29 giugno 2011

Il capitale strategico del Pakistan

Il capitale strategico del Pakistan

La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.

di Giacomo Gabellini

Che la banca sia con voi… Amen


Il presidente uscente della Bce, Jean-Claude Trichet (quello che gli subentrerà a novembre sarà il “nostro” Mario Draghi, il che non significa che sarà un vantaggio perché per i banchieri prima vengono le banche, poi, ma solo poi ed eventualmente, i popoli e gli stati): l’mmarcescibile Trichet – dicevo – prima di uscire di scena, ha deciso di rinverdire i fasti della sua miserabile ricetta: rialzare i tassi d’interesse per contenere l’inflazione e quindi i prezzi.

Abbiamo più volte ribadito e dimostrato qui, sul Fondo, che i prezzi dei beni al consumo NON salgono quando il tasso d‘interesse è basso e NON scendono quando il tasso d’interesse si alza. Da quando il tasso d’interesse dell’euro in seguito alla crisi della finanza globale del 2008 è stato abbattuto all’1% (in America addirittura allo zero per cento), dal 4,5% che era, l’inflazione non ha fatto registrare alcuna sensibile impennata: ancora oggi siamo fermi al 2,6% (in Italia), mentre nel 2008, prima della crisi, e con quel tasso d’interesse nettamente più elevato, si registrava un’inflazione pari al 3,5%.

La formula di Trichet, quindi, insieme alle motivazioni che propone è una bufala. La verità vera è che con il prossimo ri-aumento dei tassi, prima della sua uscita di scena, Trichet vuole premiare i suoi più affezionati estimatori: le banche. Le quali troveranno modo di moltiplicare per due o per tre al dettaglio del consumatore il maggior costo della merce che la Bce produce all’ingrosso, senza vincoli o controlli da parte degli stati: il denaro.

Non bastasse il preannunciato nuovo salasso nelle tasche degli europei (e degli italiani) per il pagamento maggiorato, ad esempio, dei mutui a tasso variabile già accesi, il nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti c’ha messo il carico da undici. Il piano della nuova manovra economica da lui pensata prevede: l’aumento di un punto dell’Iva sulle aliquote più alte (10 e 20 per cento) compensato, però nelle sue pretese del Ministro, dalla riduzione del prelievo dell’Irpef, derivante dalla riduzione delle aliquote di prelievo fiscale.

Calcoli alla mano, i primi a stigmatizzare che fra il prendere e togliere a rimetterci saranno ancora una volta i redditi con perdita del potere d’acquisto è proprio la Confcommercio che fa notare: «Gli effetti negativi di una tale manovra sono dovuti al fatto che l’aumento dei prezzi dovuto al rialzo del’Iva neutralizza l’aumento di reddito monetario per il taglio dell’Irpef ma riduce il potere d’acquisto dello stock di ricchezza detenuto dalle famiglie».

Ciliegina marcia su una torta che già si preannuncia al veleno è la notizia, sempre di oggi, del nuovo record storico per il premio di rendimento pagato dai titoli decennali italiani rispetto al bund tedesco. Gioverà appena ricordare che il recente crack finanziario della vicina Grecia, praticamente ridotta alla fame, è stata determinata proprio da un eccessivo rialzo dei tassi pagati sui propri titoli di stato.

Tutto ciò avviene mentre il dibattito politico italiano concentra la sua attenzione sui No-Tav, i bunga-bunga presidenziali, i ministeri al nord, il ritiro del patrocinio della Regione Lombardia per una manifestazione il cui volantino di programmazione presenta la parola “porno”, giudicata inammissibile dal Presidente Formigoni, le camerille dei Bisignani e dei suoi interlocutori politici, e altre imprescindibili querelle degne di una sceneggiata napoletana.

Con tutto il rispetto per Napoli e i napoletani che in queste ore affondano letteralmente nell’immondizia, sotto l’impotente sguardo di San Gennaro De Magistris

di Miro Renzaglia

28 giugno 2011

Contro l'inflazione la borsa è come la roulette







Sempre pronto a dare consigli sbagliati, il Corriere della Sera apre la prima pagina del supplemento CorrierEconomia del 3 maggio 2011 col titolo L’inflazione fa paura? Azioni e bond per difendersi”. Il concetto è sviluppato a pagina 17 da un articolo che inizia così: “Contro il carovita ci pensa Piazza Affari”. L’autore è Adriano Barrì: una firma nuova per una vecchia bufala.


Non è vero che le azioni proteggano dall’inflazione, ovvero che di regola il valore dei propri risparmi venga preservato investendoli in Borsa. Basta un minimo di competenza per sapere che ciò è accaduto a volte sì e a volte no. Il Corriere della Sera poteva anche titolare: “L’inflazione fa paura? La roulette per difendersi”. Se, infatti, uno punta tutto sul rosso ed esce, ottiene una salvaguarda del potere d’acquisto dei suoi risparmi anche con un’inflazione del 100%.
Si veda nel
grafico cosa capitò a Piazza Affari dopo il 1973, ovvero durante l’ultima fiammata inflattiva in Italia. Nel giro di un paio d’anni era andato in fumo fra il 60%-70% delle somme investite. Bella difesa dall’inflazione!
I dati come al solito non provengono dal centro sociale Leoncavallo, bensì dall’
ufficio studi di Mediobanca, diretto non da Fausto Bertinotti, bensì da Fulvio Coltorti. Peraltro già nel 2009 uno studio del Fondo Monetario Internazionale giungeva a conclusioni ugualmente negative per l’investimento azionario: Inflation Hedging for Long-Term Investorsdi Alexander P. Attié e Shaun K. Roache.
Al Corriere della Sera sono così incompetenti da ignorare del tutto la materia su cui pontificano? Il fervore pro-azionario del quotidiano di via Solferino si spiega altrimenti, cioè coi suoi padroni. Che sono: Mediobanca, Fiat, Pesenti, Della Valle, Pirelli, Ligresti, Merloni, Generali, Banca Intesa ecc. A tutti costoro fa gioco che i risparmiatori italiani comprino loro azioni (di minoranza).
La conferma viene dal Sole 24 Ore, controllato dai soci di Confidustria e quindi da soggetti ugualmente interessati a trovare tapini disposti a prendersi sul groppone le azioni di minoranza delle loro società. Qui gli esempi si sprecano. Il 27 luglio 2008 Marco Liera scrive a pagina 25 che “le azioni storicamente sono uno dei migliori impieghi anti-inflazione” e cita “uno studio dell’investment bank Kleinwort Benson”, che non è propriamente la fonte più autorevole in materia.
Su Plus 24 del 25 aprile 2009, a cura dello stesso campione del giornalismo economico, leggiamo in prima pagina riguardo alla “quota da destinare alle azioni: si parte dal 10 fino a un massimo del 70%”. Il 14 maggio 2011 a pagina 17 il gestore invitato, quella settimana, a farsi bello sulle pagine di Plus 24 consiglia a un artigiano circa il 55% in azioni, in maniera diretta o indiretta. E addirittura il 34% a una coppia con un profilo conservativo! Nell’ultimo caso il responsabile dell’inserto era cambiato. Ma ciò non ha nessuna importanza. Seguo il foglio della Confindustria dalla fine degli anni ’70 e ho visto alternarsi più direttori, senza che si notassero differenze, salvo forse nella grafica dei supplementi.

di Beppe Scienza

27 giugno 2011

Dove vengono prese le decisioni internazionali determinanti?



Mentre l’élite occidentali si riunivano nella pittoresca St. Moritz per decidere sulla crisi mondiale, gli outsider si sono incontrati nelle steppe desolate dell’Asia Centrale.

La scorsa settimana il decimo summit della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nella capitale kazaka, Astana, ha evidenziato come i più grandi rivali dell’impero, guidati da Russia e Cina, stanno cercando di plasmare un’alternativa all’egemonia degli Stati Uniti.


La SCO è l’unica grande organizzazione internazionale che non ha tra i suoi membri gli USA o uno qualsiasi dei suoi stretti alleati, e la sua influenza è sempre più forte in tutta l’Eurasia. I leader degli stati membri, Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan si sono incontrati con i leader dei paesi osservatori, Iran, Pakistan, India, Afghanistan e Mongolia. La Bielorussia e lo Sri Lanka sono stati ammessi come partner al dialogo e prima del suo arrivo a Astana per frequentare la riunione, il Presidente cinese, Hu Jintao, ha visitato l’Ucraina.

Con un’ampollosità tipicamente cinese, la Dichiarazione di Astana ha sottolineato gli sforzi per combattere le "tre forze" del "terrorismo, dell’estremismo e del separatismo". Il summit si è dichiarato a favore di un Afghanistan "neutrale” (ossia, senza base permanenti USA), cosa sostenuta anche dal Presidente afgano Hamid Karzai, anche se gli Stati Uniti stanno proprio in questo momento discutendo con lui per un accordo di collaborazione strategica dopo il 2014. l’eventualità di basi militari permanenti in Afghanistan sta alla base delle odierne tensioni tra USA e Pakistan. L’India ha dichiarato la sua avversione alle tensioni di una "nuova guerra fredda" che sono comparse nella regione.

La Russia e la Cina temono che il progetto statunitense sia quello di installare basi permanenti in Afghanistan e di sviluppare i componenti del suo sistema di difesa missilistico. La riunione della SCO ha condiviso le critiche della Russia sul progetto dello scudo missilistico della NATO che si è già avviato in Europa. Questo progetto, voluto da "una nazione o di un piccolo gruppo di paesi che, unilateralmente e senza alcuna restrizione, per sviluppare un sistema antimissile, potrebbe minacciare la stabilità strategica e la sicurezza internazionale ".

Il summit ha anche richiesto ai vicini dell’Afghanistan di svolgere un ruolo primario nel migliorare la sicurezza e per aiutare a ricostruire l’Afghanistan, rifiutando così una soluzione esclusivamente militare. “È possibile che la SCO si assumerà la responsabilità per molti questioni in Afghanistan dopo il ritiro della coalizione delle forze nel 2014", ha detto il Presidente kazako, Nurusultan Nazarbayev, facendo eco alla richiesta del Presidente russo, Dmitri Medvedev, "per una più intensa e profonda cooperazione tra la SCO e l’Afghanistan".

Sia Pechino che Mosca stanno ripristinando la propria influenza nella zona,la Cina nel settore minerario e tutti e due i paesi nei progetti per le infrastrutture e per la cooperazione con le forze occidentali per combattere il traffico di droga. "L’Afghanistan è stata la ragione principale per cui fu creata dieci anni fa la SCO, ancor prima che l’11 settembre forzasse gli americani a comprenderne la minaccia", ha detto il delegato della Duma, Sergei Markov. "La minaccia di un islamismo radicale esportato nella nostra regione è qualcosa a cui siamo molto familiari. E un risorgere di quella minaccia deve essere una delle preoccupazioni più rilevanti."

Durante la conferenza, l’Ufficio della Nazioni Unite per la Droga e il Crimine (UNODC) ha firmato un accordo con la SCO per promuovere la cooperazione nel combattere il traffico degli stupefacenti, il crimine organizzato, il traffico degli umani e il terrorismo internazionale. Il direttore esecutivo dell’UNODC, Yury Fedotov, ha detto che "le nazioni come il Kazakistan sono sulla linea del fronte del flusso dell’eroina afgana che è diretta in occidente. Le operazioni per contrastare il crimine organizzato e il traffico della droga si stanno sempre più indirizzando verso un approccio cooperativo." L’argomento più urgente è il traffico dell’eroina dall’Afghanistan verso il Tajikistan che si è sviluppato con l’invasione degli Stati Uniti nel 2001.

Il rafforzamento della cooperazione e lo sviluppo economico sono state considerate le "due ruote" della SCO dal Segretario Generale, Zhang Deguang. Il Giornale del Popolo cinese ha evidenziato che "tra le altre mosse concrete da intraprendere c’è la costruzione di una ferrovia, di un’autostrada e di una rete di condotte che colleghino i paesi dell’Asia Centrale senza sbocco sul mare e le sue ricche risorse naturali all’economia globale." Al momento, è ancora in costruzione un sistema di condotte per il gas naturale che poi metterà in comunicazione Iran, Pakistan, India e Cina, aiutando a superare i contrasti tra India e Pakistan e a integrare tutta la regione sulle premesse di interessi condivisi, attentamente supervisionati dalla Cina.

L’Asia Centrale e l’Asia del Sud sono inseparabili e le proposte per l’adesione di India e Pakistan sono state a lungo discusse. Il Presidente del Pakistan, Ali Zardari, si è ripromesso di lavorare con i membri della SCO per raggiungere la pace regionale. Zardari ha affermato che il Pakistan fa parte della regione della SCO e che è intenzionato a cooperare con le altre nazioni per finanziare joint venture nel settore energetico, nelle infrastrutture, nell’educazione, nella scienza e la tecnologia. Ha fatto menzione della nuova apertura del porto a Gwadar, a cui la Cina ha destinato molti finanziamenti come di un utile centro di smistamento per tutta la regione.

La SCO ha rafforzato la cooperazione tra i suoi membri, con le esercitazioni di guerra tra Russia e Cina e, all’inizio di aprile di quest’anno, gli incontri dei capi militari dei paesi membri. Comunque, la SCO è ancora lontana dall’essere un’alleanza militarmente coesa come la NATO. L’ammissione del Pakistan e dell’India, nemici di lunga data, complicherà certamente la cooperazione militare, con il protettore dell’India, la Russia, opposto a quello del Pakistan, la Cina.

La Cina è chiaramente la forza che sta alle spalle della SCO, il polmone che nella regione è economicamente molto più importante di quanto non sia la Russia, ma la volontà comune di tenere lontani gli Stati Uniti è per tutti un sogno. Quale modo migliore per alleggerire le tensioni tra tutti questi rivali se non con le esercitazioni della SCO per rafforzare l’interazione tra le forze armate e i corpi legislativi? Secondo l’opinione di M.K. Bhadrakumar, renderà la "NATO (e la Pax Americana) semplicemente irrilevante per un’enorme estensione di territorio ".

I discorsi prolissi sulla pace, sulla sicurezza e la cooperazione regionale erano indirizzata alla stampa (e a Obama). A porte chiuse, i leader hanno espresso le loro preoccupazioni sull’impatto che la Primavera Araba può avere in tutta la regione, particolarmente negli stati più popolosi dell’Asia Centrale e nella dittatura più aspra, l’Uzbekistan. Il summit della SCO è uno dei pochi eventi internazionali dove il suo leader, Islam Karimov, è ancora un benvenuto.

Un altro argomento della riunione trattato riguarda il modo di unire gli sforzi nella direzione di una moneta unica mondiale, non creata dai banchieri mondiali agli incontri segreti del Bilderberg, ma in modo aperto dalle nazioni centri più popolose e più ricche di risorse che sono presenti nella SCO. Nazarbayev ha sottolineato il bisogno di una forte moneta sovranazionale e ha raccomandato un ritorno a una qualche forma di gold standard. "La SCO lo può fare. Le operazioni swap che abbiamo avviato sono il primo passo. Tutto ciò è necessario per una cooperazione egualitaria all’interno della SCO."

Il Presidente iraniano, Mahmoud Ahmedinejad, ha dato un po’ di colore al tono dimesso dell’incontro grazie al richiamo rivolto alla SCO di farsi maggiormente carico di un ruolo attivo per contrastare il sistema globale, guidato dagli USA, degli "schiavisti e dei colonizzatori" per poi sostituirlo con uno che sia più giusto. "Chi fra noi [ha avuto un ruolo] nell’età oscura della schiavitù o nella distruzione di centinaia di milioni di esseri umani? Io credo che insieme potremo riformare il modo in cui il mondo è gestito. Potremo restituire la tranquillità al mondo intero."

Il meeting della SCO è arrivato pochi giorni dopo la chiusura della riunione del Gruppo Bilderberg a St. Moritz in Svizzera, a cui quest’anno ha partecipato il Ministro per gli Affari Esteri, Fu Ying, un riconoscimento del fatto che senza l’approvazione della Cina niente è più possibile nel mondo della finanza. Come la SCO, la sua agenda si dice abbia analizzato quali azioni intraprendere in reazione alla Primavera Araba, ma anche, in modo più sinistro, progetti per censurare Internet, chi scegliere perché diventi il nuovo direttore del FMI, gli ulteriori salvataggi dell’euro e i prezzi in crescita del petrolio.

La Cina, la Russia, il Pakistan e l’India, per non far menzione dell’Iran: la SCO riunisce tutte le più serie minacce ai progetti dell’impero in un unico organismo. Ad eccezione forse della Cina, Bush non ha mai preso sul serio nessuno di questi paesi. Obama sì. Ma finora la SCO ha molto abbaiato, ma non ha di certo morso. Se, nel corso di quest’anno, anche l’India e il Pakistan verranno ammessi e se gli swaps denominati non in dollari raggiungeranno una massa critica, il Bilderberg farà bene a mettere la SCO e cosa farne in cima al prossimo ordine del giorno.

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Fonte: http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=25359

di Eric Walberg

26 giugno 2011

Il mercato non ci sta dicendo la verità






Recentemente sul sito del prestigioso Worldwatch Institute, nella sua parte specifica dedicata ai "Vital Signs. Global Trends that Shape Our Future" (ricordo che il Worldwatch, oltre al famoso rapporto annuale "State of the World", pubblica anche il rapporto annuale sui "Vital Signs" I trend globali che modellano il nostro futuro, vedasi http://vitalsigns.worldwatch.org) è apparsa la notizia che le persone in sovrappeso nel mondo hanno raggiunto, nel 2010, la cifra di un miliardo e 934 milioni (mentre nel 2002 erano un miliardo e 454 milioni). Circa il 23% del dato del 2002 era attribuibile a individui di età intorno ai 15 anni o poco più mentre questo dato, nel 2010, ha raggiunto la percentuale del 38%. L'incremento per gli adulti in questi ultimi otto anni è stato invece dell'11%.

Si tratta di un ulteriore dato sconcertante di questo mondo francamente sempre più indescrivibile con il buon senso. Sappiamo contestualmente, dai dati Fao nei rapporti sullo stato dell'insicurezza alimentare nel mondo, che il numero di denutriti sulla Terra si aggira, da qualche anno, intorno al miliardo di persone, e potrebbe risultare nuovamente in incremento nel 2010 a causa soprattutto degli effetti provocati degli sbalzi dei prezzi delle commodities alimentari di base sui mercati internazionali.

I decisori politici ed economici continuano imperterriti a ragionare con una vecchia visione di semplice relazioni causa-effetto e quindi con la solita litania del tipo "siccome si incrementa la domanda di beni di consumo, perché vi è incremento di popolazione e di consumi, ergo bisogna incrementare l'offerta". Ancora nel World Food Summit 2009 la Fao dichiarava la necessità di incrementare la produzione alimentare mondiale per fare fronte alle esigenze di una popolazione in crescita, alle esigenze dei denutriti del pianeta ed alla crescita dei consumi. Fortunatamente quest'anno la Fao stessa ha commissionato un ottimo studio sulla perdita di cibo nelle filiere alimentari mondiali e sul cibo letteralmente "buttato via" da noi abitanti dei paesi ricchi e ne è uscito fuori un dato terribile.

Ogni anno nel mondo si perdono un miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo; ogni anno i consumatori dei paesi ricchi buttano via una quantità di cibo, stimato in 222 milioni di tonnellate comparabile all'intera produzione alimentare dell'Africa sub-sahariana, calcolata in 230 milioni di tonnellate (il documento "Global Food Losses and Food Waste" è rintracciabile sul sito della FAO, www.fao.org ).

Come ci hanno indicato gli studi di Andrea Segrè, preside della facoltà di agraria dell'Università di Bologna, inventore del Last Minute Market, e del suo gruppo (vedasi il sito www.lastminutemarket.it) in Italia si buttano via oltre 20 milioni di tonnellate di cibo l'anno.

Il perverso meccanismo della crescita economica materiale e quantitativa è realmente giunto al capolinea. Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, creatore degli Stati of the World e dei Vital Signs, fondatore e presidente dell'Earth Policy Institute, uno dei più noti analisti interdisciplinari della sostenibilità, ha scritto nel suo ultimo libro "World on the Edge" riflessioni molto interessanti in proposito. Sto curando l'edizione italiana di questo volume che uscirà tra qualche mese pubblicato dalle Edizioni Ambiente.

