sversate in discarica.

Il Prefetto di Napoli Alessandro Pansa ha ricevuto un avviso di garanzia concernente un atto da lui firmato, riguardante alcune prescrizioni alle quali avrebbe dovuto attenersi Fibe s.p.a. La società Fibe del gruppo Impregilo che gestiva l’intero ciclo dei rifiuti in Campania è attualmente sotto inchiesta insieme al presidente della Regione Antonio Bassolino. Michele Greco, attuale dirigente della Regione Campania e precedentemente alla Protezione civile, risulta fra i destinatari delle ordinanze di custodia cautelare, così come resterà “confinata” ai domiciliari Marta De Gennaro, già vice del sottosegretario Guido Bertolaso e responsabile del settore sanità della Protezione civile...

La nuova inchiesta culminata con le ordinanze del 27 maggio, portata avanti dai PM Paolo Sirleo e Giuseppe Loviello che in precedenza avevano già rinviato a giudizio i vertici della società Impregilo e lo stesso presidente Bassolino, mette in luce in maniera impietosa le profonde connivenze che intercorrono fra quella multinazionale del malaffare che è la camorra, molti rappresentanti della classe politica campana e delle istituzioni, unitamente ad elementi di spicco dell’imprenditoria nostrana. Non è facile comprendere (e forse non lo sarà mai) se sia stata la camorra a gestire la politica, le istituzioni e le società private, oppure viceversa sia stato il “carrozzone istituzionale” a gestire la camorra, ma dovrebbe essere ormai chiaro a tutti come l’emergenza dei rifiuti di Napoli sia stata ingenerata dall’operato di questo sodalizio criminale che proprio all’interno dell’emergenza ha costruito e continua a costruire profitti miliardari sulle spalle di tutti i cittadini italiani e in particolar modo di quelli campani che oltre a pagare il conto economico come tutti gli altri, hanno perso il diritto alla salute come le esperienze di chi vive nel “triangolo della morte” stanno tristemente a dimostrare.

Il parlamentare Italo Bocchino, capogruppo vicario del Pdl alla Camera, sembra invece vivere in un microcosmo costruito ad hoc dove le inchieste dei magistrati restano relegate nel novero della fantasia e la camorra, quella vera, è costituita dai cittadini napoletani che protestano, non perché si rifiutino di accettare di buon grado un futuro di tumori per sé stessi e per i loro figli, ma semplicemente in quanto “pagati” per farlo dalla camorra stessa.
Bocchino in un’intervista resa al Giornale, a metà fra il delirio onirico e l’esercizio della più becera disinformazione, rende noto perfino il “tariffario camorrista” oltretutto superscontato dal momento che a suo dire basterebbero 20 euro per far bruciare un cassonetto, 50 euro per costituire un blocco stradale e 100 euro per un’intera giornata di protesta.

Non sappiamo quanti euro siano stati necessari per indurre il deputato Bocchino a gettare discredito sulle spalle dei cittadini napoletani che protestano, anche se probabilmente si è trattato di un conto abbastanza salato, ma siamo certi che questo fulgido esempio di uomo politico nostrano non si è mai avventurato fra le fila dei contestatori di Napoli per cercare la conferma delle sue parole. Avrebbe trovato uomini e donne che stanno difendendo con i denti il loro diritto ad avere un futuro e sono costretti a combattere “gratis” ogni giorno, non solo contro la camorra ma anche contro beceri politicanti senza arte né parte che ne sostengono l’operato dispensando a piene mani la disinformazione.
Marco Cedolin

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RIFIUTI: PM, COLOSSALE OPERA INQUINAMENTO DEL TERRITORIO
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Una "colossale opera di inquinamento del territorio, posta in essere anche grazie a connivenze presenti ai più alti livelli e perseguita anche confidando nella possibilità di nascondere, proprio sotto le tonnellate di quei rifiuti che si dovrebbero smaltire correttamente, la pessima gestione degli stessi". Così i pm della procura di Napoli Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo descrivono, nell'ordinanza firmata dal gip Rosanna Saraceno, lo scenario dei presunti illeciti alla base dell'operazione "Rompiballé. Secondo i magistrati, per quanto riguarda i soggetti privati coinvolti nell'inchiesta "le vicende dimostrano la persistenza di un modello di gestione piegato esclusivamente ad interessi economici e quindi incline, anzi aduso a violare qualsiasi interesse collettivo" compresi "quelli della salute e dell'ambiente". Le responsabilità dei soggetti pubblici riguardano invece "l'assoluta lontananza dell'anelito, o quantomeno, dal 'mero' dovere di garantire il rispetto della legge e, attraverso questa, la tutela degli interessi pubblici sottesi, in favore di una attività preordinata solo a garantire l'apparenza della 'propria efficienza ed efficacia di funzionari addetti''.

RIFIUTI: PM,GRAVISSIMI DANNI AMBIENTALI ED A SALUTE PUBBLICA
(ANSA) - NAPOLI, 27 MAG - Le irregolarità nella gestione dei rifiuti, al centro della nuova inchiesta della procura di Napoli, hanno prodotto - secondo gli inquirenti - "gravissimi risvolti sia ambientali che in danno della salute pubblica". E' stato accertato, ad esempio, che nelle discariche di Villaricca (Napoli) e di Lo Uttaro (Caserta) sono stati smaltiti rifiuti diversi da quelli per i quali gli impianti erano stati progettati e autorizzati. E in questi conferimenti, "nella consapevolezza piena" di alcuni funzionari del commissariato così come di esponenti e collaboratori delle società di gestione Fibe e Fisia, "non sono mancati neppure rifiuti pericolosi". (ANSA).

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I 25 destinatari dei provvedimenti di arresto:

- Marta Di Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, in passato il vice di Bertolaso all'epoca in cui era stato commissario straordinario per l'emergenza rifiuti
- Lorenzo Bragantini, direttore tecnico Ecolog, l'azienda che organizza il trasporto dei rifiuti in treno verso la Germania
- Roberto Cetera, amministratore delegato Ecolog
- Massimo Malvagna, amministratore delegato Fibe spa
- Andrea Orazio Monaco, capo impianto Cdr, combustibile derivato da rifiuti, presso l'impianto Caivano
- Sergio Asprone, responsabile gestione impianti Fibe
- Elpidio Angelino, capo impianto Cdr Giugliano (Napoli)
- Silvio Astronomo, capo impianto Cdr Casalduni (Benevento)
- Pasquale Moschella, capo impianto Cdr Santa Maria Capua a Vetere (Caserta)
- Giuseppina Marra, funzionario Provincia di Caserta
- Alessandro Di Giacomo, capo impianto Cdr di Pianodardine (Avellino)
- Ernesto Picarone, responsabile ambiente ingegneria di Fibe e Fisia-Italimpianti
- Domenico Ruggiero, capo impianto Cdr di Battipaglia (Salerno)
- Giovanni De Laurentiis, responsabile operatore Fisia-Italimpianti
- Angelo Pelliccia, dirigente Fibe e Fibe Campania
- Leonello Serva, ex Commissariato, oggi dipendente dell'Apat, agenzia per la protezione dell'ambiente
- Filippo Rallo, responsabile per i Cdr Campania della Fisia
- Massimo Cortese, responsabile gestione dei Cdr campani
- Giuseppe Sorace
- Michele Greco, dirigente della Regione Campania, già dipendente della Protezione civile.

