17 gennaio 2008

Mastella il nuovo Chiesa: «Malcostume» o «Reato»?




Penso che Mastella e ciò che rappresenta debba sparire dalla vita pubblica.
Con tutti i mezzi.
Ma difendere De Magistris e simili, nemmeno.
Perché penso quello che ha finalmente detto anche la Boccassini: «Una corporazione ripiegata su se stessa», che «non ha mai fatto autocritica», che «non ha il coraggio di guardare dentro se stessa», che non pretende da tutti «professionalità, rigore, indipendenza, autonomia».
Che fa, insomma, «come fanno i napoletani con la monnezza: la colpa è sempre degli altri, loro non c’entrano mai».
Insomma: lo stesso spirito di casta anima la magistratura e i politici di mestiere.
Stessa mentalità.
Stesso malcostume.
Stesso disprezzo per i principi del diritto e per i cittadini.
E soprattutto, la conseguenza di tutti questi atteggiamenti, vera tragedia italiota: la perdita di ogni autorità morale.
Che è essenziale per governare, molto più di quel che si creda.

Una delle accuse a Mastella & signora sarebbe quella di aver minacciato Bassolino: ti tolgo l’appoggio e così ti faccio cadere, se tu non ti prendi come assessore uno dei miei.
Ebbene?
Lo fanno tutti, si sbracciano a dire tutti i politici.
Formigoni e Prodi, Fini e Larussa, fate voi altri nomi, quando sono in una coalizione di governo fanno il mercato delle vacche, esercitando, se occorre, il ricatto; si accaparrano posti, forniscono appalti lucrosi agli amici, mettono a dirigere le municipalizzate e le ASL i loro candidati trombati, si scambiano favori e persino veline TV.
Che male c’è?
E’ «un malcostume, ma non è un reato».
Questa distinzione tra «malcostume» e «reato» l’hanno evocata anche quelli che prendono un poco le distanze da Mastella.
Ed è questo il segno della bassezza morale cui siamo caduti.
Se non vi rivoltate a questa distinzione, siete degradati moralmente anche voi.
Mastella fa come tutti gli altri?
Eh no, c’è una differenza di grado.

Egli ha fondato un suo partito personale, che non usa il «malcostume» come mezzo, ma come scopo finale.
Che ha il clientelismo come unico fine dichiarato, e arrogantemente dichiarato.
Ovviamente, è l’accettazione corrente del «malcostume» che glielo ha consentito.
Basta non avere alcuno scrupolo, e specie nel Meridione, ti puoi costituire un partito locale fatto di elettori che ti devono qualcosa, e che perdono qualcosa se tu non sei al potere: una base microscopica come quella di Ceppaloni, ma solidissima.
Da qui, con l’1%, puoi diventare ministro.
Restando nello stesso tempo sindaco di Ceppaloni, e mettendo la moglie alla presidenza della Regione.
Il sistema elettorale è fatto apposta per questo.
Premia chi ha pochi voti in un territorio concentrato, anche piccolo: voti che, ovviamente, vengono da favori fatti.
Non esiste un collegio unico nazionale dove possano presentarsi progetti nazionali, idee, menti intellettuali capaci di pensare in grande.
Da noi un filosofo non può entrare in parlamento, perché non ha posti da dare.
Non può uno scrittore e saggista, che ha magari un milione di lettori, però sparsi nel territorio nazionale.

Può Mastella.
Che io considero un delinquente molto più di quanto appaia ai media: un delinquente politico.
Uno che ha trasformato uno dei mezzi della politica nel suo unico fine.
Ciò dovrebbe essere vietato, perché ci trascina giù tutti, di livello in livello: fino alle montagne di monnezza, alla rovina economica di una nazione intera che manda un’immagine di sporcizia e malcostume invincibile.
Certo che questi scostumati non commettono «reati»: anzitutto perché le leggi se le fanno loro, e decidono loro cos’è la «legalità».
Ma in termini di giustizia, di diritto naturale, essi rubano denaro dei contribuenti.
A questo si riducono le loro trame e manovre, a furto di denaro pubblico.
Non lo fanno (sempre) in modo diretto, intascandosi i soldi.
Lo fanno quando assegnano una poltrona da 400 mila euro di stipendio non a un competente ma a un «cliente» partitico.
Ciò non è reato.
Viene inteso come «malcostume».
Ma quando il «malcostume» è la regola, quando è diventato così comune che il sistema lascia crescere il sindaco di Ceppaloni fino a ministro della Giustizia; quando nessun gruppo o coalizione si vergogna di avere l’appoggio di un Mastella, qui è il problema.
Un problema che supera di molto la «legalità».
Mastella, semplicemente, non ha la credibilità per governare la magistratura.

Quando fa trasferire un magistrato discusso dai suoi stessi colleghi, com’è sua prerogativa di ministro, è inevitabile che tutti si chiedano se non lo fa per impedire indagini su malversazioni e «malcostume», che è l’unica cosa per cui - per sua ammissione - è al potere.
E così lo Stato cessa di funzionare, in una marea di veleni e sospetti: che non si sa più nemmeno quanto siano giustificati, e quanto inventati.
Ecco perché Mastella non doveva pretendere la Giustizia (se avesse avuto qualche decenza); e una volta avutala, doveva dimettersi dopo che si è scoperto che era inquisito dai magistrati che ha ordinato di trasferire.
Qui il «malcostume» diventa qualcosa di peggio, e mi stupisco che non si capisca: è un ministro che perde il diritto a compiere i suoi atti d’ufficio, di cui lo investe l’autorità dello Stato, perché la sua personale autorità è quella di un piccolo ricattatore di paese.
Nel diritto naturale, questo configura vilipendio dello Stato.
Della cui autorità tutti abbiamo bisogno.

Può configurare anche un golpe: non un golpe alla Pinochet, dove un corpo dello Stato impone la sua visione del progetto nazionale con la forza, ma peggio: il golpe di una cosca, attuato allo scopo di mettere parenti e amici e clientes ai posti che contano.
Per un Paese, subire un golpe coi carri armati in strada non è necessariamente una vergogna: si cede a una forza reale, che può ucciderti.
Ma farsi governare dalla norma non scritta del «malcostume», che è il contrario della lealtà, perché ha preso il potere un sindaco mafiosetto di mezza tacca, questa sì è una vergogna.
Ma questo non significa che difendo De Magistris.
Anche lui, come tanti magistrati, pratica il «malcostume»: fa appello alle folle (di Santoro) portando le indagini in piazza.

Quella magistratura intercetta tutto e tutti non da notizia di reato, ma per cercare, con registrazioni di mesi, se parlando quei conversatori commettono un reato.
E’ molto diverso.
Anzi, spiare migliaia di persone per vedere se commettono reati, è il contrario della giustizia.
Peggio ancora se quei magistrati danno adito al sospetto di utilizzare i mezzi di cui l’autorità dello Stato li fornisce, per colpire una parte politica e favorirne un’altra: com’è accaduto in Mani Pulite.
Chiunque sa che mettendo sotto controllo per mesi i telefoni di gente che crede di parlare in privato, si possono ascoltare spropositi, volgarità, segreti ripugnanti: basta farlo abbastanza a lungo, e il gioco è fatto.
Se poi non risulta alcun reato, si possono sempre passare ai giornalisti amici, perché le diffondano, quelle parti più grassocce e ripugnanti delle conversazioni tra privati.
In modo, se non si riesce a incarcerare l’avversario, da sputtanarlo.