Brown scrive: «Nessuna civiltà del passato è sopravvissuta alla costante distruzione dei propri supporti naturali, né potrà sopravvivervi la nostra, ma nonostante ciò gli economisti guardano al futuro in modo diverso. Basandosi su dati esclusivamente economici per misurare il progresso, essi concepiscono la crescita di quasi dieci volte dell'economia mondiale dal 1950 ad oggi e il conseguente miglioramento degli standard di vita come il risultato più alto della nostra civiltà moderna. In questo arco di tempo il reddito medio pro capite nel mondo è aumentato di circa 4 volte, portando i nostri standard di vita a livelli prima d'ora inimmaginabili. Un secolo fa la crescita annuale dell'economia mondiale si misurava in miliardi di dollari; ora si misura in migliaia di miliardi. Agli occhi degli economisti tradizionali il mondo non ha solamente un illustre passato economico, ma ha anche davanti a sé un futuro promettente».

Brown sottolinea come : «Gli economisti tradizionali vedono la recessione economica globale del 2008-09 e il quasi collasso del sistema finanziario internazionale come un ostacolo lungo il cammino, seppure un ostacolo di dimensioni fuori dal comune, a cui seguirà un ritorno alla crescita abituale. Le previsioni per la crescita economica, che siano quelle della Banca Mondiale, della Goldman Sachs o della Deutsche Bank parlano di una crescita dell'economia globale di circa il 3% annuo; di questo passo le dimensioni dell'economia del 2010 potrebbero facilmente raddoppiare entro il 2035. Secondo queste previsioni la crescita economica nei decenni a venire sarà più o meno un'estrapolazione della crescita dei decenni recenti. Ma come siamo finiti in questo pasticcio? La nostra economia globale di mercato così come è attualmente gestita si trova in difficoltà. Il mercato sa fare bene molte cose e ripartisce le risorse con un'efficienza che nessun tipo di pianificazione centralizzata potrebbe immaginare, e tantomeno raggiungere. Ma mentre nel corso dell'ultimo secolo l'economia mondiale cresceva di almeno 20 volte, ne è venuto alla luce un difetto: un difetto così importante che porterà alla fine della civiltà così come la conosciamo se non riusciremo a correggerlo in tempo».

Qui Lester Brown solleva un problema ben noto a tutti coloro che da anni si occupano delle problematiche della sostenibilità. Il mercato, che determina i prezzi, purtroppo non ci sta dicendo la verità. Sta omettendo i costi indiretti, che in alcuni casi sono attualmente di gran lunga superiori ai costi diretti. Anche in questo volume come nei suoi recenti "Piani B" (tre dei quattro "Piani B" sono stati pubblicati sempre da Edizioni Ambiente) Brown fa l'esempio della benzina. Estrarre il petrolio, raffinarlo per trasformarlo in benzina e consegnarlo alle stazioni di servizio americane può costare all'incirca 3 dollari al gallone (un gallone equivale a 3,79 litri). I costi indiretti, che includono i cambiamenti climatici, il trattamento delle malattie respiratorie, le perdite degli oleodotti, la presenza militare statunitense in Medio Oriente per assicurare l'accesso al petrolio, portano a un totale di 12 dollari al gallone. Calcoli simili possono essere fatti per il carbone e per tante altre risorse utilizzate indiscriminatamente.

Ecco quindi il punto centrale: con i nostri sistemi di contabilità inganniamo noi stessi. Non tenere conto di costi così elevati è una ricetta per arrivare alla bancarotta. I trend ambientali sono i principali indicatori che possono dirci quale sarà il futuro dell'economia e in'ultima analisi della società stessa. L'abbassamento del livello delle falde acquifere di oggi ci avverte dell'aumento dei prezzi del cibo di domani. La riduzione delle calotte polari è il preludio al crollo del valore delle proprietà immobiliari lungo le coste.

Oltre a ciò, ricorda ancora Brown, gli economisti tradizionali prestano poca attenzione al limite della produzione dei sistemi naturali del pianeta. Il pensiero economico moderno e la politica hanno creato un sistema economico che è così poco in sintonia con gli ecosistemi dai quali dipende che si sta avvicinando al collasso. Come possiamo dare per scontato che la crescita di un sistema economico che sta distruggendo le foreste della terra, ne sta erodendo il suo suolo, esaurendo le risorse idriche, portando al collasso le risorse ittiche, aumentando la temperatura e fondendo le calotte glaciali possa semplicemente venire proiettata sul futuro a lungo termine? Qual è il processo intellettuale che sta alla base di queste estrapolazioni?

Lester Brown fa poi una considerazione molto interessante che ha più volte ricordato nei suoi interessanti volumi. A suo parere oggi nell'economia stiamo affrontando una situazione simile a quella dell'astronomia quando Copernico arrivò sulla scena, quando si credeva che il sole ruotasse intorno alla terra. Così come Copernico dovette formulare una nuova visione astronomica del mondo dopo molti decenni di osservazione del cielo e di calcoli matematici, anche noi dobbiamo formulare una nuova visione economica del mondo basata su molti decenni di osservazioni e analisi ambientali.

I resoconti archeologici indicano che il collasso di una civiltà non arriva in modo improvviso; gli archeologi che hanno analizzato le civiltà del passato parlano di uno scenario di declino e collasso, in cui il collasso economico e sociale fu quasi sempre preceduto da un periodo di declino ambientale. Abbiamo bisogno veramente di cambiare rotta e prima siamo in grado di farlo meglio è.

di Gianfranco Bologna

25 giugno 2011

Le porno mamme





Speravamo che almeno questo ci sarebbe stato risparmiato: lo sfruttamento pornografico della maternità; e invece no, bisogna bere l’amaro calice sino alla feccia.
Eravamo ormai abituati a tutto: a qualsiasi esibizionismo, a qualsiasi narcisismo, a qualsiasi sfrontatezza: pur di conquistare un angolino di visibilità, pur di fare soldi, le persone ormai non hanno più vergogna di niente, non c’è niente che non farebbero.
Le neo mamme, in particolare, ci avevano abituati - ammesso che a certe cose si possa fare davvero l’abitudine -, complici gli stilisti e i soliti giornalisti mondani, alla loro smania di farsi immortalare dallo scatto della macchina fotografica; dalla loro fregola di non rinunciare alle prime pagine dei rotocalchi mondani, nemmeno per quei pochi mesi in cui la gravidanza è ben visibile e le donne d’un tempo se ne stavano un poco in disparte, avvolgendosi in un alone di pudore e di mistero che tutti, istintivamente, sentivano come fosse giusto rispettare.
Anche lo sfruttamento dei propri bambini piccoli, per strappare l’attenzione del fotografo dei vip e conquistare una copertina sul settimanale di grande tiratura, era divenuto un fatto ormai quasi normale; e tanto valeva rassegnarvisi, sia pure con molte perplessità.
Ma adesso è caduta anche l’ultima frontiera: quella della pancia.
La pancia di una donna al sesto mese di gravidanza, al settimo, all’ottavo, dovrebbe avere qualcosa di sacro; qualcosa che va preservato dalla curiosità altrui, perché appartiene a una dimensione talmente intima, talmente delicata, talmente misteriosa, che solo un barbaro potrebbe considerare solo e unicamente dal punto di vista fisiologico o, peggio, estetico.
Eppure no; anche quest’ultimo passo è stato fatto.
Ed è stato fatto proprio da loro, dalle donne incinte, fiere e contente di poter esibire il proprio pancione, ovviamente nudo e scoperto, altrimenti che gusto ci sarebbe: per épater les bourgeois, a che cosa servirebbe un pancione debitamente vestito e coperto?
E allora via, su la maglietta, giù i calzoni; oppure, meglio ancora, via tutti i vestiti e al mare di corsa, in costume da bagno, in bikini, si capisce: tanto più se, come la bella trentatreenne Alena Seredova, oltre che modelle famose, si è pure stiliste di moda e si tratta di reclamizzare, in giro per il mondo, la propria linea di costumi da bagno, usando se stesse e il proprio pancione come arma vincente per sbaragliare la concorrenza.
Se, poi, si è delle cantanti ormai un po’ stagionate, come la cinquantaquattrenne Gianna Nannini, ma pur sempre avide di notorietà e di successo, si può sempre esibire il pancione sulla copertina di «Vanity Fair» o, meglio ancora, sulla copertina del proprio ultimo disco, dedicato, chi l’avrebbe detto, al dolce bebé che sta per venire al mondo: che cosa c’è di male a mostrare il pancione, se è un fatto così naturale? Strano, pare abbia dichiarato l’ineffabile regina del rock italico, sarebbe tenerlo nascosto, facendo finta che non ci fosse.
E allora, giacca di pelle e pancione al vento, alé, il gioco è fatto: la piccola Penelope vuol venire al mondo e, nel frattempo, che male c’è a farsi un po’ di réclame, sfruttando la “dolce attesa”? L’importante è difendere il sacro diritto alla libertà, parola magica che agisce come un infallibile passe-partout e che dischiude ogni porta, anche quella più ben difesa, nella cittadella della cultura contemporanea.
Infatti, intervistata dal settimanale «Tv Sorrisi e canzoni», l’artista senese ha reagito alle critiche relative alla sua maternità in età avanzata, affermando spavaldamente: «All’improvviso tutti si sono dimenticati della libertà e del diritto che ha ciascuno di noi di fare quello che vuole, quando e con chi vuole».
Giusto; anche se non si sa chi sia il padre; anche se la persona in questione si è sempre vantata della sua doppia identità sessuale; anche se si sono allegramente passati i cinquant’anni e c’è chi dice che sono almeno cinquantasei: abbiamo combattuto per la libertà, sì o no?
Come del resto ha fatto l’ultrasessantenne Elton John, il quale, omosessuale dichiarato com’è, e pure lui alquanto stagionato, non ha voluto negarsi le gioie della paternità, ordinando un figlio in provetta, insieme al suo compagno David Furnish: perché, come dice la nostra Gianna nazionale, «dove c’è amore, c’è famiglia, non importa come essa sia composta».
Buono a sapersi, ne prendiamo nota: c’è sempre qualcosa da imparare.
Intanto, pecunia non olet, perché non pensare un poco anche al portafoglio e unire l’utile al dilettevole, costruendoci sopra un bel disco intitolato, ovviamente, «Io e te»; si capisce, col pancione scoperto, perché sia ben chiaro chi sia il “te”?
Ora, la cosa che dà da pensare non è tanto che personaggi del mondo dello spettacolo sfruttino a più non posso la ghiotta occasione della maternità, che fa tanta tenerezza e rende tutti più buoni, per sparare sul mercato i loro prodotti, siano essi costumi da bagno o canzoni; ma il fatto che la tendenza è passata dai vip alle persone comuni, alle mamme qualunque, invadendo, per così dire, l’immaginario collettivo e trasformando in pornografia di massa ciò che, prima, era “soltanto” pornografia d’élite.
Questo non è più soltanto un fatto di rilevanza sociologica: è indice di una vera e propria mutazione antropologica e segna, forse, un punto di non ritorno.
Le ragioni di tale mutazione sono diverse, ma due spiccano su tutte le altre: il principio d’imitazione, tipico della società dell’apparire; e il democraticismo d’accatto, per cui tutti si ritengono uguali a tutti e in diritto di fare le stesse idiozie, in alto come in basso nella piramide sociale (finché si tratta di cose che non turbino l’ordine costituito).
Questa seconda ragione, poi, si sposa con il radicalismo e il libertarismo esasperato e con quella punta di esibizionismo che giace in fondo ad ognuno di noi e che, nella società di massa, trova le condizioni ideali per venir fuori e scandalizzare il prossimo, senza però scandalizzarlo troppo, perché in una società scandalistica, dove ciascuno si sforza di scandalizzare tutti, va a finire che non si scandalizza più nessuno.
Il che è tranquillizzante, per il piccolo borghese meschino che dorme, anch’esso, nelle profondità della nostra anima: perché si vuole, sì, scandalizzare gli altri, ma insomma senza compromettersi troppo; si vuole essere originali, ma senza scostarsi troppo dai binari precostituiti; si vuole essere eccezionali, ma «adelante Pedro, con juicio», non troppo eccezionali, diciamo degli eccezionali di massa, come lo sono un poco tutti gli altri, se appena ne hanno il desiderio.
Ed ecco, tra i numerosi altri che appartengono alla stessa radice socioculturale, il nuovo fenomeno antropologico delle porno mamme.
Si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato dalla volgarità di questa deriva post-moderna, che ha visto il naufragio irrimediabile di tutti i valori, di tutte le certezze e, oltre che del comune senso del pudore, anche del puro e semplice buon gusto; qualcosa di molto simile alla blasfemia, al sacrilegio.
Perché ci stavamo abituando a tutto, anche alle porno mogli: quelle simpatiche donne sposate che se ne vanno attorno, sotto lo sguardo compiaciuto dei mariti, a provocare i maschi a destra e a manca, esibendo un abbigliamento minuscolo e, più ancora, un modo di fare che non la cede in nulla a quello delle battone professioniste che infestano i nostri viali di periferia, dal tramonto sino alle prime luci dell’alba.
Ma la maternità… quella, è un’altra cosa.
Perché la maternità è un mistero sacro: e chi non lo sente istintivamente, come lo hanno sentito migliaia di generazioni umane, dai primordi ad oggi, vuol dire che è un barbaro, un alieno, un individuo non del tutto umano.
Ci sono cose sulle quali è lecito scherzare, nelle quali è lecito esagerare, rispetto alle quali è lecito fare dell’ironia; ed altre, poche altre, in verità, che non ammettono nessuna di queste cose, perché hanno in se stesse un elemento sacro e trascendente.
La maternità è una di queste ultime; e, prima che la pazzia femminista incominciasse a soffiare sul mondo, sia le donne che gli uomini ne erano perfettamente consapevoli, né le prime pensavano che tale sacralità fosse un’astuzia escogitata dai secondi, per tenerle imprigionate nel ruolo subalterno di figlie-mogli-madri, con la comoda scusante del mistero.
No: nelle società pre-moderne, ove non tutto è quantificabile, manipolabile, commercializzabile, la maternità era un evento sacro e misterioso, perché non era un evento puramente umano, pianificato (orribile verbo) in vista di una programmazione familiare, ma sovrumano, anzi, divino: era un dire sì alla vita, di cui non siamo noi gli artefici, ma i semplici esecutori; non i padroni assoluti, ma dei volonterosi operai.
Poi è venuto l’orgoglio dell’ego, la nevrosi della potenza e del dominio, l’arroganza dell’uomo che si fa Dio di se stesso, che vuol essere misura di tutte le cose e artefice sommo e insindacabile di qualsiasi manipolazione, di qualsiasi stravolgimento dell’ordine naturale.
Da quando gli uomini moderni hanno cominciato a dire “io”, separando tale concetto da Dio e dal mondo, si sono create le premesse per tutti gli abusi, per tutti gli eccessi, per tutte le degenerazioni del potere individuale e (letteralmente) egoistico: l’espressione «la vita è mia, e ne faccio quel che voglio io», ne è la logica e inevitabile conseguenza.
Una ulteriore conseguenza è che «nessuno mi può giudicare»: sto esercitando un mio diritto, il diritto alla libertà; e chi pretende di porvi dei limiti, dei paletti, dei confini, non può essere che un reazionario, un fascista, un razzista.
L’uomo moderno non pensa più, da Francesco Bacone in poi, che vi siano delle cose fattibili, ma non meritevoli di essere fatte: tutto ciò che si può fare, beninteso per ottenere un vantaggio materiale, va messo in pratica “ipso facto”, seduta stante, senza stare tanto a pensarci sopra; e bando agli scrupoli, ai ritegni, alle remore morali di qualsiasi genere.
Nel Medioevo, per esempio, la dissezione dei cadaveri era una pratica inammissibile e, dunque, severamente interdetta: e non perché le conoscenze anatomiche dell’epoca fossero così rudimentali da renderla troppo difficoltosa, ma per una ragione completamente diversa, e cioè perché tale pratica sarebbe stata considerata un sacrilegio.
Poi, a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, le frontiere tra lecito e illecito si sono sempre più allargate, fino al punto che oggi, in pratica, non esistono più: si possono clonare piante, animali ed esseri umani; si possono prenotare bambini in provetta, scegliendone i caratteri somatici; si possono creare esseri mostruosi in laboratorio, mescolando il patrimonio genetico di specie diverse: e lo si sta realmente facendo.
Le radici della follia, della bruttezza e della volgarità oggi imperanti, sono tutte qui: per cui, se ci spostiamo dal terreno delicatissimo della bio-ingegneria a quello, in confronto assai frivolo, del ventre femminile gravido esibito nella sua nudità e sbattuto sulle copertine dei giornali, ci rendiamo conto che entrambi i fenomeni hanno una stessa origine.
Del resto, non andavano predicando le militanti femministe, nei loro cortei di qualche decennio fa, che «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio io», alludendo esplicitamente alla piena e incondizionata libertà di abortire?
E non accompagnavano forse questo slogan con il gesto, intollerabilmente osceno e sfrontato, di alzare le braccia e di unire le dita delle mani, in modo da simulare la forma dei genitali esterni femminili?
Se il presente è figlio del passato, noi siamo figli e nipoti di quella generazione e non c’è nulla, oggi, di cui ci si dovrebbe meravigliare, nella esibizione del pancione scoperto da parte di tante donne in avanzato stato di gravidanza; nel frattempo, le case di abbigliamento si sono attrezzate e hanno trovato il modo di fare un bel mucchio di quattrini, come sempre, anche su quest’ultimo vezzo pseudo libertario delle aspiranti genitrici.
«O liberté, que de crimes on commet en ton nom!» («Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!»), esclamò Madame Roland mentre, nel 1793, si apprestava a salire i gradini della ghigliottina, nel cui canestro avrebbe lasciato la testa.
Ma si potrebbe anche aggiungere, meno drammaticamente, però con altrettanta verità: «Libertà, quante sciocchezze e quante volgarità si compiono nel tuo nome»; e lo si potrebbe dire, crediamo, con pieno diritto, specialmente in questi nostri giorni di tranquilla, ordinaria follia.
di Francesco Lamendola