27 maggio 2008

Il decreto Rifiuti


A qualcuno serve necessariamente aprire nuove discariche per continuare a nascondere di tutto. Questa tensione, questa crisi, è stata studiata a tavolino per creare con la forza discariche e inceneritori non solo per il grande business dell'incenerimento, ma anche e soprattutto per far sparire o bruciare qualcosa di veramente grosso. Il business dei rifiuti tossici è IL BUSINESS per eccellenza e la Campania è da decenni meta privilegiata di rifiuti tossici di ogni genere sversati nei campi, sui rifiuti urbani in strada poi dati alle fiamme, nelle cave e nelle discariche poi legalizzate dallo Stato.

Mentre la crisi, che si acuisce ad arte, continua, la produzione e lo stoccaggio di scorie terrificanti procede, e il loro smaltimento diventa sempre più pressante ed improrogabile.
L'unica via di fuga, l'unico mezzo possibile era quello di scavare altre buche col pretesto di ripulire la Campania dai rifiuti tal quale e costuire inceneritori per bruciare le ecoballe (che nessuno vuole perchè zeppe di rifiuti cancerogeni) ed i rifiuti via via prodotti una volta esaurite le discariche.
La realtà invece supera la fantasia ed il Comitato Allarme Rifiuti Tossici rende noto...
quello che il testo del decreto, a prima vista un'accozzaglia di articoli di legge e codici incomprensibili, afferma in maniera sconcertante.

Gli artt 8 e 9 sono quelli della verità, sono quelli dove va ricercata la motivazione di tutto.
Sia i termovalorizzatori e sia le discariche devono nascere con lo scopo ben preciso di bruciare o interrare (in discariche su cui non viene effettuata alcuna VIA) anche rifiuti pericolosi o non meglio specificati.
Le stesse ceneri tossiche, prodotte dalla combustione dei futuri inceneritori, che andrebbero conferite in discariche speciali, si prevede vengano sversate nei 10 siti stabiliti dal decreto: tutti dicono che l'inceneritore non fa male, nessuno che le ceneri prodotte sono vere e proprie bombe ecologiche.

I comma 2 dell'art 8 e 9 sono di portata criminale e per questo sono scritti in un modo scarsamente comprensibile. L'urgenza di aprire nuove discariche appare così una scusa con cui poter aggirare normative nazionali ed europee in tema di smaltimento rifiuti.

Ancora una volta sorge il dubbio che la crisi campana sia stata studiata a tavolino per avviare, con la scusa dell'emergenza, discariche ed inceneritori, col pericolo di affossare eventuali procedimenti in corso (si veda la vicenda Lo Uttaro) e far sparire dietro 2 commi di un decreto un po' di disastri ambientali pregressi.
Il business dei rifiuti tossici è il business per eccellenza, più del petrolio e del tabacco. Questi rifiuti pericolosi vengono prodotti tutti i giorni in ogni parte del mondo e in quantità mostruose: del loro smaltimento è in atto una rudimentale semplificazione ai danni della salute dei cittadini campani.

Di seguito gli articoli incriminati:

Art. 8, comma 2: In deroga alle disposizioni di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, ed agli articoli 191 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e' autorizzato nella regione Campania, per un triennio rispetto al termine di cui al citato articolo 2, l'esercizio degli impianti in cui i rifiuti, aventi codice CER 19.12.10, 19.12.12, 19.05.01, 19.05.03, 20.03.01, sono scaricati e stoccati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento.

Art. 8, comma 3: E' prorogato per un triennio rispetto al termine di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, lo stoccaggio dei rifiuti aventi codice CER 19.12.10, 19.12.12, 19.05.01, 19.05.03, 20.03.01, in attesa di smaltimento, nonche' il deposito dei rifiuti stessi presso qualsiasi area di deposito temporaneo.

Art. 9, comma 2: Gli impianti di cui al comma 1 sono autorizzati allo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER: 19.12.12; 19.05.01; 19.05.03; 20.03.01; 19.01.12; 19.01.14; 19.02.06; presso i suddetti impianti e' inoltre autorizzato lo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER: 19.01.11*; 19.01.13*; 19.02.05*, nonche' 19.12.11* per il solo parametro «idrocarburi totali», provenienti dagli impianti di selezione e trattamento dei rifiuti urbani, alla stregua delle previsioni derogatorie di cui all'articolo 18.

Come si legge, gli impianti individuati dal decreto sono autorizzati allo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai seguenti codici CER:

19.12.12:: altri rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, diversi da quelli di cui alla voce 19.12.11 (che sarebbe altri rifiuti. compresi i materiali misti, prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.05.01: parte di rifiuti urbani e simili non compostata

19.05.03: compost fuori specifica

20.03.01: rifiuti dei mercati

19.01.12: ceneri pesanti e scorie, diverse da quelle di cui alla voce 19.01.11 (ceneri pesanti e scorie, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.01.14: ceneri leggere, diverse da quelle di cui alla voce 19.01.13 (ceneri leggere, contenenti sostanze pericolose) [cmq previste sotto]

19.02.06: fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici, diversi da quelli di cui alla voce 19.02.05 (fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici contenenti sostanze pericolose) [comunque previsti sotto]

ed ancora:

19.01.11*: ceneri pesanti e scorie, contenenti sostanze pericolose (tipicamente ceneri prodotte dagli inceneritori)
19.01.13*: ceneri leggere, contenenti sostanze pericolose (tipicamente ceneri prodotte dagli inceneritori, sono considerate pericolose e vengono solitamente smaltite in discariche speciali)
19.02.05*: fanghi prodotti da trattamenti chimico-fisici contenenti sostanze pericolose
19.12.11*: altri rifiuti (compresi i materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti, contenenti sostanze pericolose
marco M.

Deliri Nucleari

La classe dirigente italiana continua a mostrare limiti sempre più evidenti che prendono corpo in questi primi giorni di governo Berlusconi, durante i quali il nuovo esecutivo sta tentando in maniera molto maldestra di dipingersi addosso un’immagine di modernità ed innovazione assolutamente inesistente.
Riuscire ad immaginare come elementi di novità i personaggi che compongono l’armata Brancaleone creata dal Cavaliere richiede l’ausilio di davvero molta fantasia, in quanto politicanti imbolsiti come Matteoli, Schifani, Maroni, Sacconi e tanti altri, in questa veste risultano davvero impresentabili. Ma neppure la fantasia potrebbe venirci in aiuto se tentassimo d’interpretare in chiave di modernità ciò che il governo si propone di “creare” nell’ambito dell’energia e dei rifiuti.