Sono le fughe di notizie: e chi le dà ai giornalisti?
I magistrati, è ovvio.
E’ un reato, ma per accertarlo ci vorrebbero altri magistrati, che mai e poi mai hanno condannato un loro collega di casta per violazione di segreto istruttorio.
Si accetta questo reato come «malcostume».
Ma qual è la conseguenza?
Che quando un magistrato apre un’inchiesta su un ministro, magari il suo ministro, e un personaggio dei più loschi - anche se ne ha motivi autenticamente gravi - può essere accusato di agire per interessi di casta ed odio di parte, di cui ha dato abbondanti prove in precedenza.
Insomma: anche lui ha perso l’autorità morale per compiere gli atti del suo ufficio.
Esattamente come Mastella non ha autorità morale per esercitare gli atti di ministro.
Ho sentito che il leghista Castelli, nel periodo in cui è stato ministro della Giustizia, ha ricevuto una quarantina di avvisi di reato: evidentemente da magistrati che s’erano messi in testa di farlo cadere, o anche solo di esibire il loro odio per la sua parte politica e le «riforme» che questa minacciava
(e non ha fatto).
Motivazioni serie, fattispecie penali non ce n’erano, perché appena Castelli ha perso il posto ministeriale, quelle inchieste sono finite nel nulla.
Volevano solo impedirgli di governare, di esercitare il mandato che gli aveva dato il popolo col voto.
Ci sono riusciti.

Insomma: magistratura e politicanti sono due caste eguali.
A volte contrapposte, ma per interessi di casta.
E il risultato è che, a forza di «malcostume», lo Stato non funziona, e diventa quel teatrino di sospetti e nido di veleni in cui consiste la «politica» in Italia.
Tutto perché tolleriamo il «malcostume», purchè non sia «reato».
E’ una mentalità.
Da cui dobbiamo liberarci noi, ma soprattutto i magistrati.
Proprio perché ci sarebbe bisogno di loro contro i Mastella, ma non possiamo fidarci di loro per la loro mentalità.
Questa mentalità è una cancrena inestirpabile.
L’ha dimostrato la stessa Boccassini, quando giorni fa ha svuotato il sacco contro i colleghi (non aveva ricevuto una promozione): la magistratura è politicizzata, la magistratura applica le leggi in modo diverso ad «amici» e nemici, la magistratura è piena di improduttivi («fancazzisti»), ci sono casi di corruzione, i magistrati si promuovono da sé secondo logiche di corrente e di fazione.
Ma poi, subito dopo, la Boccassini ha aggiunto: «C’era una attenuante, fino a qualche tempo fa, quando il governo Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura e dunque l’esigenza primaria era quella di difendersi coi denti, oggi quell’attenuante non vale più».
Capito?

Dice, la procuratrice, che avevano usato mezzi extralegali, fughe di notizie, violazioni del segreto istruttorio, apparizioni in TV, insomma il «malcostume» e l’abuso di potere, perché «Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura, e bisognava difendersi coi denti».
Concepisce la sua azione contro Berlusconi come una difesa della sua corporazione, e come una battaglia politica.
Ma la magistratura non deve «difendersi coi denti» (ossia: con le carcerazioni preventive per estorcere confessioni, intercettazioni illegali a tappeto, violazioni del segreto istruttorio a mezzo stampa).
A difenderla sono le leggi dello Stato.
Per questo i magistrati hanno stipendi fissi ed alti, per questo le loro carriere sono automatiche e sono praticamente insindacabili, se non dal loro stesso ordine (ordine, non corporazione né «potere»): perché non cedano per timore di perdere i loro benefici a chi gli fa «guerra».
Persino in Pakistan la magistratura ha mostrato più dignità e coraggio, e terzietà autorevole, contro il generale Musharraf, che è un po’ più pericoloso di Berlusconi.
Rimedi?
Se ne possono immaginare, certo.

Stabilire precise incompatibilità: magistrati non possono lasciare la toga per una carriera politica.
Non devono parlare in TV delle inchieste in corso.
Ministro non possono restare sindaci della loro clientela elettorale.
Senatori a vita che si drogano devono dare «spontaneamente» le dimissioni, per senso di vergogna e offesa allo Stato.
Parenti non possono avere posti assegnati dal parente ministro o governatore.
Il conflitto d’interessi non deve essere invocato solo per Berlusconi.
E ancora: il parlamento non può esprimere il governo né fornire ministri dai parlamentari, occorrono due votazioni distinte, per mantenere la tensione conflittuale tra i due poteri dello Stato, esecutivo e legislativo.
Ancor più: il parlamento non deve riunirsi in permanenza, bastano due sessioni mensili in autunno e primavera; parlamentare non è un mestiere.
A meno che non si ritenga normale che le assemblee di condominio o i consigli d’amministrazione si riuniscano tutti i santi giorni a decidere al posto del gestore condominiale o dell’amministratore delegato.
Ma soprattutto, bisogna cominciare col togliere loro gli enormi emolumenti.
Dimezzare le paghe ai parlamentari o ai loro grand commis, obietta qualche lettore, non recupera abbastanza denaro da coprire il disavanzo pubblico.
Osservazione stupida.
Il vero senso di una «riforma» del genere è impedire che la politica diventi un mestiere, e così lucroso da giustificare ogni malcostume.
Come oggi: ogni mese che la legislatura Prodi dura, sono altri 15 mila euro.
E ci tengono non solo i parlamentari filo-Prodi, ma anche quelli dell’opposizione.
Sono loro che non fanno cadere Prodi.
Anche loro.

Ecco il malcostume, dove porta: un giorno apprenderemo che la legislatura durerà cento anni. Sempre le stesse facce, Visco, Napoletano, Fini,…
Prodi, mettendo i suoi amiconi ai posti del potere economico pubblico, prepara appunto la sua immortalità extra-legale.
Ma non è un reato, attenzione: è solo «malcostume».
Ma ha ucciso la democrazia, la legalità, la competenza.

Tratto da effedieffe

16 gennaio 2008

Anche il mondo ci vede a rischio



L’assenza di una valida legge sul conflitto d’interessi è la principale ragione per la quale l’Italia nel 2007 è stata relegata al 35esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporters sans Frontières e dalla Freedom House americana. Sul piano internazionale siamo considerati fortemente a rischio, indietro addirittura rispetto a paesi privi di istituzioni democratiche, percorsi da ondate repressive o con un bassissimo livello di sviluppo civile.

