19 aprile 2008

Il culto della modernità


Indro Montanelli mi raccontò che Leo longanesi una volta gli aveva detto: "Tu e Ansaldo mi fregherete sempre. Perchè io capisco le cose cinque anni prima che accadono, voi cinque giorni prima". Vasco Rossi, fatte tutte le debite proporzioni, è più vicino al tipo Montanelli -Ansaldo che a Longanesi. È un istintivo, ha fiuto, sente cosa c'è nell'aria e sta per arrivare e lo capta un po' prima degli altri. Per questo trovo molto interessante il suo ultimo disco, appena uscito, "Il mondo che vorrei". Ricordate l'autore che cantava "vado al massimo"? Bene, adesso lo stesso uomo, certo un po' invecchiato, dice: "Non si può fare sempre quello che si vuole/non si può spingere solo l'acceleratore/guarda un po': ci si deve accontentare". E se ci è arrivato lui fra poco ci arriveranno anche gli altri a capire che noi non abbiamo bisogno di più velocità, di più Tav, di più Expo, di più Pil, di più produttività, di più consumo, di più crescita, di maggiore modernizzazione ma, al contrario, di rallentare, di frenare, di fare qualche passo indietro. Abbiamo bisogno di ritornare a una vita più semplice e più umana. "Ci si deve accontentare di ciò che si ha" canta Vasco. È stato Ludwig von Mi ses, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo a sintetizzarne l'essenza e a individuarne la molla con l'affermare, capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale ed orientale, che "non è bene accontentarsi di ciò che si ha". E così fondando la necessità dell'infelicità umana. Poiché ciò che non si ha non ha limi ti, l'uomo moderno non può mai raggiungere un momento di armonia, di equilibrio, di soddisfazione: conseguito un obiettivo deve immediatamente puntarne un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così all'infinito, a ciò costretto dall'ineludibile meccanismo che lo sovrasta. Ineludibile perchè si regge su questa ossessiva corsa in avanti alle cui esigenze piega, lo vogliano o no, anche i singoli individui. Siamo come i cani levrieri (fra le bestie, sia detto di passata, più stupide del Creato) che al cinodromo inseguono la lepre meccanica coperta di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere. Perché serve solo per farli correre. E il futuro orgiastico, che le leads mondiali agitano continuamente davanti ai nostri occhi come una sempre nuova Terra Promessa, arretra costantemente davanti ai nostri occhi come l'orizzonte davanti a chi si incammini avendo la pretesa di raggiungerlo.
Questa è la condizione dell'uomo contemporaneo. Ed è da questa frustrazione che nasce il mal di vivere, il disagio esistenziale acutissimo che si diffonde sempre più fra gli abitanti anche, anzi soprattutto, dei Paesi benestanti o ricchi o ricchissimi , provocando ansia, angosce, nevrosi, depressioni, dipendenza da sostanze chimi che e picchi di suicidi sconosciuti al mondo pre Rivoluzione industriale (decuplicati, in Europa, dal 1650 ad oggi).

Ma il paradosso finale di questo modello di sviluppo che ha puntato tutto sull'economi a, subordinando ad essa ogni altra esigenza dell'essere umano, è che ha completamente fallito anche in quest'ambito. Da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia la povertà nel mondo non ha fatto che aumentare, interi continenti ne sono stati distrutti, come l'Africa nera (che nessun "aiuto", peloso o meno, potrà salvare, ma, al contrario, contribuirà ad inguaiare ulteriormente strangolandola col cappio inesorabile della globalizzazione), e adesso la fame, la dura fame, comincia a lambire anche noi se è vero che si vedono già in giro persone, per ora vecchi, costrette a rubare nei supermercati perché nel mondo del Denaro chi non ne ha è perduto, né può trovare sostegno in un tessuto sociale che è stato distrutto.

Ma io credo che la crisi economica ci sarà d'aiuto. Perchè ci costringerà a pensare al di là dell'economico. A riflettere se aver abbattuto l'antico principio "è bene accontentarsi di ciò che si ha" non si sia risolto in una follia autodistruttiva. E chissà se Vasco Rossi, con le parole semplici delle canzoni, non finirà per essere più convincente dei tanti intellettuali che, derisi e vilipesi, da decenni denunciano e annunciano il crepuscolo della Modernità

18 aprile 2008

La morte di Mussolini, solo versioni di parte



Di tutte le versioni che cercano di spiegare la morte di Mussolini questa sembra la più lineare ma, manca di un tassello importante. Chi era quel colonnello inglese fotografato insieme ai 3 partigiani nei pressi della villa De Maria.?Poi, si scoprirà che dette generalità false. E, perchè Mussolini non aveva paura per la sua morte, ma solo per le carte che conteneva nelle sue borse?
Queste non vennero mai trovate, a differenza del tesoro di Dongo che finì conteggiato nei libri mastri dei vari capi partigiani.

