30 luglio 2013

Detroit è la battaglia del secolo!


Il 19 luglio, nel corso di una webcast dal vivo, Lyndon LaRouche ha avvertito che se gli Stati Uniti non torneranno alla legge Glass-Steagall, "potremo dire addio alla nazione". E’ impossibile salvare le banche del sistema finanziario transatlantico; esse finiranno col fare default verso i loro creditori, e la maggior parte della popolazione di Europa e Stati Uniti verrà lasciata per strada a morire di fame.

Un esempio terrificante di questo si può vedere a Detroit, che il 18 ha dichiarato la bancarotta, la città più grande a farlo nella storia degli Stati Uniti. L’Emergency Financial Manager Kevyn Orr ha imposto un accordo secondo cui verrà garantito ai banchieri, inclusi quelli coinvolti in speculazioni in derivati e credit default swaps - il costo dei quali è aumentato in modo fraudolento con la manipolazione illegale del tasso LIBOR – il pagamento dei debiti con una sforbiciata di appena il 10-20%, e per farlo ridurrà le pensioni dell’80-90%. Poiché secondo la legge federale le amministrazioni locali e i loro dipendenti non sono tenuti a versare contributi per la Sicurezza Sociale, se viene meno la pensione municipale non hanno diritto a niente altro.

Bill Roberts del LaRouchePAC, già candidato al Congresso, ha ricordato in una dichiarazione del 21 luglio che nel corso di un suo intervento al consiglio comunale un anno fa aveva avvertito che se non avessero attuato la legge Glass-Steagall la città e la sua popolazione sarebbero state sacrificate "sull’altare delle stesse banche che hanno escogitato la più grossa frode della storia umana: la manipolazione dei tassi LIBOR contro enti locali e aziende municipali, che è costata loro miliardi di dollari. Non hanno dato ascolto al mio consiglio, e ora Detroit è sotto una dittatura finanziaria" con la nomina di un manager finanziario di emergenza che prenderà la decisione al posto dei funzionari eletti.
Sono state sporte numerose denunce contro la decisione di fallimento, in quanto esso viola la Costituzione del Michigan che tutela in particolare le pensioni stipulate secondo la legge dello stato.
Il saccheggio di Detroit, un tempo il motore industriale degli Stati Uniti, è emblematico del collasso dell’economia reale in tutti gli Stati Uniti. Nel 2012 il tasso di disoccupazione era del 25% e quello di povertà era quasi il doppio. Dal 2000 il gettito fiscale del Comune è calato del 40%, mentre le banche fanno enormi profitti sui prestiti che hanno emesso.
La bancarotta non era affatto inevitabile. Una proposta avanzata nel 2005 dal LaRouche PAC, col sostegno dei sindacati e della società civile, avrebbe consentito la riconversione degli spazi e dei macchinari inutilizzati dal settore automobilistico per la produzione delle infrastrutture economiche più urgenti per il paese. Il Congresso e la Casa Bianca respinsero questa proposta, e il collasso prese il suo corso.
Il Presidente Obama sostiene spesso di aver salvato il settore auto. Ma il cosiddetto salvataggio dei 3 giganti dell’auto nel 2009 consisté nel pagare i creditori e le passività finanziarie dell’industria dell’auto sostituendo i lavoratori ben pagati con una forza lavoro più piccola con un salario ridotto della metà. Così mentre i tre giganti dell’auto furono salvati a spese dei contribuenti, fu in gran parte smantellato il potenziale produttivo. Questo ha portato ad un'ulteriore fuga degli abitanti ed al crollo del gettito fiscale.

by (MoviSol) - 

29 luglio 2013

Lo spionaggio è solo un aspetto dello stato di polizia di Obama




 In apertura della webcast del 12 luglio, Lyndon LaRouche ha lanciato una forte denuncia dei poteri esorbitanti del ramo esecutivo del governo americano consolidatisi negli ultimi dodici anni, esortando il Congresso ad adempiere ai suoi doveri costituzionali e mettere in riga la Presidenza.
Una iniziativa in tal senso è stata presa dal parlamentare democratico Rush Holt, ex presidente della Commissione di Controllo sui servizi di intelligence della Camera ed egli stesso ex funzionario di intelligence, il quale ha annunciato un disegno di legge per abolire il Patriot Act e la legge FISA, "la legge che ci ha regalato l'attuale stato di polizia". Il ddl di Holt reintrodurrebbe l'obbligatorietà del mandato del giudice per sorvegliare un cittadino USA, giustificato da prove sulla pericolosità per la sicurezza nazionale. Il ddl proteggerebbe anche le "talpe" che rivelano violazioni della legge da parte della pubblica amministrazione.
Gli Stati Uniti si sono mossi verso una dittatura a partire dalla presidenza di Bush senior (1989-1993), ha denunciato LaRouche. In partenariato con la Gran Bretagna, gli USA cercano di controllare la politica del mondo intero con metodi di sorveglianza e repressione.
Daniel Ellsberg, il famoso analista militare che nel 1971 rivelò i Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam, ha dichiarato il proprio appoggio a Edward Snowden, affermando di condividere anche la scelta di fuggire all'estero per evitare un quasi sicuro isolamento in carcere. La mia, ha scritto Ellsberg, "era un'altra America". Oggi è diventata gli "United Stasi of America".
Sotto l'amministrazione Obama non è stato consolidato solamente l'apparato di sorveglianza, ma anche altri aspetti meno noti dello stato di polizia. Ad esempio, il "Programma del Ramo Esecutivo sulla Minaccia Interna", dal sapore orwelliano già nel nome, prende di mira le "talpe", ordinando ai dipendenti pubblici di spiare sui colleghi e riferire ogni comportamento sospetto sotto il manto dell'anonimità. Con la perfidia che gli è caratteristica, Obama ha firmato quella legge alla vigilia della Festa del Ringraziamento nel 2012.
Obama ha perseguitato le "talpe" molto più dei suoi predecessori, e ne ha rinviati a giudizio sotto lo "Espionage Act" del 1917 più di tutte le amministrazioni messe assieme. In questo contesto, la Legge per la Difesa del 2013, anche se in genere è abominevole, presenta un aspetto positivo: ha introdotto la protezione per tutti coloro, tra i 12 milioni di dipendenti di ditte fornitrici della Difesa, che vogliano passare informazioni segrete al Congresso per combattere la corruzione o altri reati.
Ma il Presidente Obama, firmando la legge il 2 gennaio, lo ha fatto con un "signing statement" alla Bush, in cui dichiara che non ne applicherà le prescrizio

by Movisol

28 luglio 2013

Sovranità e nazione





Frédéric Lordon ha appena pubblicato un articolo importante (1) – Ce que l’extrême droite ne nous prendra pas – in cui affronta la questione essenziale della sovranità ma anche quella altrettanto essenziale della Nazione. Vediamo subito quale sia il nocciolo di questo articolo e le domande a cui cerca di rispondere, nel contesto della crisi dell’Euro, ma anche, più genericamente, della crisi dell’idea europea generata dagli sforzi di coloro che si proclamano i più ferventi difensori dell’Unione Europea. Tali questioni sono già state affrontate nel libro a cura di Cédric Durand (2) e invito i lettori di questo blog a riferirsi al dibattito che ho avuto con lui in articoli precedenti. (3) 


Sovranismo di destra, sovranismo di sinistra? 

Prima di provare ad approfondire alcuni punti del testo con cui chiaramente concordo, e su cui ho preso posizione da più di dieci anni (4), conviene precisare una cosa. Frédéric Lordon scrive: 
“Poiché se questo ordine [il neo-liberalismo] in effetti si definisce come l’opera di dissoluzione sistematica della sovranità dei popoli, affinché possa dispiegarsi senza impacci la potenza dominante del capitale, ogni idea di porvi un limite non può avere altro senso che quello di una restaurazione di questa sovranità, senza mai poter escludere che tale restaurazione si dia come territorio – e, non se ne dispiaccia l’internazionalismo astratto, la sovranità presuppone la delimitazione di un territorio – quello delle nazioni esistenti...senza escludere simmetricamente che essa si proponga anche di ampliarlo!”. 
È un esordio che condivido pienamente, compreso il fatto che la sovranità implichi un territorio ma altresì la distinzione di ciò che è all’interno e ciò che è all’esterno. La frontiera è un elemento decisivo e addirittura costitutivo della democrazia, che questa frontiera sia territoriale o metaforica come nel caso dell’appartenenza a un’organizzazione. È ridicolo sentire gli stessi che rifiutano le frontiere attorno a un territorio difendere la distinzione membri/non membri quando il loro potere è in gioco. Sarebbe il colmo se ciascuno di noi potesse votare negli organismi di un partito politico, quale che esso sia, senza esserne membro! Con quest’esempio vediamo bene che l’esistenza della democrazia implica la chiusura dello spazio politico e che questa chiusura implica una “frontiera”. Dire questo non implica che non abbiamo niente in comune o che ci dobbiamo disinteressare di coloro che si trovano dall’altra parte del confine, che esso delimiti un’organizzazione o un paese. Ciò però consente di attribuire un senso alla distinzione membro/non membro, di conferirgli una pertinenza e quindi, per contrapposizione, di ritenere pericolose le idee che rifiutano questa distinzione. 
Fréderic Lordon non dice niente di diverso quando aggiunge che coloro che contrappongono la Nazione all’Internazionalismo non si rendono conto della vacuità di tale contrapposizione, dal momento che propongono “un internazionalismo politicamente vuoto poiché non indica mai le condizioni concrete della deliberazione collettiva, o, se le indica, non si accorge che sta semplicemente reinventando il principio (moderno) della nazione ma su una scala più ampia!”. 
Fréderic Lordon distingue poi ciò che chiama un “sovranismo di destra” da un “sovranismo di sinistra”, contrapponendo “Nazione” e “Popolo”: “potrebbe essere utile iniziare mostrando in che cosa un sovranismo di sinistra si differenzia chiaramente da un sovranismo di destra: quest’ultimo si concepisce generalmente come sovranità “della nazione”, mentre il primo rivendica di attribuire la sovranità “al popolo”. 
Mi pare che qui ci sia una confusione. La differenza fra destra e sinistra non deriva dalla sovranità, ma dalla maniera di concepire la Nazione. Da questo punto di vista, rifiuto l’idea che possa esserci un sovranismo “di destra” o “di sinistra”. C’è il sovranismo, condizione necessaria all’esistenza di un pensiero democratico, e ci sono le ideologie che rifiutano la sovranità e quindi, alla fine, la democrazia. 


Quali visioni della Nazione? 

Questo non vuol dire che non ci sia un pensiero di destra e un pensiero di sinistra, ma questa contrapposizione non passa per la questione della sovranità ma per quella della Nazione. Per un pensiero “di destra”, la Nazione “è” e di conseguenza ci si sofferma poco sulla sua origine. Si preferisce mettere l’accento sugli aspetti atemporali della sua esistenza e la questione del “corpo mistico” della Nazione non è considerata un’ubbia o un anacronismo. Riemergono rapidamente i miti cristiani: per la maggior parte dei pensatori di “destra” la Nazione rinvia, alla fine, al trittico “une foi, une loi, un Roi” [una fede, una legge, un Re]. I problemi cominciano, d’altra parte, con l’ingresso nell’età moderna, con l’emergere di un pluralismo religioso (la Riforma) che distrugge l’idea di un’unicità religiosa. Alcuni autori contemporanei, e fra di essi personalità così opposte come Carl Shmitt e von Hayek, fanno riferimento a “meta-valori” come origine della “legge”: tali valori strutturerebbero quindi lo spazio della Nazione. Il riferimento al cristianesimo è esplicito in Carl Shmitt. Non occorre essere grandi studiosi per scorgere una riproposizione della metafisica; qui però si pone un problema, cioè quello delle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nel Rinascimento. In effetti dalla fine del XVI secolo, grazie a un personaggio come Bodin, si sviluppa l’idea che la legge trae la sua legittimità dalla necessità di far coesistere interessi e credenze diversi nell’ambito di un medesimo spazio territoriale. 
Non è un caso che Bodin sia certo l’autore dei famosi Sei Libri della Repubblica (5), ma anche del meno famoso, ma non meno importante, “Colloquium Heptaplomeres” (6) o “Colloquio dei sette”, che pone le basi dello Stato laico a partire dalla constatazione che in materia di religione è impossibile convincere con argomentazioni che fanno appello alla Ragione. Da quel momento, all’epoca delle guerre di religione in Francia, l’importante non è sapere se si è cattolici o ugonotti ma se si è francesi o alleati col re di Spagna. E’ stato solo ponendo il problema in questi termini che si è potuto ricostruire uno spazio politico collettivo. Ma per questo occorreva capire chi era francese e chi non lo era. Il pensiero “di destra” non si è mai ripreso da questa rivoluzione che obbliga a pensare l’origine della legge e i compromessi sociali al di fuori da qualsiasi riferimento a una norma “divina” o semplicemente fondamentale. Da questo punto di vista, la Nazione e lo Stato post-Bodin sono incompatibili con tutti i fanatismi religiosi, tutte le letture letterali di una religione, che si tratti di cristiani, ebrei o musulmani (o altri...). 
Per i pensatori “di sinistra” la Nazione è prima di tutto una costruzione sociale: una constatazione rassicurante con cui si crede di aver liquidato la questione metafisica. Niente è meno sicuro. A quella prima riflessione, che è profondamente vera, gli intellettuali aggiungono due aporie. Se sono marxisti, non concepiscono questa costruzione sociale che attraverso il prisma della “lotta di classe che porrà fine alla lotta fra le classi”: in breve, il ritorno hegeliano della contraddizione. Ma questa non è che una rappresentazione che conduce a sminuire l’importanza della Nazione come spazio abitato (e anche popolato) dalla democrazia. Dal momento che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo metterà fine allo sfruttamento, che importanza ha questa “reliquia del passato” che sono la Nazione e lo Stato? D’altra parte, in una società senza conflitti lo Stato non è più necessario...Appena abbiamo creduto di esserci liberati della zavorra metafisica, eccola di nuovo. E Lenin, che scriveva Stato e rivoluzione qualche mese prima dell’ottobre del ‘17, dovette riconoscere, sotto la spinta della necessità, l’importanza dello Stato e l’esistenza di conflitti sociali legittimi anche nella società post-rivoluzionaria. Per alcuni marxisti (non tutti: lo so perfettamente), quell’atteggiamento si accompagna a una sottovalutazione fondamentale della democrazia stessa: quest’ultima diventa strumentale rispetto all’obiettivo della fine dello sfruttamento. Sappiamo a quali derive ciò abbia condotto. 
Se invece sono marxiani e non marxisti (la differenza, per i non iniziati, è che un marxiano cerca di essere fedele al metodo di Marx, mentre un marxista a una tradizione interpretativa di Marx), non hanno prismi teologici ma considerano in generale il cambiamento sociale come legato ai tempi brevi, ciò che d’altra parte è piuttosto normale quando si vuole cambiare il mondo. Il problema è che la Nazione, e lo Stato-Nazione con essa, sono costruzioni sociali che dipendono dai tempi lunghi e si estendono su parecchi secoli. Della cultura politica che ne deriva, e che differisce notevolmente da una Nazione all’altra, siamo impregnati, consapevolmente o meno; questa cultura non è altro che il linguaggio in cui possiamo esprimere tanto i conflitti che le soluzioni. Da questo punto di vista, anche se le analisi sono molto diverse, tra una visione metafisica dello Stato e della Nazione, articolata intorno alla nozione di “corpo mistico”, e una concezione che invece li considera come prodotti di una costruzione sociale di lunghissima durata, non c’è una differenza radicale a questo livello di analisi. La differenza è piuttosto che, per coloro che intendono pensare la Nazione e lo Stato nell’ambito di una costruzione sociale di lunga durata, è indispensabile attenersi alla duplice ingiunzione di Jean Bodin, che poggia da un lato sul principio che non possiamo fondare la Nazione e lo Stato su basi religiose poiché la religione non ci unisce più ma ci divide; dall’altro sulle condizioni di funzionamento della Nazione e dello Stato che devono dominare conflitti fra interessi e convinzioni diversi in nome della “cosa pubblica”, la Res Publica. 
L’opposizione non è dunque tra un sovranismo “di destra” e uno “di sinistra”: non c’è che un sovranismo. Ci sono però concezioni della Nazione che sono “di destra”, perché riconducono ad aporie religiose (e si parla qui tanto di religioni vere e proprie quanto di visioni teologiche) che non sono compatibili con un pieno sviluppo della democrazia. Ciò detto e precisato, condividiamo pienamente l’idea affermata da Frédéric Lordon che la sinistra, quella vera, avrebbe tutto l’interesse a riappropriarsi della Nazione come condizione necessaria all’esistenza della democrazia e della Res Publica. Beninteso, questa Nazione non è costituita su basi etniche ed è pronta ad accogliere in sé tutti coloro che vengono a farla vivere col loro lavoro ed energia, nel rispetto di leggi alla formazione delle quali contribuiscono. 