Niente fa pensare peraltro che la situazione possa significativamente migliorare quest’anno, se consideriamo che fra i fattori che condizionano una vera libertà di stampa è entrato in gioco l’avanzato tentativo di impedire, con durissime sanzioni amministrative e perfino penali contro i giornalisti, la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche anche quando, come prevede l’attuale normativa, siano liberate dal segreto istruttorio perché rese note agli imputati. Se pensiamo che la Camera dei deputati approvò il progetto di legge Mastella con solo sette deputati contrari (fra i quali, a suo onore, Beppe Giulietti) e che a niente valsero gli scioperi indetti dalla FNSI e il motivato parere contrario dell’Unione Europea, tanto che la battaglia è ancora incombente, c’è da pensare con un brivido alla suscettibilità della politica italiana su questo tema e al distacco nei confronti dell’opinione pubblica, che ha il diritto democratico di vedere illuminati tutti gli angoli bui del potere.
A riprova di questa inquietante divaricazione e dei guasti prodotti dall’enorme conflitto d’interessi ancora aperto, sono recentemente venute le reazioni alle rivelazioni sulle esplicite telefonate intercorse fra i vertici operativi di Mediaset e i dirigenti legati direttamente a Berlusconi all’interno della Rai, con particolare riferimento a Deborah Bergamini e a Saccà.
In queste due occasioni si è avverata l’antica metafora sullo stolto che quando il dito indica la luna si limita a guardare il dito…Una miriade di esponenti politici, di opposizione come della maggioranza, ha scatenato una campagna sulla responsabilità professionale ed etica della stampa e di singoli giornalisti, sottovalutando o ignorando totalmente il contenuto delle intercettazioni. E’ così passato in secondo piano prima la gravità del “golpe” tentato e in buona parte riuscito sul Servizio Pubblico da parte dell’azienda televisiva di proprietà dell’allora capo del governo, attraverso una sorta di “quinta colonna” che ha alterato per anni funzioni, autonomia, capacità competitiva, scelte editoriali e produttive. Come tanti altri dirigenti della Rai, io stesso, allora Direttore di Rai News 24, ho personalmente avvertito sulla pelle della Testata l’evidente anomalia e la sopraffazione in corso sugli interessi generali e le prospettive aziendali. Poi il tentativo, sempre mediante vincoli di “sudditanza” politica e personale di personaggi che tradivano il mandato, di usare la Rai come mezzo di pressione per influenzare il voto di esponenti politici dello schieramento di governo. Non sappiamo ovviamente se e in quale misura queste vicende assumeranno peso giudiziario e come influiranno sui disastrati e instabili equilibri di gestione del Servizio Pubblico, ma siamo assolutamente certi della loro rilevanza morale e politica, del diritto dei cittadini a conoscerle fino in fondo e del conseguente dovere dell’informazione di descriverle ed analizzarle. Allo stesso tempo si può non coglierne l’ulteriore urgenza di una legislazione che spezzi il perpetuarsi del conflitto d’interessi e che cambi allo stesso tempo profondamente la normativa del Servizio Pubblico, mettendolo in condizione di reale autonomia dal potere politico e rinnovandone la missione culturale?
Voglio però sottolineare che, quando parliamo di conflitto d’interessi, non possiamo riferirci esclusivamente alla posizione dominante di Silvio Berlusconi, certo centrale e decisiva per qualsiasi futuro assetto politico come per determinare equilibri e opportunità di un mercato editoriale competitivo, dotato di regole condivise e all’altezza di una democrazia matura.
Su questo punto il governo deve senza ulteriori indugi aprire sul serio il confronto in Parlamento, facendo sì – come giustamente sottolinea Giulietti – che la fondamentale trattativa per arrivare a definire una nuova, corretta legge elettorale, non ponga in alcun modo in secondo piano il confronto legislativo sul conflitto d’interessi e sul sia pur timido progetto Gentiloni per la riforma della Rai.
Sia per l’uno che per l’altro aspetto, così evidentemente diversi e distanti, è infatti in gioco la democrazia.
Partiamo dunque da qui, ma non dimentichiamo che l’Italia è ormai immersa in una inquietante deriva nella quale fattori di crisi investono tutti i poteri previsti dalla Costituzione, che vedono ciascuno la presenza di piccoli o macroscopici conflitti d’interesse e comportamenti al di fuori o al di sopra di ogni regola, che tradiscono il mandato e le competenze istituzionali dei gruppi e di singoli rappresentanti… Si potrebbero elencare a lungo le contraddizioni, le deviazioni, i condizionamenti, le interferenze, gli interessi corporativi e di casta – intrisi di sottopotere ed arrivismo se non in alcuni casi di arricchimento personale – che costellano i percorsi legislativi e parlamentari, del governo, della stessa magistratura (come dimostrano le recenti polemiche innescate dalla dura denuncia di Ilda Boccassini). Per non parlare della società italiana, che appare
a ogni livello frammentata in interessi di parte, in angusti egoismi di consorterie, in individualismi anarcoidi, ben al di fuori dal rispetto degli altri e dall’osservanza di regole e leggi certe per tutti, sempre più priva di principi etici validi al di fuori del ristretto confine del giardino di casa, del proprio tavolo di ufficio, della propria autovettura.
E’ contro questa deriva che continuano a combattere spezzoni della società civile, sia ben chiaro insieme con tante persone oneste e motivate in ogni settore, a partire ovviamente da quello delle responsabilità politiche e amministrative, sempre però in posizioni di minoranza, come un esercito assediato e diviso che stenta a tenere il campo, a riconoscersi in obiettivi e sedi collegate di comando, a mantenere un solo schieramento di fronte alle multiformi “invasioni barbariche”.
E ancora una volta l’informazione è contaminata e partecipe in vari modi della deriva invece che della resistenza alla devastazione, venendo molto spesso meno a quell’impegno di illuminazione e conoscenza critica della realtà, che consentirebbe di saldare fronti comuni più vasti e consapevoli, di ripristinare una scala corretta di ideali, di modelli positivi, di capacità critica, di comportamenti pubblici e privati nello spirito della Costituzione.
Se il personaggio e il ruolo assunti da Berlusconi sono ormai divenuti totalizzanti nella vita e nell’immaginario del Paese, parametro insostituibile di antitetiche scelte politiche, come di quelle civili, sociali e culturali, traiamone almeno un esempio emblematico di ciò che è divenuta e di ciò che invece non dovrebbe essere la realtà, a partire da quella dell’informazione.

Due mesi fa, l’11 Novembre 2007, dal palco di Montecatini, dinanzi ai Comitati del Buon Governo costruiti da Marcello Dell’Utri, Berlusconi si mise al fianco il senatore siciliano, un braccio fraternamente attorno alle spalle e inscenò una sua strenua e dettagliata difesa, in attesa del verdetto di secondo grado dopo la condanna in Assise per partecipazione esterna all’organizzazione mafiosa. Ovviamente silenzio su questa sentenza, su altre di natura penale già passate in giudicato, su notissime circostanze di conoscenze e frequentazioni mafiose. Non contento di questo gesto di considerazione e amicizia, che a suo tempo si era ben guardato di fare pubblicamente nei confronti del suo avvocato Cesare Previti, il Cavaliere ha esteso la difesa al ricordo del capo-mafia Vittorio Mangano, a suo tempo per anni fattore dei possedimenti ad Arcore e in stretti rapporti con lo stesso Dell’Utri.

Mangano, morto di malattia mentre scontava in carcere una definitiva condanna per partecipazione a omicidi, traffici di droga, racket, estorsioni e che il giudice Paolo Borsellino definì nell’ultima intervista televisiva come uno dei capi-fila della mafia al Nord, è stato ricordato da Berlusconi solo come un buon uomo vittima di magistrati feroci. Inutilmente – sono parole testuali – questi magistrati cercarono di suggerirgli “accuse inventate” contro Marcello Dell’Utri e contro lui stesso. Insomma, possiamo tranquillamente dire, il ritratto lusinghiero di un vero “ uomo d’onore”, dipinto con un linguaggio e un racconto, al di là delle omissioni e delle evidenti menzogne, davvero degni di Cosa Nostra…
Cosa sarebbe accaduto nella stampa e nelle televisioni di mezzo mondo, se un ex-premier potentissimo e leader dell’opposizione si fosse lasciato andare a questo sfogo pubblico, evidentemente calcolato e probabilmente da qualcuno richiesto? E cosa si sarebbe mosso in Parlamento e nell’opinione pubblica? Da noi non è avvenuto alcunché: due giorni di smilza cronaca, qualche raro commento dei “soliti fogli comunisti”, l’indignazione di pochi siti pervicacemente contestatori (per fortuna almeno il sonoro originale è ascoltabile sul salvifico You Tube).
Questa è oggi l’Italia e non solo quella dell’informazione.