24 giugno 2011

Cia e Mossad: prima la campagna mediatica poi la guerra

Per capire l’origine delle “rivolte popolari” che secondo i media dell’Occidente starebbero trascinando nel caos la presidenza di Bashar al Assad occorre risalire al 25 febbraio di quest’anno quando passato il Canale di Suez approdano nel porto siriano di Latakia la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg della Repubblica Islamica dell’Iran.
Una delle gazzette-internet, a cui non ci va di fare propaganda, legata all’intelligence di Usa e “Israele” ne anticiperà la destinazione finale il giorno 16 aprendo così : “… l’accordo passato sotto silenzio in Europa è di quelli che cambiano la geopolitica del Mediterraneo, perché nave dopo nave Teheran costruirà la sua prima base in Medio-Oriente. Dalla fine di febbraio Iran e Siria si impegneranno a lavorare alla costruzione di un porto di appoggio per la marina militare di Ahmadinejad. La base stando a quanto previsto avrà anche un deposito di armi che sarà gestito dalla Guardia Rivoluzionaria Pasdaran. Si partirà dall’allargamento delle strutture per poi passare all’abbassamento del fondo marino (dragaggio ndr) e all’installazione di tutta la strumentazione necessaria a trasformare la zona in area militare. In questo modo potranno presto attraccare anche i sommergibili iraniani. Teheran sarà in grado di gestire con questo accordo da nord e da est un possibile conflitto con Israele. L’Iran ora è a soli 287 km dal confine con Israele…”.
Il tono allarmato dell’ “informatore” che ha redatto l’articolo non fa altro che portare allo scoperto, l’urgente necessità di Cia e Mossad di accendere la miccia per il “fuoco alle polveri” di una campagna di stampa “internazionale” contro il presidente Bashar al Assad.
Obama, dal canto suo, minaccerà le prime sanzioni unilaterali contro la Siria già da gennaio e le applicherà a marzo, dopo aver dichiarato, dalla Casa Bianca, che Damasco rappresenta una minaccia di straordinaria gravità per gli interessi degli Stati Uniti.
Naturalmente la responsabilità dell’approdo delle navi militari iraniane a Latakia sarà scaricato anche sull’Egitto del dopo Mubarak e su Hamas che per celebrare l’avvenimento - si sosterrà in un numero successivo - il 24 febbraio sparerà una grandinata di razzi sul Negev.
Si farà in tempo a ricordare, sul web, che il porto siriano è a una distanza di soli 72 km da quello di Tartus dove è in costruzione una base di appoggio navale per Mosca e dare allarmato risalto anche all’acquisto da parte di Damasco di 76 missili antinave Yakhont con un raggio operativo di 300 km capaci di forare la più sofistica difesa navale Usa (Aegis ndr) e di creare il vuoto anche sulle rotte delle unità navali militari e commerciali di “Israele”.
Notizia corrispondente a verità ma che omette di rivelare i retroscena dell’acquisto siriano.
Una cessione autorizzata con molti mal di pancia da Medvedev.
L’Iran, dal canto suo, ha elaborato un missile balistico per impiego navale il “Khalije Fars” altrettanto veloce (mach 3) ed accurato nella fase finale di volo, con eguale portata in miglia marine ma con un potere di distruzione a bersaglio 3 volte superiore a quello fornito dalla Russia a Damasco dopo un lungo tira e molla che ha visto prevalere l’apparato industriale e militare che sostiene il premier Putin sulla “melina-niet” di Medvedev.
Una tecnologia che inevitabilmente finirà per arrivare nelle mani delle forze armate della Siria.
La testata bellica del “Khalije Fars” è di 650 kg contro i 220-230 kg delloYakhont.
Insomma nelle stanze del Cremlino si mastica amaro, da una parte contro il “kombinat” e quello che in Occidente viene sprezzatamene definito il “clan dei siloviki” e dall’altra per i crescenti successi militari dell’ Iran.
La Siria sta gettando le basi di un sonoro rafforzamento della sua deterrenza. Il Paese di Bashar al Assad acquisisce la capacità di prendere decisioni politiche più confacenti alla sua strategia militare nel Vicino Oriente.
La pluridecennale collaborazione militare tra i due Paesi che ha continuato a funzionare alla perfezione con la presidenza Putin manifesterà i primi inciampi con l’ex di Gazprom nel 2009 dopo il rifiuto del Cremlino di consegnare alla Siria l’Iskander B.
Un missile terra-terra estremamente avanzato capace di colpire con un cep di 5-10 metri qualunque obbiettivo militare in “Israele” oltre che di superare ogni contromisura elettronica per l’intercettazione in volo con un carico bellico di 1.000 kg .
Un’arma - secondo l’allora governo Olmert - sufficiente a modificare in profondità gli equilibri militari nel Vicino e Medio Oriente. Cosa non lontana dal vero se fosse stato fornito da Mosca a Damasco in quantità numeriche adeguate.
L’Iran, legato da un patto militare con la Siria, ha costruito alla periferia di Hama e Dayr az Zawr due fabbriche che sfornano ogni anno decine di missili balistici M 600, su piattaforme mobili, capaci di colpire con una portata di 280-300 km e con ottima precisione a bersaglio dalla Giudea al Negev, tecnologicamente modellati sul “Fatah 110” con una carica bellica di 0.5 tonnellate.
Gli esperti militari indipendenti indicano la messa in campo annuale di 70-80 M 600. Insomma, se attaccata la Siria potrebbe portare, per la prima volta dal ’67, la guerra ben dentro il territorio nemico, a casa dell’aggressore. Dal canto suo l’Iran non farà niente per nascondere l’irritazione nata dalla decisione del Cremlino di vedersi negato il sistema di difesa aerea S 300 pm1- pm 2 che avrebbe permesso a Teheran di dormire sonni tranquilli anche in caso di un massiccio e protratto attacco aereonavale Usa e di ridicolizzare le ricorrenti minacce israeliane.
Decisione presa da Medvedev e che costerà alla Russia oltre 500 milioni di dollari di penali, in sede giudiziale internazionale, per omesso rispetto di un accordo commerciale sottoscritto in aggiunta alla perdita per mancate forniture militari per altri 850 milioni di dollari all’industria Npo Almaz e al kombinat Rosoboronoexport.
Le frizioni con Teheran arriveranno a impedire il sorvolo dell’Ilyuschin di Medvedev dello spazio aereo dell’Iran.
Il rallentamento nei lavori di ultimazione della centrale atomica di Bushekr, i problemi di avviamento dell’impianto da parte di Rosatom saranno interpretati da Teheran come facenti parte di un piano della presidenza pro-tempore di Mosca intenzionalmente diretto a rallentare il programma nucleare dell’Iran per le continue pressioni di Usa, Israele e cosiddetta “comunità internazionale”.
Pressioni che a Mosca, sotto la presidenza Medvedev, trovano con frequenza una solida accoglienza. Le motivazioni? Molte.
Lo Start, l’ingresso nel Wto, la manifesta incapacità del soggetto a guidare la Russia, l’aggressività, anche corruttiva (Eltsin docet) dell’Occidente, il “liberalismo” assorbito durante la permanenza a Gazprom con Andrey Miller, un ebreo tedesco.
Insomma, Medvedev come un bidone di vodka nelle stanze del Cremlino, anche se più presentabile di Eltsin.
Il 25 febbraio 2011 la Alvand e la Kharg arrivano a Latakia, Al Jazeera e Al Arabya cominceranno a lanciare i primi flash di disordini a Dara’a, in Siria, a un tiro di sputo dal confine con la Giordania, il 17 marzo.
Il mukhabarat di Abdallah, meglio conosciuto come “re caccola” inizierà a far muovere sul terreno di confine con la Siria gruppi armati di tagliagole e mercenari finanziati dai Saud.
Il 18 marzo arriveranno le prime notizie di una “rivolta popolare” nel sud della Siria,
A fine mese Abdallah durante una manifestazione pubblica riceverà la prima, inaspettata scarica di scarpe e pietre da giordani e palestinesi.
Nel Kurdistan Cia e Mossad recluteranno “volontari” da spostare sul confine est della Siria appoggiandosi alla logistica delle basi Usa in Iraq.
Damasco risponderà con la chiusura degli attraversamenti e il controllo delle linee di confine inviando blindati e unità scelte della Guardia Repubblicana a sud e a nord est di Damasco.
I tagliagole e i mercenari reclutati dai petrodollari wahabiti troveranno l’appoggio di qualche gruppo di opposizione locale. Qualche centinaio di miliziani. Mentre le principali città della Siria, Damasco in testa, saranno percorse da gigantesche manifestazioni di appoggio popolare a Bashar al Assad.
L’Alvan e il Kharg a Latakia segnano la fine definitiva delle speranze occidentali di poter staccare Damasco dall’alleanza politica e militare con Teheran, di isolare Hizbollah in Libano e ridurre la contestata influenza dell’Iran al solo Golfo Persico.
La campagna di stampa di Al Jazeera e Al Arabya e degli “internauti” contro la Siria scatterà con un sincronismo perfetto, che troverà sponda in tutti i media dell’Occidente e nei governi europei di Portogallo, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Frattini in gran spolvero. Una campagna di stampa che sta andando avanti da mesi e segnala, a ben vedere, al di là delle intenti intimidatori e terroristici che persegue, rozzezze descrittive con accenti parossistici, un supporto visivo inesistente oltre ad una colossale confusione con inevitabili scivolamenti nell’improponibile e nel ridicolo.
di Giancarlo Chetoni

23 giugno 2011

E qui casca l’asino. Politici: inguaribili bugiardi


È stata una casualità, ma non sempre il caso è casuale. In questi giorni di referendum e di commenti post referendum ho letto, in parziale sovrapposizione, due libri che, con stili e intenti lontanissimi tra loro, trattano in sostanza dello stesso argomento. I politici e alcune inclinazioni del loro modo di essere che ci sono di fronte agli occhi tutti i giorni ma che si enfatizzano quando qualche ludo cartaceo è in atto.

I due libri in questione sono Inguaribili bugiardi di Gerardo Antelmo e Andrea Pesciarelli, con vignette di Alfio Krancic, dell’editore Gremese e E qui casca l’asino di Paola Cantù edito da Bollati Boringhieri.

Inguaribili bugiardi è un libro che, come esplicita il sottotitolo, Viaggio semiserio tra le contraddizioni dei nostri politici (e non solo), vuole stigmatizzare, in modo ironico, uno dei tratti principali dei nostri politici: l’incoerenza.

Incoerenza che si evidenzia in dichiarazioni che cambiano nel tempo in maniera costante e spesso in modo grottesco, attraverso piroette verbali che trasformano il bianco in nero e viceversa.

L’antica polemica sul garantismo a intermittenza che trasforma in forcaioli anche i più strenui sostenitori delle garanzie per l’imputato in funzione dello schieramento di appartenenza dell’indagato.

Le dichiarazioni favorevoli alle privatizzazioni che diventano all’improvviso riflusso statalista.

Le alleanze indossate come abiti stagionali da dismettere ai primi mutamenti climatici.

Smentite ai giornalisti poche ore dopo dichiarazioni roboanti.

La vita di tutti i giorni ci mette costantemente sotto gli occhi atteggiamenti di questo tipo, tanto da aver anestetizzato le nostre coscienze che il tentativo ironico del libro vorrebbe, in qualche modo, tra un sorriso e l’altro, risvegliare.

Ed è qui però che le intenzioni del libro s’inceppano. La realtà ha, di molto, superato la fantasia degli autori, entrambi giornalisti parlamentari.

I brevi profili bipartisan che sono abbozzati risultano così un poco piatti, quasi un’enumerazione delle marachelle dei vari leader, passati al settaccio e vivisezionati nelle loro dichiarazioni incoerenti.

Forse per scrivere brevi, sintetici, corrosivi, sardonici profili bisogna essere dotati di un umorismo che, francamente, mi sembra manchi ai due autori che rappresentano un repertorio documentato ma privo di vis comica, vuoi anche perché, come dicevo, i nostri politici, da per loro, fanno ridere.

E scrivere un pezzo divertente su un comico è impresa che reputo ardua.

A tratti sembra quasi che i due, abbiano preso ad esempio, nel tentativo di emularli, non riuscendovi, i pezzi giornalistici, ormai diventati un punto di riferimento, di Rizzo e Stella che, nelle pagine del Corriere della Sera, costruiscono i loro articoli con una carica barricadera (Rizzo) e con un sornione stile canzonatorio (Stella) del tutto sconosciuti a Antelmo e Pesciarelli.

Tutto il peso, quindi, della satira politica e di costume, è scaricato sulle vignette di Alfio Krancic che sono, l’unica cosa veramente pregevole. Con il consueto tratto nitido della sua matita e con l’ironia bonaria che lo contraddistingue, Krancic racconta visivamente quello che le parole non sono state capaci di esprimere.

Lontano dalle volgarità e dalla becera satira d’assalto sa dosare le caricature e le brevi frasi delle vignette strappandoci ogni volta, non grasse risate, che solitamente albergano nei recessi più cupi ed esasperati della nostra anima, ma lievi sorrisi che sono la testimonianza che la comicità delle sue vignette ha solleticato la parte del nostro cuore più sottile e meno cattiva. Sa evidentemente ridere di se stesso e così sbeffeggia, senza offesa, gli altri. Un grande per troppo tempo scarsamente valorizzato.

E qui casca l’asino è di tutt’altra natura. È un testo serio anche se scritto con leggerezza e candore, pregio sommo in un mondo accademico autoreferenziale che non sa nemmeno dove sia di casa uno stile piano, chiaro, leggibile, capace di suscitare interesse e curiosità nel lettore non specialista e agevolarlo nel suo compito.

Paola Cantù, ricercatrice nel campo della logica e della filosofia della matematica presso l’Universitè de Provence di Marsiglia, si pone un intento scientifico, anch’esso dichiarato dal sottotitolo Errori di ragionamento nel dibattito pubblico.

Selezionando discorsi di politici, articoli di giornalisti, brani di libri di autori noti, la ricercatrice fa affiorare tutte le cosiddette fallacie in cui incappano non solo i politici ma anche i giornalisti, gli scrittori e gli uomini pubblici.

Le fallacie, ci spiega, sono quelle parti del ragionamento che sono false, o meglio servono nel dibattito pubblico per prevalere sull’avversario con espedienti, piuttosto che con la forza del ragionamento.

Non sempre, anche se io penso che non sia così, le fallacie sono utilizzate a bella posta o in modo truffaldino, talvolta vengono introdotte inconsapevolmente o in modo del tutto ingenuo. Resta il fatto che di fallacie si tratta.

Esistono però delle regole precise dell’argomentare che partono da un assunto “Le regole dell’argomentazione sono come scale: servono per andare da qualche parte. Alcune sono fragili e poco stabili: provate a salirci, e rischiate di trovarvi per terra. Altre sono ben fatte, solide e sicure, però provate a collocarle su un terreno incerto e fangoso, e di nuovo cercando di salire vi ritrovate per terra”.

Quello che appare certo è che la combinazione buone scale su solide basi non sembra molto frequente.

È da qui che parte la rassegna, davvero cospicua, di esempi che costituiscono il percorso logico che ci mette di fronte ad un vero e proprio ginepraio di fallacie.

Alcune sono evidenti, e anche se giudicate erronee dalla teoria sono una prassi comune, come ad esempio quella che viene chiamata fallacia d’autorità che consiste nel difendere una certa tesi sulla base del fatto che l’ha detta qualcuno di autorevole e potente.

Altre, come tutte le incongruenze logiche, più difficili da scovare e rilevabili solo dopo attenta lettura, cosa non semplice nell’istantaneo che costituisce solitamente l’orizzonte temporale del dibattito politico.

Tra gli esempi, costruiti per capitoli, più evocativi cito: Fallace Fallaci… La rabbia e l’orgoglio di Oriana in cui è evidenziata la ridda d’incongruenze che rendono il testo assolutamente improponibile da un punto di vista logico, La vera storia italiana. Il rotocalco elettorale di Silvio Berlusconi che fa le pulci al primo programma elettorale di Forza Italia e che ne rileva, da un lato la capacità comunicativa, dall’altro l’inconsistenza argomentativa e Morire di satira. Le invettive di Beppe Grillo e i proiettili del TG2, tanto per ricordarci che di fallacie può morire anche la satira che spesso si presenta come altro dalla politica che prende in giro.

Lo scopo della Cantù non è tanto quello, facile, di mostrare i politici e i potenti in mutande, prendendone le distanze, ma quanto quello di porre l’attenzione, come dovremmo fare tutti noi, su ciò che viene detto e come, per essere più sensibili e partecipativi. Per pretendere da parte dei leader un argomentare più serio, più calibrato, più rispettoso.

Perché se una cosa viene detta bene e ha basi solide di ragionamento, con molta probabilità, verrà anche fatta bene.

Quest’analisi poi non vuole essere autoassolutoria, vuole invece stimolare ognuno di noi per migliorarci, visto che tutti sono chiamati ad argomentare o a sostenere qualche tesi nel corso della loro vita.

Insomma una ricerca approfondita, seria, scritta bene, forse un po’ ingenua, visto che probabilmente non può bastare il pretendere dai nostri politici correttezza logica nelle loro argomentazioni. Ma senza dubbio un primo passo verso un miglioramento generale che non può che essere auspicato.

Resta alla fine di questa lettura incrociata un senso d’inversione di significato che i due libri inducono, se messi a confronto.

Inguaribili bugiardi, che dovrebbe essere un libro semiserio, se si eccettuano le vignette di Krancic, appare noioso e ripetitivo, forse supponente nel suo moralismo strisciante.

E qui casca l’asino, che dovrebbe essere ed è un testo serio, con solide basi scientifiche e che potrebbe scoraggiare il lettore in cerca di lievità, ha una carica gioiosa, semiseria, quasi comica in certi accenti e sottolineature, e ci spinge ad un compassionevole sorriso ironico.

Certo qualcuno potrebbe obiettare che se tutto l’argomentare si riduce a regola logica, in cui è considerato un errore anche la fallacia d’accento che mette in rilievo alcune parole in una frase con un’accentuazione positiva o negativa, il dibattito caldo, teso, accalorato e vuoto, così come siamo abituati ad interpretarlo, diventerebbe un discutere privo di toni, senza accenti, senza nemmeno tutti quegli espedienti truffaldini per prevalere che ne costituiscono il sale, seppur malato e che lo rendono divertente.

E qui forse sta l’ingenuità della Cantù, credere che si possa educare a un ragionar scientifico, asettico, carico di presupposti veri da cui si deducono tesi coerenti e solide un tipo come Di Pietro, ad esempio, che ha fatto dell’incolta e fallace oratoria il suo cavallo di battaglia.

E il testo mi strappa un ultimo tardivo sorriso. Ve l’immaginate Di Pietro che, alle prese con un contraddittore che utilizza argomenti da trivio, intrinsecamente falsi, gli ribatte: “La prego, esimio collega, dall’astenersi da argomentazioni basate su evidenti incongruenze logiche. La sfido a usare argomenti non basati su evidenti fallacie, quali: anfibolia, associazioni illusorie, modus tollendo tollens capovolto, diversioni spiritose”.

Roba da sbellicarsi dalle risa.

di Mario Grossi -

22 giugno 2011

Attenti. La Grecia è vicina

Giornata disastrosa per le borse del Vecchio e del Nuovo Continente. Il minacciato declassamento da parte dell’agenzia di rating Moody’s di tre importanti istituti di credito transalpini, Bnp Paribas, Credit Agricole e Societé Generale, molto esposti sul “fronte ellenico”, ha provocato l’affondamento di tutti i titoli scambiati nelle principali piazze d’occidente.

Il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha dichiarato al proposito che la maggiore minaccia alla stabilità della zona euro è dovuta proprio alla crisi debitoria del paese balcanico. «La Grecia – ha precisato Constancio – potrebbe provocare un effetto contagio, e questo è il motivo per il quale siamo contrari a ogni sorta di default che porti al taglio del valore nominale e dei tassi d’interesse sui titoli di stato».

Anche l’euro infatti ha pesantemente risentito della montante “sindrome greca”, mentre i prezzi di ore e argento hanno subito un’impennata. La peggiore performance borsistica l’ha fatta registrare Milano, con -2,16%, ma l’economia messa peggio, naturalmente, resta quella d’Oltreionio. Atene infatti è letteralmente ridotta alla canna del gas, con i bond a due anni che, dopo l’ingenerosa raffica di downgrade effettuata da Moody’s e da Standard & Poor’s, hanno sfondato il muro del 28%. I titoli decennali invece sono schizzati a 1700 punti rispetto a quelli tedeschi.

Insomma Atene, è messa più o meno come l’Argentina d’inizio millennio e tutto fa prevedere che il paese egeo seguirà a breve le sorti della compagna di sventura sudamericana. Ad Atene infatti, proprio mentre veniva dibattuto il piano di contenimento del debito, s’è verificato un tentato assalto al palazzo del Parlamento in Piazza Syntagma.

I manifestanti, infuriati per l’ennesima manovra lacrime e sangue imposta da Papandreou, hanno caricato il muro di contenimento eretto dalla polizia a difesa dell’istituzione, provocando la dura reazione delle forze dell’ordine. Il bilancio della giornata di scontri è stato di dodici feriti e quaranta arresti, e per un pelo non c’è scappato il morto. Non era la prima volta che le vie della capitale ellenica diventavano teatro d’incidenti e barricate, ma questa volta la cosa si è fatta molto seria, tanto che il primo ministro, George Papandreou, ha annunciato un rimpasto con successivo voto di fiducia. In altre parole, il leader socialista, incalzato dalla piazza, ha dato il via alla formazione di un governo di “larghe intese”. Un esecutivo di unità nazionale aperto anche al contributo delle forze d’opposizione, insomma. Il tutto finalizzato ad affrontare la gravissima crisi economico sociale in cui versa il paese.

La condizione base per la formazione del nuovo gabinetto è consistita nell’adozione di programmi e obbiettivi ben delineati. Tradotto dal politichese voleva dire appoggio incondizionato al piano di austerità imposto dall’Ue e dall’Fmi. Ma i mercati rimangono scettici, e la situazione per Zorba si fa sempre più delicata, come del resto già evidenziato dalla stessa Bce, che ha sottolineato come le difficoltà per il programma di ristrutturazione del debito olimpico “sono molto cresciute” rispetto a sei mesi fa.

Difficoltà esacerbate dal forte attrito sorto tra la posizione della Merkel, che preme per un consolidamento, quella della Bce, decisamente contraria a tale ipotesi, e quella di Moody’s e Standard & Poor’s che non si sa bene cosa vogliono di preciso ma che intendono comunque guadagnarci. Recentemente il ministro delle finanze tedesco, Schauble, ha dichiarato che l’Eurogruppo prenderà una decisione definitiva nel vertice programmato per il prossimo 20 giugno: «Bisogna aver pazienza fino ad allora».

Insomma, mentre i mercati continentali vacillano, la Grecia affonda nella palta e i timori sul debito sovrano dell’area Euro aumentano di giorno in giorno, Germania e Bce si accapigliano come due vecchie comari. Il risultato è stata l’improvvisa impennata delle scommesse degli speculatori internazionali sul crac ellenico. Il primo default di Eurolandia, insomma, si profila minaccioso all’orizzonte. La cosa che più inquieta è che non sarà neppure l’ultimo.

di Angelo Spaziano

21 giugno 2011

Bilderberg report 2011. Resto del mondo

Irlanda

La discussione sull’Irlanda era motivata da sobrie statistiche che nessuno dei delegati voleva ascoltare. Così come la Grecia, l’Irlanda è un incubo economico, pronto a diventare un altro protettorato economico europeo. Anche se le statistiche ufficiali della disoccupazione arrivano al 15%, i numeri che circolano al Bilderberg sono più vicino al 21%. Senza temere il rischio di essere offuscato dalle cattive notizie che circolano in questi giorni, gli interessi dovuti sono la metà di quanto incassato dal paese con il prelievo fiscale e il debito sta crescendo. Va anche considerato che il debito totale è pari al 100% del PIL.