di Jacques Sapir 

NOTE 

1. Lordon F., «Ce que l’extrême droite ne nous prendra pas», articolo postato sul blog di Monde Diplomatique all’indirizzo:http://blog.mondediplo.net/2013-07-08-Ce-que-l-extreme-droite-ne-nous-prendra-pas 8 luglio 2013. 
2. Durand C., (sotto la direzione di), En finir avec l’Europe, La Fabrique éditions, Paris, 2013. 
3. Sapir J., «Europe: un livre, un sondage» articolo pubblicato su RussEurope il 16 maggio 2013,http://russeurope.hypotheses.org/1237 et Idem, «En finir avec l’Europe (seguito)», articolo pubblicato su RussEurope il 31 maggio 2013, http://russeurope.hypotheses.org/1306
5. Bodin, J. Les Six Livres de la République, Librairie Générale Française, Le Livre de Poche, con una presentazione di Gérard Mairet, Paris, 1993, 607 p. 
6. Bodin, J., Colloquium Heptaplomeres, opera scritta nel 1587 ma rimasta per lungo tempo manoscritta, non è stata pubblicata che nel 1858 a Lipsia da Ludwig Noack 

26 luglio 2013

Le grandi banche diventano corporation industriali



Invece di essere sottoposte ad un processo di riorganizzazione e di ridimensionamento, le banche americane “too big to fail”, quelle troppo grandi per essere lasciate fallire, hanno bypassato tutte le limitazioni e i controlli (i Chinese walls), che separavano il sistema bancario da quello commerciale, per “invadere” e impossessarsi di ampi settori dell’economia reale. Altro che riforma del sistema bancario! 
Esse stanno penetrando le sfere commerciali non finanziarie, allargando i loro business nei settori di produzione e di distribuzione dell’energia, delle materie prime e delle imprese di pubblici servizi. 
Una recente indagine fatta da parlamentari americani, concentrata in particolare sulle nuove attività commerciali svolte dalla JP Morgan Chase, la banca Usa numero uno, dalla Goldman Sachs e dalla Morgan Stanley, ha portato ad una richiesta di intervento e di controllo da parte della Federal Reserve. Però la stessa Fed è messa sotto osservazione per il suo coinvolgimento in simili processi. 
Orami è evidente che le banche in questione si stanno trasformando in grandi corporation e multinazionali. Gli effetti dirompenti per l’economia industriale potrebbero essere imprevedibili e incalcolabili. 
La JP Morgan Chase, per esempio, gestisce in California la distribuzione dell’energia che è prodotta da impianti da essa posseduti. In atto c’è un’indagine per provare se abbia anche manipolato i prezzi delle bollette di energia. 
Si ricordi che in passato la Enron, la multinazionale dell’energia, fallì per aver “giocato” con la speculazione in derivati. La JP Morgan ora sembra percorrere la strada al contrario, dalla finanza alla produzione e ai servizi legati all’energia. 
La Goldman Sachs starebbe facendo incetta di grandissime quantità di alluminio accumulate in attesa che il mercato lieviti. In merito riteniamo di dover segnalare che la Coca Cola, grande utilizzatore di lattine in alluminio, avrebbe presentato uno specifico esposto presso il London Metal Exchange, la borsa delle materie prime di Londra. 
La GS starebbe anche espandendo le sue attività alla gestione dei porti, degli aeroporti e delle autostrade a pedaggio, nonché alla commercializzazione di materie prime strategiche, compreso l’uranio, e di altre risorse energetiche. 
La Morgan Stanley starebbe diventando sempre più una multinazionale del petrolio. Nel giugno 2012 avrebbe importato negli Usa 4 milioni  barili. Anch’essa è impegnata nella produzione e nel commercio di materie prime, metalli e materiali preziosi. Possiede centri di produzione e di distribuzione di energia elettrica e di gas anche in  Europa. E’ coinvolta anche nei settori dei trasporti e della logistica. 
Più volte è stato evidenziato che le tre suddette banche sono coinvolte nelle operazioni internazionali in derivati finanziari, anche in quelli sulle commodity, sulle materie prime e sui prodotti alimentari. Ciò oggettivamente rivela un evidente conflitto di interessi. 
In questo modo le grandi banche americane purtroppo dettano legge e comportamenti all’intero mondo bancario globale, spostandolo dai servizi finanziari alle attività commerciali e a quelle di gestione e di produzione industriale. 
Di conseguenza i rischi vengono accresciuti, sia per la possibilità di manipolazione dei prezzi e sia per le inevitabili ricadute di eventuali crisi bancarie sui rifornimenti industriali. 
Dopo la crisi finanziaria le 5 maggiori banche americane, la JP Morgan Chase, la Bank of America, la Citigroup, la Wells Fargo e la Goldman Sachs, hanno ingigantito i loro bilanci e i loro business. Nel 2007 possedevano asset pari al 43% del Pil americano. Alla fine del 2011 gli asset erano pari al 56% del Pil, raggiungendo un ammontare di ben 8,5 trilioni di dollari. 
Tale concentrazione di potere finanziario ed economico sta mettendo a rischio anche il sistema delle banche regionali e di quelle che effettuano solo la raccolta di risparmio. 

Più volte e in varie sedi si è affermato la necessità di riformare le istituzioni finanziarie “too big to fail”. Ma nulla si è fatto!

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

25 luglio 2013

Il MES batte un golpe…




Chi ha il potere di creare moneta LEGALE (cioè obbligatoria) tassa invisibilmente la comunità del potere d’acquisto corrispondente che si arroga. E’ un diritto sovrano, non può essere lasciato ai privati ai quali comunque può essere consentito di emettere moneta complementare a circolazione libera, a CORSO LIBERO, poiché l’uso della stessa non è imposto dallo Stato.
Lo Stato non può imporre ai cittadini, depauperandoli mostruosamente, di adottare una moneta privata per l’assolvimento delle obbligazioni. Si tratta di ALTO TRADIMENTO.
Per capire il sistema bancario, i punti da tener presenti sono tre:
1 – Nascono prima i prestiti dei depositi, il denaro virtuale viene creato dalla banca all’atto del prestito e dopo viene depositato.
2 – Le banche sono principalmente delle creatrici di denaro creditizio (virtuale) e svolgono solo marginalmente l’attività d’intermediazione finanziaria vera e propria.
3 – Le banche non hanno bisogno di percepire anche gli interessi, rubano già l’intero capitale all’atto della creazione del credito. Le banche non pagano tasse sul capitale rubato perché lo mettono al passivo del bilancio realizzando un’evasione doppia.
Se ne desume che le banconote in euro rappresentano un curioso caso di corpo del reato che è anche allo stesso tempo refurtiva e mezzo di riciclaggio.
Nota bene: si salvano solo gli euro metallici a signoraggio statale, contingentati però dall’UE: in Pochi spiccioli all’Italia la dimostrazione che una decisione della BCE ci strozza nel tetto imposto di emissione di valore da spiccioli pro capite, inusitatamente basso per l’Italia rispetto al pro capite degli altri Stati. Contingentati dalla BCE lo sono anche i titoli del debito pubblico, di cui la facoltà di emissione sarà prossimamente scippata semplicemente agli Stati per regalarla al MES. Il presidente del MES al momento è – in conflitto di interessi? in cumulo di poltrone? – il ministro delle Finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, che è anche il presidente dell’Eurogruppo, subentrando a Juncker che era in carica dal 2005. Il ministro olandese, che è stato nominato dall’Eurogruppo con l’opposizione espressa della Spagna, rompendo con la tradizione che richiedeva l’elezione all’unanimità dei paesi, è lo stesso che ha deciso l’esproprio dei conti ciprioti e la cancellazione pura e semplice dei titoli dei piccoli obbligazionisti della banca olandese SNS nazionalizzata 
Si può dimostrare in Tribunale che ogni cittadino è stato derubato di 2 milioni di euro con la truffa della moneta privata e del debito pubblico. Ma la magistratura deve fare quel minimo sforzo che le consente di capire che, poiché tutta la moneta in circolazione è corpo del reato, le transazioni imposte in euro non hanno valore. In sostanza, se usi euro sei un riciclatore. Punto
Riepilogo: Durante la seconda guerra mondiale, fortemente voluta dall’esponente della mafia bancaria internazionale, il signor presidente Roosevelt, la mafia bancaria si mise d’accordo con la mafia “tradizionale” (criminalità comune organizzata) per organizzare lo sbarco in Sicilia e l’occupazione dell’Italia. La prima cosa che fecero gli americani, schiavi del dollaro privatizzato, organizzarono una bella emissione di moneta falsa per 140 miliardi che fu poi addebitata allo stato facendo mnascere il “debito pubblico” (se lo chiamavano “debito dell’occupante” magari nessuno voleva pagarlo…). Nel 1944 il bilancio dello stato vide l’ultimo anno di attivo. 70 anni dopo, dopo decine di basi militari d’occupazione che contaminano il territorio anche radioattivamente, in piena crisi artificiale ordita dai soliti oligarchi usurai… dimmi tu che facciamo.
Siamo riusciti a rinominare l’oligarchia bancaria come “democrazia”. Siamo in pieno democrazismo totalitario. Democrazismo sancito dai trattati UE laddove prescrivono agli Stati di passare dalle forche caudine dell’oligarchia bancaria (il mercato primario delle banche dealer) per rifornirsi di moneta.
Come si arriva al calcolo che 2 milioni di euro di rendita monetaria a testa sono il risultato della truffa monetaria del sistema bancario in Italia? Il calcolo, per difetto, è semplice: la massa dei titoli del debito pubblico venne usata dalle banche come base di riserva frazionaria nell’area euro che era il 2%. Significa che potevano creare il 98% con il 2% di riserva, e cioè circa 50 volte il valore dei titoli posti a riserva. Quindi le banche hanno creato soldi per 50 volte questo importo e li hanno riciclati prestandoli in circolazione. Il riflusso aggregato dei prestiti rappresenta il loro bottino: capitale + interessi. Limitandoci alla sola cifra di capitale creato di cui le banche si sono appropriate: 50 volte il debito pubblico. 100.000 miliardi di euro oltre a quelli che riescono a strappare agli Stati per i “salvataggi”. E’ scandaloso.

Comunque, la cifra totale risultante la dividi per il numero di abitanti ed ottieni l’importo pro-capite. Quindi, debito pubblico totale moltiplicato per 50 e diviso per il numero di abitanti. Vedete voi quanto viene. Il problema tecnico è il seguente: se le banche decidessero di rimborsare (basterebbe anche nazionalizzarle), non potrebbero farlo emettendo NUOVA moneta, poiché così creerebbero un altro nuovo debito verso la società. Quindi devono rimborsare con i mezzi propri e, siccome abbiamo accertato la criminalità di queste imprese, e quindi non vale la clausola della responsabilità limitata per le imprese criminali, ANCHE I SOCI DELLE BANCHE DEBBONO RIMBORSARE FINO ALL’ULTIMO COL PATRIMONIO PERSONALE.

di Marco Saba e Nicoletta Forcheri 

24 luglio 2013

Il vero scopo del governo Letta-Napolitano? Perpetuare la particrozia attraverso la crisi





  
   
Il paradosso del governo Letta è che esso non fa quasi nulla, limitandosi a temporeggiare, rinviare e farsi difendere, mentre è stato formato e giustificato come governo trasversale imposto dall’esigenza di fronteggiare l’emergenza mediante interventi forti e risolutivi sull’economia, sulla costituzione, sulla legge elettorale. Debito pubblico, disoccupazione, insolvenze, fallimenti salgono, sale anche lo spread, e il governo se ne sta a guardare, al massimo impetra l’autorizzazione tedesca a spendere qualche miliardo di soldi italiani spalmato sui prossimi anni, un niente rispetto alle dimensioni del male.

E’ una contraddizione vistosissima, da cui si esce chiamando il bluff: il vero scopo del governo Letta e della blindatura Napolitano è di proteggere l’establishment consolidato, la partitocrazia, impedendo che perda il potere sul Paese per effetto della crisi, della lotta tra le sue fazioni,  dello sputtanamento totale, del discredito delle istituzioni, della possibile reazione sociale al collasso economico. A tale scopo, l’importante, per i partiti, è stare insieme qualsiasi cosa accada,  gestire insieme il giorno per giorno, galleggiare, aspettando gli eventi e le decisioni che contano, che vengono da fuori: le elezioni tedesche, le mosse della BCE, della Fed, di Obama.
Mettere assieme i grandi avversari (PD, Pdl, Montiani, Casiniani) e blindare tale coalizione rieleggendo Napolitano non è stato fatto al fine di avere la forza e la coesione necessarie per riformare e rilanciare il Paese e tutelarlo in sede comunitaria – da anni nessuno più tenta di riformare il Paese o di tutelarlo rispetto a Germania, Francia e soci -, bensì al fine di realizzare una solidarietà partitocratica nell’interesse del potere e dei profitti e delle poltrone dei capi dei partiti. Al fine di corresponsabilizzarsi del disastro socio-economico, ma anche di funzionamento dell’apparato pubblico, che sta rapidamente avanzando, e che in autunno esploderà quando molte imprese non riapriranno e bisognerà fare ulteriori tagli e tasse, e non si potranno mantenere le promesse di partenza su imu, iva, cuneo fiscale. Al fine di corresponsabilizzare tutti nel fallimento e nelle misure che a quel punto si adotteranno per fronteggiare la protesta sociale: misure sicuramente dure, autoritarie, repressive. Non si vuole che, in quello scenario, vi sia un’opposizione forte e organizzata che possa approfittare del fallimento delle politiche economiche impostate sul modello imposto da Berlino e del ricorso alla forza contro il popolo, per prendere il potere e togliere poltrone e cordini della spesa pubblica e le leve di comando anche burocratiche e giudiziarie a chi li detiene stabilmente. Forse, per averlo in coalizione, a B. è stata offerta anche una soluzione per i problemi legali suoi personali e del suo gruppo industriale.
 il prof. Giulio Sapelli sostiene che il governo Letta sia stato formato tra le forze che, sostenute da Napolitano, vogliono un’integrazione economica europea  dell’Italia paritaria alla Germania;  mentre per contro gli attacchi diretti e indiretti al governo Letta verrebbero dalle forze che, capeggiate da Renzi, Saccomanni (Bankitalia) e da La Repubblica,  nell’interesse dell’egemonismo tedesco, vorrebbero un’integrazione subalterna, ancillare dell’Italia alla Germania.
A me pare invece che tutte le forze politiche e bancarie al governo (e qualcun’altra) siano da lungo tempo al servizio dell’egemone capitalismo tedesco, che tutte abbiano cooperato nell’asservire l’Italia alla Germania, e che oggi competano tra di loro per ottenere dai poteri forti stranieri, in cambio della preservazione dei loro privilegi inveterati, l’incarico fiduciario per pilotare, sfruttare e riformattare l’Italia nell’interesse straniero, nella fase che si aprirà dopo  la prossima emergenza, la prossima rottura dell’attuale pseudo-equilibrio su cui si regge il funzionamento del sistema-paese e il mantenimento di condizioni di vita accettabili per la gran parte della popolazione. E’ una sorta di gara di appalto per avere il mandato dal paese occupante di turno.
Su una cosa invece sono d’accordissimo con Sapelli: l’Italia non ha futuro senza e fuori dal rapporto con gli Stati Uniti. Anche se neanch’essi hanno ricette economiche valide e sostenibili (tali non sono i quantitative easings che finanziano impieghi improduttivi e speculativi), solo gli USA la possono salvare dal ferale modello economico-finanziario imposto egoisticamente da Berlino, e che prescrive prima di risanare i conti interni ed esterni, e poi di stimolare lo sviluppo. Un modello che va bene alla Germania, che ha già i conti sani – o meglio la forza di nascondere i loro buchi – e può quindi sostenere sviluppo, investimenti, occupazione a bassi tassi perché li finanzia coi denari che attrae-sottrae dai paesi periferici. Un modello che, al contempo, condanna l’Italia alla recessione e al continuo aumento del debito pubblico. E ricordiamo che l’elettorato tedesco, complessivamente, guarda agli italiani con disprezzo e diffidenza (razzismo?), quindi non accetterà mai l’integrazione politica e di bilancio, e invece approverà l’imposizione agli italiani di sofferenze e privazioni di ogni sorta. Mentre, al contrario, l’elettorato americano non è razzista né ostile né orientato al sadismo verso di noi.
di Marco Della Luna 