di Roberto Morrione

15 gennaio 2008

Un paese a rischio di regime mediatico



Berlusconi, al di là delle smentite che non smentiscono nulla, ha proposto un baratto tra una nuova legge elettorale e l’integrale tutela del suo interesse privato. Non basta più respingere l’indecente proposta (e vorrei vedere il contrario!), ma è necessario aggiungere che una nuova legge elettorale che non venisse accompagnata dalla contestuale risoluzione dell’anomalia italiana in materia di conflitto d’interessi e di assetto dei media, ci condannerebbe a restare una democrazia dimezzata, un paese a rischio di “regime mediatico” per usare una espressione cara ad Umberto Eco... I ripetuti appelli del presidente Napolitano, le tante iniziative promosse da forze politiche, sociali, sindacali, religiose,stanno contribuendo a creare una nuova coscienza attorno al dramma delle morti sul lavoro. A questo positivo processo ha contribuito anche il silenzioso e quotidiano lavoro che è stato svolto dallo spazio che questo sito ha voluto dedicare a simili temi e che è stato impostato e gestito con grande rigore da Raffaelle Siniscalchi e da Diego Alhaique.
Il carteggio che qui pubblichiamo tra le organizzazioni sindacali e i vertici della Fsni dimostrano che forse è giunto il momento propizio per promuovere un appuntamento nazionale che metta insieme il mondo della comunicazione e quello del lavoro per arrivare all’approvazione di una campagna nazionale che faccia della cultura della prevenzione, della sicurezza e della lotta senza quartiere contro le morti bianche, un’autentica priorità nazionale. Se almeno un centesimo del tempo che viene dedicato dalle tv a spiare la vita degl’altri dal buco della serratura venisse dedicata alla rappresentazione della vita, e delle vite reali, ci sarebbero tempo e spazio sufficienti per programmare un’ efficace campagna mediatica.
La triste realtà, tuttavia, è che quasi tutte le tv, salvo le poche lodevoli eccezioni che spesso citiamo, sono ormai in mano ai signori degli appalti che sempre più spesso preparano e vendono programmi dove la realtà è ricostruita secondo i moduli dello spettacolo e della finzione, con tanto di ospiti pagati a tariffa, un tanto a lacrima.
Siamo arrivati al punto che, come ha acutamente scritto Norma Rangeri nel suo ultimo libro “Chi l’ha vista”, nella stessa serata e nello stesso orario, sulle reti della Rai e di Mediaset, si siano affrontati due programmi prodotti dalla solita Endemol, per altro ora controllata dalla medesima Mediaset che, in questo modo, vive anche nei palinsesti della Rai. Vi possiamo assicurare che per rilevare tale stranezza non è stato necessario ricorrere ad alcuna intercettazione telefonica….
Gli ospiti non a pagamento e i cittadini che fanno le domande ed esigono le risposte non sono più graditi. Adesso tutti hanno scoperto la “monnezza” ma quando Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Milena Gabbanelli, per citare i casi più clamorosi, indagarono sulla discariche della Campania e sui loschi traffici che vi fiorivano furono accolti da invettive traversali. Allo stesso modo quando le famiglie degli operai di Torino o le mogli e le madri dei lavoratori morti a Monfalcone, urlano la loro rabbia, c’è sempre qualcuno che si risente per i loro eccessi e per l’ indebita amplificazione prodotta dai media. Questo club di “indignati speciali” non ha mai trovato il tempo e la voglia per indignarsi nei confronti di quelle trasmissioni dove si assiste alla più indecente mercificazione del dolore, degli affetti e si pratica il più inverecondo ossequio nei confronti degli “amici degli amici” persino quando si tratta di condannati per associazione mafiosa o per aver corrotto i magistrati.
L’Italia che continua a reclamare la legalità e a contrastare i poteri criminali non è stata mai invitata nei salotti a pagamento non appassiona le signore e i signori che producono i programmi dedicati ai grandi fratelli e ai piccoli cugini.
Dal servizio pubblico (ma non solo dal servizio pubblico) da tutti gli operatori dell’informazione, ci attendiamo uno scatto d’orgoglio, uno scontro aperto e dichiarato tra i custodi degli appalti e delle logge della conservazione e chi vorrebbe ridare forza, autonomia e dignità all’idea stessa d’impresa pubblica come ebbero a scrivere proprio su questo sito Enzo Biagi e Loris Mazzetti. Se questo non accadrà i signori delle logge e degli appalti continueranno a dominare e a tentare di mettere sotto il loro tallone, non solo l’intero mondo dei media, ma anche tanta parte della politica.
La Rai in queste ore è stata ulteriormente calpestata ed umiliata e nuovamente sottomessa alla logica del conflitto d’interesse. La destra sta facendo il suo mestiere con la consueta determinazione e spietatezza, ma noi, cosiddetti progressisti,cosa stiamo facendo? E’ inutile essere ipocriti le reazioni sono state deboli ed inefficaci. Non sempre, neppure noi di Articolo 21, abbiamo risposto con la necessaria durezza. Troppi trasversalismi deteriori sono stati tollerati. Troppi atteggiamenti equivoci sono stati condivisi, ma soprattutto non si è contrastata a tutti i livelli la logica della omologazione, della cancellazione di ogni differenza,della superficialità,del modello produttivo e organizzativo nel quale la finzione si è mangiata la realtà. Di fronte a quello che sta accadendo le unità corporative e gli unanimismi di facciata non servono più, anzi servono a renderci tutti complici e conniventi.
In questi ultimi mesi, per fortuna, qualcosa e qualcuno ha cominciato a rialzare la testa. Le organizzazioni sindacali, dall’Usigrai alla Cgil, stanno urlando il oro no alla svendita di quello che ancora resta della Rai. Gli autori del cinema, della televisione, della fiction, stanno tentando di rimettere insieme tutto il mondo degli autori (come ci hanno raccontato su questo stesso sito Santo della Volpe , Daniele Lucchetti, Michele Conforti e tanti altri).
La Fsni e le organizzazioni dei lavoratori stanno tentando una nuova alleanza non solo sui temi legati alla contrattazione,ma anche sulle questioni relative alla legalità, alla sicurezza, alla lotta contro le morti bianche.
L’Associazione Libera, coordinata da Don Luigi Ciotti, sta promuovendo iniziative ovunque per favorire una rinnovata attenzione dei media sul tema della lotta alla criminalità e ai poteri mafiosi.
La Tavola della Pace ha deciso d’indire un anno d’iniziative dedicate al tema della tutela dei diritti umani e civili e tra questi ha significativamente inserito il diritto individuale e collettivo, non solo a ricevere ma anche a produrre informazione.
Negli anni scorsi quest’associazione sotto la decisiva spinta di Enzo Biagi, di Sergio Lepri, del nostro presidente Federico Orlando,ha dato vita , insieme a decine di altre associazioni al “comitato per la libertà d’informazione” che si pose il compito di contrastare le leggi ad personam e di denunciare i guasti provocati dall’irrisolto conflitto d’interesse. Quel comitato riuscì persino a proporre e a far approvare una clamorosa risoluzione nella sede del Parlamento europeo.
Adesso è giunto il momento di rimetterlo in funzione per reclamare non solo il superamento della leggi vergogna ma anche soprattutto per sollecitare anche in questo campo l’approvazione di norme serie, rigorose, di tipo europeo, quali sono anche le pacatissime riforme avanzate dal ministro Gentiloni.
Silvio Berlusconi, al di là delle smentite che non smentiscono nulla, ha proposto un baratto tra una nuova legge elettorale e l’integrale tutela del suo interesse privato. Non basta più respingere l’indecente proposta (e vorrei vedere il contrario!),ma è necessario aggiungere che una nuova legge elettorale che non venisse accompagnata dalla contestuale risoluzione dell’anomalia italiana in materia di conflitto d’interessi e di assetto dei media, ci condannerebbe a restare una democrazia dimezzata, un paese a rischio di “regime mediatico” per usare una espressione cara ad Umberto Eco. Le condizioni di una possibile riproposizione di quel regime ci sono ancora e non mancano neppure le viltà, gli opportunismi di singoli e di piccoli gruppi all’interno della stessa maggioranza.
Per queste ragioni l’Associazione Articolo21 chiederà a tutte le forze associative, professionali e sindacali del settore della comunicazione di riprendere il cammino interrotto e di promuovere una campagna nazionale per richiedere a gran forza l’immediato rispetto degli impegni assunti in materia di conflitto d’interesse e di riforma della tv pubblica e privata che erano contenuti nel programma del centro- sinistra e che sino ad oggi non sono stati rispettati.
Per quanto ci riguarda proseguiremo su questa strada con grande spirito unitario ma anche con grande vigore e se questo dovesse comportare qualche polemica e persino qualche rottura con alcuni amici e compagni, sarà sempre preferibile al rischio che i ricatti e le minacce di Berlusconi possano far prevalere quel trasversalismo degli affari e delle logge che già tanti guasti ha provocato alla democrazia italiana.
G. Giulietti

17 gennaio 2008

Mastella il nuovo Chiesa: «Malcostume» o «Reato»?