La costruzione “a pioggia” di nuovi inceneritori (in Campania sono già diventati quattro) in mancanza di qualunque strategia concernente la creazione di un circolo virtuoso dei rifiuti, lascia semplicemente basiti, in quanto nulla risulta essere...
più anacronistico dell’incenerimento del pattume e basterebbe gettare una rapida occhiata verso gli altri Paesi, non solo europei, per rendersi conto che siamo rimasti gli unici a destinare ogni risorsa disponibile verso una tecnologia nella quale all’interno dei paesi “sviluppati” ormai più nessuno crede.

All’insana passione per la pratica dell’incenerimento, nuova come potrebbe esserlo un dinosauro, sta affiancandosi in questi giorni anche una martellante ed ossessiva campagna in favore del ritorno delle centrali nucleari, bandite dal nostro Paese nel 1987 grazie al risultato di un referendum.
L’armata Berlusconi, che ancora dovrebbe spiegare agli italiani cosa intenderà fare delle tonnellate di rifiuti radioattivi attualmente stipati in depositi di fortuna, come quello di Saluggia, dove inquinano le falde acquifere e migrano regolarmente nell’ambiente, sta tentando in ogni modo di riportare l’Italia sulla via dell’atomo, spacciando la scelta nucleare come un qualcosa di nuovo e moderno.

Non esistono elementi di novità nella scelta atomica, così come negli inceneritori, anche se si tentano giochi di prestigio sintattici definendoli nucleare di “nuova generazione” e “termovalorizzatori”, così come non esiste novità nella banda di governo che pretenderebbe di “rialzare l’Italia” mentre non riesce neppure a rialzare gli occhi da terra per volgere lo sguardo verso i Paesi che le stanno attorno. Quasi tutti i Paesi “sviluppati” con l’eccezione della Francia, del Giappone e pochi altri hanno da tempo smesso d’investire nel nucleare in quanto la gestione (lo smaltimento in quest’ambito non esiste) delle scorie radioattive risulta troppo costosa e pericolosa. Quasi tutti i Paesi “sviluppati” stanno orientando altrove i propri programmi energetici, ma di questo il “nuovo” governo sembra non essersi assolutamente accorto, tanta e tale risulta la limitazione di capacità e d’idee che affligge i componenti del nuovo esecutivo.

Se lor Signori, come dicono, intendono raccogliere l’eredità del “vecchio nucleare”, inizino a parlarci delle scorie di Saluggia e dell’acquedotto del Monferrato che ne raccoglie la radioattività, delle centrali dismesse che nessuna osa demolire perché darebbero origine a nuove scorie che non si saprebbe dove stipare, della realtà incontrovertibile che testimonia come il Gotha della scienza mondiale di fronte al problema delle scorie nucleari si sia da tempo arreso ed abbia abdicato da quello che avrebbe dovuto essere il suo ruolo.
Inizino a parlarci di queste cose gli illuminati del nuovo governo e soprattutto inizino a guardare anche i paesi che stanno loro intorno, così potranno evitare di continuare a proporre come novità inusitate pratiche che altrove si stanno abbandonando come vecchie, antieconomiche ed ambientalmente insostenibili.

MarcoCedolin

La “Gladio dei carburanti”



Attraversa 6 Regioni, 17 Province e 136 Comuni italiani. Totalmente finanziato dall’Alleanza Atlantica, e’ stato costruito negli anni Sessanta per rifornire in modo autonomo e continuativo carburante Jet A1 (kerosene) ai velivoli dislocati negli aeroporti militari di tutta Europa.
Il suo nome è NATO-POL (acronimo che sta per Petroleum Oil Lubrificant) ed è un sistema completo di terminal marini, depositi di stoccaggio sotterranei e gruppi di pompaggio: una rete di oleodotti le cui condutture corrono per oltre 11.000 chilometri, dal mare fino al cuore dell’Europa.
Il sistema POL è una delle infrastrutture NATO meno note: la frazione italiana della rete - denominata North Italian Pipeline System (NIPS) - raggiunge le basi USA-NATO di Ghedi (Brescia), Aviano (Pordenone), Rivolto (Udine) e Cervia (Ravenna), nonché altre infrastrutture utilizzate esclusivamente dall’Aeronautica Militare Italiana. Dal terminale marino di Vezzano, in Val Mulinello, nei pressi di La Spezia, giunge al nodo di Collecchio (Parma) e lì si ramifica in tre direzioni, per un’estensione dcomplessiva pari a circa 850 chilometri. Importanti depositi si trovano anche a Mestre, ad Augusta per rifornire la base US Navy di Sigonella, ed a Taranto.
Un braccio arriva fino in Germania, attraversando l’Austria. Un altro capo è in Portogallo, a Lisbona, dove un intero molo è riservato al NATO-POL. Altri depositi sono in Gran Bretagna. Reti analoghe a quella italiana sono inoltre presenti in Norvegia, Grecia e Turchia. Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda sono invece collegate da un sistema centrale europeo.
Di approfondirne la natura si era fatto carico il senatore Severino Galante (PdCI), con un’interrogazione parlamentare in cui chiedeva al governo italiano chiarimenti in merito alla segretezza dell’oleodotto e ad un’eventuale autorizzazione concessa alla NATO per ampliarlo nel tratto che da Vicenza (dove recentemente si è verificato un guasto)¹ porta ad Aviano. L’allora ministro della Difesa Parisi si era affrettato a precisare che “l’aeroporto Dal Molin di Vicenza non è alimentato da tale rete” e che l’opera non riveste “carattere di segretezza” in quanto il tracciato è punteggiato, ogni duecento metri, da un cartello con la dicitura “Amministrazione dello Stato”.
Il combustibile dalle petroliere approdate a La Spezia viene riversato in Val Mulinello fino a 20.000 litri all’ora, quindi stoccato in serbatoi di cemento armato rinforzati da una lamina in acciaio e ricoperti di terra, non solo per impedire eventuali sversamenti ma anche per protezione da ipotetici attacchi. La portata dell’oleodotto nella parte italiana raggiunge, secondo dati aggiornati al 1999 (durante l’aggressione NATO alla ex Jugoslavia) un massimo di 1 milione e 600mila litri al giorno. Logisticamente, esso dipende dall’Aeronautica Militare Italiana (AMI), ed in particolare dal Comando situato presso l’Aeroporto di Parma, in via Cremonese 35.
La gestione e la manutenzione dell’impianto in Italia sono invece affidate alla società privata IG (Infrastrutture e Gestioni) S.p.A., con sede a Roma in via Castello della Magliana 75. Controllata dalla holding francese Technip, la IG vanta una consolidata esperienza tecnica ed organizzativa acquisita in oltre trenta anni di attività nei settori della realizzazione e gestione di impianti industriali ed infrastrutture in Italia ed all’estero, in campo civile e militare.
Il relativo contratto, stipulato nel 2000 con la Direzione Generale degli Armamenti Aeronautici del Ministero della Difesa, ha durata di 14 anni e comprende: l’esercizio con presa in consegna e riconsegna nelle aree di impiego dei prodotti petroliferi; la manutenzione ordinaria e straordinaria;
il controllo delle servitù e concessioni; i servizi tecnici; l’addestramento del personale; la custodia delle aree; il management generale.
Qualcuno, argutamente, ha parlato di “Gladio dei carburanti”.