23 luglio 2013

Governo USA e banche: il controllo costante sul mondo



  
   
Il mondo finanziario: uno strumento d’informazione 

Il mondo della finanza contemporaneo ruota principalmente intorno all’informazione: i dati sui clienti delle banche e delle compagnie assicurative, sulle pensioni e sugli investimenti nonché i dati di altri enti che si occupano di finanza, devono essere raccolti, sistemati, elaborati e infine utilizzati. I numerosi pezzi del puzzle, provenienti da diverse fonti, vengono infine ricomposti. Se la faccenda riguarda persone fisiche, il tutto si riduce a denaro, proprietà, lavoro, salute, parenti e condizioni di vita. In caso di persone giuridiche, invece, la sfera d’interesse ingloba fondi e affari, storia creditizia, investimenti pianificati, top leader, azionisti, manager, contratti, fondi di capitale delle aziende, etc. Per tutto ciò, le banche e altri enti finanziari dispongono di servizi ad hoc. A parte questo, le informazioni comprendono gli uffici di credito nonché le agenzie di rating e d’informazione. 

Alcune banche o imprese possono creare delle banche dati contenenti informazioni sui i clienti. Le banche centrali sono diventate agenzie d’informazione potenti che svolgono le funzioni di controllo bancario approfittando di un accesso praticamente libero ai dati commerciali delle banche. Inoltre, alcune banche centrali raccolgono informazioni autonomamente. La Banca di Francia, ad esempio, esegue un monitoraggio delle imprese manifatturiere col pretesto del perfezionamento della propria politica di credito. Una gran quantità di informazioni finanziarie e commerciali vengono tratte dalle transazioni bancomat e POS, che sono sistemi di telecomunicazione che forniscono dati. Separatamente troviamo i sistemi di informazione che, seppur siano collegati e interagiscano con i suddetti, monitorano gran parte dei flussi d’informazione. 

La maggior parte delle banche e delle compagnie finanziarie si occupano dei propri servizi di sicurezza. Dal punto di vista formale, la loro missione è la protezione delle informazioni, ossia ciò che appartiene alle aziende. Ufficiosamente, però, molti servizi ottengono informazioni aggiuntive riguardo ad alcuni clienti e alla loro concorrenza. Tale meccanismo presuppone, naturalmente, operazioni sotto copertura, condotte attraverso l’utilizzo di speciali tecnologie e contatti interpersonali (HUMINT). 

Le informazioni raccolte sono private e, per accedervi, occorrono autorizzazioni legali. Il fatto che le banche riescano ad acquisire informazioni private e che godano di una consistente indipendenza dallo stato le rende sempre più simili ai servizi segreti. In realtà, sono le banche e i servizi segreti che sorvegliano le informazioni mondiali. Infatti, la fusione del personale dei Servizi speciali occidentali e dei settori bancario e finanziario ha dato vita ad un gigantesco e losco colosso dotato di vaste risorse informative e finanziarie capace di controllare ogni aspetto della vita umana. 

La SWIFT: il “cervello” della sorveglianza finanziaria e informativa mondiale 

Sono sicuro che in pochi conoscono l’acronimo SWIFT (Società per le Telecomunicazioni Finanziarie Interbancarie Mondiali). Si tratta di una cooperativa di credito attraverso la quale il mondo finanziario esegue le proprie operazioni. Sono più di 10.000 le istituzioni finanziarie e le grandi aziende in 212 paesi che ogni giorno si affidano a tale società per scambiarsi milioni di messaggi finanziari standardizzati. L’attività riguarda lo scambio sicuro di dati di proprietà pur assicurandone formalmente le loro privacy e integrità. Da un punto di vista legale, si tratta di una SPA costituita da banche di diversi paesi. È stata fondata nel 1973 da 240 banche di 15 stati affinché potessero inviare e ricevere informazioni sulle transazioni finanziarie in maniera affidabile, standardizzata e sicura. La società è attiva dal 1977. Per l’enorme quantità di transazioni SWIFT, la valuta utilizzata è il dollaro americano. La SWIFT è una società cooperativa di diritto belga ed è gestita dalle istituzioni finanziarie che ne fanno parte. Ha uffici in tutto il mondo. I quartieri generali della SWIFT, progettati da Ricardo Bofill Taller de Arquitectura, si trovano a La Hulpe, in Belgio, vicino a Bruxelles. L’istituzione governativa è l’Assemblea Generale. Le decisioni vengono prese sulla base di una maggioranza del tipo “un’azione - un voto”. Le banche americane e dell’occidente europeo dominano il consiglio d’amministrazione. Gli azionisti principali con potere decisionale sono: Stati Uniti d’America, Germania, Svizzera, Francia e Gran Bretagna. Le azioni sono distribuite a seconda del volume delle operazioni. 

Qualsiasi banca che goda del diritto di effettuare delle operazioni in ottemperanza alle leggi nazionali può essere membro della società SWIFT. Già alla fine del ventesimo secolo lo SWIFT è stato inevitabile nel caso in cui fosse stato necessario inviare denaro in un altro paese. Quando la maggior parte delle transazioni internazionali veniva effettuata in dollari, tutti i pagamenti passavano dai conti aperti nelle banche statunitensi, che, a loro volta, disponevano di conti nel Federal Reserve System (FRS). Perciò, pur essendo un organo internazionale, la SWIFT è legata al FRS, sebbene le banche statunitensi non abbiano una banca dati di controllo. I server della SWIFT si trovano negli Stati Uniti e in Belgio. A metà del decennio scorso, la società si è occupata di 7800 clienti situati in 200 paesi. Il flusso finanziario giornaliero ammonta a 6 trilioni. 

SWIFT: l’iniziativa imprenditoriale congiunta della CIA e della FRS 

Nell’estate del 2006, la SWIFT fu coinvolta in uno scandalo sollevato dalle testate giornalistiche New York TimesWall Street Journal e Los Angeles Times. Ecco come sono andate le cose. Successivamente agli eventi dell’undici settembre, tutte le transazioni finanziarie del Paese sono state messe sotto controllo, specialmente quelle transnazionali. Da un punto di vista formale, l’obiettivo consisteva nell’evitare che venissero finanziate le organizzazioni terroristiche. In tempi assai brevi, la CIA ha allacciato dei contatti con la SWIFT per sorvegliare i pagamenti in entrata e in uscita. L’Agenzia dei servizi segreti americana non aveva permessi legali per farlo. Neanche i loro ex-impiegati erano a conoscenza di tali attività. In qualche maniera, un tentativo per giustificare tali operazioni è stato fatto: nel 2003, a Washington, la Società per le Telecomunicazioni Finanziarie Interbancarie Mondiali e alcune agenzie di stato americane, comprese la FBI, la CIA e la FRS (il presidente della Federal Reserve System, Alan Greenspan, era presente), si sono pronunciate sulla faccenda. 

Le parti hanno convenuto per portare avanti la collaborazione, ma a condizione che Washington rispettasse alcune regole. La volontà era quella di rinforzare i controlli da parte del Dipartimento del Tesoro statunitense e di limitare le attività focalizzandosi esclusivamente sulle transazioni finanziarie di cui si sospettavano legami col finanziamento al terrorismo. Gli Stati Uniti hanno assicurato di chiudere un occhio su altri pagamenti, compresi quelli legati all’evasione fiscale e al traffico di droga. 

Durante le trattative, gli Stati Uniti hanno avanzato la proposta che la SWIFT non fosse una banca, bensì un intermediario tra banche. L’accesso ai suoi dati, dunque, non avrebbe violato le leggi sulla privacy delle banche statunitensi. È risaputo che le banche centrali di Gran Bretagna, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Svezia, Svizzera e Giappone erano al corrente delle pratiche intraprese dalla CIA. La Banca Centrale di Russia, però, non è stata menzionata nella suddetta lista… 

In alcuni casi, le banche centrali tennero segreto il fatto che la SWIFT collaborasse con gli USA, per cui il pubblico, i governi e i parlamenti ne rimasero all'oscuro (anche se questi ultimi ne fossero stati a conoscenza, non avrebbero fatto trapelare nulla). Ecco come stavano le cose in Gran Bretagna. Nell’estate del 2006, la testata The Guardian ha reso pubblico un caso che attribuiva alla SWIFT la condivisione annuale con la CIA di informazioni legate a milioni di transazioni di banche britanniche. Secondo ilThe Guardian, la condivisione di dati top secret è una violazione delle leggi sia britanniche che europee (più in particolare, la Convenzione Europea per i Diritti Umani). 

Un portavoce del commissario delle informazioni ha dichiarato alla testata britannica che il fattore privacy era stato preso «seriamente in considerazione». Se la CIA avesse avuto accesso ai dati finanziari dei cittadini europei, quella sì che sarebbe stata «probabilmente una violazione della normativa europea sulla protezione dei dati», ha dichiarato, aggiungendo che la legislazione britannica sulla protezione dei dati avrebbe potuto essere violata se la transazioni bancarie britanniche fossero state trasmesse. Il commissario ha richiesto ulteriori informazioni alla SWIFT e alle autorità belghe prima di decidere come procedere. 

La Banca d’Inghilterra, una delle 10 banche centrali ad avere un posto nel consiglio d’amministrazione della SWIFT, ha rivelato di aver messo al corrente il governo britannico di tale programma nel 2002. «Quando lo abbiamo scoperto, abbiamo informato il Tesoro e abbiamo lasciato a loro l’incombenza del caso,» ha dichiarato Peter Rogers, della Banca. «Abbiamo anche avvisato la SWIFT che avrebbe dovuto affrontare l’argomento col governo. Non aveva niente a che fare con noi. Riguardava la sicurezza e non la finanza. Era una faccenda tra la SWIFT e il governo». 
Dal Parlamento, in una risposta scritta, Gordon Brown assicurava che il governo era a conoscenza dell’accordo. Citando la politica governativa di non rilasciare alcun parere su «faccende di sicurezza specifiche», tuttavia, il cancelliere ha rifiutato di dichiarare se fossero state prese delle misure per «assicurare la protezione della privacy dei cittadini britannici le cui transazioni finanziarie avrebbero potuto essere ritenute come facenti parte di investigazioni da parte degli Stati Uniti e dalla SWIFT contro il terrorismo». Si è inoltre rifiutato di precisare se il programma della SWIFT fosse stato «legalmente adeguato» all’articolo 8 della Convenzione Europea per i Diritti Umani. 

Il “cervello” dell’informazione – finanziaria odierno 

Ad oggi non conosciamo ulteriori dettagli della collaborazione tra la SWIFT e i servizi speciali statunitensi. Sembra che il caso venga sottratto al dominio mediatico. Presuppongo che ci siano molte probabilità che la collaborazione stia continuando. Perlomeno, gli Stati Uniti hanno tutto ciò che serve per farlo (uno dei due server si trova sul suolo statunitense). Esistono molti segnali indiretti che ci indicano che la SWIFT, formalmente un ente non statale, sia messo sotto forte pressione da Washington. Uno degli esempi più recenti è l’espulsione dell’Iran nel 2012. È di comune accordo che la decisione sia stata presa sotto la pressione degli Stati Uniti. 

Infine, utilizzare lo SWIFT non è l’unico modo per esercitare un controllo sui flussi finanziari internazionali. Il dollaro statunitense è la moneta dominante a livello internazionale. Ciò significa che tutte le transazioni passano da conti di sede americana, anche se le persone giuridiche e fisiche non si trovano negli Stati Uniti. I dati vengono raccolti da banche commerciali e dal Federal Reserve System americano. La creazione di banche dati enormi e dettagliate appartenenti al Ministero del Tesoro statunitense volge quasi a compimento. Le informazioni verranno ottenute da banche statunitensi, compagnie assicurative, fondi pensionistici e altre organizzazioni finanziarie. All’inizio del 2003, i media hanno affermato che tutti i servizi speciali degli Stati Uniti, compresa la Central Intelligence Agency, il Federal Bureau of Investigation, la National Security Agency e altri, potevano accedere a questa banca dati per proteggere i propri interessi nazionali e la propria sicurezza. 

Il ritmo accelerato della creazione della banca dati per servire i bankster e i servizi speciali americani fa sì che altri paesi cerchino di proteggersi dal controllo importuno del Grande Fratello… Oggi si parla molto del vantaggio di cambiare le valute di transazioni internazionali, tramutandole da dollari statunitensi ad altri tipi di valute. Ciò è normalmente visto come un modo per liberarsi dalla dipendenza economica e finanziaria degli Stati Uniti. È giusto farlo, poiché questo cambiamento darà vita ad un’alternativa al fare affidamento sulle informazioni controllate dagli USA.

di Valentin Katasonov 


Fonte: www.strategic-culture.org

22 luglio 2013

Fmi brûlé. Ricetta in salsa magiara





 
L’Ungheria di Viktor Orban non è affatto un’animale domestico.
Non soltanto ha rivendicato i suoi diritti nazionali di dotarsi di una Costituzione senza briglie a Bruxelles o altrove, non soltanto ha più volte sollevato un netto rifiuto ad assoggettarsi alle politiche di rigore imposte dalla Troika urbi et orbi, non soltanto ha reimposto una sorta di “nazionalizzazione” della propria Banca centrale... ma ora ha anche deciso sia di pagare al più presto, nove mesi prima della scadenza, il suo prestito usuraio contratto con il “mecenate” Fmi, e sia di annunciare la chiusura degli uffici di rappresentanza del Fondo Monetario insediati a Budapest.
Messa all’indice dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue) subito dopo l’assunzione del potere da parte del partito di Orban dichiarato “populista” nonché soggetto alle influenze “negative” della forte destra radicale degli Jobbik, l’Ungheria aveva già “risposto” alle critiche dei padroni-soloni facendo fronte al problema del debito (contratto con l’usura internazionale dal precedente governo), portando detto indebitamento al di sotto del 3% sul suo Pil già a fine 2011.
Con metodi subito ritenuti “non ortodossi” dalla grande finanza internazionale e dai suoi portaparola.
E cosa aveva mai deciso il governo Orban (sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare)?
Di abbattere il debito con una serie di misure temporanee, una tantum, capaci di aumentare ex abrupto le entrate. Quali? Naturalmente quelle più ostiche alle centrali finanziarie.
Le elenchiamo: 1) tassa sui profitti bancari; 2) nazionalizzazione dei “fondi pensione” e assicurativi; 3) imposte sulle multinazionali operanti in territorio magiaro.
E così, con una lettera inviata questo 15 luglio a Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, György Matolcsy, il governatore della Banca Centrale ungherese, ha annunciato che Budapest sarà pronta ad estinguere anticipatamente il debito contratto nel 2008 (20 miliardi di euro) nel bel mezzo dell’inizio della crisi esportata in Europa dal Lord Protettore dell’Ue, gli Stati Uniti d’America. E questo grazie all’avvenuta graduale riassunzione della propria sovranità nazionale, monetaria, fiscale, finanziaria.
Interessante è ricordare che nel 2011, a febbraio, il governo Orban - dopo aver traccheggiato sulle pressanti richieste della Troika di rinegoziare il debito (con un ulteriore debito: il “metodo” usuraio principe al quale, per esempio, la nostra stessa Italia si è graziosamente assoggettata) - riusciva a piazzare senza alcuna intermediazione internazionale le proprie obbligazioni di Stato, dimostrando che quando si è sovrani e quindi affidabili i problemi si risolvono normalmente.
Ma torniamo a questa metà di luglio.
Nella sua lettera alla Lagarde, György Matolcsy, ha annunciato il pagamento anticipato delle prossime ultime tre rate trimestrali, per un totale di 2 miliardi e 125 milioni di euro, sottolineando - non si sa quanto ironicamente o sinceramente - che tale risultato è un effetto, sì, della buona crescita ungherese, ma anche “degli sforzi personali (della Lagarde) di promozione dello sviluppo economico”.
Non male, non male.
Peccato che l’esempio magiaro sia per l’Italia-colonia dei Letta e dei Saccomanni (e dei loro mentori, Prodi e Draghi) quanto di più siderale mai si possa pensare. Oggi. Domani è però un altro giorno.