Penso che Mastella e ciò che rappresenta debba sparire dalla vita pubblica.
Con tutti i mezzi.
Ma difendere De Magistris e simili, nemmeno.
Perché penso quello che ha finalmente detto anche la Boccassini: «Una corporazione ripiegata su se stessa», che «non ha mai fatto autocritica», che «non ha il coraggio di guardare dentro se stessa», che non pretende da tutti «professionalità, rigore, indipendenza, autonomia».
Che fa, insomma, «come fanno i napoletani con la monnezza: la colpa è sempre degli altri, loro non c’entrano mai».
Insomma: lo stesso spirito di casta anima la magistratura e i politici di mestiere.
Stessa mentalità.
Stesso malcostume.
Stesso disprezzo per i principi del diritto e per i cittadini.
E soprattutto, la conseguenza di tutti questi atteggiamenti, vera tragedia italiota: la perdita di ogni autorità morale.
Che è essenziale per governare, molto più di quel che si creda.

Una delle accuse a Mastella & signora sarebbe quella di aver minacciato Bassolino: ti tolgo l’appoggio e così ti faccio cadere, se tu non ti prendi come assessore uno dei miei.
Ebbene?
Lo fanno tutti, si sbracciano a dire tutti i politici.
Formigoni e Prodi, Fini e Larussa, fate voi altri nomi, quando sono in una coalizione di governo fanno il mercato delle vacche, esercitando, se occorre, il ricatto; si accaparrano posti, forniscono appalti lucrosi agli amici, mettono a dirigere le municipalizzate e le ASL i loro candidati trombati, si scambiano favori e persino veline TV.
Che male c’è?
E’ «un malcostume, ma non è un reato».
Questa distinzione tra «malcostume» e «reato» l’hanno evocata anche quelli che prendono un poco le distanze da Mastella.
Ed è questo il segno della bassezza morale cui siamo caduti.
Se non vi rivoltate a questa distinzione, siete degradati moralmente anche voi.
Mastella fa come tutti gli altri?
Eh no, c’è una differenza di grado.

Egli ha fondato un suo partito personale, che non usa il «malcostume» come mezzo, ma come scopo finale.
Che ha il clientelismo come unico fine dichiarato, e arrogantemente dichiarato.
Ovviamente, è l’accettazione corrente del «malcostume» che glielo ha consentito.
Basta non avere alcuno scrupolo, e specie nel Meridione, ti puoi costituire un partito locale fatto di elettori che ti devono qualcosa, e che perdono qualcosa se tu non sei al potere: una base microscopica come quella di Ceppaloni, ma solidissima.
Da qui, con l’1%, puoi diventare ministro.
Restando nello stesso tempo sindaco di Ceppaloni, e mettendo la moglie alla presidenza della Regione.
Il sistema elettorale è fatto apposta per questo.
Premia chi ha pochi voti in un territorio concentrato, anche piccolo: voti che, ovviamente, vengono da favori fatti.
Non esiste un collegio unico nazionale dove possano presentarsi progetti nazionali, idee, menti intellettuali capaci di pensare in grande.
Da noi un filosofo non può entrare in parlamento, perché non ha posti da dare.
Non può uno scrittore e saggista, che ha magari un milione di lettori, però sparsi nel territorio nazionale.

Può Mastella.
Che io considero un delinquente molto più di quanto appaia ai media: un delinquente politico.
Uno che ha trasformato uno dei mezzi della politica nel suo unico fine.
Ciò dovrebbe essere vietato, perché ci trascina giù tutti, di livello in livello: fino alle montagne di monnezza, alla rovina economica di una nazione intera che manda un’immagine di sporcizia e malcostume invincibile.
Certo che questi scostumati non commettono «reati»: anzitutto perché le leggi se le fanno loro, e decidono loro cos’è la «legalità».
Ma in termini di giustizia, di diritto naturale, essi rubano denaro dei contribuenti.
A questo si riducono le loro trame e manovre, a furto di denaro pubblico.
Non lo fanno (sempre) in modo diretto, intascandosi i soldi.
Lo fanno quando assegnano una poltrona da 400 mila euro di stipendio non a un competente ma a un «cliente» partitico.
Ciò non è reato.
Viene inteso come «malcostume».
Ma quando il «malcostume» è la regola, quando è diventato così comune che il sistema lascia crescere il sindaco di Ceppaloni fino a ministro della Giustizia; quando nessun gruppo o coalizione si vergogna di avere l’appoggio di un Mastella, qui è il problema.
Un problema che supera di molto la «legalità».
Mastella, semplicemente, non ha la credibilità per governare la magistratura.

Quando fa trasferire un magistrato discusso dai suoi stessi colleghi, com’è sua prerogativa di ministro, è inevitabile che tutti si chiedano se non lo fa per impedire indagini su malversazioni e «malcostume», che è l’unica cosa per cui - per sua ammissione - è al potere.
E così lo Stato cessa di funzionare, in una marea di veleni e sospetti: che non si sa più nemmeno quanto siano giustificati, e quanto inventati.
Ecco perché Mastella non doveva pretendere la Giustizia (se avesse avuto qualche decenza); e una volta avutala, doveva dimettersi dopo che si è scoperto che era inquisito dai magistrati che ha ordinato di trasferire.
Qui il «malcostume» diventa qualcosa di peggio, e mi stupisco che non si capisca: è un ministro che perde il diritto a compiere i suoi atti d’ufficio, di cui lo investe l’autorità dello Stato, perché la sua personale autorità è quella di un piccolo ricattatore di paese.
Nel diritto naturale, questo configura vilipendio dello Stato.
Della cui autorità tutti abbiamo bisogno.

Può configurare anche un golpe: non un golpe alla Pinochet, dove un corpo dello Stato impone la sua visione del progetto nazionale con la forza, ma peggio: il golpe di una cosca, attuato allo scopo di mettere parenti e amici e clientes ai posti che contano.
Per un Paese, subire un golpe coi carri armati in strada non è necessariamente una vergogna: si cede a una forza reale, che può ucciderti.
Ma farsi governare dalla norma non scritta del «malcostume», che è il contrario della lealtà, perché ha preso il potere un sindaco mafiosetto di mezza tacca, questa sì è una vergogna.
Ma questo non significa che difendo De Magistris.
Anche lui, come tanti magistrati, pratica il «malcostume»: fa appello alle folle (di Santoro) portando le indagini in piazza.

Quella magistratura intercetta tutto e tutti non da notizia di reato, ma per cercare, con registrazioni di mesi, se parlando quei conversatori commettono un reato.
E’ molto diverso.
Anzi, spiare migliaia di persone per vedere se commettono reati, è il contrario della giustizia.
Peggio ancora se quei magistrati danno adito al sospetto di utilizzare i mezzi di cui l’autorità dello Stato li fornisce, per colpire una parte politica e favorirne un’altra: com’è accaduto in Mani Pulite.
Chiunque sa che mettendo sotto controllo per mesi i telefoni di gente che crede di parlare in privato, si possono ascoltare spropositi, volgarità, segreti ripugnanti: basta farlo abbastanza a lungo, e il gioco è fatto.
Se poi non risulta alcun reato, si possono sempre passare ai giornalisti amici, perché le diffondano, quelle parti più grassocce e ripugnanti delle conversazioni tra privati.
In modo, se non si riesce a incarcerare l’avversario, da sputtanarlo.