NOTE:
1)“«Un vero e proprio disastro ambientale»: se lo dice l’assessore provinciale alle risorse idriche Paolo Pellizzari, c’è da crederci. L’incidente all’oleodotto Nato che da Pisa porta il cherosene ad Aviano ha compromesso i fiumi Astichello e Bacchiglione; e nessuno aggiunge che il luogo dell’incidente, avvenuto a Monticello C.Otto, è un territorio di ricarica della falda acquifera vicentina, quella che dà da bere alle province di Vicenza e Padova: uno tra i bacini idrici sotterranei più grandi d’Europa.
Decine di ettolitri di cherosene riversati nella acque dell’Astichello: sono queste le dichiarazioni delle fonti ufficiali. L’incidente, avvenuto questa mattina alle 7, è stato segnalato dalle agenzie di stampa solo in serata, alle 20. Nel frattempo migliaia di cittadini hanno avuto il tempo di allarmarsi, pur non sapendo cosa era successo, sentendo l’intenso odore di cherosene in prossimità dei due corsi d’acqua vicentini; in poche ore la chiazza inquinante ha raggiunto la città attraversando Ponte degli Angeli e si è spinta almeno fino alla Riviera Berica.
Ma non dicevano che gli impianti militari sono sicuri? L’oleodotto di cui si parla, infatti, serve a portare il cherosene da Pisa ad Aviano, dove viene imbarcato sugli aerei militari in partenza per i loro voli di guerra e di addestramento. Una struttura che, a detta dei militari, non dovrebbe procurare alcun danno al territorio, ma che oggi si è resa responsabile di «un vero e proprio disastro ambientale».
Nei prossimi giorni conosceremo esattamente le dimensioni di questo disastro; per ora registriamo le prime voci che parlano di un miliardo di euro soltanto per le valutazioni del danno. Nel frattempo il cherosene è filtrato nel terreno, si è mescolato con l’acqua dei nostri fiumi, ha iniziato la sua opera di distruzione della fauna e della vegetazione fluviale.
Nessuno provi più a darci false rassicurazioni: le installazioni militari sono pericolose per gli abitanti dei territori nei quali sono situate. Se verrà realizzata, lo sarà anche la base statunitense al Dal Molin, situata proprio sopra la nostra falda acquifera e nei pressi di una zona naturale protetta; cosa potrebbe avvenire se, in un giorno disgraziato, dovesse verificarsi un incidente ad una delle cisterne di carburante? O agli edifici in cui saranno accatastati gli armamenti della 173° Brigata Aereotrasportata e magari - chi può escluderlo? - proiettili all’uranio impoverito? Potremmo fare una lista infinita dei rischi legati alle basi militari: ci fermiamo qui perchè ognuno può identificarli da se; e perchè tutti sanno che una base militare, per la sua semplice presenza, è già dannosa.
Seguiranno aggiornamenti.”
di byebyeunclesam

26 maggio 2008

Aggiotaggio sul Petrolio: i soliti noti


Da settimane ormai i media ripetono la «previsione» emessa da Goldman Sachs: «Il barile arriverà a 200 dollari». E ciò, «inevitabilmente». Quel che non dicono i media è che Goldman Sach gestisce (e manipola) il GSCI, l’indice dei prezzi delle materie prime più usato nel mondo, e nel GSCI il greggio ha un «peso» sproporzionato.

Goldman Sachs ha anche contribuito a far nascere il London ICE Futures Exchange, attraverso l’Atlanta Georgia ICE (International Commodities Exchange), che possiede la filiale di Londra, e di cui Goldman è comproprietaria: e l’ICE, dal gennaio 2006, è stato esentato dall’amministrazione Bush persino dalle lievissime regole vigenti in America. L’organo di controllo sui futures americani, la Commodities Futures Trading Commission, che già non brilla per poteri di repressione, non ha accesso nemmeno ai dati degli scambi dell’ICE di Londra.

L’ICE di Londra è stato oggetto di due inchieste del Congresso USA (al Senato nel giugno 2006, alla Camera bassa nel dicembre 2007) le quali hanno appurato che i rincari del greggio sono causati da contratti futures per miliardi di dollari, improvvisamente aumentati in quantità, che avvengono appunto in quel «buco nero» finanziario.

Il rapporto senatoriale del 2006 ha scritto: «Ci sono là pochi gestori di fondi che sono maestri nello sfruttare le teorie sul picco petrolifero e i momentanei colli di bottiglia della domanda-offerta (1), e facendo audaci previsioni di straordinari rincari imminenti, essi gettano benzina sul fuoco rialzista in una sorta di profezie auto-avverantisi».

Insomma è chiaro: Goldman Sachs si è data i mezzi per manipolare al rialzo i prezzi del petrolio, e lo sta facendo con grande zelo. La sola domanda è come mai, dopo un simile rapporto del Senato USA, i suoi dirigenti non siano stati chiamati in giudizio per aggiotaggio o, come minimo, per conflitto d’interesse. Misteri del popolo eletto.

Manipolare i rincari attraverso i futures è facilissimo, perchè all’ICE si può comprare sulla carta una partita di petrolio ad una data stabilita (future, appunto), versando in anticipo solo il 6% del prezzo. Con un margine così lieve, gli speculatori hanno in mano una leva moltiplicatrice da 16 ad 1. Rischiando mille dollari, generano una domanda di 16 mila dollari di petrolio. Domanda fittizia.

William Engdahl (2) infatti avanza il sospetto che la bolla speculativa petrolifera stia per scoppiare (come già quella edilizia sub-prime), e Goldman usi la sua «profezia» e le sue manipolazioni per rifilare agli ingenui investitori (tipicamente, i devastati fondi-pensione USA) contratti di cui la stessa Goldman si sta silenziosamente disfacendo. Sarebbe interessante vedere le posizioni sui futures petroliferi della stessa Goldman, dice Engdahl, per constatare se ha impiegato i suoi capitali sulla scommessa che il greggio andrà a 200; se, insomma, crede alla sua profezia.

Naturalmente, dato che l’ICE di Londra è una stanza oscura o un buco nero, è quasi impossibile saperlo. Ma Engdahl ricorda che nel 2001, quando a salire prodigiosamente erano i titoli delle «dot.com», ossia di micro-aziende neonate, con due o tre dipendenti, che promettevano mirabolanti avanzamenti nel software e nelle telecom e il cui valore azionario saliva in modo astronomico in base a quel che i media magnificavano di loro, avvenne proprio questo: alcuni lupi di Wall Street spingevano all’acquisto di tali azioni sopravvalutate, mentre loro, zitti zitti, le vendevano; o magnificavano le azioni di compagnie in cui le loro banche-madri avevano interessi.