di Ugo Gaudenzi 

21 luglio 2013

Rifiutare il Debito è possibile. Islanda chiama Italia





Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andrea Degl’Innocenti sulla rivoluzione islandese, primo libro in italiano sull’argomento, edito da Ludica S.n.c..


andrea degl innocenti
Andrea Degl'Innocenti è andato in Islanda per indagare in modo approfondito il 'caso islandese'
Il Cambiamento è nato quasi tre anni fa. Da allora ha cercato di portare avanti un'informazione davvero indipendente e fuori dalle logiche che guidano i mass media. Per farlo si è poggiato sulla collaborazione di decine di giornalisti giovani e preparati che hanno ricambiato la fiducia riposta in loro in modo egregio. Tra questi spicca Andrea Degl'Innocenti che da subito ha saputo volgere il suo occhio attento verso le vene pulsanti del nostro Paese, del nostro mondo, indagando e mostrando ciò che troppo spesso veniva nascosto.
Tra le sue tante indagini, la più "famosa" è stata quella sul caso islandese: un Paese che ha "rifiutato" di pagare il debito, innescando un processo demcoratico senza precedenti, in cui il popolo ha saputo davvero scegliere una parte importante del proprio futuro, scavalcando poteri politici e finanziari.
I suoi articoli sul tema sono stati letti da decine di migliaia di persone. Andrea ha quindi deciso di andare (a sue spese) in Islanda per indagare in modo più approfondito la questione ed ha preparato un testo che da ieri è disponibile in versione elettronico (pdf e epub). Sto parlando del suo “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, edito da Ludica.
Il libro comprende una  prefazione di Loretta Napoleoni economista di fama internazionale, e si avvale dei contributi di Serge Latouche, teorico della decrescita, Pierluigi Paoletti , fondatore doi Arcipelago SCEC, Marco Bersani, del Forum dei movimenti per l’acqua.

Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andre
Andrea ci racconta l’ascesa e la caduta del sogno islandese , dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli responsabili del collasso del paese, contro l’intera comunità internazionale che pretendeva il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private.

Infine, Andrea trae spunto dalle vicende islandesi per offrire una panoramica di alcune delle realtà più significative che anche in Italia si adoperano per cambiare la società. Ne emerge un mosaico della “società del cambiamento”, in cui le realtà in lotta sono tasselli ideali di un grande movimento. Un’opera di riappropriazione collettiva del diritto di decidere sul modo e sul mondo in cui vogliamo vivere.
di Daniel Tarozzi

20 luglio 2013

Catastrofe in atto. Come reagire?



  
   
Buonasera a tutti, il tuo articolo(“AAA Italia svendesi” di Valerio Lo Monaco) merita un plauso per l'analisi ineccepibile, ma tutto questo non fa altro che acuire una sensazione d'impotenza nei confronti del regime imperante sempre più autoreferenziale saldamente al potere da più di sessant'anni. 

Cosa possiamo fare per evitare la catastrofe già in atto? Sperare, trovandoci a poppa di questa enorme nave, di vedere almeno i tanti stolti che restano ostinatamente a prua annegare per primi? Siamo sicuri che la nave affonderà di prua?

Mentre scrivo ho la certezza di essermi tuffata già in acqua, cercherò di raggiungere la riva a nuoto, non sarà facile. 

Si salvi chi può!!!!!

Rosanna Rizzo


Cara Rosanna, la sensazione di impotenza di cui scrivi ha mille e mille motivi, ma va appunto considerata una sensazione. Che, in quanto tale, è nulla di più (e nulla di meno, certo) di una risposta emotiva ai tantissimi segnali negativi che ci arrivano dal mondo in cui viviamo. 

Per evitare di esserne travolti, passando dall’allarme legittimo al panico incontrollato, esiste però un antidoto efficacissimo. E definitivo. Invece di pensare alla sconfitta come a un disastro incombente, al quale potremmo miracolosamente sfuggire in extremis se riuscissimo ad attivare in tempi rapidissimi una sollevazione popolare, essa va considerata un dato di fatto. 

Per dirla in termini metaforici, non stiamo osservando le manovre di un esercito nemico che si prepara all’attacco, ma assistendo alla sistematica occupazione di tutto il nostro territorio. Che equivale, ormai, a un controllo pressoché completo dei gangli fondamentali, sia pubblici che privati.

In altre parole, non c’è nessun fortino nel quale asserragliarsi, in attesa di combattere la battaglia finale. I “buoni” non sono chiamati a radunarsi a tale scopo, e i “cattivi” non stanno convergendo su quell’unico obiettivo. Come abbiamo scritto altre volte, non ci sarà nessun Armageddon (che è poi la proiezione su vastissima scala di un duello all’ultimo sangue, ossia di un’idea di scontro deliziosamente romantica ma terribilmente, e colpevolmente, semplificata). Il conflitto si va svolgendo da moltissimo tempo e segue altre dinamiche, assai più complesse. Assai più infide. Quelli che vediamo oggi sono gli effetti di qualcosa che è cominciato da parecchi decenni, per non dire da alcuni secoli, e che non ha mai smesso di perseguire i suoi scopi: schiavizzare l’umanità attraverso l’economia, il denaro, la materialità. 

Eppure, una volta che lo si guardi in faccia senza paura, quell’esito così sfavorevole deve smettere di spaventarci, come una minaccia che ci appare tanto più inquietante quanto più i suoi contorni rimangono imprecisati, e trasformarsi in un nuovo punto di partenza, alimentando in noi una rinnovata volontà di affrontarlo. Non è che dobbiamo impedire che gli USA diventino la superpotenza che sono. O che le banche centrali diventino dei pool di soggetti privati che usurpano sia la funzione del credito che la sovranità monetaria. Oppure, ancora e ad libitum, che le persone di minor valore morale, e non di rado anche intellettuale, diventino la classe dirigente che decide per noi.

Questo è già accaduto. Questo è già acquisito. E tuttavia, ciò rientra pur sempre – si potrebbe dire “per definizione” – in un processo senza fine, che è la storia dell’Uomo. L’attuale strapotere di alcuni centri di interesse, che di solito identifichiamo con la speculazione finanziaria internazionale, non è né un approdo conclusivo né una tappa lungo un tragitto inevitabile, come pretendono i fautori dello sviluppo lineare e progressista della Storia, ma la meta che determinate forze si sono prefisse di raggiungere. 

Il nostro compito, la nostra sfida, la nostra unica alternativa alla resa, è essere diversi da loro. Mantenerci integri. Rimanere, ciascuno a suo modo, degli “entusiasti della vita”. E quindi, tra l’altro, darci da fare per entrare in contatto, anzi in rapporto, con chiunque abbia caratteristiche simili.

Di sicuro non è ancora la rivoluzione, e non ci si avvicina nemmeno, ma in qualche modo la prepara. O non la esclude. Ricordiamocelo sempre: c’è stato un momento in cui i Rothschild erano solo dei piccoli mercanti che si sforzavano di emergere e che non si chiamavano nemmeno Rothschild, ma Amschel. Operavano a Francoforte, che per una curiosa coincidenza è oggi la sede della Bce, e il capostipite Moses faceva il rigattiere.

Erano impotenti a cambiare la società del tempo? Lo erano. Però ne hanno fatto un principio di consapevolezza, anziché di sconforto.

di Federico Zamboni 

19 luglio 2013

La Farnesina colleziona gaffe. Manchiamo di sovranità nazionale



Ciò che emerge dall'intervista è un'immagine piuttosto confusa del nostro Paese nell'ambito delle relazioni internazionali. L'Italia, secondo il giornalista catanese, mancherebbe di autonomia decisionale e di autorevolezza nei confronti degli interlocutori alleati o no.

Che idea si è fatto del caso Ablyazov?
Sospetto che la questione sia solo un regolamento di conti. Dal Kazakhistan deriva il nucleo centrale del gasdotto russo. L'Italia, con Berlusconi, scelse questa opzione. Fu conveniente perché dimezzò i costi ma agli alleati americani non è andata giù. Hanno perso molti soldi nel mancato affare.

Alfano dovrebbe dimettersi secondo lei?
E dunque anche Bonino? E poi i vertici delle amministrazioni? Vedrà che finirà con una relazione esauriente e chiara in un punto: farla pagare ai sottoposti.

E' forse mancato un coordinamento tra Viminale e Farnesina?
Non ho idea. Non voglio neppure farmela.

Cosa ne pensa di Emma Bonino agli Esteri?
E' un ottimo ufficiale di collegamento tra la colonia Italia e il Pentagono

Che impressione si è fatto della politica estera italiana?
La Farnesina ha collezionato tutta una serie di gaffe. Ancora prima dei marò c'è la vicenda di Mario Vattani, il diplomatico richiamato da Osaka perché colpevole di lesa canzone quando il governo del Giappone dimostra considerazione e stima per lo stesso, uno dei pochi in grado di conoscere a fondo Tokio e tutte le complessità del mercato nipponico. Dalla vicenda dei due marò a oggi si aggiunge, passando per la tragicomica vicenda del presidente della Bolivia cui l'Italia, l'effetto di un cancro conclamato. Quello di non avere sovranità politica.

Perché?
L'Italia è un'espressione geografica. Tutto qua.

Turchia ed Egitto: secondo lei le rivolte dei due paesi sono simili quanto a contesto e modalità?
No. In Turchia c'è una vivacità di ambiente cosmopolita che l'Egitto non ha. Quest'ultimo è più facile preda delle influenze straniere, sia nel versante dei buoni, sia in quello dei cattivi.

Come dovrebbe comportarsi l'Italia nelle sue relazioni con Ankara e Il Cairo?
Come uno stato sovrano la cui politica estera è dettata dagli interessi nazionali.



di Pietrangelo Buttafuoco - Marco Petrelli

18 luglio 2013

Le rivoluzioni europee cominciarono sempre con una rivolta in Ungheria






Italia, Polonia e Ungheria sono tre paesi “di passaggio”: l’Italia in senso nord-sud e gli altri due in senso ovest-est.
Deve essere anche per questo comune destino che ricordiamo anche al ginnasio con piacere la partecipazione di volontari ungheresi, agli ordini di Stefano Türr (1848) e György Klapka (1859) alle nostre lotte per l’indipendenza e citiamo nel nostro inno nazionale “il sangue polacco” che l’aquila bicipite “bevè col cosacco, ma il cor le bruciò”.
Sempre nel 1848 oltre 1100 volontari italiani combatterono per l’indipendenza ungherese agli ordini diAlessandro Monti.

Sui bastioni di Buda c’è una lapide in memoria di un barone salernitano – di cui non ricordo ahimé il nome- che superò per primo i bastioni turchi per la liberazione della città.
Una amica polacca dell’ambasciata, mi ha assicurato che anche nell’inno nazionale polacco c’è un accenno diretto all’Italia e alle lotte comuni.
Insomma siamo in simpatia da oltre duecento anni. Abbiamo trepidato per la loro sorte durante la rivolta ungherese del 1956 – su questo si spaccò il P.C.I. nei suoi elementi di punta – e riabbracciammo i fratelli ungheresi al crollo del patto di Varsavia.
Ieri, 15 luglio, i magiari sembrano ancora una volta voler precedere tutti e indicare agli altri europei la strada da seguire, per reagire ribellandosi alla nuovaSanta Alleanza.
Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca centrale ungherese, ha inoltrato alla signora Christine Lagarde una lettera, invitandola a chiudere l’ufficio di Budapest del Fondo Monetario Internazionale (FMI) segnalando che non vi era più ragione per prolungarne la presenza e che il governo ungherese conta concludere il rimborso del prestito contratto in anticipo rispetto al termine del 2014 stabilito dagli accordi vigenti.
L’FMI pare intenzionato a traslocare entro la fine di Agosto, anche perché il prestito negoziato nel 2011 ( Orban giunse al governo nel 2010).
L’Ungheria aveva contratto – subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria – nel 2008 un prestito con la trimurti FMI, UE, Banca Mondiale ( WB) per un importo massimo di 25 miliardi, di cui circa 15,7 effettivamente utilizzati.
Il rapporto tra FMI e il governo ungherese presieduto da Viktor Orban è sempre stato tempestoso, al punto che i “soliti ambienti”, mai precisati ma sempre autorevoli, avevano lo scorso anno fatto circolare la voce che in Ungheria esisteva un concreto pericolo di ritorno al fascismo.
Orban ha posto sotto controllo la Banca Centrale, nazionalizzato il sistema pensionistico e posto una supertassa sulla grandi società e questo per l’Unione Europea è un peccato mortale cui ha fatto seguito la minaccia di scomunica.
Si tratta di una minaccia non vana, visto che alcuni articoli della carta delle Nazioni Unite ( tra il 50 e il 54) prevedono espressamente che le Nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale possano, invadere senza preavviso qualsiasi tra i paesi sconfitti ( l’Ungheria è tra questi), qualora , a insindacabile giudizio di anche uno solo dei vincitori, si ravvisasse un sintomo di rinascita del fenomeno.
L’Ungheria ha avuto lo scorso anno un lieve miglioramento economico grazie a una forte immissione di nuovi cittadini ( 400.000) provenienti dai paesi vicini beneficiati da concessioni territoriali conseguenza della guerra mondiale.
La relativa liberalizzazione della prima decade del secolo e l’energica conduzione indipendentista del governo Orban, hanno reso possibile il congiungimento di molti alla madrepatria ed una certa quota di inevitabile irredentismo che ha fatto seguito.
Le frizioni col FMI sono la conseguenza della pretesa assurda del FMI di imporre politiche economiche ormai riconosciute errate anche dall’alto management del Fondo, ma che incomprensibilmente non vengono corrette; dalle esigenze elettorali dettate dalle ormai imminenti elezioni politiche e dalla politica indipendentista seguita dal governo che ha potuto attrarre nel paese uomini e capitali tagliati fuori dalla madrepatria.
L’equivalenza tra fascismo e indipendenza nazionale viene perseguita a fini di propaganda dalle autorità di Bruxelles e da alcuni cretini di estrema destra, sia pure per opposte motivazioni.
Orban, tenendo ostinatamente la barra al centro, offre a tutti gli europei un esempio di come trovare una via di ripresa nazionale, mantenendo gli impegni comunque contratti, creare la ripresa mercé l’ottimizzazione e il controllo delle risorse a disposizione.

di Antonio De Martini

Fonte: corrieredellacollera 

30 luglio 2013

Detroit è la battaglia del secolo!