Sono le fughe di notizie: e chi le dà ai giornalisti?
I magistrati, è ovvio.
E’ un reato, ma per accertarlo ci vorrebbero altri magistrati, che mai e poi mai hanno condannato un loro collega di casta per violazione di segreto istruttorio.
Si accetta questo reato come «malcostume».
Ma qual è la conseguenza?
Che quando un magistrato apre un’inchiesta su un ministro, magari il suo ministro, e un personaggio dei più loschi - anche se ne ha motivi autenticamente gravi - può essere accusato di agire per interessi di casta ed odio di parte, di cui ha dato abbondanti prove in precedenza.
Insomma: anche lui ha perso l’autorità morale per compiere gli atti del suo ufficio.
Esattamente come Mastella non ha autorità morale per esercitare gli atti di ministro.
Ho sentito che il leghista Castelli, nel periodo in cui è stato ministro della Giustizia, ha ricevuto una quarantina di avvisi di reato: evidentemente da magistrati che s’erano messi in testa di farlo cadere, o anche solo di esibire il loro odio per la sua parte politica e le «riforme» che questa minacciava
(e non ha fatto).
Motivazioni serie, fattispecie penali non ce n’erano, perché appena Castelli ha perso il posto ministeriale, quelle inchieste sono finite nel nulla.
Volevano solo impedirgli di governare, di esercitare il mandato che gli aveva dato il popolo col voto.
Ci sono riusciti.

Insomma: magistratura e politicanti sono due caste eguali.
A volte contrapposte, ma per interessi di casta.
E il risultato è che, a forza di «malcostume», lo Stato non funziona, e diventa quel teatrino di sospetti e nido di veleni in cui consiste la «politica» in Italia.
Tutto perché tolleriamo il «malcostume», purchè non sia «reato».
E’ una mentalità.
Da cui dobbiamo liberarci noi, ma soprattutto i magistrati.
Proprio perché ci sarebbe bisogno di loro contro i Mastella, ma non possiamo fidarci di loro per la loro mentalità.
Questa mentalità è una cancrena inestirpabile.
L’ha dimostrato la stessa Boccassini, quando giorni fa ha svuotato il sacco contro i colleghi (non aveva ricevuto una promozione): la magistratura è politicizzata, la magistratura applica le leggi in modo diverso ad «amici» e nemici, la magistratura è piena di improduttivi («fancazzisti»), ci sono casi di corruzione, i magistrati si promuovono da sé secondo logiche di corrente e di fazione.
Ma poi, subito dopo, la Boccassini ha aggiunto: «C’era una attenuante, fino a qualche tempo fa, quando il governo Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura e dunque l’esigenza primaria era quella di difendersi coi denti, oggi quell’attenuante non vale più».
Capito?

Dice, la procuratrice, che avevano usato mezzi extralegali, fughe di notizie, violazioni del segreto istruttorio, apparizioni in TV, insomma il «malcostume» e l’abuso di potere, perché «Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura, e bisognava difendersi coi denti».
Concepisce la sua azione contro Berlusconi come una difesa della sua corporazione, e come una battaglia politica.
Ma la magistratura non deve «difendersi coi denti» (ossia: con le carcerazioni preventive per estorcere confessioni, intercettazioni illegali a tappeto, violazioni del segreto istruttorio a mezzo stampa).
A difenderla sono le leggi dello Stato.
Per questo i magistrati hanno stipendi fissi ed alti, per questo le loro carriere sono automatiche e sono praticamente insindacabili, se non dal loro stesso ordine (ordine, non corporazione né «potere»): perché non cedano per timore di perdere i loro benefici a chi gli fa «guerra».
Persino in Pakistan la magistratura ha mostrato più dignità e coraggio, e terzietà autorevole, contro il generale Musharraf, che è un po’ più pericoloso di Berlusconi.
Rimedi?
Se ne possono immaginare, certo.

Stabilire precise incompatibilità: magistrati non possono lasciare la toga per una carriera politica.
Non devono parlare in TV delle inchieste in corso.
Ministro non possono restare sindaci della loro clientela elettorale.
Senatori a vita che si drogano devono dare «spontaneamente» le dimissioni, per senso di vergogna e offesa allo Stato.
Parenti non possono avere posti assegnati dal parente ministro o governatore.
Il conflitto d’interessi non deve essere invocato solo per Berlusconi.
E ancora: il parlamento non può esprimere il governo né fornire ministri dai parlamentari, occorrono due votazioni distinte, per mantenere la tensione conflittuale tra i due poteri dello Stato, esecutivo e legislativo.
Ancor più: il parlamento non deve riunirsi in permanenza, bastano due sessioni mensili in autunno e primavera; parlamentare non è un mestiere.
A meno che non si ritenga normale che le assemblee di condominio o i consigli d’amministrazione si riuniscano tutti i santi giorni a decidere al posto del gestore condominiale o dell’amministratore delegato.
Ma soprattutto, bisogna cominciare col togliere loro gli enormi emolumenti.
Dimezzare le paghe ai parlamentari o ai loro grand commis, obietta qualche lettore, non recupera abbastanza denaro da coprire il disavanzo pubblico.
Osservazione stupida.
Il vero senso di una «riforma» del genere è impedire che la politica diventi un mestiere, e così lucroso da giustificare ogni malcostume.
Come oggi: ogni mese che la legislatura Prodi dura, sono altri 15 mila euro.
E ci tengono non solo i parlamentari filo-Prodi, ma anche quelli dell’opposizione.
Sono loro che non fanno cadere Prodi.
Anche loro.

Ecco il malcostume, dove porta: un giorno apprenderemo che la legislatura durerà cento anni. Sempre le stesse facce, Visco, Napoletano, Fini,…
Prodi, mettendo i suoi amiconi ai posti del potere economico pubblico, prepara appunto la sua immortalità extra-legale.
Ma non è un reato, attenzione: è solo «malcostume».
Ma ha ucciso la democrazia, la legalità, la competenza.

Tratto da effedieffe

16 gennaio 2008

Anche il mondo ci vede a rischio



L’assenza di una valida legge sul conflitto d’interessi è la principale ragione per la quale l’Italia nel 2007 è stata relegata al 35esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporters sans Frontières e dalla Freedom House americana. Sul piano internazionale siamo considerati fortemente a rischio, indietro addirittura rispetto a paesi privi di istituzioni democratiche, percorsi da ondate repressive o con un bassissimo livello di sviluppo civile.