Poi, la bolla delle dot.com scoppiò, l’indice NASDAQ crollò, e un’altra inchiesta del Congresso appurò che i lupi di Wall street avevano rifilato anche notizie esagerate ai grandi media ufficiali proprio per vendere a caro prezzo le azioni che stavano per cadere. Anche allora si seppe tutto «dopo», quando ormai i lupi avevano le tasche piene, i fondi-pensione le casse vuote, e senza conseguenze penali.

I segnali che la bolla petrolifera sia gonfiata deliberatamente dalla speculazione finanziaria non mancano. In aprile, l’analista petrolifero di Lehman Brothers, Michael Waldron, intervistato dal Telegraph, ha dichiarato: «L’offerta di petrolio sta superando la crescita della domanda. Le riserve sono in aumento dall’inizio dell’anno». Pochi giorni dopo a Dallas, si riuniva la American Association of Petroleum Geologists, da cui usciva questa indiscrezione: «I prezzi del greggio caleranno presto drammaticamente; sarà il gas naturale a mantenere una tendenza al rialzo a lungo termine». Infatti, «una delle cose che è molto importante comprendere è che la crescita della domanda mondiale in petrolio non è tanto forte», ha detto David Kelly, l’analista strategico della J.P.Morgan funds. Infatti la domanda è piatta, e ciò non giustifica i rialzi.

Cresce alquanto in Cina, ma cala in USA per la recessione americana: attualmente di 190 mila barili al giorno secondo i dati ufficiali dell’Energy Information Administration (ente del governo USA). E per valutare il dato occorre aver presente la differenza tra USA e Cina: la Cina consuma 7 milioni di barili al giorno, gli USA il triplo, 20,7 milioni barili al giorno. Un calo americano conta dunque molto più, sui mercati, di una accresciuta domanda cinese.

La quale, peraltro, non è poi così esplosiva come ci raccontano i media (e Goldman): secondo l’ente ufficiale USA suddetto, la domanda cinese aumenterà quest’anno di 400 mila barili/giorno, un aumento non tale da turbare i mercati, rispetto ai 3,2 milioni di barili al giorno che la Cina importa.

E’ nel più grosso consumatore mondiale, l’America, che si sta profilando un calo dei consumi, che diverrà via via più pronunciato quanto più la recessione americana morderà i consumi delle famiglie, colpite dai pignoramenti, dai debiti, dalla disoccupazione crescente. Secondo Master Card, in un rapporto del 7 maggio, la domanda americana di carburanti è scesa di un imponente 5,8 %.

Difatti, le riserve petrolifere americane aumentano («Per prepararsi alla guerra con l’Iran», dicono gli aggiotatori: ogni allarme è buono per tener alti i futures), mentre le raffinerie hanno ridotto i loro ritmi di raffinazione per affrontare la domanda calante: oggi lavorano all’85 per cento delle capacità, contro l’89 dell’anno scorso. E tengono basse le loro riserve di benzina allo scopo di sostenere i prezzi e i profitti.

Come non bastasse, nuovi giacimenti entreranno in produzione nel 2008, aumentando l’offerta. L’Arabia Saudita ha in progetto di aumentare di un terzo l’attività estrattiva, e di accrescere gli investimenti nel settore del 40%, per soddisfare la crescente domanda dell’Asia. Dall’anno prossimo la sua capacità di estrazione aumenterà dell’11% rispetto all’attuale.

Già nell’aprile scorso funziona il nuovo campo petrolifero saudita di Khursanyah, aggiungendo all’offerta globale mezzo milione di barili al giorno di pregiato Arabian Light Crude; dal 2009 il giacimento di Khurai, il più grosso dei nuovi progetti di sfruttamento sauditi, aggiungerà 1,2 milioni del miglior greggio (e al più basso costo estrattivo) alla offerta mondiale.

In Brasile, la Petrobras sta cominciando a sfruttare il giacimento offshore di Tupi, che si valuta in 8 miliardi di barili, e dovrà portare il Brasile fra i primi dieci produttori globali, sotto la Nigeria ma sopra il Venezuela. In USA, la US Geological Survey ha riferito di nuove riserve in un’area che va dal North Dakota al Montana, e che stima in 3,65 miliardi di barili.

L’Iraq ha riserve valutate non inferiori a quelle saudite, se solo il disordine americano non ne impedisse lo sfruttamento. E si tenga presente che già a 60 dollari il barile, diventano convenienti economicamente una quantità di pozzi chiusi quando il barile era a 27.

Insomma: la domanda non cresce, l’offerta aumenta - eppure, misteriosamente, i prezzi salgono. Non durerà molto: anche questa bolla scoppierà. Quando?

Questo lo deciderà Goldman Sachs, quando riterrà di averci depredato e impoverito abbastanza. Per intanto, tutti i media gridano con il padrone: «Petrolio a 200!».
M. Blondet