Il 19 luglio, nel corso di una webcast dal vivo, Lyndon LaRouche ha avvertito che se gli Stati Uniti non torneranno alla legge Glass-Steagall, "potremo dire addio alla nazione". E’ impossibile salvare le banche del sistema finanziario transatlantico; esse finiranno col fare default verso i loro creditori, e la maggior parte della popolazione di Europa e Stati Uniti verrà lasciata per strada a morire di fame.

Un esempio terrificante di questo si può vedere a Detroit, che il 18 ha dichiarato la bancarotta, la città più grande a farlo nella storia degli Stati Uniti. L’Emergency Financial Manager Kevyn Orr ha imposto un accordo secondo cui verrà garantito ai banchieri, inclusi quelli coinvolti in speculazioni in derivati e credit default swaps - il costo dei quali è aumentato in modo fraudolento con la manipolazione illegale del tasso LIBOR – il pagamento dei debiti con una sforbiciata di appena il 10-20%, e per farlo ridurrà le pensioni dell’80-90%. Poiché secondo la legge federale le amministrazioni locali e i loro dipendenti non sono tenuti a versare contributi per la Sicurezza Sociale, se viene meno la pensione municipale non hanno diritto a niente altro.

Bill Roberts del LaRouchePAC, già candidato al Congresso, ha ricordato in una dichiarazione del 21 luglio che nel corso di un suo intervento al consiglio comunale un anno fa aveva avvertito che se non avessero attuato la legge Glass-Steagall la città e la sua popolazione sarebbero state sacrificate "sull’altare delle stesse banche che hanno escogitato la più grossa frode della storia umana: la manipolazione dei tassi LIBOR contro enti locali e aziende municipali, che è costata loro miliardi di dollari. Non hanno dato ascolto al mio consiglio, e ora Detroit è sotto una dittatura finanziaria" con la nomina di un manager finanziario di emergenza che prenderà la decisione al posto dei funzionari eletti.
Sono state sporte numerose denunce contro la decisione di fallimento, in quanto esso viola la Costituzione del Michigan che tutela in particolare le pensioni stipulate secondo la legge dello stato.
Il saccheggio di Detroit, un tempo il motore industriale degli Stati Uniti, è emblematico del collasso dell’economia reale in tutti gli Stati Uniti. Nel 2012 il tasso di disoccupazione era del 25% e quello di povertà era quasi il doppio. Dal 2000 il gettito fiscale del Comune è calato del 40%, mentre le banche fanno enormi profitti sui prestiti che hanno emesso.
La bancarotta non era affatto inevitabile. Una proposta avanzata nel 2005 dal LaRouche PAC, col sostegno dei sindacati e della società civile, avrebbe consentito la riconversione degli spazi e dei macchinari inutilizzati dal settore automobilistico per la produzione delle infrastrutture economiche più urgenti per il paese. Il Congresso e la Casa Bianca respinsero questa proposta, e il collasso prese il suo corso.
Il Presidente Obama sostiene spesso di aver salvato il settore auto. Ma il cosiddetto salvataggio dei 3 giganti dell’auto nel 2009 consisté nel pagare i creditori e le passività finanziarie dell’industria dell’auto sostituendo i lavoratori ben pagati con una forza lavoro più piccola con un salario ridotto della metà. Così mentre i tre giganti dell’auto furono salvati a spese dei contribuenti, fu in gran parte smantellato il potenziale produttivo. Questo ha portato ad un'ulteriore fuga degli abitanti ed al crollo del gettito fiscale.

by (MoviSol) - 

29 luglio 2013

Lo spionaggio è solo un aspetto dello stato di polizia di Obama




 In apertura della webcast del 12 luglio, Lyndon LaRouche ha lanciato una forte denuncia dei poteri esorbitanti del ramo esecutivo del governo americano consolidatisi negli ultimi dodici anni, esortando il Congresso ad adempiere ai suoi doveri costituzionali e mettere in riga la Presidenza.
Una iniziativa in tal senso è stata presa dal parlamentare democratico Rush Holt, ex presidente della Commissione di Controllo sui servizi di intelligence della Camera ed egli stesso ex funzionario di intelligence, il quale ha annunciato un disegno di legge per abolire il Patriot Act e la legge FISA, "la legge che ci ha regalato l'attuale stato di polizia". Il ddl di Holt reintrodurrebbe l'obbligatorietà del mandato del giudice per sorvegliare un cittadino USA, giustificato da prove sulla pericolosità per la sicurezza nazionale. Il ddl proteggerebbe anche le "talpe" che rivelano violazioni della legge da parte della pubblica amministrazione.
Gli Stati Uniti si sono mossi verso una dittatura a partire dalla presidenza di Bush senior (1989-1993), ha denunciato LaRouche. In partenariato con la Gran Bretagna, gli USA cercano di controllare la politica del mondo intero con metodi di sorveglianza e repressione.
Daniel Ellsberg, il famoso analista militare che nel 1971 rivelò i Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam, ha dichiarato il proprio appoggio a Edward Snowden, affermando di condividere anche la scelta di fuggire all'estero per evitare un quasi sicuro isolamento in carcere. La mia, ha scritto Ellsberg, "era un'altra America". Oggi è diventata gli "United Stasi of America".
Sotto l'amministrazione Obama non è stato consolidato solamente l'apparato di sorveglianza, ma anche altri aspetti meno noti dello stato di polizia. Ad esempio, il "Programma del Ramo Esecutivo sulla Minaccia Interna", dal sapore orwelliano già nel nome, prende di mira le "talpe", ordinando ai dipendenti pubblici di spiare sui colleghi e riferire ogni comportamento sospetto sotto il manto dell'anonimità. Con la perfidia che gli è caratteristica, Obama ha firmato quella legge alla vigilia della Festa del Ringraziamento nel 2012.
Obama ha perseguitato le "talpe" molto più dei suoi predecessori, e ne ha rinviati a giudizio sotto lo "Espionage Act" del 1917 più di tutte le amministrazioni messe assieme. In questo contesto, la Legge per la Difesa del 2013, anche se in genere è abominevole, presenta un aspetto positivo: ha introdotto la protezione per tutti coloro, tra i 12 milioni di dipendenti di ditte fornitrici della Difesa, che vogliano passare informazioni segrete al Congresso per combattere la corruzione o altri reati.
Ma il Presidente Obama, firmando la legge il 2 gennaio, lo ha fatto con un "signing statement" alla Bush, in cui dichiara che non ne applicherà le prescrizio

by Movisol

28 luglio 2013

Sovranità e nazione





Frédéric Lordon ha appena pubblicato un articolo importante (1) – Ce que l’extrême droite ne nous prendra pas – in cui affronta la questione essenziale della sovranità ma anche quella altrettanto essenziale della Nazione. Vediamo subito quale sia il nocciolo di questo articolo e le domande a cui cerca di rispondere, nel contesto della crisi dell’Euro, ma anche, più genericamente, della crisi dell’idea europea generata dagli sforzi di coloro che si proclamano i più ferventi difensori dell’Unione Europea. Tali questioni sono già state affrontate nel libro a cura di Cédric Durand (2) e invito i lettori di questo blog a riferirsi al dibattito che ho avuto con lui in articoli precedenti. (3) 


Sovranismo di destra, sovranismo di sinistra? 

Prima di provare ad approfondire alcuni punti del testo con cui chiaramente concordo, e su cui ho preso posizione da più di dieci anni (4), conviene precisare una cosa. Frédéric Lordon scrive: 
“Poiché se questo ordine [il neo-liberalismo] in effetti si definisce come l’opera di dissoluzione sistematica della sovranità dei popoli, affinché possa dispiegarsi senza impacci la potenza dominante del capitale, ogni idea di porvi un limite non può avere altro senso che quello di una restaurazione di questa sovranità, senza mai poter escludere che tale restaurazione si dia come territorio – e, non se ne dispiaccia l’internazionalismo astratto, la sovranità presuppone la delimitazione di un territorio – quello delle nazioni esistenti...senza escludere simmetricamente che essa si proponga anche di ampliarlo!”. 
È un esordio che condivido pienamente, compreso il fatto che la sovranità implichi un territorio ma altresì la distinzione di ciò che è all’interno e ciò che è all’esterno. La frontiera è un elemento decisivo e addirittura costitutivo della democrazia, che questa frontiera sia territoriale o metaforica come nel caso dell’appartenenza a un’organizzazione. È ridicolo sentire gli stessi che rifiutano le frontiere attorno a un territorio difendere la distinzione membri/non membri quando il loro potere è in gioco. Sarebbe il colmo se ciascuno di noi potesse votare negli organismi di un partito politico, quale che esso sia, senza esserne membro! Con quest’esempio vediamo bene che l’esistenza della democrazia implica la chiusura dello spazio politico e che questa chiusura implica una “frontiera”. Dire questo non implica che non abbiamo niente in comune o che ci dobbiamo disinteressare di coloro che si trovano dall’altra parte del confine, che esso delimiti un’organizzazione o un paese. Ciò però consente di attribuire un senso alla distinzione membro/non membro, di conferirgli una pertinenza e quindi, per contrapposizione, di ritenere pericolose le idee che rifiutano questa distinzione. 
Fréderic Lordon non dice niente di diverso quando aggiunge che coloro che contrappongono la Nazione all’Internazionalismo non si rendono conto della vacuità di tale contrapposizione, dal momento che propongono “un internazionalismo politicamente vuoto poiché non indica mai le condizioni concrete della deliberazione collettiva, o, se le indica, non si accorge che sta semplicemente reinventando il principio (moderno) della nazione ma su una scala più ampia!”. 
Fréderic Lordon distingue poi ciò che chiama un “sovranismo di destra” da un “sovranismo di sinistra”, contrapponendo “Nazione” e “Popolo”: “potrebbe essere utile iniziare mostrando in che cosa un sovranismo di sinistra si differenzia chiaramente da un sovranismo di destra: quest’ultimo si concepisce generalmente come sovranità “della nazione”, mentre il primo rivendica di attribuire la sovranità “al popolo”. 
Mi pare che qui ci sia una confusione. La differenza fra destra e sinistra non deriva dalla sovranità, ma dalla maniera di concepire la Nazione. Da questo punto di vista, rifiuto l’idea che possa esserci un sovranismo “di destra” o “di sinistra”. C’è il sovranismo, condizione necessaria all’esistenza di un pensiero democratico, e ci sono le ideologie che rifiutano la sovranità e quindi, alla fine, la democrazia. 


Quali visioni della Nazione? 

Questo non vuol dire che non ci sia un pensiero di destra e un pensiero di sinistra, ma questa contrapposizione non passa per la questione della sovranità ma per quella della Nazione. Per un pensiero “di destra”, la Nazione “è” e di conseguenza ci si sofferma poco sulla sua origine. Si preferisce mettere l’accento sugli aspetti atemporali della sua esistenza e la questione del “corpo mistico” della Nazione non è considerata un’ubbia o un anacronismo. Riemergono rapidamente i miti cristiani: per la maggior parte dei pensatori di “destra” la Nazione rinvia, alla fine, al trittico “une foi, une loi, un Roi” [una fede, una legge, un Re]. I problemi cominciano, d’altra parte, con l’ingresso nell’età moderna, con l’emergere di un pluralismo religioso (la Riforma) che distrugge l’idea di un’unicità religiosa. Alcuni autori contemporanei, e fra di essi personalità così opposte come Carl Shmitt e von Hayek, fanno riferimento a “meta-valori” come origine della “legge”: tali valori strutturerebbero quindi lo spazio della Nazione. Il riferimento al cristianesimo è esplicito in Carl Shmitt. Non occorre essere grandi studiosi per scorgere una riproposizione della metafisica; qui però si pone un problema, cioè quello delle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nel Rinascimento. In effetti dalla fine del XVI secolo, grazie a un personaggio come Bodin, si sviluppa l’idea che la legge trae la sua legittimità dalla necessità di far coesistere interessi e credenze diversi nell’ambito di un medesimo spazio territoriale. 
Non è un caso che Bodin sia certo l’autore dei famosi Sei Libri della Repubblica (5), ma anche del meno famoso, ma non meno importante, “Colloquium Heptaplomeres” (6) o “Colloquio dei sette”, che pone le basi dello Stato laico a partire dalla constatazione che in materia di religione è impossibile convincere con argomentazioni che fanno appello alla Ragione. Da quel momento, all’epoca delle guerre di religione in Francia, l’importante non è sapere se si è cattolici o ugonotti ma se si è francesi o alleati col re di Spagna. E’ stato solo ponendo il problema in questi termini che si è potuto ricostruire uno spazio politico collettivo. Ma per questo occorreva capire chi era francese e chi non lo era. Il pensiero “di destra” non si è mai ripreso da questa rivoluzione che obbliga a pensare l’origine della legge e i compromessi sociali al di fuori da qualsiasi riferimento a una norma “divina” o semplicemente fondamentale. Da questo punto di vista, la Nazione e lo Stato post-Bodin sono incompatibili con tutti i fanatismi religiosi, tutte le letture letterali di una religione, che si tratti di cristiani, ebrei o musulmani (o altri...). 
Per i pensatori “di sinistra” la Nazione è prima di tutto una costruzione sociale: una constatazione rassicurante con cui si crede di aver liquidato la questione metafisica. Niente è meno sicuro. A quella prima riflessione, che è profondamente vera, gli intellettuali aggiungono due aporie. Se sono marxisti, non concepiscono questa costruzione sociale che attraverso il prisma della “lotta di classe che porrà fine alla lotta fra le classi”: in breve, il ritorno hegeliano della contraddizione. Ma questa non è che una rappresentazione che conduce a sminuire l’importanza della Nazione come spazio abitato (e anche popolato) dalla democrazia. Dal momento che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo metterà fine allo sfruttamento, che importanza ha questa “reliquia del passato” che sono la Nazione e lo Stato? D’altra parte, in una società senza conflitti lo Stato non è più necessario...Appena abbiamo creduto di esserci liberati della zavorra metafisica, eccola di nuovo. E Lenin, che scriveva Stato e rivoluzione qualche mese prima dell’ottobre del ‘17, dovette riconoscere, sotto la spinta della necessità, l’importanza dello Stato e l’esistenza di conflitti sociali legittimi anche nella società post-rivoluzionaria. Per alcuni marxisti (non tutti: lo so perfettamente), quell’atteggiamento si accompagna a una sottovalutazione fondamentale della democrazia stessa: quest’ultima diventa strumentale rispetto all’obiettivo della fine dello sfruttamento. Sappiamo a quali derive ciò abbia condotto. 
Se invece sono marxiani e non marxisti (la differenza, per i non iniziati, è che un marxiano cerca di essere fedele al metodo di Marx, mentre un marxista a una tradizione interpretativa di Marx), non hanno prismi teologici ma considerano in generale il cambiamento sociale come legato ai tempi brevi, ciò che d’altra parte è piuttosto normale quando si vuole cambiare il mondo. Il problema è che la Nazione, e lo Stato-Nazione con essa, sono costruzioni sociali che dipendono dai tempi lunghi e si estendono su parecchi secoli. Della cultura politica che ne deriva, e che differisce notevolmente da una Nazione all’altra, siamo impregnati, consapevolmente o meno; questa cultura non è altro che il linguaggio in cui possiamo esprimere tanto i conflitti che le soluzioni. Da questo punto di vista, anche se le analisi sono molto diverse, tra una visione metafisica dello Stato e della Nazione, articolata intorno alla nozione di “corpo mistico”, e una concezione che invece li considera come prodotti di una costruzione sociale di lunghissima durata, non c’è una differenza radicale a questo livello di analisi. La differenza è piuttosto che, per coloro che intendono pensare la Nazione e lo Stato nell’ambito di una costruzione sociale di lunga durata, è indispensabile attenersi alla duplice ingiunzione di Jean Bodin, che poggia da un lato sul principio che non possiamo fondare la Nazione e lo Stato su basi religiose poiché la religione non ci unisce più ma ci divide; dall’altro sulle condizioni di funzionamento della Nazione e dello Stato che devono dominare conflitti fra interessi e convinzioni diversi in nome della “cosa pubblica”, la Res Publica. 
L’opposizione non è dunque tra un sovranismo “di destra” e uno “di sinistra”: non c’è che un sovranismo. Ci sono però concezioni della Nazione che sono “di destra”, perché riconducono ad aporie religiose (e si parla qui tanto di religioni vere e proprie quanto di visioni teologiche) che non sono compatibili con un pieno sviluppo della democrazia. Ciò detto e precisato, condividiamo pienamente l’idea affermata da Frédéric Lordon che la sinistra, quella vera, avrebbe tutto l’interesse a riappropriarsi della Nazione come condizione necessaria all’esistenza della democrazia e della Res Publica. Beninteso, questa Nazione non è costituita su basi etniche ed è pronta ad accogliere in sé tutti coloro che vengono a farla vivere col loro lavoro ed energia, nel rispetto di leggi alla formazione delle quali contribuiscono. 