Niente fa pensare peraltro che la situazione possa significativamente migliorare quest’anno, se consideriamo che fra i fattori che condizionano una vera libertà di stampa è entrato in gioco l’avanzato tentativo di impedire, con durissime sanzioni amministrative e perfino penali contro i giornalisti, la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche anche quando, come prevede l’attuale normativa, siano liberate dal segreto istruttorio perché rese note agli imputati. Se pensiamo che la Camera dei deputati approvò il progetto di legge Mastella con solo sette deputati contrari (fra i quali, a suo onore, Beppe Giulietti) e che a niente valsero gli scioperi indetti dalla FNSI e il motivato parere contrario dell’Unione Europea, tanto che la battaglia è ancora incombente, c’è da pensare con un brivido alla suscettibilità della politica italiana su questo tema e al distacco nei confronti dell’opinione pubblica, che ha il diritto democratico di vedere illuminati tutti gli angoli bui del potere.
A riprova di questa inquietante divaricazione e dei guasti prodotti dall’enorme conflitto d’interessi ancora aperto, sono recentemente venute le reazioni alle rivelazioni sulle esplicite telefonate intercorse fra i vertici operativi di Mediaset e i dirigenti legati direttamente a Berlusconi all’interno della Rai, con particolare riferimento a Deborah Bergamini e a Saccà.
In queste due occasioni si è avverata l’antica metafora sullo stolto che quando il dito indica la luna si limita a guardare il dito…Una miriade di esponenti politici, di opposizione come della maggioranza, ha scatenato una campagna sulla responsabilità professionale ed etica della stampa e di singoli giornalisti, sottovalutando o ignorando totalmente il contenuto delle intercettazioni. E’ così passato in secondo piano prima la gravità del “golpe” tentato e in buona parte riuscito sul Servizio Pubblico da parte dell’azienda televisiva di proprietà dell’allora capo del governo, attraverso una sorta di “quinta colonna” che ha alterato per anni funzioni, autonomia, capacità competitiva, scelte editoriali e produttive. Come tanti altri dirigenti della Rai, io stesso, allora Direttore di Rai News 24, ho personalmente avvertito sulla pelle della Testata l’evidente anomalia e la sopraffazione in corso sugli interessi generali e le prospettive aziendali. Poi il tentativo, sempre mediante vincoli di “sudditanza” politica e personale di personaggi che tradivano il mandato, di usare la Rai come mezzo di pressione per influenzare il voto di esponenti politici dello schieramento di governo. Non sappiamo ovviamente se e in quale misura queste vicende assumeranno peso giudiziario e come influiranno sui disastrati e instabili equilibri di gestione del Servizio Pubblico, ma siamo assolutamente certi della loro rilevanza morale e politica, del diritto dei cittadini a conoscerle fino in fondo e del conseguente dovere dell’informazione di descriverle ed analizzarle. Allo stesso tempo si può non coglierne l’ulteriore urgenza di una legislazione che spezzi il perpetuarsi del conflitto d’interessi e che cambi allo stesso tempo profondamente la normativa del Servizio Pubblico, mettendolo in condizione di reale autonomia dal potere politico e rinnovandone la missione culturale?
Voglio però sottolineare che, quando parliamo di conflitto d’interessi, non possiamo riferirci esclusivamente alla posizione dominante di Silvio Berlusconi, certo centrale e decisiva per qualsiasi futuro assetto politico come per determinare equilibri e opportunità di un mercato editoriale competitivo, dotato di regole condivise e all’altezza di una democrazia matura.
Su questo punto il governo deve senza ulteriori indugi aprire sul serio il confronto in Parlamento, facendo sì – come giustamente sottolinea Giulietti – che la fondamentale trattativa per arrivare a definire una nuova, corretta legge elettorale, non ponga in alcun modo in secondo piano il confronto legislativo sul conflitto d’interessi e sul sia pur timido progetto Gentiloni per la riforma della Rai.
Sia per l’uno che per l’altro aspetto, così evidentemente diversi e distanti, è infatti in gioco la democrazia.
Partiamo dunque da qui, ma non dimentichiamo che l’Italia è ormai immersa in una inquietante deriva nella quale fattori di crisi investono tutti i poteri previsti dalla Costituzione, che vedono ciascuno la presenza di piccoli o macroscopici conflitti d’interesse e comportamenti al di fuori o al di sopra di ogni regola, che tradiscono il mandato e le competenze istituzionali dei gruppi e di singoli rappresentanti… Si potrebbero elencare a lungo le contraddizioni, le deviazioni, i condizionamenti, le interferenze, gli interessi corporativi e di casta – intrisi di sottopotere ed arrivismo se non in alcuni casi di arricchimento personale – che costellano i percorsi legislativi e parlamentari, del governo, della stessa magistratura (come dimostrano le recenti polemiche innescate dalla dura denuncia di Ilda Boccassini). Per non parlare della società italiana, che appare
a ogni livello frammentata in interessi di parte, in angusti egoismi di consorterie, in individualismi anarcoidi, ben al di fuori dal rispetto degli altri e dall’osservanza di regole e leggi certe per tutti, sempre più priva di principi etici validi al di fuori del ristretto confine del giardino di casa, del proprio tavolo di ufficio, della propria autovettura.
E’ contro questa deriva che continuano a combattere spezzoni della società civile, sia ben chiaro insieme con tante persone oneste e motivate in ogni settore, a partire ovviamente da quello delle responsabilità politiche e amministrative, sempre però in posizioni di minoranza, come un esercito assediato e diviso che stenta a tenere il campo, a riconoscersi in obiettivi e sedi collegate di comando, a mantenere un solo schieramento di fronte alle multiformi “invasioni barbariche”.
E ancora una volta l’informazione è contaminata e partecipe in vari modi della deriva invece che della resistenza alla devastazione, venendo molto spesso meno a quell’impegno di illuminazione e conoscenza critica della realtà, che consentirebbe di saldare fronti comuni più vasti e consapevoli, di ripristinare una scala corretta di ideali, di modelli positivi, di capacità critica, di comportamenti pubblici e privati nello spirito della Costituzione.
Se il personaggio e il ruolo assunti da Berlusconi sono ormai divenuti totalizzanti nella vita e nell’immaginario del Paese, parametro insostituibile di antitetiche scelte politiche, come di quelle civili, sociali e culturali, traiamone almeno un esempio emblematico di ciò che è divenuta e di ciò che invece non dovrebbe essere la realtà, a partire da quella dell’informazione.

Due mesi fa, l’11 Novembre 2007, dal palco di Montecatini, dinanzi ai Comitati del Buon Governo costruiti da Marcello Dell’Utri, Berlusconi si mise al fianco il senatore siciliano, un braccio fraternamente attorno alle spalle e inscenò una sua strenua e dettagliata difesa, in attesa del verdetto di secondo grado dopo la condanna in Assise per partecipazione esterna all’organizzazione mafiosa. Ovviamente silenzio su questa sentenza, su altre di natura penale già passate in giudicato, su notissime circostanze di conoscenze e frequentazioni mafiose. Non contento di questo gesto di considerazione e amicizia, che a suo tempo si era ben guardato di fare pubblicamente nei confronti del suo avvocato Cesare Previti, il Cavaliere ha esteso la difesa al ricordo del capo-mafia Vittorio Mangano, a suo tempo per anni fattore dei possedimenti ad Arcore e in stretti rapporti con lo stesso Dell’Utri.

Mangano, morto di malattia mentre scontava in carcere una definitiva condanna per partecipazione a omicidi, traffici di droga, racket, estorsioni e che il giudice Paolo Borsellino definì nell’ultima intervista televisiva come uno dei capi-fila della mafia al Nord, è stato ricordato da Berlusconi solo come un buon uomo vittima di magistrati feroci. Inutilmente – sono parole testuali – questi magistrati cercarono di suggerirgli “accuse inventate” contro Marcello Dell’Utri e contro lui stesso. Insomma, possiamo tranquillamente dire, il ritratto lusinghiero di un vero “ uomo d’onore”, dipinto con un linguaggio e un racconto, al di là delle omissioni e delle evidenti menzogne, davvero degni di Cosa Nostra…
Cosa sarebbe accaduto nella stampa e nelle televisioni di mezzo mondo, se un ex-premier potentissimo e leader dell’opposizione si fosse lasciato andare a questo sfogo pubblico, evidentemente calcolato e probabilmente da qualcuno richiesto? E cosa si sarebbe mosso in Parlamento e nell’opinione pubblica? Da noi non è avvenuto alcunché: due giorni di smilza cronaca, qualche raro commento dei “soliti fogli comunisti”, l’indignazione di pochi siti pervicacemente contestatori (per fortuna almeno il sonoro originale è ascoltabile sul salvifico You Tube).
Questa è oggi l’Italia e non solo quella dell’informazione.