La falsa guerra di Berlusconi alle banche

La misura presentata a sorpresa dal governo due giorni fa in materia di mutui ha spinto molti a credere che Berlusconi abbia deciso di dichiarare guerra ai poteri forti, quei “salotti buoni” dove non è mai stato accettato davvero. “Se le banche non accettano, allora gli mandiamo la guardia di Finanza”, ha infatti commentato scherzando il presidente del Consiglio, lanciando un segnale al mondo della finanza. Non sono mancati però coloro che hanno evidenziato che il provvedimento, a ben vedere, non risolve il problema e rappresenta al contrario l’ennesimo regalo alle banche, seppur differito nel tempo. Vediamo come stanno davvero le cose. La misura voluta dal ministro Tremonti prevede la possibilità per 1.250.000 famiglie che hanno stipulato un mutuo prima del gennaio 2007 di sostituire l’attuale rata variabile con una fissa, il cui importo è inferiore e pari a quello pagato in media nel 2006, quando i saggi di interesse non avevano ancora iniziato a crescere. La scadenza, ha assicurato l’inquilino di via XX settembre, “sarà quella del mutuo” e, se nel frattempo i tassi saranno saliti, il contratto durerà un po’ di più, altrimenti le banche restituiranno i soldi in più versati dal cliente. Stando ai calcoli dell’Abi, per un mutuo ventennale di 80.000 euro si potrebbe arrivare a circa 850 euro l’anno. I tassi di interesse però, è giusto sottolinearlo, rimarrebbero variabili: il saldo finale dare/avere quindi non potrà che dipendere dall’andamento dei saggi nei prossimi decenni. Ciò significa che la misura attutisce nel breve periodo le difficoltà delle famiglie, oberate dalle rate crescenti dei mutui per la prima casa e dal reddito fermo e corroso dall’inflazione, coerentemente con la visione lievemente “sociale” sostenuta da Tremonti nel suo discusso libro sulla globalizzazione; nel lungo periodo, però, se i tassi di interesse dovessero essere sfavorevoli per i clienti, la misura finirebbero per far pagare loro di più dal momento che nei primi anni del mutuo, per il noto meccanismo di calcolo alla francese degli interesse, il capitale restituito sarebbe inferiore e le rate coprirebbero solo gli interessi crescenti. Come ha sottolineato Gianni Pittella, presidente della Delegazione italiana del Gruppo socialista al Parlamento europeo, inoltre, “l’accordo siglato tra il governo Berlusconi e le banche non affronta il problema principale”, il fatto cioè che “nel settore dei servizi bancari al dettaglio il livello di mobilità dei consumatori non è garantito adeguatamente”. “Finché i consumatori non saranno messi in grado di passare da una banca all’altra con la facilità a cui hanno già diritto grazie alla Legge Bersani - ha spiegato - il mercato non sarà competitivo dal punto di vista dei costi per i consumatori”. Non affrontando nel suo negoziato con le banche il nodo mobilità, richiesto anche dalla Commissione e invano rincorso dal precedente governo con il decreto Bersani, l’esecutivo ha in sostanza attuato un “pannicello caldo”, proteggendo il sistema creditizio dalla corsa al ribasso delle tariffe innescata dalla mobilità. “Bene poter rinegoziare a tassi favorevoli il proprio mutuo, ma molto meglio sarebbe potere anche scegliere di rinegoziarlo” con una banca che offra tassi migliori, ha concluso non senza ragioni Pittella, esortando l’esecutivo ad impegnarsi a far rispettare la legge Bersani.
Che l’attacco alle banche sia stato per ora rinviato, d’altronde, si evince anche da un’altra scelta: il rinvio della misura che prevedeva di far restituire alle banche i pingui regali fatti dal governo Prodi con il taglio dell’aliquota fiscale delle imprese bancarie e i lauti extra-profitti derivati dalla congiuntura. Ufficialmente la ragione è che il governo vuole studiare meglio la questione; non è da escludere però che il contro-documento presentato dall’Abi con la richiesta di concrete contropartite all’esecutivo abbia influito non poco alla decisione finale.
Di certo l’atmosfera per le banche è cambiata rispetto al periodo Prodi, come ha ammesso il presidente dell’Abi, Corrado Fissola, parlando di “sacrifici da fare per le banche” per dare sollievo alla pianificazione finanziaria delle famiglie e “per il sostegno dell’economia nazionale”. Il compromesso raggiunto, però, alla lunga potrebbe addirittura essere favorevole per il settore, basti pensare che il comitato esecutivo dell’Abi ha approvato all’unanimità l’intesa, confermando che tali sacrifici non sono poi così grandi. Il numero uno di Unicredit Alessandro Profumo, inoltre, ha definito l’accordo raggiunto sui mutui “ottimo”, confermando così indirettamente che il “nuovo rapporto con le banche”, voluto dal Pdl, ha solo slittato i vantaggi economici delle banche, costringendole a pagare di più oggi sul mercato interbancario la liquidità mancante a causa del provvedimento. Frasi come “questa volta devono pagare” o “non possono più dettare legge”, riferite alle banche si riveleranno quindi solo bandiere demagogiche se non saranno accompagnate presto da misure cogenti sulla mobilità, che diano al consumatore la possibilità di ottenere un’offerta migliore dagli istituti di credito. I primi segnali si vedranno già con il tavolo negoziale che sarà istituito tra Abi e governo per redigere la Convenzione che renderà operativo il decreto.
Nonostante ciò, non si può non sottolinearlo, Tremonti ha ottenuto un importante obiettivo: risparmiare ingenti risorse pubbliche da destinare, in un momento molto difficile dell’economia, a necessità più urgenti, tagliando da 4 a 2,8 miliardi le risorse destinate al decreto e scaricando sulle banche parte dello sforzo finanziario odierno. Il maggior reddito su cui i consumatori potranno contare pagando una rata inferiore consentirà infatti di dare più fiato ai bilanci familiari ma anche di stimolare immediatamente i consumi del Paese, fermi da tempo. L’effetto della misura taglia rate sulla crescita sarà infatti sicuramente maggiore di quello garantito dal taglio dell’Ici e dalla detassazione degli straordinari.
di Diana Pugliese

25 maggio 2008

I mutui e la truffa governativa



A quanto pare il governo ha fatto una cosa che dipinge come "aiuto alle famiglie", ovvero ha rinegoziato (al posto vostro) il vostro mutuo. Solo che non ci ha fatto un grande affare.

Quello che ha fatto il governo e'stato di dare alle famiglie la possibilita' di trattare ai tassi di sconto del 2006 i mutui, a patto che diventino dei mutui a rata fissa (col tasso del 2006) ma lunghezza variabile.

I mutui a lunghezza variabile sono sempre esistiti, e si fanno generalmente per cifre piccole, perche' e' piu' facile poterli estinguere. Io ne feci uno anni fa per finanziare il mio tetto di casa, con una rata di un centinaio di euri/mese, che infatti ho estinto quest'anno. Per una semplice ragione: il vantaggio di quel mutuo e' di avere una rata che non possa dare sorprese , ma lo svantaggio e' che, al crescere dei tassi reali, il numero di mesi possa crescere enormemente.

Il problema e' il seguente: che se cresce il numero di rate, viene ricalcolato l'interesse. Cosa puo' portare, questo, nella peggiore delle ipotesi?

Nella peggiore delle ipotesi puo' portarvi, come e' ovvio, a pagare "e" volte la cifra di interessi che avreste pagato prima. "e" volte significa che fa 2,71828 18284 59045 23536 02874 71352 66249 77572 47093 69995 95749....

In pratica, quello che fa il governo e' trattare una rata uguale a quella pagata nel 2006, per poi dire che siccome i tassi sono cresciuti, allora il mutuo diventa a rata fissa ma la durata cambia.

L'inculata non e' cosi' evidente, perche' la successione neperiana inizia ad avvicinarsi ad e gia' per numeri inferiori a quelli del numero di rate di un mutuo ventennale, ma vorrei far presente che passare da 2,5 a 2,6 significa averci perso un cazzo bel 4%, ovvero che alla fine del mutuo alla banca avrete pagato un bel 4% in piu'.

Allora direte: si', ma fissando la rata le famiglie non hanno piu' sorprese, e anche un semplice abbassamento di rata e' quanto di meglio un bilancio sofferente possa desiderare.

Ni.

Si' perche' ovviamente pagare meno fa piacere.Ni perche' un allungamento del 4% del montante significa passare da 20 anni di mutuo a quasi 30. Il problema e': supponiamo che abbiate fatto un mutuo a 30 anni, vabe', andrete in pensione e lo chiuderete.

Se lo avete fatto a 40 anni, sara' difficile che a 70 lavoriate, e sarete dei pensionati che pagano un mutuo. La sorpresa per voi potrebbe essere la quantita' di rate che potrebbero aggiungersi alla fine del vostro mutuo!