di Jacques Sapir 

NOTE 

1. Lordon F., «Ce que l’extrême droite ne nous prendra pas», articolo postato sul blog di Monde Diplomatique all’indirizzo:http://blog.mondediplo.net/2013-07-08-Ce-que-l-extreme-droite-ne-nous-prendra-pas 8 luglio 2013. 
2. Durand C., (sotto la direzione di), En finir avec l’Europe, La Fabrique éditions, Paris, 2013. 
3. Sapir J., «Europe: un livre, un sondage» articolo pubblicato su RussEurope il 16 maggio 2013,http://russeurope.hypotheses.org/1237 et Idem, «En finir avec l’Europe (seguito)», articolo pubblicato su RussEurope il 31 maggio 2013, http://russeurope.hypotheses.org/1306
5. Bodin, J. Les Six Livres de la République, Librairie Générale Française, Le Livre de Poche, con una presentazione di Gérard Mairet, Paris, 1993, 607 p. 
6. Bodin, J., Colloquium Heptaplomeres, opera scritta nel 1587 ma rimasta per lungo tempo manoscritta, non è stata pubblicata che nel 1858 a Lipsia da Ludwig Noack 

26 luglio 2013

Le grandi banche diventano corporation industriali



Invece di essere sottoposte ad un processo di riorganizzazione e di ridimensionamento, le banche americane “too big to fail”, quelle troppo grandi per essere lasciate fallire, hanno bypassato tutte le limitazioni e i controlli (i Chinese walls), che separavano il sistema bancario da quello commerciale, per “invadere” e impossessarsi di ampi settori dell’economia reale. Altro che riforma del sistema bancario! 
Esse stanno penetrando le sfere commerciali non finanziarie, allargando i loro business nei settori di produzione e di distribuzione dell’energia, delle materie prime e delle imprese di pubblici servizi. 
Una recente indagine fatta da parlamentari americani, concentrata in particolare sulle nuove attività commerciali svolte dalla JP Morgan Chase, la banca Usa numero uno, dalla Goldman Sachs e dalla Morgan Stanley, ha portato ad una richiesta di intervento e di controllo da parte della Federal Reserve. Però la stessa Fed è messa sotto osservazione per il suo coinvolgimento in simili processi. 
Orami è evidente che le banche in questione si stanno trasformando in grandi corporation e multinazionali. Gli effetti dirompenti per l’economia industriale potrebbero essere imprevedibili e incalcolabili. 
La JP Morgan Chase, per esempio, gestisce in California la distribuzione dell’energia che è prodotta da impianti da essa posseduti. In atto c’è un’indagine per provare se abbia anche manipolato i prezzi delle bollette di energia. 
Si ricordi che in passato la Enron, la multinazionale dell’energia, fallì per aver “giocato” con la speculazione in derivati. La JP Morgan ora sembra percorrere la strada al contrario, dalla finanza alla produzione e ai servizi legati all’energia. 
La Goldman Sachs starebbe facendo incetta di grandissime quantità di alluminio accumulate in attesa che il mercato lieviti. In merito riteniamo di dover segnalare che la Coca Cola, grande utilizzatore di lattine in alluminio, avrebbe presentato uno specifico esposto presso il London Metal Exchange, la borsa delle materie prime di Londra. 
La GS starebbe anche espandendo le sue attività alla gestione dei porti, degli aeroporti e delle autostrade a pedaggio, nonché alla commercializzazione di materie prime strategiche, compreso l’uranio, e di altre risorse energetiche. 
La Morgan Stanley starebbe diventando sempre più una multinazionale del petrolio. Nel giugno 2012 avrebbe importato negli Usa 4 milioni  barili. Anch’essa è impegnata nella produzione e nel commercio di materie prime, metalli e materiali preziosi. Possiede centri di produzione e di distribuzione di energia elettrica e di gas anche in  Europa. E’ coinvolta anche nei settori dei trasporti e della logistica. 
Più volte è stato evidenziato che le tre suddette banche sono coinvolte nelle operazioni internazionali in derivati finanziari, anche in quelli sulle commodity, sulle materie prime e sui prodotti alimentari. Ciò oggettivamente rivela un evidente conflitto di interessi. 
In questo modo le grandi banche americane purtroppo dettano legge e comportamenti all’intero mondo bancario globale, spostandolo dai servizi finanziari alle attività commerciali e a quelle di gestione e di produzione industriale. 
Di conseguenza i rischi vengono accresciuti, sia per la possibilità di manipolazione dei prezzi e sia per le inevitabili ricadute di eventuali crisi bancarie sui rifornimenti industriali. 
Dopo la crisi finanziaria le 5 maggiori banche americane, la JP Morgan Chase, la Bank of America, la Citigroup, la Wells Fargo e la Goldman Sachs, hanno ingigantito i loro bilanci e i loro business. Nel 2007 possedevano asset pari al 43% del Pil americano. Alla fine del 2011 gli asset erano pari al 56% del Pil, raggiungendo un ammontare di ben 8,5 trilioni di dollari. 
Tale concentrazione di potere finanziario ed economico sta mettendo a rischio anche il sistema delle banche regionali e di quelle che effettuano solo la raccolta di risparmio. 

Più volte e in varie sedi si è affermato la necessità di riformare le istituzioni finanziarie “too big to fail”. Ma nulla si è fatto!

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

25 luglio 2013

Il MES batte un golpe…




Chi ha il potere di creare moneta LEGALE (cioè obbligatoria) tassa invisibilmente la comunità del potere d’acquisto corrispondente che si arroga. E’ un diritto sovrano, non può essere lasciato ai privati ai quali comunque può essere consentito di emettere moneta complementare a circolazione libera, a CORSO LIBERO, poiché l’uso della stessa non è imposto dallo Stato.
Lo Stato non può imporre ai cittadini, depauperandoli mostruosamente, di adottare una moneta privata per l’assolvimento delle obbligazioni. Si tratta di ALTO TRADIMENTO.
Per capire il sistema bancario, i punti da tener presenti sono tre:
1 – Nascono prima i prestiti dei depositi, il denaro virtuale viene creato dalla banca all’atto del prestito e dopo viene depositato.
2 – Le banche sono principalmente delle creatrici di denaro creditizio (virtuale) e svolgono solo marginalmente l’attività d’intermediazione finanziaria vera e propria.
3 – Le banche non hanno bisogno di percepire anche gli interessi, rubano già l’intero capitale all’atto della creazione del credito. Le banche non pagano tasse sul capitale rubato perché lo mettono al passivo del bilancio realizzando un’evasione doppia.
Se ne desume che le banconote in euro rappresentano un curioso caso di corpo del reato che è anche allo stesso tempo refurtiva e mezzo di riciclaggio.
Nota bene: si salvano solo gli euro metallici a signoraggio statale, contingentati però dall’UE: in Pochi spiccioli all’Italia la dimostrazione che una decisione della BCE ci strozza nel tetto imposto di emissione di valore da spiccioli pro capite, inusitatamente basso per l’Italia rispetto al pro capite degli altri Stati. Contingentati dalla BCE lo sono anche i titoli del debito pubblico, di cui la facoltà di emissione sarà prossimamente scippata semplicemente agli Stati per regalarla al MES. Il presidente del MES al momento è – in conflitto di interessi? in cumulo di poltrone? – il ministro delle Finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, che è anche il presidente dell’Eurogruppo, subentrando a Juncker che era in carica dal 2005. Il ministro olandese, che è stato nominato dall’Eurogruppo con l’opposizione espressa della Spagna, rompendo con la tradizione che richiedeva l’elezione all’unanimità dei paesi, è lo stesso che ha deciso l’esproprio dei conti ciprioti e la cancellazione pura e semplice dei titoli dei piccoli obbligazionisti della banca olandese SNS nazionalizzata 
Si può dimostrare in Tribunale che ogni cittadino è stato derubato di 2 milioni di euro con la truffa della moneta privata e del debito pubblico. Ma la magistratura deve fare quel minimo sforzo che le consente di capire che, poiché tutta la moneta in circolazione è corpo del reato, le transazioni imposte in euro non hanno valore. In sostanza, se usi euro sei un riciclatore. Punto
Riepilogo: Durante la seconda guerra mondiale, fortemente voluta dall’esponente della mafia bancaria internazionale, il signor presidente Roosevelt, la mafia bancaria si mise d’accordo con la mafia “tradizionale” (criminalità comune organizzata) per organizzare lo sbarco in Sicilia e l’occupazione dell’Italia. La prima cosa che fecero gli americani, schiavi del dollaro privatizzato, organizzarono una bella emissione di moneta falsa per 140 miliardi che fu poi addebitata allo stato facendo mnascere il “debito pubblico” (se lo chiamavano “debito dell’occupante” magari nessuno voleva pagarlo…). Nel 1944 il bilancio dello stato vide l’ultimo anno di attivo. 70 anni dopo, dopo decine di basi militari d’occupazione che contaminano il territorio anche radioattivamente, in piena crisi artificiale ordita dai soliti oligarchi usurai… dimmi tu che facciamo.
Siamo riusciti a rinominare l’oligarchia bancaria come “democrazia”. Siamo in pieno democrazismo totalitario. Democrazismo sancito dai trattati UE laddove prescrivono agli Stati di passare dalle forche caudine dell’oligarchia bancaria (il mercato primario delle banche dealer) per rifornirsi di moneta.
Come si arriva al calcolo che 2 milioni di euro di rendita monetaria a testa sono il risultato della truffa monetaria del sistema bancario in Italia? Il calcolo, per difetto, è semplice: la massa dei titoli del debito pubblico venne usata dalle banche come base di riserva frazionaria nell’area euro che era il 2%. Significa che potevano creare il 98% con il 2% di riserva, e cioè circa 50 volte il valore dei titoli posti a riserva. Quindi le banche hanno creato soldi per 50 volte questo importo e li hanno riciclati prestandoli in circolazione. Il riflusso aggregato dei prestiti rappresenta il loro bottino: capitale + interessi. Limitandoci alla sola cifra di capitale creato di cui le banche si sono appropriate: 50 volte il debito pubblico. 100.000 miliardi di euro oltre a quelli che riescono a strappare agli Stati per i “salvataggi”. E’ scandaloso.

Comunque, la cifra totale risultante la dividi per il numero di abitanti ed ottieni l’importo pro-capite. Quindi, debito pubblico totale moltiplicato per 50 e diviso per il numero di abitanti. Vedete voi quanto viene. Il problema tecnico è il seguente: se le banche decidessero di rimborsare (basterebbe anche nazionalizzarle), non potrebbero farlo emettendo NUOVA moneta, poiché così creerebbero un altro nuovo debito verso la società. Quindi devono rimborsare con i mezzi propri e, siccome abbiamo accertato la criminalità di queste imprese, e quindi non vale la clausola della responsabilità limitata per le imprese criminali, ANCHE I SOCI DELLE BANCHE DEBBONO RIMBORSARE FINO ALL’ULTIMO COL PATRIMONIO PERSONALE.

di Marco Saba e Nicoletta Forcheri 

24 luglio 2013

Il vero scopo del governo Letta-Napolitano? Perpetuare la particrozia attraverso la crisi





  
   
Il paradosso del governo Letta è che esso non fa quasi nulla, limitandosi a temporeggiare, rinviare e farsi difendere, mentre è stato formato e giustificato come governo trasversale imposto dall’esigenza di fronteggiare l’emergenza mediante interventi forti e risolutivi sull’economia, sulla costituzione, sulla legge elettorale. Debito pubblico, disoccupazione, insolvenze, fallimenti salgono, sale anche lo spread, e il governo se ne sta a guardare, al massimo impetra l’autorizzazione tedesca a spendere qualche miliardo di soldi italiani spalmato sui prossimi anni, un niente rispetto alle dimensioni del male.

E’ una contraddizione vistosissima, da cui si esce chiamando il bluff: il vero scopo del governo Letta e della blindatura Napolitano è di proteggere l’establishment consolidato, la partitocrazia, impedendo che perda il potere sul Paese per effetto della crisi, della lotta tra le sue fazioni,  dello sputtanamento totale, del discredito delle istituzioni, della possibile reazione sociale al collasso economico. A tale scopo, l’importante, per i partiti, è stare insieme qualsiasi cosa accada,  gestire insieme il giorno per giorno, galleggiare, aspettando gli eventi e le decisioni che contano, che vengono da fuori: le elezioni tedesche, le mosse della BCE, della Fed, di Obama.
Mettere assieme i grandi avversari (PD, Pdl, Montiani, Casiniani) e blindare tale coalizione rieleggendo Napolitano non è stato fatto al fine di avere la forza e la coesione necessarie per riformare e rilanciare il Paese e tutelarlo in sede comunitaria – da anni nessuno più tenta di riformare il Paese o di tutelarlo rispetto a Germania, Francia e soci -, bensì al fine di realizzare una solidarietà partitocratica nell’interesse del potere e dei profitti e delle poltrone dei capi dei partiti. Al fine di corresponsabilizzarsi del disastro socio-economico, ma anche di funzionamento dell’apparato pubblico, che sta rapidamente avanzando, e che in autunno esploderà quando molte imprese non riapriranno e bisognerà fare ulteriori tagli e tasse, e non si potranno mantenere le promesse di partenza su imu, iva, cuneo fiscale. Al fine di corresponsabilizzare tutti nel fallimento e nelle misure che a quel punto si adotteranno per fronteggiare la protesta sociale: misure sicuramente dure, autoritarie, repressive. Non si vuole che, in quello scenario, vi sia un’opposizione forte e organizzata che possa approfittare del fallimento delle politiche economiche impostate sul modello imposto da Berlino e del ricorso alla forza contro il popolo, per prendere il potere e togliere poltrone e cordini della spesa pubblica e le leve di comando anche burocratiche e giudiziarie a chi li detiene stabilmente. Forse, per averlo in coalizione, a B. è stata offerta anche una soluzione per i problemi legali suoi personali e del suo gruppo industriale.
 il prof. Giulio Sapelli sostiene che il governo Letta sia stato formato tra le forze che, sostenute da Napolitano, vogliono un’integrazione economica europea  dell’Italia paritaria alla Germania;  mentre per contro gli attacchi diretti e indiretti al governo Letta verrebbero dalle forze che, capeggiate da Renzi, Saccomanni (Bankitalia) e da La Repubblica,  nell’interesse dell’egemonismo tedesco, vorrebbero un’integrazione subalterna, ancillare dell’Italia alla Germania.
A me pare invece che tutte le forze politiche e bancarie al governo (e qualcun’altra) siano da lungo tempo al servizio dell’egemone capitalismo tedesco, che tutte abbiano cooperato nell’asservire l’Italia alla Germania, e che oggi competano tra di loro per ottenere dai poteri forti stranieri, in cambio della preservazione dei loro privilegi inveterati, l’incarico fiduciario per pilotare, sfruttare e riformattare l’Italia nell’interesse straniero, nella fase che si aprirà dopo  la prossima emergenza, la prossima rottura dell’attuale pseudo-equilibrio su cui si regge il funzionamento del sistema-paese e il mantenimento di condizioni di vita accettabili per la gran parte della popolazione. E’ una sorta di gara di appalto per avere il mandato dal paese occupante di turno.
Su una cosa invece sono d’accordissimo con Sapelli: l’Italia non ha futuro senza e fuori dal rapporto con gli Stati Uniti. Anche se neanch’essi hanno ricette economiche valide e sostenibili (tali non sono i quantitative easings che finanziano impieghi improduttivi e speculativi), solo gli USA la possono salvare dal ferale modello economico-finanziario imposto egoisticamente da Berlino, e che prescrive prima di risanare i conti interni ed esterni, e poi di stimolare lo sviluppo. Un modello che va bene alla Germania, che ha già i conti sani – o meglio la forza di nascondere i loro buchi – e può quindi sostenere sviluppo, investimenti, occupazione a bassi tassi perché li finanzia coi denari che attrae-sottrae dai paesi periferici. Un modello che, al contempo, condanna l’Italia alla recessione e al continuo aumento del debito pubblico. E ricordiamo che l’elettorato tedesco, complessivamente, guarda agli italiani con disprezzo e diffidenza (razzismo?), quindi non accetterà mai l’integrazione politica e di bilancio, e invece approverà l’imposizione agli italiani di sofferenze e privazioni di ogni sorta. Mentre, al contrario, l’elettorato americano non è razzista né ostile né orientato al sadismo verso di noi.
di Marco Della Luna 