Una «storica versione» non soltanto piena di incongruenze ed assurdità, ma anche di eventi che non è possibile che si siano verificati.

E’ disgustoso ed incredibile constatare come, per circa sessanta anni, molti giornalisti, scrittori e storici, se così possono ancora chiamarsi, abbiano potuto dare credito ad una grande bufala, una improponibile messa in scena già apparsa sull’Unità del 30 aprile 1945, e poi rimescolata e reiterata in articoli, libri e relazioni estratti dai racconti di tre presunti giustizieri ciellenisti: Walter Audisio (Valerio), Michele Moretti (Pietro) e Aldo Lampredi (Guido).
Occorre intanto precisare che stiamo parlando di tre eminenti partigiani, vere colonne della «storica versione», la quale attesta che furono spediti, con un ordine del Comando CVL, il pomeriggio del 28 aprile 1945 a Bonzanigo per prelevare il Duce (sorvolando che venne coinvolta anche la Petacci) per fucilarlo(i) seduta stante, ma stranamente di nascosto e frontalmente, al cancello di Villa Belmonte nella sottostante Giulino di Mezzegra, quando poi, ministri e personalità della RSI saranno invece fucilati alla schiena e ostentatamente davanti a donne e bambini, al parapetto del lungolago di Dongo.
Una anomalia non da poco.

In ogni caso si tratta di tre testi storici, tre partigiani comunisti, da sempre in cima ai resoconti che confermano quegli eventi così come li vuole la storia della Resistenza. Ricordiamoci di questo particolare quando ritorneremo più avanti a parlare di loro perché, se dovessero dimostrarsi inattendibili le loro testimonianze, crollerebbe miseramente, a prescindere dal resto, tutta questa impostura.

Ad onor del vero da quel 30 aprile del 1945, quando venne emesso il primo sintetico ed anonimo articolo sull’Unità in cui si forniva il resoconto dell’esecuzione di Mussolini, passando poi per i successivi memoriali del novembre ‘45 e del marzo ‘47 (sempre sull’Unità), fino ad arrivare al 1975, quando uscì postumo il libro «In nome del popolo italiano» Edizione Teti di Walter Audisio, nel frattempo deceduto, che ancor più ingarbugliava e mal spiegava le incongruenze e le contraddizioni delle precedenti relazioni, di acqua ne è passata sotto i ponti.

Oggi, infatti, possiamo dire che la stessa storiografia resistenziale e gli Istituti storici della liberazione, pur senza affermarlo apertamente, hanno finito per attestarsi su una versione, relativa a quella esecuzione, in parte più elastica nella sua dinamica dei fatti e comunque sfrondata dalle tante assurdità messe in bocca da Valerio a Mussolini per denigrarlo, ma alle quali oramai più nessuno dava credito.

Del resto un certo revisionismo era estremamente necessario perché le precedenti versioni del ragionier Audisio, alla luce di quanto era poi emerso, non stavano proprio in piedi.
Nel complesso, oltre alle versioni di Valerio, alle quali si poteva aggiungere la relazione di Lampredi al PCI stilata nel 1972 (ma resa nota integralmente solo nel 1996) ed alcune testimonianze di Michele Moretti, si poteva aggiungere il seppur carente referto dell’autopsia sulla salma del Duce, del professor Cattabeni.
Ma una certa importanza assumevano poi i vari riscontri che era stato possibile eseguire sul materiale cine fotografico che ritraeva i cadaveri di Mussolini e della Petacci a piazzale Loreto ed all’obitorio di Milano il 29 aprile 1945.

Partendo dall’esame di questi elementi e considerando le modalità e la dinamica che ci erano state raccontate per quella fucilazione, ne risultavano delle gravissime incongruenze (per una più ampia ed esauriente esposizione vedere il libro on line: «L’assassinio di Benito Mussolini», Marzio Di Belmonte, visibile nel sito «fncrsi.altervista.org»).
Vediamole.