Se posso dare un consiglio:

Il tasso euribor e' attorno al 3.2. Probabilmente, mano a mano che la tempesta subprime si affievolira' perche' i danni saranno noti leggendo i bilanci, e' destinato a calare ancora. Lasciate il vostro tasso come variabile LEGATO all' EURIBOR.
Se e' passato qualche anno da quando avete aperto il mutuo, la cifra capitale dovrebbe essere calata. Se rispalmate il mutuo sullo stesso numero di anni, la rata calera'. Avrete perso anni, e molta della cifra versata (perche' le prime rate coprono la parte interessi), ma potreste avere , chiedendo un mutuo EURIBOR con uno spread decente, un calo considerevole della rata.
Se siete in difficolta', avrete probabilmente contratto altri debiti. La vostra banca lo vede in centrale dei rischi. Quello che potete fare e' riaccendere un mutuo, per la stessa rata, per lo stesso numero di anni, perdendo la cifra pagata sinora ma chiudendo i debiti al consumo che avete aperto: ricordate che nel mondo del credito al consumo i tassi arrivano al 25% e non sono mai inferiori al 15%!!!!!
In definitiva, la cosa migliore e' di andare nella vostra banca, dicendo che volete consolidare il debito , facendo sparire il credito al consumo. Aprirete un altro mutuo "casa + liquidita'", col quale chiuderete il vecchio mutuo e i debiti al consumo.(Agos, Findomestic, etc etc) .

La banca sara' piu' tranquilla perche' avra' un cliente meno a rischio, migliorando il proprio tasso di rischio insolvenza, guadagnandoci in sede di riassicurazione, e voi potreste alleggerire di molto il bilancio domestico.

Ma di certo, l'operazione di Berlusconi NON e' un grande affare. Anche perche' se volete proprio un mutuo a rata fissa e durata variabile, la banca ve lo dava gia': come si dice a Bologna, a dare via il culo in zona fiera i clienti li trovate sempre.
di Uriel

24 maggio 2008

Il signoraggio: fra il sacro e il profano


l denaro è un simbolo, letteralmente, poiché, come tutti i simboli, esso sta per. Già questo basterebbe per trasferirlo da mondo della venalità ad una sfera superiore, ermeneutica. Siamo, però, abituati a considerare il denaro come qualcosa di concreto, di solido, su cui fondare le nostre sicurezze economiche, eppure esso possiede una natura mercuriale, fuggevole, mobile. I soldi circolano: circolante è sinonimo di denaro. I beni mobili sono quelli monetari.

Tralasciate complesse e sovente astruse questioni di tipo economico, riscopriamo il vero valore dei lingotti e delle monete nell'antichità. Il loro valore non era solo nel conio e nel titolo, ma nel baluginio divino ed astrale che l'oro, l'argento e l'elettro custodivano. L'oro è il sole, l'argento la luna. Nei tempi remoti i metalli scintillanti riverberavano una luce sacra, sia pure destinata a stimolare la virgiliana sacra fames auri, un'esecranda avidità. Allora le monete, che portavano l'effigie di un dio, a volte erano tesaurizzate, tenute come talismani o gioielli: per gli scambi si poteva ancora ricorrere al baratto, ai doni reciproci, al bestiame. Era questa l'economia della cultura omerica.

I primi banchieri furono i sacerdoti delle città di Sumer: a loro già si deve la lenta, funesta trasformazione della pecunia da amuleto, da strumento per le transazioni commerciali in merce. Dall’uso del denaro all’usura il passo è breve. Con usura, ci ammonisce Ezra Pound, si può solo corrompere e rovinare. Non è un caso se Dante, condannando i prestatori ad essere tormentati nell'inferno, li reputa peccatori contro l'arte. L'arte è il lavoro onesto: nulla è disonorevole e disonesto come l'arricchimento frutto di speculazioni e di frodi. Che cosa penserebbe il sommo poeta dell'ignobile sistema definito signoraggio bancario?

A Cesare quel che è di Cesare; a Dio quel che è di Dio;... a me quel che è mio, come chiosa Gesù in un altro Vangelo. Dubitiamo che il Messia intendesse avallare, con la sua risposta ad una domanda insidiosa dei Farisei, il tributo all'imperatore. Piuttosto, come ritiene Elémire Zolla, si può congetturare che egli, esortando a rendere il denaro a Cesare, dichiarasse che la coniazione è un atto di forza. "Il Messia accusa i banchieri di essere dei ladri, perché speculano sui cambi. Se si fosse ascoltato il Cristo, o il denaro non esisterebbe o solo una moneta sacra avrebbe circolato, con un rapporto fisso tra oro ed argento." Il numerario, benché non più sacro, può essere, se frutto di attività probe, giovevole, favorendo i commerci ed un certo benessere, purché si creda nel suo portentoso potere di trasformarsi in un oggetto d'uso o in una prestazione d'opera. Le persone che dimostrano fede non sono tanto quelle che credono in Dio, ma coloro i quali si affidano alla magica virtù del denaro: fede, fido, fideiussione... sono termini dell'economia.

E' quindi possibile pensare ad una società in cui la moneta sonante sia usata per acquistare e vendere, ma senza che essa sia gravata di interessi. Anche un interesse dell'un per cento annuo è usura: peccato che la Chiesa di Roma l'abbia dimenticato, anzi apprendendo perfettamente le scaltre, spregiudicate pratiche dei feneratori, si è trasformata in una banca. Se, invece, il denaro diventa banconota, carta forzosa, cifra digitata sullo schermo di un elaboratore si smaterializza in un'entità astratta. Pur non esistendo, essendo un ente creato dal nulla per dominare tutto e tutti, opprime i deboli, depaupera i derelitti, stringe in un cappio soffocante i debitori, rende schiavi di tesori chimerici gli avari, rafforza lo scellerato dominio dei potenti che impiegano i loro immensi, insanguinati capitali per uccidere, distruggere, inquinare, compiere delitti di ogni genere.

A Cesare quel che è di Cesare, dunque: come il Messia rifiutiamo in toto il potere. Poco importa se un celebre interprete del suo messaggio raccomandava che gli schiavi obbedissero ai padroni, legittimando così de facto e de iure quelle inique autorità politiche e religiose contro cui Cristo (o chi per lui) aveva consigliato la spada.
by Zret

Scandali finanziari


Nel nostro paese gli scandali finanziari, in cui svaniscono nel nulla enormi quantità di denaro, sono frequenti quasi quanto le elezioni, ed hanno come costante il fatto che i soldi non vengono mai ritrovati (esattamente come per i mandanti di stragi ed omicidi eccellenti).

Il denaro pare si volatilizzi.

Tesoretti ipotizzati, sussurrati, rincorsi…. ma mai ritrovati.

Eppure da qualche parte devono pur essere finiti, possibile che rintracciarli sia così difficile?

Migliaia di miliardi non viaggiano in contanti, chiusi in valigette e portate in ogni parte del mondo da spalloni, no?

Viviamo nell’era digitale, possibile che questi passaggi non lascino traccia? Ed infatti è impossibile.

Tutto lascia traccia….basta seguirla.