23 luglio 2013

Governo USA e banche: il controllo costante sul mondo



  
   
Il mondo finanziario: uno strumento d’informazione 

Il mondo della finanza contemporaneo ruota principalmente intorno all’informazione: i dati sui clienti delle banche e delle compagnie assicurative, sulle pensioni e sugli investimenti nonché i dati di altri enti che si occupano di finanza, devono essere raccolti, sistemati, elaborati e infine utilizzati. I numerosi pezzi del puzzle, provenienti da diverse fonti, vengono infine ricomposti. Se la faccenda riguarda persone fisiche, il tutto si riduce a denaro, proprietà, lavoro, salute, parenti e condizioni di vita. In caso di persone giuridiche, invece, la sfera d’interesse ingloba fondi e affari, storia creditizia, investimenti pianificati, top leader, azionisti, manager, contratti, fondi di capitale delle aziende, etc. Per tutto ciò, le banche e altri enti finanziari dispongono di servizi ad hoc. A parte questo, le informazioni comprendono gli uffici di credito nonché le agenzie di rating e d’informazione. 

Alcune banche o imprese possono creare delle banche dati contenenti informazioni sui i clienti. Le banche centrali sono diventate agenzie d’informazione potenti che svolgono le funzioni di controllo bancario approfittando di un accesso praticamente libero ai dati commerciali delle banche. Inoltre, alcune banche centrali raccolgono informazioni autonomamente. La Banca di Francia, ad esempio, esegue un monitoraggio delle imprese manifatturiere col pretesto del perfezionamento della propria politica di credito. Una gran quantità di informazioni finanziarie e commerciali vengono tratte dalle transazioni bancomat e POS, che sono sistemi di telecomunicazione che forniscono dati. Separatamente troviamo i sistemi di informazione che, seppur siano collegati e interagiscano con i suddetti, monitorano gran parte dei flussi d’informazione. 

La maggior parte delle banche e delle compagnie finanziarie si occupano dei propri servizi di sicurezza. Dal punto di vista formale, la loro missione è la protezione delle informazioni, ossia ciò che appartiene alle aziende. Ufficiosamente, però, molti servizi ottengono informazioni aggiuntive riguardo ad alcuni clienti e alla loro concorrenza. Tale meccanismo presuppone, naturalmente, operazioni sotto copertura, condotte attraverso l’utilizzo di speciali tecnologie e contatti interpersonali (HUMINT). 

Le informazioni raccolte sono private e, per accedervi, occorrono autorizzazioni legali. Il fatto che le banche riescano ad acquisire informazioni private e che godano di una consistente indipendenza dallo stato le rende sempre più simili ai servizi segreti. In realtà, sono le banche e i servizi segreti che sorvegliano le informazioni mondiali. Infatti, la fusione del personale dei Servizi speciali occidentali e dei settori bancario e finanziario ha dato vita ad un gigantesco e losco colosso dotato di vaste risorse informative e finanziarie capace di controllare ogni aspetto della vita umana. 

La SWIFT: il “cervello” della sorveglianza finanziaria e informativa mondiale 

Sono sicuro che in pochi conoscono l’acronimo SWIFT (Società per le Telecomunicazioni Finanziarie Interbancarie Mondiali). Si tratta di una cooperativa di credito attraverso la quale il mondo finanziario esegue le proprie operazioni. Sono più di 10.000 le istituzioni finanziarie e le grandi aziende in 212 paesi che ogni giorno si affidano a tale società per scambiarsi milioni di messaggi finanziari standardizzati. L’attività riguarda lo scambio sicuro di dati di proprietà pur assicurandone formalmente le loro privacy e integrità. Da un punto di vista legale, si tratta di una SPA costituita da banche di diversi paesi. È stata fondata nel 1973 da 240 banche di 15 stati affinché potessero inviare e ricevere informazioni sulle transazioni finanziarie in maniera affidabile, standardizzata e sicura. La società è attiva dal 1977. Per l’enorme quantità di transazioni SWIFT, la valuta utilizzata è il dollaro americano. La SWIFT è una società cooperativa di diritto belga ed è gestita dalle istituzioni finanziarie che ne fanno parte. Ha uffici in tutto il mondo. I quartieri generali della SWIFT, progettati da Ricardo Bofill Taller de Arquitectura, si trovano a La Hulpe, in Belgio, vicino a Bruxelles. L’istituzione governativa è l’Assemblea Generale. Le decisioni vengono prese sulla base di una maggioranza del tipo “un’azione - un voto”. Le banche americane e dell’occidente europeo dominano il consiglio d’amministrazione. Gli azionisti principali con potere decisionale sono: Stati Uniti d’America, Germania, Svizzera, Francia e Gran Bretagna. Le azioni sono distribuite a seconda del volume delle operazioni. 

Qualsiasi banca che goda del diritto di effettuare delle operazioni in ottemperanza alle leggi nazionali può essere membro della società SWIFT. Già alla fine del ventesimo secolo lo SWIFT è stato inevitabile nel caso in cui fosse stato necessario inviare denaro in un altro paese. Quando la maggior parte delle transazioni internazionali veniva effettuata in dollari, tutti i pagamenti passavano dai conti aperti nelle banche statunitensi, che, a loro volta, disponevano di conti nel Federal Reserve System (FRS). Perciò, pur essendo un organo internazionale, la SWIFT è legata al FRS, sebbene le banche statunitensi non abbiano una banca dati di controllo. I server della SWIFT si trovano negli Stati Uniti e in Belgio. A metà del decennio scorso, la società si è occupata di 7800 clienti situati in 200 paesi. Il flusso finanziario giornaliero ammonta a 6 trilioni. 

SWIFT: l’iniziativa imprenditoriale congiunta della CIA e della FRS 

Nell’estate del 2006, la SWIFT fu coinvolta in uno scandalo sollevato dalle testate giornalistiche New York TimesWall Street Journal e Los Angeles Times. Ecco come sono andate le cose. Successivamente agli eventi dell’undici settembre, tutte le transazioni finanziarie del Paese sono state messe sotto controllo, specialmente quelle transnazionali. Da un punto di vista formale, l’obiettivo consisteva nell’evitare che venissero finanziate le organizzazioni terroristiche. In tempi assai brevi, la CIA ha allacciato dei contatti con la SWIFT per sorvegliare i pagamenti in entrata e in uscita. L’Agenzia dei servizi segreti americana non aveva permessi legali per farlo. Neanche i loro ex-impiegati erano a conoscenza di tali attività. In qualche maniera, un tentativo per giustificare tali operazioni è stato fatto: nel 2003, a Washington, la Società per le Telecomunicazioni Finanziarie Interbancarie Mondiali e alcune agenzie di stato americane, comprese la FBI, la CIA e la FRS (il presidente della Federal Reserve System, Alan Greenspan, era presente), si sono pronunciate sulla faccenda. 

Le parti hanno convenuto per portare avanti la collaborazione, ma a condizione che Washington rispettasse alcune regole. La volontà era quella di rinforzare i controlli da parte del Dipartimento del Tesoro statunitense e di limitare le attività focalizzandosi esclusivamente sulle transazioni finanziarie di cui si sospettavano legami col finanziamento al terrorismo. Gli Stati Uniti hanno assicurato di chiudere un occhio su altri pagamenti, compresi quelli legati all’evasione fiscale e al traffico di droga. 

Durante le trattative, gli Stati Uniti hanno avanzato la proposta che la SWIFT non fosse una banca, bensì un intermediario tra banche. L’accesso ai suoi dati, dunque, non avrebbe violato le leggi sulla privacy delle banche statunitensi. È risaputo che le banche centrali di Gran Bretagna, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Svezia, Svizzera e Giappone erano al corrente delle pratiche intraprese dalla CIA. La Banca Centrale di Russia, però, non è stata menzionata nella suddetta lista… 

In alcuni casi, le banche centrali tennero segreto il fatto che la SWIFT collaborasse con gli USA, per cui il pubblico, i governi e i parlamenti ne rimasero all'oscuro (anche se questi ultimi ne fossero stati a conoscenza, non avrebbero fatto trapelare nulla). Ecco come stavano le cose in Gran Bretagna. Nell’estate del 2006, la testata The Guardian ha reso pubblico un caso che attribuiva alla SWIFT la condivisione annuale con la CIA di informazioni legate a milioni di transazioni di banche britanniche. Secondo ilThe Guardian, la condivisione di dati top secret è una violazione delle leggi sia britanniche che europee (più in particolare, la Convenzione Europea per i Diritti Umani). 

Un portavoce del commissario delle informazioni ha dichiarato alla testata britannica che il fattore privacy era stato preso «seriamente in considerazione». Se la CIA avesse avuto accesso ai dati finanziari dei cittadini europei, quella sì che sarebbe stata «probabilmente una violazione della normativa europea sulla protezione dei dati», ha dichiarato, aggiungendo che la legislazione britannica sulla protezione dei dati avrebbe potuto essere violata se la transazioni bancarie britanniche fossero state trasmesse. Il commissario ha richiesto ulteriori informazioni alla SWIFT e alle autorità belghe prima di decidere come procedere. 

La Banca d’Inghilterra, una delle 10 banche centrali ad avere un posto nel consiglio d’amministrazione della SWIFT, ha rivelato di aver messo al corrente il governo britannico di tale programma nel 2002. «Quando lo abbiamo scoperto, abbiamo informato il Tesoro e abbiamo lasciato a loro l’incombenza del caso,» ha dichiarato Peter Rogers, della Banca. «Abbiamo anche avvisato la SWIFT che avrebbe dovuto affrontare l’argomento col governo. Non aveva niente a che fare con noi. Riguardava la sicurezza e non la finanza. Era una faccenda tra la SWIFT e il governo». 
Dal Parlamento, in una risposta scritta, Gordon Brown assicurava che il governo era a conoscenza dell’accordo. Citando la politica governativa di non rilasciare alcun parere su «faccende di sicurezza specifiche», tuttavia, il cancelliere ha rifiutato di dichiarare se fossero state prese delle misure per «assicurare la protezione della privacy dei cittadini britannici le cui transazioni finanziarie avrebbero potuto essere ritenute come facenti parte di investigazioni da parte degli Stati Uniti e dalla SWIFT contro il terrorismo». Si è inoltre rifiutato di precisare se il programma della SWIFT fosse stato «legalmente adeguato» all’articolo 8 della Convenzione Europea per i Diritti Umani. 

Il “cervello” dell’informazione – finanziaria odierno 

Ad oggi non conosciamo ulteriori dettagli della collaborazione tra la SWIFT e i servizi speciali statunitensi. Sembra che il caso venga sottratto al dominio mediatico. Presuppongo che ci siano molte probabilità che la collaborazione stia continuando. Perlomeno, gli Stati Uniti hanno tutto ciò che serve per farlo (uno dei due server si trova sul suolo statunitense). Esistono molti segnali indiretti che ci indicano che la SWIFT, formalmente un ente non statale, sia messo sotto forte pressione da Washington. Uno degli esempi più recenti è l’espulsione dell’Iran nel 2012. È di comune accordo che la decisione sia stata presa sotto la pressione degli Stati Uniti. 

Infine, utilizzare lo SWIFT non è l’unico modo per esercitare un controllo sui flussi finanziari internazionali. Il dollaro statunitense è la moneta dominante a livello internazionale. Ciò significa che tutte le transazioni passano da conti di sede americana, anche se le persone giuridiche e fisiche non si trovano negli Stati Uniti. I dati vengono raccolti da banche commerciali e dal Federal Reserve System americano. La creazione di banche dati enormi e dettagliate appartenenti al Ministero del Tesoro statunitense volge quasi a compimento. Le informazioni verranno ottenute da banche statunitensi, compagnie assicurative, fondi pensionistici e altre organizzazioni finanziarie. All’inizio del 2003, i media hanno affermato che tutti i servizi speciali degli Stati Uniti, compresa la Central Intelligence Agency, il Federal Bureau of Investigation, la National Security Agency e altri, potevano accedere a questa banca dati per proteggere i propri interessi nazionali e la propria sicurezza. 

Il ritmo accelerato della creazione della banca dati per servire i bankster e i servizi speciali americani fa sì che altri paesi cerchino di proteggersi dal controllo importuno del Grande Fratello… Oggi si parla molto del vantaggio di cambiare le valute di transazioni internazionali, tramutandole da dollari statunitensi ad altri tipi di valute. Ciò è normalmente visto come un modo per liberarsi dalla dipendenza economica e finanziaria degli Stati Uniti. È giusto farlo, poiché questo cambiamento darà vita ad un’alternativa al fare affidamento sulle informazioni controllate dagli USA.

di Valentin Katasonov 


Fonte: www.strategic-culture.org

22 luglio 2013

Fmi brûlé. Ricetta in salsa magiara





 
L’Ungheria di Viktor Orban non è affatto un’animale domestico.
Non soltanto ha rivendicato i suoi diritti nazionali di dotarsi di una Costituzione senza briglie a Bruxelles o altrove, non soltanto ha più volte sollevato un netto rifiuto ad assoggettarsi alle politiche di rigore imposte dalla Troika urbi et orbi, non soltanto ha reimposto una sorta di “nazionalizzazione” della propria Banca centrale... ma ora ha anche deciso sia di pagare al più presto, nove mesi prima della scadenza, il suo prestito usuraio contratto con il “mecenate” Fmi, e sia di annunciare la chiusura degli uffici di rappresentanza del Fondo Monetario insediati a Budapest.
Messa all’indice dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue) subito dopo l’assunzione del potere da parte del partito di Orban dichiarato “populista” nonché soggetto alle influenze “negative” della forte destra radicale degli Jobbik, l’Ungheria aveva già “risposto” alle critiche dei padroni-soloni facendo fronte al problema del debito (contratto con l’usura internazionale dal precedente governo), portando detto indebitamento al di sotto del 3% sul suo Pil già a fine 2011.
Con metodi subito ritenuti “non ortodossi” dalla grande finanza internazionale e dai suoi portaparola.
E cosa aveva mai deciso il governo Orban (sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare)?
Di abbattere il debito con una serie di misure temporanee, una tantum, capaci di aumentare ex abrupto le entrate. Quali? Naturalmente quelle più ostiche alle centrali finanziarie.
Le elenchiamo: 1) tassa sui profitti bancari; 2) nazionalizzazione dei “fondi pensione” e assicurativi; 3) imposte sulle multinazionali operanti in territorio magiaro.
E così, con una lettera inviata questo 15 luglio a Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, György Matolcsy, il governatore della Banca Centrale ungherese, ha annunciato che Budapest sarà pronta ad estinguere anticipatamente il debito contratto nel 2008 (20 miliardi di euro) nel bel mezzo dell’inizio della crisi esportata in Europa dal Lord Protettore dell’Ue, gli Stati Uniti d’America. E questo grazie all’avvenuta graduale riassunzione della propria sovranità nazionale, monetaria, fiscale, finanziaria.
Interessante è ricordare che nel 2011, a febbraio, il governo Orban - dopo aver traccheggiato sulle pressanti richieste della Troika di rinegoziare il debito (con un ulteriore debito: il “metodo” usuraio principe al quale, per esempio, la nostra stessa Italia si è graziosamente assoggettata) - riusciva a piazzare senza alcuna intermediazione internazionale le proprie obbligazioni di Stato, dimostrando che quando si è sovrani e quindi affidabili i problemi si risolvono normalmente.
Ma torniamo a questa metà di luglio.
Nella sua lettera alla Lagarde, György Matolcsy, ha annunciato il pagamento anticipato delle prossime ultime tre rate trimestrali, per un totale di 2 miliardi e 125 milioni di euro, sottolineando - non si sa quanto ironicamente o sinceramente - che tale risultato è un effetto, sì, della buona crescita ungherese, ma anche “degli sforzi personali (della Lagarde) di promozione dello sviluppo economico”.
Non male, non male.
Peccato che l’esempio magiaro sia per l’Italia-colonia dei Letta e dei Saccomanni (e dei loro mentori, Prodi e Draghi) quanto di più siderale mai si possa pensare. Oggi. Domani è però un altro giorno.