Dunque, nella sua prima relazione, pubblicata sull’Unità il 30 aprile ‘45, l’anonimo «esecutore della condanna a morte di Mussolini» aveva semplicemente affermato: «Da una distanza di tre passi feci partire 5 colpi contro Mussolini, che si accasciò sulle ginocchia con la testa leggermente reclinata sul petto».
Proprio lo stesso 30 aprile però ci fu l’autopsia del professor Cattabeni la quale, nonostante le pressioni, il caos ambientale ed i suggerimenti ricevuti, andò pur ad attestare che Mussolini era stato colpito da 8 colpi sicuri, se non addirittura 9 con una distribuzione che andava da un lato all’altro del corpo e dal fianco (il più basso) fin sotto il mento (l’incertezza tra otto o nove colpi derivava da fatto che il colpo al braccio si poteva anche ipotizzare che fosse poi penetrato nel tronco).
Ma il misterioso esecutore aveva parlato di solo cinque colpi sparati dal suo solo mitra, e allora?

Nessun problema: sette mesi dopo a novembre, la stessa Unità ridà la parola a questo esecutore, che ora ci informa di chiamarsi Valerio il quale, sempre unico e solo giustiziere all’opera, specificherà goffamente che: «Scaricai cinque colpi al cuore del criminale di guerra Nro 2 che si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa leggermente reclinata sul petto. Non era morto. Tirai ancora una sventagliata rabbiosa di quattro colpi» (e poi ancora entro circa un paio di minuti) «Mussolini respirava ancora e gli diressi un sesto (?) colpo dritto al cuore».
Il tutto con il solo mitra Mas, modello 38 e calibro 7,65 che si saprà poi, datogli al momento da Moretti perchè il suo mitra Thompson si era inceppato.

Quindi adesso (a parte l’assurda dinamica della morte della Petacci) dovremmo essere a posto visto che abbiamo ben 10 colpi ovvero 5 + 4 + 1 sparati da un tiratore evidentemente esperto anche se poi, testimonianze unanimi, ci racconteranno che questo Valerio, che in futuro, si saprà essere il ragionier Walter Audisio, con le armi proprio non ci sapeva fare!
A ben vedere però il professor Cattabeni nel suo «Rendiconto di una necroscopia d’eccezione» pubblicato nell’agosto 1945, aveva specificato che «la morte era stata istantanea», visto che oltretutto si era verificata anche la rottura dell’aorta, ed allora come mai, asseriva Valerio, che Mussolini, caduto sulle ginocchia con la testa reclinata sul petto non era ancora morto, tanto da dovergli dare un altro colpo di grazia, per di più stranamente al petto e non al capo come di prassi in questi casi?

Effettivamente la faccenda non era molto chiara, ma ecco che poco più di un anno dopo sull’Unità del marzo 1947, puntuale arriva la precisazione di questo Valerio, che ora finalmente ci informa di chiamarsi Walter Audisio il quale preciserà: «L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva reciso netto l’aorta».
Pertanto, prendendo per buona la sua sequenza di spari, anche questa discrasia bene o male poteva essere spiegata e anzi l’anomalo colpo di grazia al petto, pur restando anomalo, guarda caso, spiegava tutto il resto.

Per la verità restava però un altro colpo, riscontrato sulla nuca di Mussolini, che probabilmente nelle intenzioni di chi lo aveva sparato voleva simulare un classico colpo di grazia, ma visto che tale colpo era chiaramente postmortale, cioè tirato su di un cadavere, evidentemente l’ingenuo sparatore non sapeva che sarebbe stato alquanto facile distinguere una ferita premortale da una postmortale.
Due colpi di grazia, in ogni caso, erano un po’ troppi.

A scanso di equivoci allora, con molta perspicacia, nella successiva versione, quella definitiva del libro di Audisio del 1975, il colpo di grazia venne eliminato sperando così di aver finalmente semplificato e chiarito tutto.
Ed invece no!

Quando, infatti, a suo tempo, si prese a studiare il verbale autoptico e si osservarono anche le foto delle ferite sul cadavere, pur con tutte le limitazioni di una indagine semplicemente fotografica, ci si rese conto di due cose:
- primo, Mussolini era stato colpito sui due lati del corpo, e cioè:
emisoma destro: da 1 colpo al braccio ed 1 al fianco, più 1 colpo sopraioideo nel collo ed infine 2 colpi nella regione sopraclaveare (uno più alto e uno più in basso); emisoma sinistro: 4 colpi ravvicinati (sventagliata di mitra) quasi sulla spalla.
- Secondo, tutti questi colpi, oltretutto, sembravano avere traiettorie diverse e persino inclinate dall’alto verso il basso o viceversa, ed alcune anche estremamente ravvicinate, tanto da lasciare aloni di sparo o, come nei 4 colpi sulla spalla sinistra, una rosa estremamente compatta in uscita dietro la schiena.