Il debito delle banche irlandesi non rimborsato, circa 125 miliardi di euro, così come il debito fiscale dello stato irlandese – grazie alla partnership instaurata tra UE e FMI – ha affossato l’economia irlandese e i suoi contribuenti con un peso impossibile da sostenere.

Quello che è inevitabile, e viene ammesso anche dai delegati al Bilderberg, è che l’Irlanda, come la Grecia, avrà bisogno di un secondo bailout dall’UE-FMI. Altri sembrano avere una visione più drastica. “L’Unione Europea è in crisi di sopravvivenza”, ha detto un partecipante europeo al Bilderberg. Quello che sembra preoccupare il Bilderberg è la mancanza di solidità e volontà politica nell’Unione Europea. Come affermato da un’analista finanziario del Bilderberg, “i mercati sono tra l’incudine e il martello. I mercati possono far fronte a cattive notizie e a quelle buone, ma quella che i mercati finanziari non sono in grado di sopportare è l’indecisione. E questo è il punto in cui siamo. Nessuno ha la minima idea su come uscirne.”

Ma, come un altro del Bilderberg ha severamente rammentato ai delegati, “non abbiamo a che fare con una, ma con tre crisi: una crisi del debito, una crisi politico-economica e una crisi politica”. Come ben sa il Bilderberg, è impossibile fronteggiarne tre allo stesso tempo.

Il Bilderberg ha ammesso che le banche irlandesi non hanno possibilità di movimento, avendo tremende difficoltà nel reperire fondi quando, allo stesso tempo, stanno perdendo sangue, anche perché le persone hanno perso fiducia nel sistema. Con il ricordo ancora fresco dell’esperienza della Northern Rock, gli irlandesi sono con i piedi piantati. Per il momento, la stampa mainstream ha tenuto quest’informazione ben nascosta ma, come il Bilderberg ha ammesso, “è solo una questione di tempo prima che la cosa ci precipiti addosso.”

Un irlandese del Bilderberg ha ammesso che le banche irlandesi potrebbero finire i soldi prima ancora del governo irlandese.

Ma quello che preoccupa il Bilderberg è la reazione dei cittadini irlandesi. Come ha sottolineato uno del Bilderberg, “l’Irlanda vorrà prendere a prestito soldi per rimborsare i possessori delle obbligazioni e le banche europee che hanno scommesso sul boom irlandese?”

Per risolvere la crisi in corso, il governo europeo sta proponendo una massiccia presa di potere che fa parte di un progetto a lungo termine per salvare l’Unione. Se il piano sarà approvato, il governo dell’Unione stabilirà le regole per il futuro assumendosi un ruolo poliziesco, e una qualsiasi nazione che infrangerà le regole, o sarà in disaccordo con le misure draconiane implementate dall’UE, si vedrà ritirati i propri diritti di voto. Come ha apertamente ammesso un partecipante europeo al Bilderberg, “quello verso cui ci stiamo incamminando è la forma di un vero governo economico.”

Grecia

La Grecia è morta. Il messaggio venuto fuori dalla riunione del Bilderberg è indubitabile. I guai della Grecia non hanno solo mostrato i difetti strutturali dell’Unione Europea Monetaria, ma hanno anche evidenziato i problemi strutturali dell’economia globale. I funzionari governativi di tutto il mondo hanno cercato di risolvere il problema del debito aggiungendo ancora debito. Sfortunatamente, innalzare il tetto dei debito non può risolvere il problema. Questo è uno schema Ponzi, molto simile ai segreti dei casino di Las Vegas. Per tenere lontana la struttura piramidale dal collasso economico, coloro che vogliono che la speculazione prosegua richiedono uno stillicidio di una quantità di soldi sempre maggiore.

La risposta alla crisi ha solo evidenziato la dinamica che ha creato l’avvio della crisi: il credito facile significa debito. Storicamente, le crisi finanziarie portano a crisi del debito. E la crisi del debito pubblico in genere porta a crisi delle monete e a un futuro fatto di difficoltà economiche.

La crisi del debito pubblico non è ancora scoppiata. Lo scorso anno l’Europa, cercando disperatamente di risolvere la crisi dei paesi deboli dell’Eurozona, ha svalutato l’Euro e inflazionato il debito per cercare di fermare la spirale in discesa. Il problema in questione ha tre aspetti. Prima di tutto, gli stati membri non possono svalutare la propria moneta per rendere più competitive le proprie esportazioni. In secondo luogo, non possono sostenere una politica monetaria espansiva. Per finire, non possono istituire un’appropriata politica fiscale a causa delle restrizioni dell’Unione Europea sulla crescita e sul patto di stabilità. Di conseguenza, mentre gli stati membri europei non possono controllare le loro politiche monetarie, la svalutazione del debito diventa l’unica opzione a disposizione. L’Unione Europea è letteralmente chiusa in un angolo.

Come anche il Bilderberg ammette a porte chiuse, la Grecia non potrà mai restituire quanto dovuto ai mercati. Mai. E non è la sola. L’ex Ministro delle Finanze olandese, Willem Vermeend, ha scritto su De Telegraaf che “la Grecia dovrebbe lasciare l’euro”, dato che non sarà mai in grado di rimborsare i suoi debiti”. E questo l’élite del Bilderberg lo sa e lo comprende a pieno. I dati reali della disoccupazione in Grecia sono attorno al 19%. Secondo il delegato del FMI al Bilderberg, i dati previsti per la disoccupazione greca nel 2012 arriveranno al 25%. Il Bilderberg può solo sperare che queste informazioni non arrivino mai nelle prime pagine delle riviste più diffuse. Alla riunione del 2011 il Bilderberg ha cercato un modo per ristrutturare il debito della Grecia, non a beneficio dei greci, ma dell’élite finanziaria che potrebbe perdere un sacco di soldi nel caso di un fallimento. In seconda analisi, un default destabilizzerebbe i mercati e porterebbe poi a un abbassamento del rating per altri paesi deboli dell’Eurozona, come la Spagna, l’Italia, l’Irlanda e il Portogallo. I funzionari della BCE hanno ripetutamente fatto riferimento al rischio di turbolenza dei mercati per spiegare la loro opposizione alla ristrutturazione del debito greco.

Un’opzione presa in considerazione per salvare la faccia è quella di uno scambio sul debito. I possessori delle obbligazioni greche cambierebbero le proprie con titoli a lunga scadenza, dando alla Grecia ancora qualche anno in più per rimborsare i 340 miliardi di euro di debito. Comunque, per fare in modo che quest’opzione funzioni, gli investitori privati devono convincersi di accollarsi il compito di salvare la Grecia. Se l’opzione degli investitori privati non funzionasse, la Francia è stata incaricata di fornire supporto per questo scambio sul debito, secondo le fonti che erano presenti alla conferenza del Bilderberg.

Allo stesso tempo, l’Unione Europea e il FMI si stanno preparando per annunciare un secondo salvataggio per la Grecia, riconoscendo implicitamente che il primo tentativo da 110 miliardi di euro lanciato nel maggio del 2010 è stato un fallimento totale, anche per il fatto che Atene ha mancato alla grande i suoi obbiettivi di riforma fiscale.

Ma c’è un altro problema che concerne la volontà dello scambio sul debito. Come riuscire a convincere di nuovo gli investitori che sono stati raggirati una prima volta? Alla fine dei giochi, se il Bilderberg la spunterà, i contribuenti dovranno accollarsi la gran parte del bailout concesso per salvare le speculazioni e i debiti del governo. Un secondo salvataggio includerà una supervisione esterna draconiana dell’economia della Grecia, che riguarderà sia la spesa pubblica che quella privata. Ciò preoccupa il Bilderberg, specialmente alla luce delle forti proteste che si sono scatenate in tutto il paese.

Lo scenario di un’uscita della Grecia dall’euro è ora ufficialmente sul tavolo, così come i modi per metterla in pratica. Così come avvenuto in Islanda, i tagli al bilancio greco saranno soggetti al voto di un referendum nazionale, con i sondaggi che riportano un 85 per cento di greci che rifiutano il piano di salvataggio. Il movimento di lavoratori greci è sempre stato solido e la crisi del debito lo ha radicalizzato ancor di più. E quindi la questione per l’élite del Bilderberg è come liberarsi della Grecia, simulando di aiutarla a uscire dalla depressione.

Con la minaccia di ritirare il sostegno per le banche dei paesi, come la Grecia, che vogliono ristrutturare il debito, la BCE sta in pratica incitando a correre agli sportelli per ritirare i propri depositi e sta forzando il paese membro a uscire dall’Unione. In Grecia più dell’ 85% dei cittadini sono contrari alle riforme proposte.

Pakistan

La Cina è la nuova migliore amica del Pakistan. Si tratta di un grosso cambiamento geopolitico. Viene sulla scia dell’approvazione dell’amministrazione Obama di una tattica aggressiva contro il Pakistan, compreso anche l’uso di armi nucleari da parte della NATO per prevenire il loro potenziale uso da parte dei terroristi o di uno stato canaglia. Secondo il London Sunday Express, “le truppe degli Stati Uniti saranno schierate in Pakistan se le installazioni militari della nazione verranno minacciate per la rivendicazione dell’uccisione di Osama Bin Laden. […] Barack Obama avrebbe ordinato alle truppe di paracadutarsi per proteggere i siti delle testate nucleari. Queste includono il quartier generale delle forze aeree di Sargodha, la base per gli aerei da combattimento F-16 riforniti di armi nucleari e almeno 80 missili balistici.” E ora parliamo della Cina. L’avvertimento alla Cina è stato reiterato alla conferenza del Bilderberg da un delegato cinese che ha presenziato per la prima volta, secondo cui l’attacco programmato dal governo degli Stati Uniti sul Pakistan verrà interpretato come un atto di aggressione contro Pechino. I rischi sono adesso così alti come forse non lo sono mai stati per gli Stati Uniti post-Guerra Fredda mentre il Bilderberg cerca di sbrogliarsi dal pantano del Pakistan.

Come affermato da un delegato europeo, “gli Stati Uniti sono la nazione più potente al mondo, ma non sono più potenti del mondo intero”. Tutti sono d’accordo sul grave pericolo posto in essere dal rischio di una guerra generalizzata portato dal confronto tra USA e Pakistan.

Da un punto di vista geopolitico, il governo degli Stati Uniti è preoccupato del ruolo sempre più protagonista che ha la Cina nella regione. La Cina ha costruito un porto per il Pakistan a Gwadar, che è nelle vicinanze dell’ingresso nello Stretto di Hormuz. I delegati degli USA hanno espresso preoccupazioni sul fatto che il porto possa diventare una base navale cinese nel Mar Arabico. Questo riguarda da vicino l’India, la nuova migliore amica degli Stati Uniti nella regione. Siamo di fronte alla formazione della tempesta perfetta. Gli Stati Uniti dotati del nucleare che supportano un’India anch’essa fornita di testate e forte di 1,2 miliardi di persone contro il nemico acerrimo dell’India, il Pakistan nucleare e la sua nuova migliore amica, la Cina con le sue armi nucleari e con 1,4 miliardi di persone.

I tentativi del Bilderberg per creare le condizioni per un confronto tra Cina e India hanno dato alla Russia un’importanza chiave. Mentre sia Russia che Cina stanno lavorando alacremente per portare la pace in Libia, lo scopo di queste iniziative, come riconosciuto anche dallo stesso Bilderberg, è quello di ridurre l’influenza delle potenze occidentali e di assicurare alla Cina la forniture del petrolio libico.

Bisogna ancora vedere come possa essere raggiunto un accordo su questo argomento tra i delegati del Bilderberg, ma le intenzioni degli Stati Uniti si possono desumere con facilità. Per contrastare efficacemente il duopolio cino-pakistano, Washington cercherà di tirarsi fuori dal confronto usando l’India per fare il lavoro al proprio posto. Quando India e Cina avranno capito che sono stati manovrati e usati dagli Stati Uniti per distruggersi a vicenda, sarà troppo tardi per tornare indietro senza perdere la faccia.

Ancora una volta, la chiave per comprendere il confronto tra India e Cina è nella Russia e nel suo ruolo nel futuro Governo Globale delle Multinazionali. Fino a che la Russia non verrà soggiogata, il Bilderberg e i suoi sostenitori non possono sperare realisticamente di esercitare un controllo totale. Eliminando le due superpotenze asiatiche, la Russia rimarrà da sola, circondata da basi missilistiche USA e isolata dall’Europa e dalla NATO, a cui adesso aderiscono anche le ex repubbliche sovietiche, per larga parte antagoniste alla Russia. Inoltre, con l’appoggio del Bilderberg, una degradazione culturale ha portato una larga parte dei giovani russi ad ammirare la presunta “libertà” propugnata dagli Stati Uniti, che ora viene considerata un’ancora di salvezza contro gli eccessi “autoritari” della nazione russa, considerata, grazie all’influenza della stampa dei media occidentali, come una mera continuazione del vecchio sistema sovietico.

Una volta eliminata la Russia, gli Stati Uniti concentreranno le sue forze armate in Sud America. Chavez verrà scalzato dal potere, per poi essere seguito dai suoi alleati, Ecuador e Bolivia.

Comunque, il Pakistan è solo una parte della strategia tentacolare posta in essere in Asia dal governo degli Stati Uniti e dal Bilderberg. Nel 2002 uno degli argomenti chiave discussi alla conferenza del Bilderberg, che si è tenuta a Chantilly, era centrato sul progetto decennale del Bilderberg per eliminare il terrorismo, mettendo in essere iniziative sia diplomatiche che militari. È diventato in un secondo momento noto con il nome di “Operazione Aquila Nobile”.

Infatti, il Bilderberg ha ben chiaro che quello che stiamo affrontando è un processo in evoluzione che porta a un escalation senza fine di conflitti in tutto il pianeta. L’Asia è una delle aree di queste operazioni. Il Medio Oriente e il Magreb fanno parte di un altra.

Economia

Se vivessimo in un mondo reale, i titoli dei giornali che meglio descrivono la situazione finanziaria odierna dovrebbero recitare: “La fine è vicina. Siamo nel mezzo di un collasso finanziario dell’economia.” Il problema dei manager finanziari di alto livello del Bilderberg è quello di posticipare i default più a lungo possibile per poi effettuare i salvataggi, lasciando ai governi (gli elettori) la patata bollente e subentrando nelle obbligazioni dei debitori insolventi. Con la stragrande maggioranza della popolazione che si oppone a tutto questo, il trucco è quello di aggirare le politiche democratiche.

E come è nelle intenzioni del Bilderberg, le politiche economiche devono essere trasferite dalle istituzioni democraticamente elette ai pianificatori finanziari, rendendo così l’economia interamente dipendente da essi, con il debito pubblico che crea un enorme mercato “libero dal rischio” per i prestiti gravati dagli interessi. Tutto questo spiega quello che George Ball, l’allora Sottosegretario per gli Affari Economici con J.F. Kennedy e Johnson, disse nel 1968 nel corso di una riunione del Bilderberg che si tenne in Canada: “Dove possiamo trovare una base legittima su cui si basi il potere dei manager delle multinazionali per poter prendere decisioni che modificano profondamente la vita economica delle nazioni, quando nei governi hanno solo una responsabilità limitata?”

Questo è il modo in cui l’oligarchia finanziaria rimpiazza le democrazie. Il ruolo della Banca Centrale Europea, del FMI, della Banca Mondiale, della Banca dei Regolamenti Internazionali, della Federal Reserve e di altre agenzie finanziarie che tralascio è stato quello di assicurarsi che i banchieri venissero ben pagati.

Il problema con la situazione attuale è che il mondo è guidato dal sistema monetario, non dai sistemi nazionali del credito. Se hai le idee chiare, non vorrai di certo un sistema monetario che governi il mondo. Vorrai che esistano Stati-nazione sovrani che abbiano i loro sistemi creditizi, basati sulla propria moneta. L’aspetto determinante è che la possibilità della creazione del credito produttivo e non inflattivo, cosa chiaramente stabilita dalla Costituzione degli Stati Uniti, è stata esclusa dal Trattato di Maastricht in modo da determinare le politiche finanziarie ed economiche.

Adesso, in Europa, questo non può essere fatto perché i governi sono soggetti al controllo degli interessi bancari privati, conosciuto come sistema bancario indipendente, che blocca costituzionalmente la possibilità di creare credito da parte dei governi. Queste istituzioni hanno il potere di influenzare e di dettare le condizioni ai governi. Pensate cosa rappresenta quell’istituzione chiamata Banca Centrale Europea. Cerca di operare come una banca centrale europea indipendente, senza che ci sia un governo corrispondente. Non ci sono governi. Non ci sono nazioni. È solo un gruppo di nazioni guidate da una banca privata.

La supposta “indipendenza” della Banca Centrale è il meccanismo di controllo che è decisivo per gli interessi finanziari privati, che storicamente si sono insediati in Europa come strumento autoritario contro le politiche economiche delle nazioni sovrane, che sarebbero orientate verso lo stato sociale. Il sistema bancario europeo è il residuo di una società feudale, nella quale gli interessi privati – come evidenziato dagli antichi cartelli veneziani o dalla Lega Lombarda, risalgono ai tempi oscuri del XIV secolo.

Conclusione

Quella che abbiamo oggi non è una crisi di liquidità, ma è una crisi d’insolvenza. Gli Stati Uniti hanno un debito di 14,3 trilioni di dollari. Inoltre, il governo infilerà per il terzo anno consecutivo un deficit di un triliardo di dollari, un qualcosa che nessun paese nella storia mondiale è mai riuscito a fare. C’è già la conferma di una nuova recessione nel mercato immobiliare con i prezzi che affondano ancora di più di quanto successo nella Grande Depressione. E una caduta delle quotazioni delle azioni delle banche, con le compagnie come Bank of America e Citigroup che cedono ogni centesimo dei profitti ottenuti negli ultimi due anni. Ma non si tratta solo di Bank of America e della Citi, si parla di tutte le istituzioni finanziarie degli Stati Uniti. Da Wells Fargo a JP Morgan Chase, il sistema sta implodendo: le banche, il mercato finanziario, il mercato delle obbligazioni, quello immobiliare. E ora possiamo aggiungere anche gli Stati Uniti alla lista dei paesi in bancarotta. Il dollaro USA ha perso il 12% del suo valore in un anno. E la Cina, per la prima volta, è diventata un venditore netto dei buoni del Tesoro statunitensi. Ciò significa che la bolla delle obbligazioni sta per esplodere e, quando questo accadrà, vi consiglio di prendere un posto in prima fila per godersi i fuochi d’artificio. È un’occasione che capita una sola volta nella vita.

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Il Bilderberg non è l’effetto, ma la causa di un futuro Governo Globale delle Multinazionali. Questa organizzazione è cresciuta dal suo avvio, avvenuto in disparte, per diventare un nodo cruciale nelle decisioni delle élite. La meta ultima di questo futuro da incubo è quello di trasformare il pianeta in una prigione a cielo aperto con la realizzazione di un mercato globale, controllato una Multinazionale Globale, regolato finanziariamente dalla Banca Mondiale e popolato da una popolazione rincretinita i cui bisogni di vita saranno ridotti al materialismo e alla sopravvivenza – il lavoro, le compere, il sesso, le dormite – collegata a un computer globale che monitora ogni mossa. E sta diventando sempre più facile perché lo sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni, assieme alle conoscenze approfondite e ai nuovi metodi di ingegneria comportamentale per la manipolazione della condotta individuale, stanno trasformando quelle che erano, in altre epoche storiche, solo intenzioni maligne in una nuova realtà sconvolgente. Ogni singola misura, vista in sé, potrebbe sembrare un’aberrazione, ma tutto l’insieme dei cambiamenti, che fanno parte di un continuum sempre in azione, costituisce un processo che conduce alla totale schiavitù.