di Roberto Morrione

15 gennaio 2008

Un paese a rischio di regime mediatico



Berlusconi, al di là delle smentite che non smentiscono nulla, ha proposto un baratto tra una nuova legge elettorale e l’integrale tutela del suo interesse privato. Non basta più respingere l’indecente proposta (e vorrei vedere il contrario!), ma è necessario aggiungere che una nuova legge elettorale che non venisse accompagnata dalla contestuale risoluzione dell’anomalia italiana in materia di conflitto d’interessi e di assetto dei media, ci condannerebbe a restare una democrazia dimezzata, un paese a rischio di “regime mediatico” per usare una espressione cara ad Umberto Eco... I ripetuti appelli del presidente Napolitano, le tante iniziative promosse da forze politiche, sociali, sindacali, religiose,stanno contribuendo a creare una nuova coscienza attorno al dramma delle morti sul lavoro. A questo positivo processo ha contribuito anche il silenzioso e quotidiano lavoro che è stato svolto dallo spazio che questo sito ha voluto dedicare a simili temi e che è stato impostato e gestito con grande rigore da Raffaelle Siniscalchi e da Diego Alhaique.
Il carteggio che qui pubblichiamo tra le organizzazioni sindacali e i vertici della Fsni dimostrano che forse è giunto il momento propizio per promuovere un appuntamento nazionale che metta insieme il mondo della comunicazione e quello del lavoro per arrivare all’approvazione di una campagna nazionale che faccia della cultura della prevenzione, della sicurezza e della lotta senza quartiere contro le morti bianche, un’autentica priorità nazionale. Se almeno un centesimo del tempo che viene dedicato dalle tv a spiare la vita degl’altri dal buco della serratura venisse dedicata alla rappresentazione della vita, e delle vite reali, ci sarebbero tempo e spazio sufficienti per programmare un’ efficace campagna mediatica.
La triste realtà, tuttavia, è che quasi tutte le tv, salvo le poche lodevoli eccezioni che spesso citiamo, sono ormai in mano ai signori degli appalti che sempre più spesso preparano e vendono programmi dove la realtà è ricostruita secondo i moduli dello spettacolo e della finzione, con tanto di ospiti pagati a tariffa, un tanto a lacrima.
Siamo arrivati al punto che, come ha acutamente scritto Norma Rangeri nel suo ultimo libro “Chi l’ha vista”, nella stessa serata e nello stesso orario, sulle reti della Rai e di Mediaset, si siano affrontati due programmi prodotti dalla solita Endemol, per altro ora controllata dalla medesima Mediaset che, in questo modo, vive anche nei palinsesti della Rai. Vi possiamo assicurare che per rilevare tale stranezza non è stato necessario ricorrere ad alcuna intercettazione telefonica….
Gli ospiti non a pagamento e i cittadini che fanno le domande ed esigono le risposte non sono più graditi. Adesso tutti hanno scoperto la “monnezza” ma quando Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Milena Gabbanelli, per citare i casi più clamorosi, indagarono sulla discariche della Campania e sui loschi traffici che vi fiorivano furono accolti da invettive traversali. Allo stesso modo quando le famiglie degli operai di Torino o le mogli e le madri dei lavoratori morti a Monfalcone, urlano la loro rabbia, c’è sempre qualcuno che si risente per i loro eccessi e per l’ indebita amplificazione prodotta dai media. Questo club di “indignati speciali” non ha mai trovato il tempo e la voglia per indignarsi nei confronti di quelle trasmissioni dove si assiste alla più indecente mercificazione del dolore, degli affetti e si pratica il più inverecondo ossequio nei confronti degli “amici degli amici” persino quando si tratta di condannati per associazione mafiosa o per aver corrotto i magistrati.
L’Italia che continua a reclamare la legalità e a contrastare i poteri criminali non è stata mai invitata nei salotti a pagamento non appassiona le signore e i signori che producono i programmi dedicati ai grandi fratelli e ai piccoli cugini.
Dal servizio pubblico (ma non solo dal servizio pubblico) da tutti gli operatori dell’informazione, ci attendiamo uno scatto d’orgoglio, uno scontro aperto e dichiarato tra i custodi degli appalti e delle logge della conservazione e chi vorrebbe ridare forza, autonomia e dignità all’idea stessa d’impresa pubblica come ebbero a scrivere proprio su questo sito Enzo Biagi e Loris Mazzetti. Se questo non accadrà i signori delle logge e degli appalti continueranno a dominare e a tentare di mettere sotto il loro tallone, non solo l’intero mondo dei media, ma anche tanta parte della politica.
La Rai in queste ore è stata ulteriormente calpestata ed umiliata e nuovamente sottomessa alla logica del conflitto d’interesse. La destra sta facendo il suo mestiere con la consueta determinazione e spietatezza, ma noi, cosiddetti progressisti,cosa stiamo facendo? E’ inutile essere ipocriti le reazioni sono state deboli ed inefficaci. Non sempre, neppure noi di Articolo 21, abbiamo risposto con la necessaria durezza. Troppi trasversalismi deteriori sono stati tollerati. Troppi atteggiamenti equivoci sono stati condivisi, ma soprattutto non si è contrastata a tutti i livelli la logica della omologazione, della cancellazione di ogni differenza,della superficialità,del modello produttivo e organizzativo nel quale la finzione si è mangiata la realtà. Di fronte a quello che sta accadendo le unità corporative e gli unanimismi di facciata non servono più, anzi servono a renderci tutti complici e conniventi.
In questi ultimi mesi, per fortuna, qualcosa e qualcuno ha cominciato a rialzare la testa. Le organizzazioni sindacali, dall’Usigrai alla Cgil, stanno urlando il oro no alla svendita di quello che ancora resta della Rai. Gli autori del cinema, della televisione, della fiction, stanno tentando di rimettere insieme tutto il mondo degli autori (come ci hanno raccontato su questo stesso sito Santo della Volpe , Daniele Lucchetti, Michele Conforti e tanti altri).
La Fsni e le organizzazioni dei lavoratori stanno tentando una nuova alleanza non solo sui temi legati alla contrattazione,ma anche sulle questioni relative alla legalità, alla sicurezza, alla lotta contro le morti bianche.
L’Associazione Libera, coordinata da Don Luigi Ciotti, sta promuovendo iniziative ovunque per favorire una rinnovata attenzione dei media sul tema della lotta alla criminalità e ai poteri mafiosi.
La Tavola della Pace ha deciso d’indire un anno d’iniziative dedicate al tema della tutela dei diritti umani e civili e tra questi ha significativamente inserito il diritto individuale e collettivo, non solo a ricevere ma anche a produrre informazione.
Negli anni scorsi quest’associazione sotto la decisiva spinta di Enzo Biagi, di Sergio Lepri, del nostro presidente Federico Orlando,ha dato vita , insieme a decine di altre associazioni al “comitato per la libertà d’informazione” che si pose il compito di contrastare le leggi ad personam e di denunciare i guasti provocati dall’irrisolto conflitto d’interesse. Quel comitato riuscì persino a proporre e a far approvare una clamorosa risoluzione nella sede del Parlamento europeo.
Adesso è giunto il momento di rimetterlo in funzione per reclamare non solo il superamento della leggi vergogna ma anche soprattutto per sollecitare anche in questo campo l’approvazione di norme serie, rigorose, di tipo europeo, quali sono anche le pacatissime riforme avanzate dal ministro Gentiloni.
Silvio Berlusconi, al di là delle smentite che non smentiscono nulla, ha proposto un baratto tra una nuova legge elettorale e l’integrale tutela del suo interesse privato. Non basta più respingere l’indecente proposta (e vorrei vedere il contrario!),ma è necessario aggiungere che una nuova legge elettorale che non venisse accompagnata dalla contestuale risoluzione dell’anomalia italiana in materia di conflitto d’interessi e di assetto dei media, ci condannerebbe a restare una democrazia dimezzata, un paese a rischio di “regime mediatico” per usare una espressione cara ad Umberto Eco. Le condizioni di una possibile riproposizione di quel regime ci sono ancora e non mancano neppure le viltà, gli opportunismi di singoli e di piccoli gruppi all’interno della stessa maggioranza.
Per queste ragioni l’Associazione Articolo21 chiederà a tutte le forze associative, professionali e sindacali del settore della comunicazione di riprendere il cammino interrotto e di promuovere una campagna nazionale per richiedere a gran forza l’immediato rispetto degli impegni assunti in materia di conflitto d’interesse e di riforma della tv pubblica e privata che erano contenuti nel programma del centro- sinistra e che sino ad oggi non sono stati rispettati.
Per quanto ci riguarda proseguiremo su questa strada con grande spirito unitario ma anche con grande vigore e se questo dovesse comportare qualche polemica e persino qualche rottura con alcuni amici e compagni, sarà sempre preferibile al rischio che i ricatti e le minacce di Berlusconi possano far prevalere quel trasversalismo degli affari e delle logge che già tanti guasti ha provocato alla democrazia italiana.
G. Giulietti