A leggere il libro nero della finanza internazionale la soluzione del problema esiste. Dicono gli autori:

“Si è soliti pensare che il denaro, soprattutto quello virtuale, quello dei computer delle banche, non lasci traccia e sfrecci, alla velocità della luce, da un conto ad un altro, da un paradiso fiscale ad un altro senza lasciare traccia dei suoi passaggi. E’ falso. [1]



Ogni movimentazione di denaro o valori mobili (titoli, obbligazioni, ecc…) viene registrata e conservata. E non da adesso. Sin dagli anni ’30 tra alcuni paesi (38), ed a livello mondiale dagli anni ‘60.

Questo perché da quando il trasferimento di denaro e di valori immobiliari hanno iniziato ad avvenire, non più materialmente ma, attraverso la c.d. “faxmoney”, le banche hanno avvertito la necessità di garantire queste transazioni conservando prova di questi scambi. Hanno, quindi, deciso di creare una sorta di “notaio internazionale” che potesse registrare, avvallare e conservare, in luogo sicuro, la prova degli scambi avvenuti.

Tale “notaio internazionale” è costituito dalle società di clearing, ovvero camere internazionali di compensazione.

Queste società, dunque, si occupano di registrare, avvallare e conservare, in luogo sicuro, la prova degli scambi per risolvere eventuali casi di contestazione da parte dei clienti.


In Europa sono due le società che fungono da “notaio internazionale”per gli scambi transfrontaliferi:

1. La Clearstream, nata in Lussemburgo il 28 settembre 1970 con il nome di Cedel e, nel 2000, ribattezzata Clearstream);

2. La Euroclear, nata a Bruxelles nel 1968.

“Queste due società hanno il monopolio quasi completo degli scambi di obbligazioni a livello internazionale. Il commercio di obbligazioni permette di raccogliere ed impiegare del denaro senza apparire nominalmente tranne che nei documenti interni alle banche. E’ uno dei prodotti preferiti dagli addetti al riciclaggio e dai clienti che maneggiano molta liquidità…[2]”.

Ovviamente queste società sono state fondate da banche ed hanno banche come soci. Tutto tra loro insomma.

Fondate queste due società per la registrazione degli scambi dei valori mobili rimaneva, però, scoperto il mercato del denaro contante.

Così i due principali azionisti di Clearstream ed Euroclear hanno fondato, nel 1973, la Swift, ovvero una società che permette, grazie sempre alla registrazione, avvallo e conservazione la trasmissione rapida della moneta nelle varie divise.

Dunque, fin dal 1973, grazie a queste tre società (Clearstream, Euroclear e Swift) nessuna transazione internazionale di valori mobili o denaro contante può avvenire senza che venga registrata e conservata.

Naturalmente le tre società, nate per una iniziativa bancaria privata, si sono sempre opposte a qualsiasi controllo pubblico sulle loro attività. E ti pareva.

Attenzione perché stiamo parlando di colossi.

Si pensi che la sola Clearstream, nel 2000, trattava circa 450 volte il bilancio del Belgio, qualcosa come 50 trilioni di euro all'anno, una cifra paragonabile a quanto trattato annualmente da Euroclear.
Nelle sue casse, nel 2000, aveva depositati qualcosa come 9000 miliardi di euro.

Recentemente ha ammesso errori contabili per un totale di 1,7 trilioni di euro (l'equivalente del debito pubblico del terzo mondo), senza che nessuno sollevasse obiezioni.

Nessun controllo pubblico e nessuna domanda per questi piccoli errorini.

Ma non solo.

Da principio il regolamento interno di Cedel prevedeva che tutti i conti di tutti i clienti associati di clearing venissero pubblicati in una lista. Tale lista veniva, poi, pubblicata regolarmente e distribuita agli aderenti al sistema.

Intorno agli anni ’80 Cedel, dietro richiesta di due grandi banche italiane e di varie banche tedesche, ha creato un sistema di conti “non pubblicati”, ovvero “conti invisibili” che non appaiono nelle liste ufficiali.

La persona incaricata di concedere le autorizzazioni all’apertura di questi conti invisibili era Gèrard Soisson.

Gèrard Soisson però, da un lato era preoccupato dell’uso illecito che si potesse fare di questi conti invisibili, dall’altro desiderava anche fortemente che la Cedel fosse controllata da un Ente Pubblico.

Indovinate che fine a fatto?

Gèrard Soisson è morto il 28 luglio 1983 durante una vacanza in Corsica. Il certificato medico non precisa l’origine del decesso. Si parla di “morte naturale”. Eppure Gèrard Soisson era un quarantenne sano, sportivo, cintura nera di karatè. Ma muore improvvisamente dopo aver fatto jogging mentre beve un bicchiere d’acqua al bar dell’albergo.

Può capitare.

Ciò che non si capisce però è perché subito dopo la morte il corpo di Gèrard Soisson sia stato stranamente eviscerato (certo è che, una volta tolte le viscere ad un corpo, diventa difficile trovare tracce di avvelenamento).

Non solo ma la sua salma ha impiegato ben 4 giorni per arrivare dalla Corsica in Lussemburgo (probabilmente, per il trasporto, hanno usato un barchino a remi).

Comunque sono in molti a ritenere, compresa la sua famiglia, che Gèrard Soisson, in realtà sia stato avvelenato.

Il perché è facile da intuire.

Dopo la sua morte più del 50% dei conti sono diventati “non ufficiali” o “non pubblicati”.

La conseguenza di tutto ciò è che noi, ancora oggi, ci chiediamo dove siano finiti i soldi del Crack del Banco Ambrosiano, Cirio, Parmalat, della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, ecc…

Eppure tutte le transazioni di denaro o valori mobili sono registrate in queste società che non sono situate in paradisi fiscali, ma in Europa: due sono a Bruxelles ed una in Lussemburgo.

E…..provare a chiedere?

Tutto questo noi oggi lo sappiamo grazie al coraggio di un ex dipendente di Clearstream, Ernest Backes, che insieme a Denis Robert ha scritto il libro “Soldi, il libro nero della finanza internazionale”.

Il libro, ovviamente, è stato poco pubblicizzato (meglio sapere le avventure amorose di Bettino Craxi) ma è di grande interesse.

Leggendolo si possono capire molte cose su alcune delle vicende mondiali più inquietanti (Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, Michele Sindona, IOR, Vaticano, scandalo Iran-contra, BCCI, Gladio, mafia, riciclaggio, ONU, organizzazioni non governative, Bilderberg, Trilateral, Opus Dei, Saddam Hussein, massoneria, P2, ecc…).


Cosa dobbiamo concludere dopo aver letto il libro?

Che la possibilità di sapere dove va il denaro, chi lo maneggia, e per quali fini, esiste. Ma lo Stato (sia il nostro, sia gli altri stati esteri, che in questo non sono da meno di noi), non ha alcun interesse a scoprire la verità su queste vicende e farle sapere.

E chi ci ha provato, appunto, è morto.

Solange Manfredi