E mentre vediamo il mondo che va in malora, ci troviamo a un bivio. La strada che prenderemo determinerà il futuro dell’umanità, se diventeremo parte di uno stato di polizia globalmente connesso o se rimarremo essere umani liberi. Ricordate, non dipende da Dio se torneremo indietro a un nuovo Medioevo, dipende da noi. Uomo avvisato mezzo salvato. Non troveremo mai la giusta risposta se non ci facciamo le domande corrette.

di Daniel Estulin

29 giugno 2011

Il capitale strategico del Pakistan

Il capitale strategico del Pakistan

La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.

di Giacomo Gabellini

Che la banca sia con voi… Amen


Il presidente uscente della Bce, Jean-Claude Trichet (quello che gli subentrerà a novembre sarà il “nostro” Mario Draghi, il che non significa che sarà un vantaggio perché per i banchieri prima vengono le banche, poi, ma solo poi ed eventualmente, i popoli e gli stati): l’mmarcescibile Trichet – dicevo – prima di uscire di scena, ha deciso di rinverdire i fasti della sua miserabile ricetta: rialzare i tassi d’interesse per contenere l’inflazione e quindi i prezzi.

Abbiamo più volte ribadito e dimostrato qui, sul Fondo, che i prezzi dei beni al consumo NON salgono quando il tasso d‘interesse è basso e NON scendono quando il tasso d’interesse si alza. Da quando il tasso d’interesse dell’euro in seguito alla crisi della finanza globale del 2008 è stato abbattuto all’1% (in America addirittura allo zero per cento), dal 4,5% che era, l’inflazione non ha fatto registrare alcuna sensibile impennata: ancora oggi siamo fermi al 2,6% (in Italia), mentre nel 2008, prima della crisi, e con quel tasso d’interesse nettamente più elevato, si registrava un’inflazione pari al 3,5%.

La formula di Trichet, quindi, insieme alle motivazioni che propone è una bufala. La verità vera è che con il prossimo ri-aumento dei tassi, prima della sua uscita di scena, Trichet vuole premiare i suoi più affezionati estimatori: le banche. Le quali troveranno modo di moltiplicare per due o per tre al dettaglio del consumatore il maggior costo della merce che la Bce produce all’ingrosso, senza vincoli o controlli da parte degli stati: il denaro.

Non bastasse il preannunciato nuovo salasso nelle tasche degli europei (e degli italiani) per il pagamento maggiorato, ad esempio, dei mutui a tasso variabile già accesi, il nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti c’ha messo il carico da undici. Il piano della nuova manovra economica da lui pensata prevede: l’aumento di un punto dell’Iva sulle aliquote più alte (10 e 20 per cento) compensato, però nelle sue pretese del Ministro, dalla riduzione del prelievo dell’Irpef, derivante dalla riduzione delle aliquote di prelievo fiscale.

Calcoli alla mano, i primi a stigmatizzare che fra il prendere e togliere a rimetterci saranno ancora una volta i redditi con perdita del potere d’acquisto è proprio la Confcommercio che fa notare: «Gli effetti negativi di una tale manovra sono dovuti al fatto che l’aumento dei prezzi dovuto al rialzo del’Iva neutralizza l’aumento di reddito monetario per il taglio dell’Irpef ma riduce il potere d’acquisto dello stock di ricchezza detenuto dalle famiglie».

Ciliegina marcia su una torta che già si preannuncia al veleno è la notizia, sempre di oggi, del nuovo record storico per il premio di rendimento pagato dai titoli decennali italiani rispetto al bund tedesco. Gioverà appena ricordare che il recente crack finanziario della vicina Grecia, praticamente ridotta alla fame, è stata determinata proprio da un eccessivo rialzo dei tassi pagati sui propri titoli di stato.

Tutto ciò avviene mentre il dibattito politico italiano concentra la sua attenzione sui No-Tav, i bunga-bunga presidenziali, i ministeri al nord, il ritiro del patrocinio della Regione Lombardia per una manifestazione il cui volantino di programmazione presenta la parola “porno”, giudicata inammissibile dal Presidente Formigoni, le camerille dei Bisignani e dei suoi interlocutori politici, e altre imprescindibili querelle degne di una sceneggiata napoletana.

Con tutto il rispetto per Napoli e i napoletani che in queste ore affondano letteralmente nell’immondizia, sotto l’impotente sguardo di San Gennaro De Magistris

di Miro Renzaglia

28 giugno 2011

Contro l'inflazione la borsa è come la roulette







Sempre pronto a dare consigli sbagliati, il Corriere della Sera apre la prima pagina del supplemento CorrierEconomia del 3 maggio 2011 col titolo L’inflazione fa paura? Azioni e bond per difendersi”. Il concetto è sviluppato a pagina 17 da un articolo che inizia così: “Contro il carovita ci pensa Piazza Affari”. L’autore è Adriano Barrì: una firma nuova per una vecchia bufala.


Non è vero che le azioni proteggano dall’inflazione, ovvero che di regola il valore dei propri risparmi venga preservato investendoli in Borsa. Basta un minimo di competenza per sapere che ciò è accaduto a volte sì e a volte no. Il Corriere della Sera poteva anche titolare: “L’inflazione fa paura? La roulette per difendersi”. Se, infatti, uno punta tutto sul rosso ed esce, ottiene una salvaguarda del potere d’acquisto dei suoi risparmi anche con un’inflazione del 100%.
Si veda nel
grafico cosa capitò a Piazza Affari dopo il 1973, ovvero durante l’ultima fiammata inflattiva in Italia. Nel giro di un paio d’anni era andato in fumo fra il 60%-70% delle somme investite. Bella difesa dall’inflazione!
I dati come al solito non provengono dal centro sociale Leoncavallo, bensì dall’
ufficio studi di Mediobanca, diretto non da Fausto Bertinotti, bensì da Fulvio Coltorti. Peraltro già nel 2009 uno studio del Fondo Monetario Internazionale giungeva a conclusioni ugualmente negative per l’investimento azionario: Inflation Hedging for Long-Term Investorsdi Alexander P. Attié e Shaun K. Roache.
Al Corriere della Sera sono così incompetenti da ignorare del tutto la materia su cui pontificano? Il fervore pro-azionario del quotidiano di via Solferino si spiega altrimenti, cioè coi suoi padroni. Che sono: Mediobanca, Fiat, Pesenti, Della Valle, Pirelli, Ligresti, Merloni, Generali, Banca Intesa ecc. A tutti costoro fa gioco che i risparmiatori italiani comprino loro azioni (di minoranza).
La conferma viene dal Sole 24 Ore, controllato dai soci di Confidustria e quindi da soggetti ugualmente interessati a trovare tapini disposti a prendersi sul groppone le azioni di minoranza delle loro società. Qui gli esempi si sprecano. Il 27 luglio 2008 Marco Liera scrive a pagina 25 che “le azioni storicamente sono uno dei migliori impieghi anti-inflazione” e cita “uno studio dell’investment bank Kleinwort Benson”, che non è propriamente la fonte più autorevole in materia.
Su Plus 24 del 25 aprile 2009, a cura dello stesso campione del giornalismo economico, leggiamo in prima pagina riguardo alla “quota da destinare alle azioni: si parte dal 10 fino a un massimo del 70%”. Il 14 maggio 2011 a pagina 17 il gestore invitato, quella settimana, a farsi bello sulle pagine di Plus 24 consiglia a un artigiano circa il 55% in azioni, in maniera diretta o indiretta. E addirittura il 34% a una coppia con un profilo conservativo! Nell’ultimo caso il responsabile dell’inserto era cambiato. Ma ciò non ha nessuna importanza. Seguo il foglio della Confindustria dalla fine degli anni ’70 e ho visto alternarsi più direttori, senza che si notassero differenze, salvo forse nella grafica dei supplementi.

di Beppe Scienza

27 giugno 2011

Dove vengono prese le decisioni internazionali determinanti?



Mentre l’élite occidentali si riunivano nella pittoresca St. Moritz per decidere sulla crisi mondiale, gli outsider si sono incontrati nelle steppe desolate dell’Asia Centrale.

La scorsa settimana il decimo summit della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nella capitale kazaka, Astana, ha evidenziato come i più grandi rivali dell’impero, guidati da Russia e Cina, stanno cercando di plasmare un’alternativa all’egemonia degli Stati Uniti.


La SCO è l’unica grande organizzazione internazionale che non ha tra i suoi membri gli USA o uno qualsiasi dei suoi stretti alleati, e la sua influenza è sempre più forte in tutta l’Eurasia. I leader degli stati membri, Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan si sono incontrati con i leader dei paesi osservatori, Iran, Pakistan, India, Afghanistan e Mongolia. La Bielorussia e lo Sri Lanka sono stati ammessi come partner al dialogo e prima del suo arrivo a Astana per frequentare la riunione, il Presidente cinese, Hu Jintao, ha visitato l’Ucraina.

Con un’ampollosità tipicamente cinese, la Dichiarazione di Astana ha sottolineato gli sforzi per combattere le "tre forze" del "terrorismo, dell’estremismo e del separatismo". Il summit si è dichiarato a favore di un Afghanistan "neutrale” (ossia, senza base permanenti USA), cosa sostenuta anche dal Presidente afgano Hamid Karzai, anche se gli Stati Uniti stanno proprio in questo momento discutendo con lui per un accordo di collaborazione strategica dopo il 2014. l’eventualità di basi militari permanenti in Afghanistan sta alla base delle odierne tensioni tra USA e Pakistan. L’India ha dichiarato la sua avversione alle tensioni di una "nuova guerra fredda" che sono comparse nella regione.

La Russia e la Cina temono che il progetto statunitense sia quello di installare basi permanenti in Afghanistan e di sviluppare i componenti del suo sistema di difesa missilistico. La riunione della SCO ha condiviso le critiche della Russia sul progetto dello scudo missilistico della NATO che si è già avviato in Europa. Questo progetto, voluto da "una nazione o di un piccolo gruppo di paesi che, unilateralmente e senza alcuna restrizione, per sviluppare un sistema antimissile, potrebbe minacciare la stabilità strategica e la sicurezza internazionale ".

Il summit ha anche richiesto ai vicini dell’Afghanistan di svolgere un ruolo primario nel migliorare la sicurezza e per aiutare a ricostruire l’Afghanistan, rifiutando così una soluzione esclusivamente militare. “È possibile che la SCO si assumerà la responsabilità per molti questioni in Afghanistan dopo il ritiro della coalizione delle forze nel 2014", ha detto il Presidente kazako, Nurusultan Nazarbayev, facendo eco alla richiesta del Presidente russo, Dmitri Medvedev, "per una più intensa e profonda cooperazione tra la SCO e l’Afghanistan".

Sia Pechino che Mosca stanno ripristinando la propria influenza nella zona,la Cina nel settore minerario e tutti e due i paesi nei progetti per le infrastrutture e per la cooperazione con le forze occidentali per combattere il traffico di droga. "L’Afghanistan è stata la ragione principale per cui fu creata dieci anni fa la SCO, ancor prima che l’11 settembre forzasse gli americani a comprenderne la minaccia", ha detto il delegato della Duma, Sergei Markov. "La minaccia di un islamismo radicale esportato nella nostra regione è qualcosa a cui siamo molto familiari. E un risorgere di quella minaccia deve essere una delle preoccupazioni più rilevanti."

Durante la conferenza, l’Ufficio della Nazioni Unite per la Droga e il Crimine (UNODC) ha firmato un accordo con la SCO per promuovere la cooperazione nel combattere il traffico degli stupefacenti, il crimine organizzato, il traffico degli umani e il terrorismo internazionale. Il direttore esecutivo dell’UNODC, Yury Fedotov, ha detto che "le nazioni come il Kazakistan sono sulla linea del fronte del flusso dell’eroina afgana che è diretta in occidente. Le operazioni per contrastare il crimine organizzato e il traffico della droga si stanno sempre più indirizzando verso un approccio cooperativo." L’argomento più urgente è il traffico dell’eroina dall’Afghanistan verso il Tajikistan che si è sviluppato con l’invasione degli Stati Uniti nel 2001.

Il rafforzamento della cooperazione e lo sviluppo economico sono state considerate le "due ruote" della SCO dal Segretario Generale, Zhang Deguang. Il Giornale del Popolo cinese ha evidenziato che "tra le altre mosse concrete da intraprendere c’è la costruzione di una ferrovia, di un’autostrada e di una rete di condotte che colleghino i paesi dell’Asia Centrale senza sbocco sul mare e le sue ricche risorse naturali all’economia globale." Al momento, è ancora in costruzione un sistema di condotte per il gas naturale che poi metterà in comunicazione Iran, Pakistan, India e Cina, aiutando a superare i contrasti tra India e Pakistan e a integrare tutta la regione sulle premesse di interessi condivisi, attentamente supervisionati dalla Cina.

L’Asia Centrale e l’Asia del Sud sono inseparabili e le proposte per l’adesione di India e Pakistan sono state a lungo discusse. Il Presidente del Pakistan, Ali Zardari, si è ripromesso di lavorare con i membri della SCO per raggiungere la pace regionale. Zardari ha affermato che il Pakistan fa parte della regione della SCO e che è intenzionato a cooperare con le altre nazioni per finanziare joint venture nel settore energetico, nelle infrastrutture, nell’educazione, nella scienza e la tecnologia. Ha fatto menzione della nuova apertura del porto a Gwadar, a cui la Cina ha destinato molti finanziamenti come di un utile centro di smistamento per tutta la regione.

La SCO ha rafforzato la cooperazione tra i suoi membri, con le esercitazioni di guerra tra Russia e Cina e, all’inizio di aprile di quest’anno, gli incontri dei capi militari dei paesi membri. Comunque, la SCO è ancora lontana dall’essere un’alleanza militarmente coesa come la NATO. L’ammissione del Pakistan e dell’India, nemici di lunga data, complicherà certamente la cooperazione militare, con il protettore dell’India, la Russia, opposto a quello del Pakistan, la Cina.

La Cina è chiaramente la forza che sta alle spalle della SCO, il polmone che nella regione è economicamente molto più importante di quanto non sia la Russia, ma la volontà comune di tenere lontani gli Stati Uniti è per tutti un sogno. Quale modo migliore per alleggerire le tensioni tra tutti questi rivali se non con le esercitazioni della SCO per rafforzare l’interazione tra le forze armate e i corpi legislativi? Secondo l’opinione di M.K. Bhadrakumar, renderà la "NATO (e la Pax Americana) semplicemente irrilevante per un’enorme estensione di territorio ".

I discorsi prolissi sulla pace, sulla sicurezza e la cooperazione regionale erano indirizzata alla stampa (e a Obama). A porte chiuse, i leader hanno espresso le loro preoccupazioni sull’impatto che la Primavera Araba può avere in tutta la regione, particolarmente negli stati più popolosi dell’Asia Centrale e nella dittatura più aspra, l’Uzbekistan. Il summit della SCO è uno dei pochi eventi internazionali dove il suo leader, Islam Karimov, è ancora un benvenuto.

Un altro argomento della riunione trattato riguarda il modo di unire gli sforzi nella direzione di una moneta unica mondiale, non creata dai banchieri mondiali agli incontri segreti del Bilderberg, ma in modo aperto dalle nazioni centri più popolose e più ricche di risorse che sono presenti nella SCO. Nazarbayev ha sottolineato il bisogno di una forte moneta sovranazionale e ha raccomandato un ritorno a una qualche forma di gold standard. "La SCO lo può fare. Le operazioni swap che abbiamo avviato sono il primo passo. Tutto ciò è necessario per una cooperazione egualitaria all’interno della SCO."

Il Presidente iraniano, Mahmoud Ahmedinejad, ha dato un po’ di colore al tono dimesso dell’incontro grazie al richiamo rivolto alla SCO di farsi maggiormente carico di un ruolo attivo per contrastare il sistema globale, guidato dagli USA, degli "schiavisti e dei colonizzatori" per poi sostituirlo con uno che sia più giusto. "Chi fra noi [ha avuto un ruolo] nell’età oscura della schiavitù o nella distruzione di centinaia di milioni di esseri umani? Io credo che insieme potremo riformare il modo in cui il mondo è gestito. Potremo restituire la tranquillità al mondo intero."

Il meeting della SCO è arrivato pochi giorni dopo la chiusura della riunione del Gruppo Bilderberg a St. Moritz in Svizzera, a cui quest’anno ha partecipato il Ministro per gli Affari Esteri, Fu Ying, un riconoscimento del fatto che senza l’approvazione della Cina niente è più possibile nel mondo della finanza. Come la SCO, la sua agenda si dice abbia analizzato quali azioni intraprendere in reazione alla Primavera Araba, ma anche, in modo più sinistro, progetti per censurare Internet, chi scegliere perché diventi il nuovo direttore del FMI, gli ulteriori salvataggi dell’euro e i prezzi in crescita del petrolio.

La Cina, la Russia, il Pakistan e l’India, per non far menzione dell’Iran: la SCO riunisce tutte le più serie minacce ai progetti dell’impero in un unico organismo. Ad eccezione forse della Cina, Bush non ha mai preso sul serio nessuno di questi paesi. Obama sì. Ma finora la SCO ha molto abbaiato, ma non ha di certo morso. Se, nel corso di quest’anno, anche l’India e il Pakistan verranno ammessi e se gli swaps denominati non in dollari raggiungeranno una massa critica, il Bilderberg farà bene a mettere la SCO e cosa farne in cima al prossimo ordine del giorno.

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Fonte: http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=25359

di Eric Walberg

26 giugno 2011

Il mercato non ci sta dicendo la verità






Recentemente sul sito del prestigioso Worldwatch Institute, nella sua parte specifica dedicata ai "Vital Signs. Global Trends that Shape Our Future" (ricordo che il Worldwatch, oltre al famoso rapporto annuale "State of the World", pubblica anche il rapporto annuale sui "Vital Signs" I trend globali che modellano il nostro futuro, vedasi http://vitalsigns.worldwatch.org) è apparsa la notizia che le persone in sovrappeso nel mondo hanno raggiunto, nel 2010, la cifra di un miliardo e 934 milioni (mentre nel 2002 erano un miliardo e 454 milioni). Circa il 23% del dato del 2002 era attribuibile a individui di età intorno ai 15 anni o poco più mentre questo dato, nel 2010, ha raggiunto la percentuale del 38%. L'incremento per gli adulti in questi ultimi otto anni è stato invece dell'11%.

Si tratta di un ulteriore dato sconcertante di questo mondo francamente sempre più indescrivibile con il buon senso. Sappiamo contestualmente, dai dati Fao nei rapporti sullo stato dell'insicurezza alimentare nel mondo, che il numero di denutriti sulla Terra si aggira, da qualche anno, intorno al miliardo di persone, e potrebbe risultare nuovamente in incremento nel 2010 a causa soprattutto degli effetti provocati degli sbalzi dei prezzi delle commodities alimentari di base sui mercati internazionali.

I decisori politici ed economici continuano imperterriti a ragionare con una vecchia visione di semplice relazioni causa-effetto e quindi con la solita litania del tipo "siccome si incrementa la domanda di beni di consumo, perché vi è incremento di popolazione e di consumi, ergo bisogna incrementare l'offerta". Ancora nel World Food Summit 2009 la Fao dichiarava la necessità di incrementare la produzione alimentare mondiale per fare fronte alle esigenze di una popolazione in crescita, alle esigenze dei denutriti del pianeta ed alla crescita dei consumi. Fortunatamente quest'anno la Fao stessa ha commissionato un ottimo studio sulla perdita di cibo nelle filiere alimentari mondiali e sul cibo letteralmente "buttato via" da noi abitanti dei paesi ricchi e ne è uscito fuori un dato terribile.

Ogni anno nel mondo si perdono un miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo; ogni anno i consumatori dei paesi ricchi buttano via una quantità di cibo, stimato in 222 milioni di tonnellate comparabile all'intera produzione alimentare dell'Africa sub-sahariana, calcolata in 230 milioni di tonnellate (il documento "Global Food Losses and Food Waste" è rintracciabile sul sito della FAO, www.fao.org ).

Come ci hanno indicato gli studi di Andrea Segrè, preside della facoltà di agraria dell'Università di Bologna, inventore del Last Minute Market, e del suo gruppo (vedasi il sito www.lastminutemarket.it) in Italia si buttano via oltre 20 milioni di tonnellate di cibo l'anno.

Il perverso meccanismo della crescita economica materiale e quantitativa è realmente giunto al capolinea. Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, creatore degli Stati of the World e dei Vital Signs, fondatore e presidente dell'Earth Policy Institute, uno dei più noti analisti interdisciplinari della sostenibilità, ha scritto nel suo ultimo libro "World on the Edge" riflessioni molto interessanti in proposito. Sto curando l'edizione italiana di questo volume che uscirà tra qualche mese pubblicato dalle Edizioni Ambiente.