di Ugo Gaudenzi 

21 luglio 2013

Rifiutare il Debito è possibile. Islanda chiama Italia





Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andrea Degl’Innocenti sulla rivoluzione islandese, primo libro in italiano sull’argomento, edito da Ludica S.n.c..


andrea degl innocenti
Andrea Degl'Innocenti è andato in Islanda per indagare in modo approfondito il 'caso islandese'
Il Cambiamento è nato quasi tre anni fa. Da allora ha cercato di portare avanti un'informazione davvero indipendente e fuori dalle logiche che guidano i mass media. Per farlo si è poggiato sulla collaborazione di decine di giornalisti giovani e preparati che hanno ricambiato la fiducia riposta in loro in modo egregio. Tra questi spicca Andrea Degl'Innocenti che da subito ha saputo volgere il suo occhio attento verso le vene pulsanti del nostro Paese, del nostro mondo, indagando e mostrando ciò che troppo spesso veniva nascosto.
Tra le sue tante indagini, la più "famosa" è stata quella sul caso islandese: un Paese che ha "rifiutato" di pagare il debito, innescando un processo demcoratico senza precedenti, in cui il popolo ha saputo davvero scegliere una parte importante del proprio futuro, scavalcando poteri politici e finanziari.
I suoi articoli sul tema sono stati letti da decine di migliaia di persone. Andrea ha quindi deciso di andare (a sue spese) in Islanda per indagare in modo più approfondito la questione ed ha preparato un testo che da ieri è disponibile in versione elettronico (pdf e epub). Sto parlando del suo “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, edito da Ludica.
Il libro comprende una  prefazione di Loretta Napoleoni economista di fama internazionale, e si avvale dei contributi di Serge Latouche, teorico della decrescita, Pierluigi Paoletti , fondatore doi Arcipelago SCEC, Marco Bersani, del Forum dei movimenti per l’acqua.

Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andre
Andrea ci racconta l’ascesa e la caduta del sogno islandese , dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli responsabili del collasso del paese, contro l’intera comunità internazionale che pretendeva il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private.

Infine, Andrea trae spunto dalle vicende islandesi per offrire una panoramica di alcune delle realtà più significative che anche in Italia si adoperano per cambiare la società. Ne emerge un mosaico della “società del cambiamento”, in cui le realtà in lotta sono tasselli ideali di un grande movimento. Un’opera di riappropriazione collettiva del diritto di decidere sul modo e sul mondo in cui vogliamo vivere.
di Daniel Tarozzi

20 luglio 2013

Catastrofe in atto. Come reagire?



  
   
Buonasera a tutti, il tuo articolo(“AAA Italia svendesi” di Valerio Lo Monaco) merita un plauso per l'analisi ineccepibile, ma tutto questo non fa altro che acuire una sensazione d'impotenza nei confronti del regime imperante sempre più autoreferenziale saldamente al potere da più di sessant'anni. 

Cosa possiamo fare per evitare la catastrofe già in atto? Sperare, trovandoci a poppa di questa enorme nave, di vedere almeno i tanti stolti che restano ostinatamente a prua annegare per primi? Siamo sicuri che la nave affonderà di prua?

Mentre scrivo ho la certezza di essermi tuffata già in acqua, cercherò di raggiungere la riva a nuoto, non sarà facile. 

Si salvi chi può!!!!!

Rosanna Rizzo


Cara Rosanna, la sensazione di impotenza di cui scrivi ha mille e mille motivi, ma va appunto considerata una sensazione. Che, in quanto tale, è nulla di più (e nulla di meno, certo) di una risposta emotiva ai tantissimi segnali negativi che ci arrivano dal mondo in cui viviamo. 

Per evitare di esserne travolti, passando dall’allarme legittimo al panico incontrollato, esiste però un antidoto efficacissimo. E definitivo. Invece di pensare alla sconfitta come a un disastro incombente, al quale potremmo miracolosamente sfuggire in extremis se riuscissimo ad attivare in tempi rapidissimi una sollevazione popolare, essa va considerata un dato di fatto. 

Per dirla in termini metaforici, non stiamo osservando le manovre di un esercito nemico che si prepara all’attacco, ma assistendo alla sistematica occupazione di tutto il nostro territorio. Che equivale, ormai, a un controllo pressoché completo dei gangli fondamentali, sia pubblici che privati.

In altre parole, non c’è nessun fortino nel quale asserragliarsi, in attesa di combattere la battaglia finale. I “buoni” non sono chiamati a radunarsi a tale scopo, e i “cattivi” non stanno convergendo su quell’unico obiettivo. Come abbiamo scritto altre volte, non ci sarà nessun Armageddon (che è poi la proiezione su vastissima scala di un duello all’ultimo sangue, ossia di un’idea di scontro deliziosamente romantica ma terribilmente, e colpevolmente, semplificata). Il conflitto si va svolgendo da moltissimo tempo e segue altre dinamiche, assai più complesse. Assai più infide. Quelli che vediamo oggi sono gli effetti di qualcosa che è cominciato da parecchi decenni, per non dire da alcuni secoli, e che non ha mai smesso di perseguire i suoi scopi: schiavizzare l’umanità attraverso l’economia, il denaro, la materialità. 

Eppure, una volta che lo si guardi in faccia senza paura, quell’esito così sfavorevole deve smettere di spaventarci, come una minaccia che ci appare tanto più inquietante quanto più i suoi contorni rimangono imprecisati, e trasformarsi in un nuovo punto di partenza, alimentando in noi una rinnovata volontà di affrontarlo. Non è che dobbiamo impedire che gli USA diventino la superpotenza che sono. O che le banche centrali diventino dei pool di soggetti privati che usurpano sia la funzione del credito che la sovranità monetaria. Oppure, ancora e ad libitum, che le persone di minor valore morale, e non di rado anche intellettuale, diventino la classe dirigente che decide per noi.

Questo è già accaduto. Questo è già acquisito. E tuttavia, ciò rientra pur sempre – si potrebbe dire “per definizione” – in un processo senza fine, che è la storia dell’Uomo. L’attuale strapotere di alcuni centri di interesse, che di solito identifichiamo con la speculazione finanziaria internazionale, non è né un approdo conclusivo né una tappa lungo un tragitto inevitabile, come pretendono i fautori dello sviluppo lineare e progressista della Storia, ma la meta che determinate forze si sono prefisse di raggiungere. 

Il nostro compito, la nostra sfida, la nostra unica alternativa alla resa, è essere diversi da loro. Mantenerci integri. Rimanere, ciascuno a suo modo, degli “entusiasti della vita”. E quindi, tra l’altro, darci da fare per entrare in contatto, anzi in rapporto, con chiunque abbia caratteristiche simili.

Di sicuro non è ancora la rivoluzione, e non ci si avvicina nemmeno, ma in qualche modo la prepara. O non la esclude. Ricordiamocelo sempre: c’è stato un momento in cui i Rothschild erano solo dei piccoli mercanti che si sforzavano di emergere e che non si chiamavano nemmeno Rothschild, ma Amschel. Operavano a Francoforte, che per una curiosa coincidenza è oggi la sede della Bce, e il capostipite Moses faceva il rigattiere.

Erano impotenti a cambiare la società del tempo? Lo erano. Però ne hanno fatto un principio di consapevolezza, anziché di sconforto.

di Federico Zamboni 

19 luglio 2013

La Farnesina colleziona gaffe. Manchiamo di sovranità nazionale



Ciò che emerge dall'intervista è un'immagine piuttosto confusa del nostro Paese nell'ambito delle relazioni internazionali. L'Italia, secondo il giornalista catanese, mancherebbe di autonomia decisionale e di autorevolezza nei confronti degli interlocutori alleati o no.

Che idea si è fatto del caso Ablyazov?
Sospetto che la questione sia solo un regolamento di conti. Dal Kazakhistan deriva il nucleo centrale del gasdotto russo. L'Italia, con Berlusconi, scelse questa opzione. Fu conveniente perché dimezzò i costi ma agli alleati americani non è andata giù. Hanno perso molti soldi nel mancato affare.

Alfano dovrebbe dimettersi secondo lei?
E dunque anche Bonino? E poi i vertici delle amministrazioni? Vedrà che finirà con una relazione esauriente e chiara in un punto: farla pagare ai sottoposti.

E' forse mancato un coordinamento tra Viminale e Farnesina?
Non ho idea. Non voglio neppure farmela.

Cosa ne pensa di Emma Bonino agli Esteri?
E' un ottimo ufficiale di collegamento tra la colonia Italia e il Pentagono

Che impressione si è fatto della politica estera italiana?
La Farnesina ha collezionato tutta una serie di gaffe. Ancora prima dei marò c'è la vicenda di Mario Vattani, il diplomatico richiamato da Osaka perché colpevole di lesa canzone quando il governo del Giappone dimostra considerazione e stima per lo stesso, uno dei pochi in grado di conoscere a fondo Tokio e tutte le complessità del mercato nipponico. Dalla vicenda dei due marò a oggi si aggiunge, passando per la tragicomica vicenda del presidente della Bolivia cui l'Italia, l'effetto di un cancro conclamato. Quello di non avere sovranità politica.

Perché?
L'Italia è un'espressione geografica. Tutto qua.

Turchia ed Egitto: secondo lei le rivolte dei due paesi sono simili quanto a contesto e modalità?
No. In Turchia c'è una vivacità di ambiente cosmopolita che l'Egitto non ha. Quest'ultimo è più facile preda delle influenze straniere, sia nel versante dei buoni, sia in quello dei cattivi.

Come dovrebbe comportarsi l'Italia nelle sue relazioni con Ankara e Il Cairo?
Come uno stato sovrano la cui politica estera è dettata dagli interessi nazionali.



di Pietrangelo Buttafuoco - Marco Petrelli

18 luglio 2013

Le rivoluzioni europee cominciarono sempre con una rivolta in Ungheria






Italia, Polonia e Ungheria sono tre paesi “di passaggio”: l’Italia in senso nord-sud e gli altri due in senso ovest-est.
Deve essere anche per questo comune destino che ricordiamo anche al ginnasio con piacere la partecipazione di volontari ungheresi, agli ordini di Stefano Türr (1848) e György Klapka (1859) alle nostre lotte per l’indipendenza e citiamo nel nostro inno nazionale “il sangue polacco” che l’aquila bicipite “bevè col cosacco, ma il cor le bruciò”.
Sempre nel 1848 oltre 1100 volontari italiani combatterono per l’indipendenza ungherese agli ordini diAlessandro Monti.

Sui bastioni di Buda c’è una lapide in memoria di un barone salernitano – di cui non ricordo ahimé il nome- che superò per primo i bastioni turchi per la liberazione della città.
Una amica polacca dell’ambasciata, mi ha assicurato che anche nell’inno nazionale polacco c’è un accenno diretto all’Italia e alle lotte comuni.
Insomma siamo in simpatia da oltre duecento anni. Abbiamo trepidato per la loro sorte durante la rivolta ungherese del 1956 – su questo si spaccò il P.C.I. nei suoi elementi di punta – e riabbracciammo i fratelli ungheresi al crollo del patto di Varsavia.
Ieri, 15 luglio, i magiari sembrano ancora una volta voler precedere tutti e indicare agli altri europei la strada da seguire, per reagire ribellandosi alla nuovaSanta Alleanza.
Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca centrale ungherese, ha inoltrato alla signora Christine Lagarde una lettera, invitandola a chiudere l’ufficio di Budapest del Fondo Monetario Internazionale (FMI) segnalando che non vi era più ragione per prolungarne la presenza e che il governo ungherese conta concludere il rimborso del prestito contratto in anticipo rispetto al termine del 2014 stabilito dagli accordi vigenti.
L’FMI pare intenzionato a traslocare entro la fine di Agosto, anche perché il prestito negoziato nel 2011 ( Orban giunse al governo nel 2010).
L’Ungheria aveva contratto – subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria – nel 2008 un prestito con la trimurti FMI, UE, Banca Mondiale ( WB) per un importo massimo di 25 miliardi, di cui circa 15,7 effettivamente utilizzati.
Il rapporto tra FMI e il governo ungherese presieduto da Viktor Orban è sempre stato tempestoso, al punto che i “soliti ambienti”, mai precisati ma sempre autorevoli, avevano lo scorso anno fatto circolare la voce che in Ungheria esisteva un concreto pericolo di ritorno al fascismo.
Orban ha posto sotto controllo la Banca Centrale, nazionalizzato il sistema pensionistico e posto una supertassa sulla grandi società e questo per l’Unione Europea è un peccato mortale cui ha fatto seguito la minaccia di scomunica.
Si tratta di una minaccia non vana, visto che alcuni articoli della carta delle Nazioni Unite ( tra il 50 e il 54) prevedono espressamente che le Nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale possano, invadere senza preavviso qualsiasi tra i paesi sconfitti ( l’Ungheria è tra questi), qualora , a insindacabile giudizio di anche uno solo dei vincitori, si ravvisasse un sintomo di rinascita del fenomeno.
L’Ungheria ha avuto lo scorso anno un lieve miglioramento economico grazie a una forte immissione di nuovi cittadini ( 400.000) provenienti dai paesi vicini beneficiati da concessioni territoriali conseguenza della guerra mondiale.
La relativa liberalizzazione della prima decade del secolo e l’energica conduzione indipendentista del governo Orban, hanno reso possibile il congiungimento di molti alla madrepatria ed una certa quota di inevitabile irredentismo che ha fatto seguito.
Le frizioni col FMI sono la conseguenza della pretesa assurda del FMI di imporre politiche economiche ormai riconosciute errate anche dall’alto management del Fondo, ma che incomprensibilmente non vengono corrette; dalle esigenze elettorali dettate dalle ormai imminenti elezioni politiche e dalla politica indipendentista seguita dal governo che ha potuto attrarre nel paese uomini e capitali tagliati fuori dalla madrepatria.
L’equivalenza tra fascismo e indipendenza nazionale viene perseguita a fini di propaganda dalle autorità di Bruxelles e da alcuni cretini di estrema destra, sia pure per opposte motivazioni.
Orban, tenendo ostinatamente la barra al centro, offre a tutti gli europei un esempio di come trovare una via di ripresa nazionale, mantenendo gli impegni comunque contratti, creare la ripresa mercé l’ottimizzazione e il controllo delle risorse a disposizione.

di Antonio De Martini

Fonte: corrieredellacollera