Brown scrive: «Nessuna civiltà del passato è sopravvissuta alla costante distruzione dei propri supporti naturali, né potrà sopravvivervi la nostra, ma nonostante ciò gli economisti guardano al futuro in modo diverso. Basandosi su dati esclusivamente economici per misurare il progresso, essi concepiscono la crescita di quasi dieci volte dell'economia mondiale dal 1950 ad oggi e il conseguente miglioramento degli standard di vita come il risultato più alto della nostra civiltà moderna. In questo arco di tempo il reddito medio pro capite nel mondo è aumentato di circa 4 volte, portando i nostri standard di vita a livelli prima d'ora inimmaginabili. Un secolo fa la crescita annuale dell'economia mondiale si misurava in miliardi di dollari; ora si misura in migliaia di miliardi. Agli occhi degli economisti tradizionali il mondo non ha solamente un illustre passato economico, ma ha anche davanti a sé un futuro promettente».

Brown sottolinea come : «Gli economisti tradizionali vedono la recessione economica globale del 2008-09 e il quasi collasso del sistema finanziario internazionale come un ostacolo lungo il cammino, seppure un ostacolo di dimensioni fuori dal comune, a cui seguirà un ritorno alla crescita abituale. Le previsioni per la crescita economica, che siano quelle della Banca Mondiale, della Goldman Sachs o della Deutsche Bank parlano di una crescita dell'economia globale di circa il 3% annuo; di questo passo le dimensioni dell'economia del 2010 potrebbero facilmente raddoppiare entro il 2035. Secondo queste previsioni la crescita economica nei decenni a venire sarà più o meno un'estrapolazione della crescita dei decenni recenti. Ma come siamo finiti in questo pasticcio? La nostra economia globale di mercato così come è attualmente gestita si trova in difficoltà. Il mercato sa fare bene molte cose e ripartisce le risorse con un'efficienza che nessun tipo di pianificazione centralizzata potrebbe immaginare, e tantomeno raggiungere. Ma mentre nel corso dell'ultimo secolo l'economia mondiale cresceva di almeno 20 volte, ne è venuto alla luce un difetto: un difetto così importante che porterà alla fine della civiltà così come la conosciamo se non riusciremo a correggerlo in tempo».

Qui Lester Brown solleva un problema ben noto a tutti coloro che da anni si occupano delle problematiche della sostenibilità. Il mercato, che determina i prezzi, purtroppo non ci sta dicendo la verità. Sta omettendo i costi indiretti, che in alcuni casi sono attualmente di gran lunga superiori ai costi diretti. Anche in questo volume come nei suoi recenti "Piani B" (tre dei quattro "Piani B" sono stati pubblicati sempre da Edizioni Ambiente) Brown fa l'esempio della benzina. Estrarre il petrolio, raffinarlo per trasformarlo in benzina e consegnarlo alle stazioni di servizio americane può costare all'incirca 3 dollari al gallone (un gallone equivale a 3,79 litri). I costi indiretti, che includono i cambiamenti climatici, il trattamento delle malattie respiratorie, le perdite degli oleodotti, la presenza militare statunitense in Medio Oriente per assicurare l'accesso al petrolio, portano a un totale di 12 dollari al gallone. Calcoli simili possono essere fatti per il carbone e per tante altre risorse utilizzate indiscriminatamente.

Ecco quindi il punto centrale: con i nostri sistemi di contabilità inganniamo noi stessi. Non tenere conto di costi così elevati è una ricetta per arrivare alla bancarotta. I trend ambientali sono i principali indicatori che possono dirci quale sarà il futuro dell'economia e in'ultima analisi della società stessa. L'abbassamento del livello delle falde acquifere di oggi ci avverte dell'aumento dei prezzi del cibo di domani. La riduzione delle calotte polari è il preludio al crollo del valore delle proprietà immobiliari lungo le coste.

Oltre a ciò, ricorda ancora Brown, gli economisti tradizionali prestano poca attenzione al limite della produzione dei sistemi naturali del pianeta. Il pensiero economico moderno e la politica hanno creato un sistema economico che è così poco in sintonia con gli ecosistemi dai quali dipende che si sta avvicinando al collasso. Come possiamo dare per scontato che la crescita di un sistema economico che sta distruggendo le foreste della terra, ne sta erodendo il suo suolo, esaurendo le risorse idriche, portando al collasso le risorse ittiche, aumentando la temperatura e fondendo le calotte glaciali possa semplicemente venire proiettata sul futuro a lungo termine? Qual è il processo intellettuale che sta alla base di queste estrapolazioni?

Lester Brown fa poi una considerazione molto interessante che ha più volte ricordato nei suoi interessanti volumi. A suo parere oggi nell'economia stiamo affrontando una situazione simile a quella dell'astronomia quando Copernico arrivò sulla scena, quando si credeva che il sole ruotasse intorno alla terra. Così come Copernico dovette formulare una nuova visione astronomica del mondo dopo molti decenni di osservazione del cielo e di calcoli matematici, anche noi dobbiamo formulare una nuova visione economica del mondo basata su molti decenni di osservazioni e analisi ambientali.

I resoconti archeologici indicano che il collasso di una civiltà non arriva in modo improvviso; gli archeologi che hanno analizzato le civiltà del passato parlano di uno scenario di declino e collasso, in cui il collasso economico e sociale fu quasi sempre preceduto da un periodo di declino ambientale. Abbiamo bisogno veramente di cambiare rotta e prima siamo in grado di farlo meglio è.

di Gianfranco Bologna

25 giugno 2011

Le porno mamme





Speravamo che almeno questo ci sarebbe stato risparmiato: lo sfruttamento pornografico della maternità; e invece no, bisogna bere l’amaro calice sino alla feccia.
Eravamo ormai abituati a tutto: a qualsiasi esibizionismo, a qualsiasi narcisismo, a qualsiasi sfrontatezza: pur di conquistare un angolino di visibilità, pur di fare soldi, le persone ormai non hanno più vergogna di niente, non c’è niente che non farebbero.
Le neo mamme, in particolare, ci avevano abituati - ammesso che a certe cose si possa fare davvero l’abitudine -, complici gli stilisti e i soliti giornalisti mondani, alla loro smania di farsi immortalare dallo scatto della macchina fotografica; dalla loro fregola di non rinunciare alle prime pagine dei rotocalchi mondani, nemmeno per quei pochi mesi in cui la gravidanza è ben visibile e le donne d’un tempo se ne stavano un poco in disparte, avvolgendosi in un alone di pudore e di mistero che tutti, istintivamente, sentivano come fosse giusto rispettare.
Anche lo sfruttamento dei propri bambini piccoli, per strappare l’attenzione del fotografo dei vip e conquistare una copertina sul settimanale di grande tiratura, era divenuto un fatto ormai quasi normale; e tanto valeva rassegnarvisi, sia pure con molte perplessità.
Ma adesso è caduta anche l’ultima frontiera: quella della pancia.
La pancia di una donna al sesto mese di gravidanza, al settimo, all’ottavo, dovrebbe avere qualcosa di sacro; qualcosa che va preservato dalla curiosità altrui, perché appartiene a una dimensione talmente intima, talmente delicata, talmente misteriosa, che solo un barbaro potrebbe considerare solo e unicamente dal punto di vista fisiologico o, peggio, estetico.
Eppure no; anche quest’ultimo passo è stato fatto.
Ed è stato fatto proprio da loro, dalle donne incinte, fiere e contente di poter esibire il proprio pancione, ovviamente nudo e scoperto, altrimenti che gusto ci sarebbe: per épater les bourgeois, a che cosa servirebbe un pancione debitamente vestito e coperto?
E allora via, su la maglietta, giù i calzoni; oppure, meglio ancora, via tutti i vestiti e al mare di corsa, in costume da bagno, in bikini, si capisce: tanto più se, come la bella trentatreenne Alena Seredova, oltre che modelle famose, si è pure stiliste di moda e si tratta di reclamizzare, in giro per il mondo, la propria linea di costumi da bagno, usando se stesse e il proprio pancione come arma vincente per sbaragliare la concorrenza.
Se, poi, si è delle cantanti ormai un po’ stagionate, come la cinquantaquattrenne Gianna Nannini, ma pur sempre avide di notorietà e di successo, si può sempre esibire il pancione sulla copertina di «Vanity Fair» o, meglio ancora, sulla copertina del proprio ultimo disco, dedicato, chi l’avrebbe detto, al dolce bebé che sta per venire al mondo: che cosa c’è di male a mostrare il pancione, se è un fatto così naturale? Strano, pare abbia dichiarato l’ineffabile regina del rock italico, sarebbe tenerlo nascosto, facendo finta che non ci fosse.
E allora, giacca di pelle e pancione al vento, alé, il gioco è fatto: la piccola Penelope vuol venire al mondo e, nel frattempo, che male c’è a farsi un po’ di réclame, sfruttando la “dolce attesa”? L’importante è difendere il sacro diritto alla libertà, parola magica che agisce come un infallibile passe-partout e che dischiude ogni porta, anche quella più ben difesa, nella cittadella della cultura contemporanea.
Infatti, intervistata dal settimanale «Tv Sorrisi e canzoni», l’artista senese ha reagito alle critiche relative alla sua maternità in età avanzata, affermando spavaldamente: «All’improvviso tutti si sono dimenticati della libertà e del diritto che ha ciascuno di noi di fare quello che vuole, quando e con chi vuole».
Giusto; anche se non si sa chi sia il padre; anche se la persona in questione si è sempre vantata della sua doppia identità sessuale; anche se si sono allegramente passati i cinquant’anni e c’è chi dice che sono almeno cinquantasei: abbiamo combattuto per la libertà, sì o no?
Come del resto ha fatto l’ultrasessantenne Elton John, il quale, omosessuale dichiarato com’è, e pure lui alquanto stagionato, non ha voluto negarsi le gioie della paternità, ordinando un figlio in provetta, insieme al suo compagno David Furnish: perché, come dice la nostra Gianna nazionale, «dove c’è amore, c’è famiglia, non importa come essa sia composta».
Buono a sapersi, ne prendiamo nota: c’è sempre qualcosa da imparare.
Intanto, pecunia non olet, perché non pensare un poco anche al portafoglio e unire l’utile al dilettevole, costruendoci sopra un bel disco intitolato, ovviamente, «Io e te»; si capisce, col pancione scoperto, perché sia ben chiaro chi sia il “te”?
Ora, la cosa che dà da pensare non è tanto che personaggi del mondo dello spettacolo sfruttino a più non posso la ghiotta occasione della maternità, che fa tanta tenerezza e rende tutti più buoni, per sparare sul mercato i loro prodotti, siano essi costumi da bagno o canzoni; ma il fatto che la tendenza è passata dai vip alle persone comuni, alle mamme qualunque, invadendo, per così dire, l’immaginario collettivo e trasformando in pornografia di massa ciò che, prima, era “soltanto” pornografia d’élite.
Questo non è più soltanto un fatto di rilevanza sociologica: è indice di una vera e propria mutazione antropologica e segna, forse, un punto di non ritorno.
Le ragioni di tale mutazione sono diverse, ma due spiccano su tutte le altre: il principio d’imitazione, tipico della società dell’apparire; e il democraticismo d’accatto, per cui tutti si ritengono uguali a tutti e in diritto di fare le stesse idiozie, in alto come in basso nella piramide sociale (finché si tratta di cose che non turbino l’ordine costituito).
Questa seconda ragione, poi, si sposa con il radicalismo e il libertarismo esasperato e con quella punta di esibizionismo che giace in fondo ad ognuno di noi e che, nella società di massa, trova le condizioni ideali per venir fuori e scandalizzare il prossimo, senza però scandalizzarlo troppo, perché in una società scandalistica, dove ciascuno si sforza di scandalizzare tutti, va a finire che non si scandalizza più nessuno.
Il che è tranquillizzante, per il piccolo borghese meschino che dorme, anch’esso, nelle profondità della nostra anima: perché si vuole, sì, scandalizzare gli altri, ma insomma senza compromettersi troppo; si vuole essere originali, ma senza scostarsi troppo dai binari precostituiti; si vuole essere eccezionali, ma «adelante Pedro, con juicio», non troppo eccezionali, diciamo degli eccezionali di massa, come lo sono un poco tutti gli altri, se appena ne hanno il desiderio.
Ed ecco, tra i numerosi altri che appartengono alla stessa radice socioculturale, il nuovo fenomeno antropologico delle porno mamme.
Si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato dalla volgarità di questa deriva post-moderna, che ha visto il naufragio irrimediabile di tutti i valori, di tutte le certezze e, oltre che del comune senso del pudore, anche del puro e semplice buon gusto; qualcosa di molto simile alla blasfemia, al sacrilegio.
Perché ci stavamo abituando a tutto, anche alle porno mogli: quelle simpatiche donne sposate che se ne vanno attorno, sotto lo sguardo compiaciuto dei mariti, a provocare i maschi a destra e a manca, esibendo un abbigliamento minuscolo e, più ancora, un modo di fare che non la cede in nulla a quello delle battone professioniste che infestano i nostri viali di periferia, dal tramonto sino alle prime luci dell’alba.
Ma la maternità… quella, è un’altra cosa.
Perché la maternità è un mistero sacro: e chi non lo sente istintivamente, come lo hanno sentito migliaia di generazioni umane, dai primordi ad oggi, vuol dire che è un barbaro, un alieno, un individuo non del tutto umano.
Ci sono cose sulle quali è lecito scherzare, nelle quali è lecito esagerare, rispetto alle quali è lecito fare dell’ironia; ed altre, poche altre, in verità, che non ammettono nessuna di queste cose, perché hanno in se stesse un elemento sacro e trascendente.
La maternità è una di queste ultime; e, prima che la pazzia femminista incominciasse a soffiare sul mondo, sia le donne che gli uomini ne erano perfettamente consapevoli, né le prime pensavano che tale sacralità fosse un’astuzia escogitata dai secondi, per tenerle imprigionate nel ruolo subalterno di figlie-mogli-madri, con la comoda scusante del mistero.
No: nelle società pre-moderne, ove non tutto è quantificabile, manipolabile, commercializzabile, la maternità era un evento sacro e misterioso, perché non era un evento puramente umano, pianificato (orribile verbo) in vista di una programmazione familiare, ma sovrumano, anzi, divino: era un dire sì alla vita, di cui non siamo noi gli artefici, ma i semplici esecutori; non i padroni assoluti, ma dei volonterosi operai.
Poi è venuto l’orgoglio dell’ego, la nevrosi della potenza e del dominio, l’arroganza dell’uomo che si fa Dio di se stesso, che vuol essere misura di tutte le cose e artefice sommo e insindacabile di qualsiasi manipolazione, di qualsiasi stravolgimento dell’ordine naturale.
Da quando gli uomini moderni hanno cominciato a dire “io”, separando tale concetto da Dio e dal mondo, si sono create le premesse per tutti gli abusi, per tutti gli eccessi, per tutte le degenerazioni del potere individuale e (letteralmente) egoistico: l’espressione «la vita è mia, e ne faccio quel che voglio io», ne è la logica e inevitabile conseguenza.
Una ulteriore conseguenza è che «nessuno mi può giudicare»: sto esercitando un mio diritto, il diritto alla libertà; e chi pretende di porvi dei limiti, dei paletti, dei confini, non può essere che un reazionario, un fascista, un razzista.
L’uomo moderno non pensa più, da Francesco Bacone in poi, che vi siano delle cose fattibili, ma non meritevoli di essere fatte: tutto ciò che si può fare, beninteso per ottenere un vantaggio materiale, va messo in pratica “ipso facto”, seduta stante, senza stare tanto a pensarci sopra; e bando agli scrupoli, ai ritegni, alle remore morali di qualsiasi genere.
Nel Medioevo, per esempio, la dissezione dei cadaveri era una pratica inammissibile e, dunque, severamente interdetta: e non perché le conoscenze anatomiche dell’epoca fossero così rudimentali da renderla troppo difficoltosa, ma per una ragione completamente diversa, e cioè perché tale pratica sarebbe stata considerata un sacrilegio.
Poi, a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, le frontiere tra lecito e illecito si sono sempre più allargate, fino al punto che oggi, in pratica, non esistono più: si possono clonare piante, animali ed esseri umani; si possono prenotare bambini in provetta, scegliendone i caratteri somatici; si possono creare esseri mostruosi in laboratorio, mescolando il patrimonio genetico di specie diverse: e lo si sta realmente facendo.
Le radici della follia, della bruttezza e della volgarità oggi imperanti, sono tutte qui: per cui, se ci spostiamo dal terreno delicatissimo della bio-ingegneria a quello, in confronto assai frivolo, del ventre femminile gravido esibito nella sua nudità e sbattuto sulle copertine dei giornali, ci rendiamo conto che entrambi i fenomeni hanno una stessa origine.
Del resto, non andavano predicando le militanti femministe, nei loro cortei di qualche decennio fa, che «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio io», alludendo esplicitamente alla piena e incondizionata libertà di abortire?
E non accompagnavano forse questo slogan con il gesto, intollerabilmente osceno e sfrontato, di alzare le braccia e di unire le dita delle mani, in modo da simulare la forma dei genitali esterni femminili?
Se il presente è figlio del passato, noi siamo figli e nipoti di quella generazione e non c’è nulla, oggi, di cui ci si dovrebbe meravigliare, nella esibizione del pancione scoperto da parte di tante donne in avanzato stato di gravidanza; nel frattempo, le case di abbigliamento si sono attrezzate e hanno trovato il modo di fare un bel mucchio di quattrini, come sempre, anche su quest’ultimo vezzo pseudo libertario delle aspiranti genitrici.
«O liberté, que de crimes on commet en ton nom!» («Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!»), esclamò Madame Roland mentre, nel 1793, si apprestava a salire i gradini della ghigliottina, nel cui canestro avrebbe lasciato la testa.
Ma si potrebbe anche aggiungere, meno drammaticamente, però con altrettanta verità: «Libertà, quante sciocchezze e quante volgarità si compiono nel tuo nome»; e lo si potrebbe dire, crediamo, con pieno diritto, specialmente in questi nostri giorni di tranquilla, ordinaria follia.
di Francesco Lamendola

24 giugno 2011

Cia e Mossad: prima la campagna mediatica poi la guerra

Per capire l’origine delle “rivolte popolari” che secondo i media dell’Occidente starebbero trascinando nel caos la presidenza di Bashar al Assad occorre risalire al 25 febbraio di quest’anno quando passato il Canale di Suez approdano nel porto siriano di Latakia la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg della Repubblica Islamica dell’Iran.
Una delle gazzette-internet, a cui non ci va di fare propaganda, legata all’intelligence di Usa e “Israele” ne anticiperà la destinazione finale il giorno 16 aprendo così : “… l’accordo passato sotto silenzio in Europa è di quelli che cambiano la geopolitica del Mediterraneo, perché nave dopo nave Teheran costruirà la sua prima base in Medio-Oriente. Dalla fine di febbraio Iran e Siria si impegneranno a lavorare alla costruzione di un porto di appoggio per la marina militare di Ahmadinejad. La base stando a quanto previsto avrà anche un deposito di armi che sarà gestito dalla Guardia Rivoluzionaria Pasdaran. Si partirà dall’allargamento delle strutture per poi passare all’abbassamento del fondo marino (dragaggio ndr) e all’installazione di tutta la strumentazione necessaria a trasformare la zona in area militare. In questo modo potranno presto attraccare anche i sommergibili iraniani. Teheran sarà in grado di gestire con questo accordo da nord e da est un possibile conflitto con Israele. L’Iran ora è a soli 287 km dal confine con Israele…”.
Il tono allarmato dell’ “informatore” che ha redatto l’articolo non fa altro che portare allo scoperto, l’urgente necessità di Cia e Mossad di accendere la miccia per il “fuoco alle polveri” di una campagna di stampa “internazionale” contro il presidente Bashar al Assad.
Obama, dal canto suo, minaccerà le prime sanzioni unilaterali contro la Siria già da gennaio e le applicherà a marzo, dopo aver dichiarato, dalla Casa Bianca, che Damasco rappresenta una minaccia di straordinaria gravità per gli interessi degli Stati Uniti.
Naturalmente la responsabilità dell’approdo delle navi militari iraniane a Latakia sarà scaricato anche sull’Egitto del dopo Mubarak e su Hamas che per celebrare l’avvenimento - si sosterrà in un numero successivo - il 24 febbraio sparerà una grandinata di razzi sul Negev.
Si farà in tempo a ricordare, sul web, che il porto siriano è a una distanza di soli 72 km da quello di Tartus dove è in costruzione una base di appoggio navale per Mosca e dare allarmato risalto anche all’acquisto da parte di Damasco di 76 missili antinave Yakhont con un raggio operativo di 300 km capaci di forare la più sofistica difesa navale Usa (Aegis ndr) e di creare il vuoto anche sulle rotte delle unità navali militari e commerciali di “Israele”.
Notizia corrispondente a verità ma che omette di rivelare i retroscena dell’acquisto siriano.
Una cessione autorizzata con molti mal di pancia da Medvedev.
L’Iran, dal canto suo, ha elaborato un missile balistico per impiego navale il “Khalije Fars” altrettanto veloce (mach 3) ed accurato nella fase finale di volo, con eguale portata in miglia marine ma con un potere di distruzione a bersaglio 3 volte superiore a quello fornito dalla Russia a Damasco dopo un lungo tira e molla che ha visto prevalere l’apparato industriale e militare che sostiene il premier Putin sulla “melina-niet” di Medvedev.
Una tecnologia che inevitabilmente finirà per arrivare nelle mani delle forze armate della Siria.
La testata bellica del “Khalije Fars” è di 650 kg contro i 220-230 kg delloYakhont.
Insomma nelle stanze del Cremlino si mastica amaro, da una parte contro il “kombinat” e quello che in Occidente viene sprezzatamene definito il “clan dei siloviki” e dall’altra per i crescenti successi militari dell’ Iran.
La Siria sta gettando le basi di un sonoro rafforzamento della sua deterrenza. Il Paese di Bashar al Assad acquisisce la capacità di prendere decisioni politiche più confacenti alla sua strategia militare nel Vicino Oriente.
La pluridecennale collaborazione militare tra i due Paesi che ha continuato a funzionare alla perfezione con la presidenza Putin manifesterà i primi inciampi con l’ex di Gazprom nel 2009 dopo il rifiuto del Cremlino di consegnare alla Siria l’Iskander B.
Un missile terra-terra estremamente avanzato capace di colpire con un cep di 5-10 metri qualunque obbiettivo militare in “Israele” oltre che di superare ogni contromisura elettronica per l’intercettazione in volo con un carico bellico di 1.000 kg .
Un’arma - secondo l’allora governo Olmert - sufficiente a modificare in profondità gli equilibri militari nel Vicino e Medio Oriente. Cosa non lontana dal vero se fosse stato fornito da Mosca a Damasco in quantità numeriche adeguate.
L’Iran, legato da un patto militare con la Siria, ha costruito alla periferia di Hama e Dayr az Zawr due fabbriche che sfornano ogni anno decine di missili balistici M 600, su piattaforme mobili, capaci di colpire con una portata di 280-300 km e con ottima precisione a bersaglio dalla Giudea al Negev, tecnologicamente modellati sul “Fatah 110” con una carica bellica di 0.5 tonnellate.
Gli esperti militari indipendenti indicano la messa in campo annuale di 70-80 M 600. Insomma, se attaccata la Siria potrebbe portare, per la prima volta dal ’67, la guerra ben dentro il territorio nemico, a casa dell’aggressore. Dal canto suo l’Iran non farà niente per nascondere l’irritazione nata dalla decisione del Cremlino di vedersi negato il sistema di difesa aerea S 300 pm1- pm 2 che avrebbe permesso a Teheran di dormire sonni tranquilli anche in caso di un massiccio e protratto attacco aereonavale Usa e di ridicolizzare le ricorrenti minacce israeliane.
Decisione presa da Medvedev e che costerà alla Russia oltre 500 milioni di dollari di penali, in sede giudiziale internazionale, per omesso rispetto di un accordo commerciale sottoscritto in aggiunta alla perdita per mancate forniture militari per altri 850 milioni di dollari all’industria Npo Almaz e al kombinat Rosoboronoexport.
Le frizioni con Teheran arriveranno a impedire il sorvolo dell’Ilyuschin di Medvedev dello spazio aereo dell’Iran.
Il rallentamento nei lavori di ultimazione della centrale atomica di Bushekr, i problemi di avviamento dell’impianto da parte di Rosatom saranno interpretati da Teheran come facenti parte di un piano della presidenza pro-tempore di Mosca intenzionalmente diretto a rallentare il programma nucleare dell’Iran per le continue pressioni di Usa, Israele e cosiddetta “comunità internazionale”.
Pressioni che a Mosca, sotto la presidenza Medvedev, trovano con frequenza una solida accoglienza. Le motivazioni? Molte.
Lo Start, l’ingresso nel Wto, la manifesta incapacità del soggetto a guidare la Russia, l’aggressività, anche corruttiva (Eltsin docet) dell’Occidente, il “liberalismo” assorbito durante la permanenza a Gazprom con Andrey Miller, un ebreo tedesco.
Insomma, Medvedev come un bidone di vodka nelle stanze del Cremlino, anche se più presentabile di Eltsin.
Il 25 febbraio 2011 la Alvand e la Kharg arrivano a Latakia, Al Jazeera e Al Arabya cominceranno a lanciare i primi flash di disordini a Dara’a, in Siria, a un tiro di sputo dal confine con la Giordania, il 17 marzo.
Il mukhabarat di Abdallah, meglio conosciuto come “re caccola” inizierà a far muovere sul terreno di confine con la Siria gruppi armati di tagliagole e mercenari finanziati dai Saud.
Il 18 marzo arriveranno le prime notizie di una “rivolta popolare” nel sud della Siria,
A fine mese Abdallah durante una manifestazione pubblica riceverà la prima, inaspettata scarica di scarpe e pietre da giordani e palestinesi.
Nel Kurdistan Cia e Mossad recluteranno “volontari” da spostare sul confine est della Siria appoggiandosi alla logistica delle basi Usa in Iraq.
Damasco risponderà con la chiusura degli attraversamenti e il controllo delle linee di confine inviando blindati e unità scelte della Guardia Repubblicana a sud e a nord est di Damasco.
I tagliagole e i mercenari reclutati dai petrodollari wahabiti troveranno l’appoggio di qualche gruppo di opposizione locale. Qualche centinaio di miliziani. Mentre le principali città della Siria, Damasco in testa, saranno percorse da gigantesche manifestazioni di appoggio popolare a Bashar al Assad.
L’Alvan e il Kharg a Latakia segnano la fine definitiva delle speranze occidentali di poter staccare Damasco dall’alleanza politica e militare con Teheran, di isolare Hizbollah in Libano e ridurre la contestata influenza dell’Iran al solo Golfo Persico.
La campagna di stampa di Al Jazeera e Al Arabya e degli “internauti” contro la Siria scatterà con un sincronismo perfetto, che troverà sponda in tutti i media dell’Occidente e nei governi europei di Portogallo, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Frattini in gran spolvero. Una campagna di stampa che sta andando avanti da mesi e segnala, a ben vedere, al di là delle intenti intimidatori e terroristici che persegue, rozzezze descrittive con accenti parossistici, un supporto visivo inesistente oltre ad una colossale confusione con inevitabili scivolamenti nell’improponibile e nel ridicolo.
di Giancarlo Chetoni

23 giugno 2011

E qui casca l’asino. Politici: inguaribili bugiardi


È stata una casualità, ma non sempre il caso è casuale. In questi giorni di referendum e di commenti post referendum ho letto, in parziale sovrapposizione, due libri che, con stili e intenti lontanissimi tra loro, trattano in sostanza dello stesso argomento. I politici e alcune inclinazioni del loro modo di essere che ci sono di fronte agli occhi tutti i giorni ma che si enfatizzano quando qualche ludo cartaceo è in atto.

I due libri in questione sono Inguaribili bugiardi di Gerardo Antelmo e Andrea Pesciarelli, con vignette di Alfio Krancic, dell’editore Gremese e E qui casca l’asino di Paola Cantù edito da Bollati Boringhieri.

Inguaribili bugiardi è un libro che, come esplicita il sottotitolo, Viaggio semiserio tra le contraddizioni dei nostri politici (e non solo), vuole stigmatizzare, in modo ironico, uno dei tratti principali dei nostri politici: l’incoerenza.

Incoerenza che si evidenzia in dichiarazioni che cambiano nel tempo in maniera costante e spesso in modo grottesco, attraverso piroette verbali che trasformano il bianco in nero e viceversa.

L’antica polemica sul garantismo a intermittenza che trasforma in forcaioli anche i più strenui sostenitori delle garanzie per l’imputato in funzione dello schieramento di appartenenza dell’indagato.

Le dichiarazioni favorevoli alle privatizzazioni che diventano all’improvviso riflusso statalista.

Le alleanze indossate come abiti stagionali da dismettere ai primi mutamenti climatici.

Smentite ai giornalisti poche ore dopo dichiarazioni roboanti.

La vita di tutti i giorni ci mette costantemente sotto gli occhi atteggiamenti di questo tipo, tanto da aver anestetizzato le nostre coscienze che il tentativo ironico del libro vorrebbe, in qualche modo, tra un sorriso e l’altro, risvegliare.

Ed è qui però che le intenzioni del libro s’inceppano. La realtà ha, di molto, superato la fantasia degli autori, entrambi giornalisti parlamentari.

I brevi profili bipartisan che sono abbozzati risultano così un poco piatti, quasi un’enumerazione delle marachelle dei vari leader, passati al settaccio e vivisezionati nelle loro dichiarazioni incoerenti.

Forse per scrivere brevi, sintetici, corrosivi, sardonici profili bisogna essere dotati di un umorismo che, francamente, mi sembra manchi ai due autori che rappresentano un repertorio documentato ma privo di vis comica, vuoi anche perché, come dicevo, i nostri politici, da per loro, fanno ridere.

E scrivere un pezzo divertente su un comico è impresa che reputo ardua.

A tratti sembra quasi che i due, abbiano preso ad esempio, nel tentativo di emularli, non riuscendovi, i pezzi giornalistici, ormai diventati un punto di riferimento, di Rizzo e Stella che, nelle pagine del Corriere della Sera, costruiscono i loro articoli con una carica barricadera (Rizzo) e con un sornione stile canzonatorio (Stella) del tutto sconosciuti a Antelmo e Pesciarelli.

Tutto il peso, quindi, della satira politica e di costume, è scaricato sulle vignette di Alfio Krancic che sono, l’unica cosa veramente pregevole. Con il consueto tratto nitido della sua matita e con l’ironia bonaria che lo contraddistingue, Krancic racconta visivamente quello che le parole non sono state capaci di esprimere.

Lontano dalle volgarità e dalla becera satira d’assalto sa dosare le caricature e le brevi frasi delle vignette strappandoci ogni volta, non grasse risate, che solitamente albergano nei recessi più cupi ed esasperati della nostra anima, ma lievi sorrisi che sono la testimonianza che la comicità delle sue vignette ha solleticato la parte del nostro cuore più sottile e meno cattiva. Sa evidentemente ridere di se stesso e così sbeffeggia, senza offesa, gli altri. Un grande per troppo tempo scarsamente valorizzato.

E qui casca l’asino è di tutt’altra natura. È un testo serio anche se scritto con leggerezza e candore, pregio sommo in un mondo accademico autoreferenziale che non sa nemmeno dove sia di casa uno stile piano, chiaro, leggibile, capace di suscitare interesse e curiosità nel lettore non specialista e agevolarlo nel suo compito.

Paola Cantù, ricercatrice nel campo della logica e della filosofia della matematica presso l’Universitè de Provence di Marsiglia, si pone un intento scientifico, anch’esso dichiarato dal sottotitolo Errori di ragionamento nel dibattito pubblico.

Selezionando discorsi di politici, articoli di giornalisti, brani di libri di autori noti, la ricercatrice fa affiorare tutte le cosiddette fallacie in cui incappano non solo i politici ma anche i giornalisti, gli scrittori e gli uomini pubblici.

Le fallacie, ci spiega, sono quelle parti del ragionamento che sono false, o meglio servono nel dibattito pubblico per prevalere sull’avversario con espedienti, piuttosto che con la forza del ragionamento.

Non sempre, anche se io penso che non sia così, le fallacie sono utilizzate a bella posta o in modo truffaldino, talvolta vengono introdotte inconsapevolmente o in modo del tutto ingenuo. Resta il fatto che di fallacie si tratta.

Esistono però delle regole precise dell’argomentare che partono da un assunto “Le regole dell’argomentazione sono come scale: servono per andare da qualche parte. Alcune sono fragili e poco stabili: provate a salirci, e rischiate di trovarvi per terra. Altre sono ben fatte, solide e sicure, però provate a collocarle su un terreno incerto e fangoso, e di nuovo cercando di salire vi ritrovate per terra”.

Quello che appare certo è che la combinazione buone scale su solide basi non sembra molto frequente.

È da qui che parte la rassegna, davvero cospicua, di esempi che costituiscono il percorso logico che ci mette di fronte ad un vero e proprio ginepraio di fallacie.

Alcune sono evidenti, e anche se giudicate erronee dalla teoria sono una prassi comune, come ad esempio quella che viene chiamata fallacia d’autorità che consiste nel difendere una certa tesi sulla base del fatto che l’ha detta qualcuno di autorevole e potente.

Altre, come tutte le incongruenze logiche, più difficili da scovare e rilevabili solo dopo attenta lettura, cosa non semplice nell’istantaneo che costituisce solitamente l’orizzonte temporale del dibattito politico.

Tra gli esempi, costruiti per capitoli, più evocativi cito: Fallace Fallaci… La rabbia e l’orgoglio di Oriana in cui è evidenziata la ridda d’incongruenze che rendono il testo assolutamente improponibile da un punto di vista logico, La vera storia italiana. Il rotocalco elettorale di Silvio Berlusconi che fa le pulci al primo programma elettorale di Forza Italia e che ne rileva, da un lato la capacità comunicativa, dall’altro l’inconsistenza argomentativa e Morire di satira. Le invettive di Beppe Grillo e i proiettili del TG2, tanto per ricordarci che di fallacie può morire anche la satira che spesso si presenta come altro dalla politica che prende in giro.

Lo scopo della Cantù non è tanto quello, facile, di mostrare i politici e i potenti in mutande, prendendone le distanze, ma quanto quello di porre l’attenzione, come dovremmo fare tutti noi, su ciò che viene detto e come, per essere più sensibili e partecipativi. Per pretendere da parte dei leader un argomentare più serio, più calibrato, più rispettoso.

Perché se una cosa viene detta bene e ha basi solide di ragionamento, con molta probabilità, verrà anche fatta bene.

Quest’analisi poi non vuole essere autoassolutoria, vuole invece stimolare ognuno di noi per migliorarci, visto che tutti sono chiamati ad argomentare o a sostenere qualche tesi nel corso della loro vita.

Insomma una ricerca approfondita, seria, scritta bene, forse un po’ ingenua, visto che probabilmente non può bastare il pretendere dai nostri politici correttezza logica nelle loro argomentazioni. Ma senza dubbio un primo passo verso un miglioramento generale che non può che essere auspicato.

Resta alla fine di questa lettura incrociata un senso d’inversione di significato che i due libri inducono, se messi a confronto.

Inguaribili bugiardi, che dovrebbe essere un libro semiserio, se si eccettuano le vignette di Krancic, appare noioso e ripetitivo, forse supponente nel suo moralismo strisciante.

E qui casca l’asino, che dovrebbe essere ed è un testo serio, con solide basi scientifiche e che potrebbe scoraggiare il lettore in cerca di lievità, ha una carica gioiosa, semiseria, quasi comica in certi accenti e sottolineature, e ci spinge ad un compassionevole sorriso ironico.

Certo qualcuno potrebbe obiettare che se tutto l’argomentare si riduce a regola logica, in cui è considerato un errore anche la fallacia d’accento che mette in rilievo alcune parole in una frase con un’accentuazione positiva o negativa, il dibattito caldo, teso, accalorato e vuoto, così come siamo abituati ad interpretarlo, diventerebbe un discutere privo di toni, senza accenti, senza nemmeno tutti quegli espedienti truffaldini per prevalere che ne costituiscono il sale, seppur malato e che lo rendono divertente.

E qui forse sta l’ingenuità della Cantù, credere che si possa educare a un ragionar scientifico, asettico, carico di presupposti veri da cui si deducono tesi coerenti e solide un tipo come Di Pietro, ad esempio, che ha fatto dell’incolta e fallace oratoria il suo cavallo di battaglia.

E il testo mi strappa un ultimo tardivo sorriso. Ve l’immaginate Di Pietro che, alle prese con un contraddittore che utilizza argomenti da trivio, intrinsecamente falsi, gli ribatte: “La prego, esimio collega, dall’astenersi da argomentazioni basate su evidenti incongruenze logiche. La sfido a usare argomenti non basati su evidenti fallacie, quali: anfibolia, associazioni illusorie, modus tollendo tollens capovolto, diversioni spiritose”.

Roba da sbellicarsi dalle risa.

di Mario Grossi -

22 giugno 2011

Attenti. La Grecia è vicina

Giornata disastrosa per le borse del Vecchio e del Nuovo Continente. Il minacciato declassamento da parte dell’agenzia di rating Moody’s di tre importanti istituti di credito transalpini, Bnp Paribas, Credit Agricole e Societé Generale, molto esposti sul “fronte ellenico”, ha provocato l’affondamento di tutti i titoli scambiati nelle principali piazze d’occidente.

Il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha dichiarato al proposito che la maggiore minaccia alla stabilità della zona euro è dovuta proprio alla crisi debitoria del paese balcanico. «La Grecia – ha precisato Constancio – potrebbe provocare un effetto contagio, e questo è il motivo per il quale siamo contrari a ogni sorta di default che porti al taglio del valore nominale e dei tassi d’interesse sui titoli di stato».

Anche l’euro infatti ha pesantemente risentito della montante “sindrome greca”, mentre i prezzi di ore e argento hanno subito un’impennata. La peggiore performance borsistica l’ha fatta registrare Milano, con -2,16%, ma l’economia messa peggio, naturalmente, resta quella d’Oltreionio. Atene infatti è letteralmente ridotta alla canna del gas, con i bond a due anni che, dopo l’ingenerosa raffica di downgrade effettuata da Moody’s e da Standard & Poor’s, hanno sfondato il muro del 28%. I titoli decennali invece sono schizzati a 1700 punti rispetto a quelli tedeschi.

Insomma Atene, è messa più o meno come l’Argentina d’inizio millennio e tutto fa prevedere che il paese egeo seguirà a breve le sorti della compagna di sventura sudamericana. Ad Atene infatti, proprio mentre veniva dibattuto il piano di contenimento del debito, s’è verificato un tentato assalto al palazzo del Parlamento in Piazza Syntagma.

I manifestanti, infuriati per l’ennesima manovra lacrime e sangue imposta da Papandreou, hanno caricato il muro di contenimento eretto dalla polizia a difesa dell’istituzione, provocando la dura reazione delle forze dell’ordine. Il bilancio della giornata di scontri è stato di dodici feriti e quaranta arresti, e per un pelo non c’è scappato il morto. Non era la prima volta che le vie della capitale ellenica diventavano teatro d’incidenti e barricate, ma questa volta la cosa si è fatta molto seria, tanto che il primo ministro, George Papandreou, ha annunciato un rimpasto con successivo voto di fiducia. In altre parole, il leader socialista, incalzato dalla piazza, ha dato il via alla formazione di un governo di “larghe intese”. Un esecutivo di unità nazionale aperto anche al contributo delle forze d’opposizione, insomma. Il tutto finalizzato ad affrontare la gravissima crisi economico sociale in cui versa il paese.

La condizione base per la formazione del nuovo gabinetto è consistita nell’adozione di programmi e obbiettivi ben delineati. Tradotto dal politichese voleva dire appoggio incondizionato al piano di austerità imposto dall’Ue e dall’Fmi. Ma i mercati rimangono scettici, e la situazione per Zorba si fa sempre più delicata, come del resto già evidenziato dalla stessa Bce, che ha sottolineato come le difficoltà per il programma di ristrutturazione del debito olimpico “sono molto cresciute” rispetto a sei mesi fa.

Difficoltà esacerbate dal forte attrito sorto tra la posizione della Merkel, che preme per un consolidamento, quella della Bce, decisamente contraria a tale ipotesi, e quella di Moody’s e Standard & Poor’s che non si sa bene cosa vogliono di preciso ma che intendono comunque guadagnarci. Recentemente il ministro delle finanze tedesco, Schauble, ha dichiarato che l’Eurogruppo prenderà una decisione definitiva nel vertice programmato per il prossimo 20 giugno: «Bisogna aver pazienza fino ad allora».

Insomma, mentre i mercati continentali vacillano, la Grecia affonda nella palta e i timori sul debito sovrano dell’area Euro aumentano di giorno in giorno, Germania e Bce si accapigliano come due vecchie comari. Il risultato è stata l’improvvisa impennata delle scommesse degli speculatori internazionali sul crac ellenico. Il primo default di Eurolandia, insomma, si profila minaccioso all’orizzonte. La cosa che più inquieta è che non sarà neppure l’ultimo.

di Angelo Spaziano

21 giugno 2011

Bilderberg report 2011. Resto del mondo

Irlanda

La discussione sull’Irlanda era motivata da sobrie statistiche che nessuno dei delegati voleva ascoltare. Così come la Grecia, l’Irlanda è un incubo economico, pronto a diventare un altro protettorato economico europeo. Anche se le statistiche ufficiali della disoccupazione arrivano al 15%, i numeri che circolano al Bilderberg sono più vicino al 21%. Senza temere il rischio di essere offuscato dalle cattive notizie che circolano in questi giorni, gli interessi dovuti sono la metà di quanto incassato dal paese con il prelievo fiscale e il debito sta crescendo. Va anche considerato che il debito totale è pari al 100% del PIL.

Il debito delle banche irlandesi non rimborsato, circa 125 miliardi di euro, così come il debito fiscale dello stato irlandese – grazie alla partnership instaurata tra UE e FMI – ha affossato l’economia irlandese e i suoi contribuenti con un peso impossibile da sostenere.

Quello che è inevitabile, e viene ammesso anche dai delegati al Bilderberg, è che l’Irlanda, come la Grecia, avrà bisogno di un secondo bailout dall’UE-FMI. Altri sembrano avere una visione più drastica. “L’Unione Europea è in crisi di sopravvivenza”, ha detto un partecipante europeo al Bilderberg. Quello che sembra preoccupare il Bilderberg è la mancanza di solidità e volontà politica nell’Unione Europea. Come affermato da un’analista finanziario del Bilderberg, “i mercati sono tra l’incudine e il martello. I mercati possono far fronte a cattive notizie e a quelle buone, ma quella che i mercati finanziari non sono in grado di sopportare è l’indecisione. E questo è il punto in cui siamo. Nessuno ha la minima idea su come uscirne.”

Ma, come un altro del Bilderberg ha severamente rammentato ai delegati, “non abbiamo a che fare con una, ma con tre crisi: una crisi del debito, una crisi politico-economica e una crisi politica”. Come ben sa il Bilderberg, è impossibile fronteggiarne tre allo stesso tempo.

Il Bilderberg ha ammesso che le banche irlandesi non hanno possibilità di movimento, avendo tremende difficoltà nel reperire fondi quando, allo stesso tempo, stanno perdendo sangue, anche perché le persone hanno perso fiducia nel sistema. Con il ricordo ancora fresco dell’esperienza della Northern Rock, gli irlandesi sono con i piedi piantati. Per il momento, la stampa mainstream ha tenuto quest’informazione ben nascosta ma, come il Bilderberg ha ammesso, “è solo una questione di tempo prima che la cosa ci precipiti addosso.”

Un irlandese del Bilderberg ha ammesso che le banche irlandesi potrebbero finire i soldi prima ancora del governo irlandese.

Ma quello che preoccupa il Bilderberg è la reazione dei cittadini irlandesi. Come ha sottolineato uno del Bilderberg, “l’Irlanda vorrà prendere a prestito soldi per rimborsare i possessori delle obbligazioni e le banche europee che hanno scommesso sul boom irlandese?”

Per risolvere la crisi in corso, il governo europeo sta proponendo una massiccia presa di potere che fa parte di un progetto a lungo termine per salvare l’Unione. Se il piano sarà approvato, il governo dell’Unione stabilirà le regole per il futuro assumendosi un ruolo poliziesco, e una qualsiasi nazione che infrangerà le regole, o sarà in disaccordo con le misure draconiane implementate dall’UE, si vedrà ritirati i propri diritti di voto. Come ha apertamente ammesso un partecipante europeo al Bilderberg, “quello verso cui ci stiamo incamminando è la forma di un vero governo economico.”

Grecia

La Grecia è morta. Il messaggio venuto fuori dalla riunione del Bilderberg è indubitabile. I guai della Grecia non hanno solo mostrato i difetti strutturali dell’Unione Europea Monetaria, ma hanno anche evidenziato i problemi strutturali dell’economia globale. I funzionari governativi di tutto il mondo hanno cercato di risolvere il problema del debito aggiungendo ancora debito. Sfortunatamente, innalzare il tetto dei debito non può risolvere il problema. Questo è uno schema Ponzi, molto simile ai segreti dei casino di Las Vegas. Per tenere lontana la struttura piramidale dal collasso economico, coloro che vogliono che la speculazione prosegua richiedono uno stillicidio di una quantità di soldi sempre maggiore.

La risposta alla crisi ha solo evidenziato la dinamica che ha creato l’avvio della crisi: il credito facile significa debito. Storicamente, le crisi finanziarie portano a crisi del debito. E la crisi del debito pubblico in genere porta a crisi delle monete e a un futuro fatto di difficoltà economiche.

La crisi del debito pubblico non è ancora scoppiata. Lo scorso anno l’Europa, cercando disperatamente di risolvere la crisi dei paesi deboli dell’Eurozona, ha svalutato l’Euro e inflazionato il debito per cercare di fermare la spirale in discesa. Il problema in questione ha tre aspetti. Prima di tutto, gli stati membri non possono svalutare la propria moneta per rendere più competitive le proprie esportazioni. In secondo luogo, non possono sostenere una politica monetaria espansiva. Per finire, non possono istituire un’appropriata politica fiscale a causa delle restrizioni dell’Unione Europea sulla crescita e sul patto di stabilità. Di conseguenza, mentre gli stati membri europei non possono controllare le loro politiche monetarie, la svalutazione del debito diventa l’unica opzione a disposizione. L’Unione Europea è letteralmente chiusa in un angolo.

Come anche il Bilderberg ammette a porte chiuse, la Grecia non potrà mai restituire quanto dovuto ai mercati. Mai. E non è la sola. L’ex Ministro delle Finanze olandese, Willem Vermeend, ha scritto su De Telegraaf che “la Grecia dovrebbe lasciare l’euro”, dato che non sarà mai in grado di rimborsare i suoi debiti”. E questo l’élite del Bilderberg lo sa e lo comprende a pieno. I dati reali della disoccupazione in Grecia sono attorno al 19%. Secondo il delegato del FMI al Bilderberg, i dati previsti per la disoccupazione greca nel 2012 arriveranno al 25%. Il Bilderberg può solo sperare che queste informazioni non arrivino mai nelle prime pagine delle riviste più diffuse. Alla riunione del 2011 il Bilderberg ha cercato un modo per ristrutturare il debito della Grecia, non a beneficio dei greci, ma dell’élite finanziaria che potrebbe perdere un sacco di soldi nel caso di un fallimento. In seconda analisi, un default destabilizzerebbe i mercati e porterebbe poi a un abbassamento del rating per altri paesi deboli dell’Eurozona, come la Spagna, l’Italia, l’Irlanda e il Portogallo. I funzionari della BCE hanno ripetutamente fatto riferimento al rischio di turbolenza dei mercati per spiegare la loro opposizione alla ristrutturazione del debito greco.

Un’opzione presa in considerazione per salvare la faccia è quella di uno scambio sul debito. I possessori delle obbligazioni greche cambierebbero le proprie con titoli a lunga scadenza, dando alla Grecia ancora qualche anno in più per rimborsare i 340 miliardi di euro di debito. Comunque, per fare in modo che quest’opzione funzioni, gli investitori privati devono convincersi di accollarsi il compito di salvare la Grecia. Se l’opzione degli investitori privati non funzionasse, la Francia è stata incaricata di fornire supporto per questo scambio sul debito, secondo le fonti che erano presenti alla conferenza del Bilderberg.

Allo stesso tempo, l’Unione Europea e il FMI si stanno preparando per annunciare un secondo salvataggio per la Grecia, riconoscendo implicitamente che il primo tentativo da 110 miliardi di euro lanciato nel maggio del 2010 è stato un fallimento totale, anche per il fatto che Atene ha mancato alla grande i suoi obbiettivi di riforma fiscale.

Ma c’è un altro problema che concerne la volontà dello scambio sul debito. Come riuscire a convincere di nuovo gli investitori che sono stati raggirati una prima volta? Alla fine dei giochi, se il Bilderberg la spunterà, i contribuenti dovranno accollarsi la gran parte del bailout concesso per salvare le speculazioni e i debiti del governo. Un secondo salvataggio includerà una supervisione esterna draconiana dell’economia della Grecia, che riguarderà sia la spesa pubblica che quella privata. Ciò preoccupa il Bilderberg, specialmente alla luce delle forti proteste che si sono scatenate in tutto il paese.

Lo scenario di un’uscita della Grecia dall’euro è ora ufficialmente sul tavolo, così come i modi per metterla in pratica. Così come avvenuto in Islanda, i tagli al bilancio greco saranno soggetti al voto di un referendum nazionale, con i sondaggi che riportano un 85 per cento di greci che rifiutano il piano di salvataggio. Il movimento di lavoratori greci è sempre stato solido e la crisi del debito lo ha radicalizzato ancor di più. E quindi la questione per l’élite del Bilderberg è come liberarsi della Grecia, simulando di aiutarla a uscire dalla depressione.

Con la minaccia di ritirare il sostegno per le banche dei paesi, come la Grecia, che vogliono ristrutturare il debito, la BCE sta in pratica incitando a correre agli sportelli per ritirare i propri depositi e sta forzando il paese membro a uscire dall’Unione. In Grecia più dell’ 85% dei cittadini sono contrari alle riforme proposte.

Pakistan

La Cina è la nuova migliore amica del Pakistan. Si tratta di un grosso cambiamento geopolitico. Viene sulla scia dell’approvazione dell’amministrazione Obama di una tattica aggressiva contro il Pakistan, compreso anche l’uso di armi nucleari da parte della NATO per prevenire il loro potenziale uso da parte dei terroristi o di uno stato canaglia. Secondo il London Sunday Express, “le truppe degli Stati Uniti saranno schierate in Pakistan se le installazioni militari della nazione verranno minacciate per la rivendicazione dell’uccisione di Osama Bin Laden. […] Barack Obama avrebbe ordinato alle truppe di paracadutarsi per proteggere i siti delle testate nucleari. Queste includono il quartier generale delle forze aeree di Sargodha, la base per gli aerei da combattimento F-16 riforniti di armi nucleari e almeno 80 missili balistici.” E ora parliamo della Cina. L’avvertimento alla Cina è stato reiterato alla conferenza del Bilderberg da un delegato cinese che ha presenziato per la prima volta, secondo cui l’attacco programmato dal governo degli Stati Uniti sul Pakistan verrà interpretato come un atto di aggressione contro Pechino. I rischi sono adesso così alti come forse non lo sono mai stati per gli Stati Uniti post-Guerra Fredda mentre il Bilderberg cerca di sbrogliarsi dal pantano del Pakistan.

Come affermato da un delegato europeo, “gli Stati Uniti sono la nazione più potente al mondo, ma non sono più potenti del mondo intero”. Tutti sono d’accordo sul grave pericolo posto in essere dal rischio di una guerra generalizzata portato dal confronto tra USA e Pakistan.

Da un punto di vista geopolitico, il governo degli Stati Uniti è preoccupato del ruolo sempre più protagonista che ha la Cina nella regione. La Cina ha costruito un porto per il Pakistan a Gwadar, che è nelle vicinanze dell’ingresso nello Stretto di Hormuz. I delegati degli USA hanno espresso preoccupazioni sul fatto che il porto possa diventare una base navale cinese nel Mar Arabico. Questo riguarda da vicino l’India, la nuova migliore amica degli Stati Uniti nella regione. Siamo di fronte alla formazione della tempesta perfetta. Gli Stati Uniti dotati del nucleare che supportano un’India anch’essa fornita di testate e forte di 1,2 miliardi di persone contro il nemico acerrimo dell’India, il Pakistan nucleare e la sua nuova migliore amica, la Cina con le sue armi nucleari e con 1,4 miliardi di persone.

I tentativi del Bilderberg per creare le condizioni per un confronto tra Cina e India hanno dato alla Russia un’importanza chiave. Mentre sia Russia che Cina stanno lavorando alacremente per portare la pace in Libia, lo scopo di queste iniziative, come riconosciuto anche dallo stesso Bilderberg, è quello di ridurre l’influenza delle potenze occidentali e di assicurare alla Cina la forniture del petrolio libico.

Bisogna ancora vedere come possa essere raggiunto un accordo su questo argomento tra i delegati del Bilderberg, ma le intenzioni degli Stati Uniti si possono desumere con facilità. Per contrastare efficacemente il duopolio cino-pakistano, Washington cercherà di tirarsi fuori dal confronto usando l’India per fare il lavoro al proprio posto. Quando India e Cina avranno capito che sono stati manovrati e usati dagli Stati Uniti per distruggersi a vicenda, sarà troppo tardi per tornare indietro senza perdere la faccia.

Ancora una volta, la chiave per comprendere il confronto tra India e Cina è nella Russia e nel suo ruolo nel futuro Governo Globale delle Multinazionali. Fino a che la Russia non verrà soggiogata, il Bilderberg e i suoi sostenitori non possono sperare realisticamente di esercitare un controllo totale. Eliminando le due superpotenze asiatiche, la Russia rimarrà da sola, circondata da basi missilistiche USA e isolata dall’Europa e dalla NATO, a cui adesso aderiscono anche le ex repubbliche sovietiche, per larga parte antagoniste alla Russia. Inoltre, con l’appoggio del Bilderberg, una degradazione culturale ha portato una larga parte dei giovani russi ad ammirare la presunta “libertà” propugnata dagli Stati Uniti, che ora viene considerata un’ancora di salvezza contro gli eccessi “autoritari” della nazione russa, considerata, grazie all’influenza della stampa dei media occidentali, come una mera continuazione del vecchio sistema sovietico.

Una volta eliminata la Russia, gli Stati Uniti concentreranno le sue forze armate in Sud America. Chavez verrà scalzato dal potere, per poi essere seguito dai suoi alleati, Ecuador e Bolivia.

Comunque, il Pakistan è solo una parte della strategia tentacolare posta in essere in Asia dal governo degli Stati Uniti e dal Bilderberg. Nel 2002 uno degli argomenti chiave discussi alla conferenza del Bilderberg, che si è tenuta a Chantilly, era centrato sul progetto decennale del Bilderberg per eliminare il terrorismo, mettendo in essere iniziative sia diplomatiche che militari. È diventato in un secondo momento noto con il nome di “Operazione Aquila Nobile”.

Infatti, il Bilderberg ha ben chiaro che quello che stiamo affrontando è un processo in evoluzione che porta a un escalation senza fine di conflitti in tutto il pianeta. L’Asia è una delle aree di queste operazioni. Il Medio Oriente e il Magreb fanno parte di un altra.

Economia

Se vivessimo in un mondo reale, i titoli dei giornali che meglio descrivono la situazione finanziaria odierna dovrebbero recitare: “La fine è vicina. Siamo nel mezzo di un collasso finanziario dell’economia.” Il problema dei manager finanziari di alto livello del Bilderberg è quello di posticipare i default più a lungo possibile per poi effettuare i salvataggi, lasciando ai governi (gli elettori) la patata bollente e subentrando nelle obbligazioni dei debitori insolventi. Con la stragrande maggioranza della popolazione che si oppone a tutto questo, il trucco è quello di aggirare le politiche democratiche.

E come è nelle intenzioni del Bilderberg, le politiche economiche devono essere trasferite dalle istituzioni democraticamente elette ai pianificatori finanziari, rendendo così l’economia interamente dipendente da essi, con il debito pubblico che crea un enorme mercato “libero dal rischio” per i prestiti gravati dagli interessi. Tutto questo spiega quello che George Ball, l’allora Sottosegretario per gli Affari Economici con J.F. Kennedy e Johnson, disse nel 1968 nel corso di una riunione del Bilderberg che si tenne in Canada: “Dove possiamo trovare una base legittima su cui si basi il potere dei manager delle multinazionali per poter prendere decisioni che modificano profondamente la vita economica delle nazioni, quando nei governi hanno solo una responsabilità limitata?”

Questo è il modo in cui l’oligarchia finanziaria rimpiazza le democrazie. Il ruolo della Banca Centrale Europea, del FMI, della Banca Mondiale, della Banca dei Regolamenti Internazionali, della Federal Reserve e di altre agenzie finanziarie che tralascio è stato quello di assicurarsi che i banchieri venissero ben pagati.

Il problema con la situazione attuale è che il mondo è guidato dal sistema monetario, non dai sistemi nazionali del credito. Se hai le idee chiare, non vorrai di certo un sistema monetario che governi il mondo. Vorrai che esistano Stati-nazione sovrani che abbiano i loro sistemi creditizi, basati sulla propria moneta. L’aspetto determinante è che la possibilità della creazione del credito produttivo e non inflattivo, cosa chiaramente stabilita dalla Costituzione degli Stati Uniti, è stata esclusa dal Trattato di Maastricht in modo da determinare le politiche finanziarie ed economiche.

Adesso, in Europa, questo non può essere fatto perché i governi sono soggetti al controllo degli interessi bancari privati, conosciuto come sistema bancario indipendente, che blocca costituzionalmente la possibilità di creare credito da parte dei governi. Queste istituzioni hanno il potere di influenzare e di dettare le condizioni ai governi. Pensate cosa rappresenta quell’istituzione chiamata Banca Centrale Europea. Cerca di operare come una banca centrale europea indipendente, senza che ci sia un governo corrispondente. Non ci sono governi. Non ci sono nazioni. È solo un gruppo di nazioni guidate da una banca privata.

La supposta “indipendenza” della Banca Centrale è il meccanismo di controllo che è decisivo per gli interessi finanziari privati, che storicamente si sono insediati in Europa come strumento autoritario contro le politiche economiche delle nazioni sovrane, che sarebbero orientate verso lo stato sociale. Il sistema bancario europeo è il residuo di una società feudale, nella quale gli interessi privati – come evidenziato dagli antichi cartelli veneziani o dalla Lega Lombarda, risalgono ai tempi oscuri del XIV secolo.

Conclusione

Quella che abbiamo oggi non è una crisi di liquidità, ma è una crisi d’insolvenza. Gli Stati Uniti hanno un debito di 14,3 trilioni di dollari. Inoltre, il governo infilerà per il terzo anno consecutivo un deficit di un triliardo di dollari, un qualcosa che nessun paese nella storia mondiale è mai riuscito a fare. C’è già la conferma di una nuova recessione nel mercato immobiliare con i prezzi che affondano ancora di più di quanto successo nella Grande Depressione. E una caduta delle quotazioni delle azioni delle banche, con le compagnie come Bank of America e Citigroup che cedono ogni centesimo dei profitti ottenuti negli ultimi due anni. Ma non si tratta solo di Bank of America e della Citi, si parla di tutte le istituzioni finanziarie degli Stati Uniti. Da Wells Fargo a JP Morgan Chase, il sistema sta implodendo: le banche, il mercato finanziario, il mercato delle obbligazioni, quello immobiliare. E ora possiamo aggiungere anche gli Stati Uniti alla lista dei paesi in bancarotta. Il dollaro USA ha perso il 12% del suo valore in un anno. E la Cina, per la prima volta, è diventata un venditore netto dei buoni del Tesoro statunitensi. Ciò significa che la bolla delle obbligazioni sta per esplodere e, quando questo accadrà, vi consiglio di prendere un posto in prima fila per godersi i fuochi d’artificio. È un’occasione che capita una sola volta nella vita.

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Il Bilderberg non è l’effetto, ma la causa di un futuro Governo Globale delle Multinazionali. Questa organizzazione è cresciuta dal suo avvio, avvenuto in disparte, per diventare un nodo cruciale nelle decisioni delle élite. La meta ultima di questo futuro da incubo è quello di trasformare il pianeta in una prigione a cielo aperto con la realizzazione di un mercato globale, controllato una Multinazionale Globale, regolato finanziariamente dalla Banca Mondiale e popolato da una popolazione rincretinita i cui bisogni di vita saranno ridotti al materialismo e alla sopravvivenza – il lavoro, le compere, il sesso, le dormite – collegata a un computer globale che monitora ogni mossa. E sta diventando sempre più facile perché lo sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni, assieme alle conoscenze approfondite e ai nuovi metodi di ingegneria comportamentale per la manipolazione della condotta individuale, stanno trasformando quelle che erano, in altre epoche storiche, solo intenzioni maligne in una nuova realtà sconvolgente. Ogni singola misura, vista in sé, potrebbe sembrare un’aberrazione, ma tutto l’insieme dei cambiamenti, che fanno parte di un continuum sempre in azione, costituisce un processo che conduce alla totale schiavitù.

E mentre vediamo il mondo che va in malora, ci troviamo a un bivio. La strada che prenderemo determinerà il futuro dell’umanità, se diventeremo parte di uno stato di polizia globalmente connesso o se rimarremo essere umani liberi. Ricordate, non dipende da Dio se torneremo indietro a un nuovo Medioevo, dipende da noi. Uomo avvisato mezzo salvato. Non troveremo mai la giusta risposta se non ci facciamo le domande corrette.

di Daniel Estulin