Era quindi molto probabile che, oltre a dei strani movimenti e inclinazioni dei corpi, eravamo in presenza di due tiratori, uno frontale e l’altro più defilato e con due armi diverse: mitra ed automatica a colpi singoli.
Una fucilazione poi mai vista essendo stata eseguita da una distanza forse inferiore ai 50 cm., altro che aver sparato da «tre passi» come attestava la prima versione del 30 aprile ‘45)!

In poche parole: tutto il raccontino dell’unico e abilissimo tiratore andava a farsi benedire!
Senza contare poi la quasi inspiegabile morte di Claretta Petacci colpita da una raffica alle spalle che aveva perforato anche lo schienale della sua pelliccia.

Come detto, con il passare degli anni e l’accavallarsi dei dubbi e delle contraddizioni su quanto la versione ufficiale voleva far credere e mal ci riusciva, anche gli storici della Resistenza ed i sostenitori di questa versione, hanno dovuto accettare, sia pure in sordina e senza dirlo apertamente, che il fucilatore di Mussolini potesse essere, in combutta con Valerio, o il Moretti (soprattutto) o il Lampredi, con nervosi scambi d’arma e sequenze di sparo indefinite.
Tutto sommato bastava far intendere, senza dirlo apertamente, che Valerio era stato un po’ fanfarone e che si era voluto arrogare lui solo, tutto il merito, mentre invece all’atto di giustizia ciellenista avevano partecipato, oltre a lui, anche Guido e Pietro.

Per la storica versione, infatti, così come è stata con gli anni revisionata, non è tanto importante «chi» effettivamente sparò a Mussolini: che sia stato Audisio o Lampredi o Moretti, o magari un paio di costoro, non cambia la sostanza di tutta la versione e pazienza per l’esclusiva che ad Audisio/Valerio pur era stata conferita.
E’ però importante che vengano mantenute ferme le modalità (spedizione del trio giustizialista per la fucilazione), il luogo (il cancello di Villa Belmonte) e l’ora (intorno alle 16,10 del 28 aprile): altrimenti tutta la «versione» cade irrimediabilmente!

In definitiva e dopo una cinquantina di anni, correggi qua, aggiusta là, accantona Valerio, ecc., il «non dichiarato» revisionismo resistenziale venne ad attestarsi proprio su di una versione più possibilista dove si lasciava l’eventualità che al momento della fucilazione si era determinata una situazione imprevista, con fasi di sparo caotiche nelle quali si erano probabilmente cimentati un paio di sparatori tra Audisio, Lampredi e sopratutto Moretti.

Con una solenne e stringata dichiarazione dell’Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, datata 25 settembre 1995, veniva all’uopo emessa una sottile dichiarazione in cui si sintetizzava al massimo l’episodio della fucilazione, non ci si azzardava a dare ulteriori particolari e modalità su quell’evento, lasciando così la possibilità di interpretarlo in modo più estensivo e possibilista di quanto era stato fatto in passato con le versioni di Audisio.
Ma se con questo colpo di genio si pensava di aver superato ogni polemica e contraddizione, si erano fatti male i conti.

Intanto restava sempre problematico capire come poteva Mussolini aver mangiato pane e salame (e forse polenta) circa 3,30 ore prima di essere ucciso, quando il referto autoptico aveva indicato: «Stomaco: ampio: cavità contenente poco liquido torbido bilioso».
Ma questo era il meno.

Più grave risultava, invece, il fatto che si era dovuto sorvolare su quanto non si riusciva a spiegare, ovvero su come mai quello strano giaccone indosso al cadavere di Mussolini e visibile in svariate foto di Piazzale Loreto non mostrava fori o strappi quali esiti di una fucilazione (e questo valeva anche per la camicia nera).
Una inaudita fucilazione tra l’altro, è bene ricordarlo, eseguita forse a meno di mezzo metro dal condannato.

Poi non si spiegava il fatto che Valerio aveva scritto, in tutte le sue relazioni, di un Duce che per quei viottoli di Bonzanigo camminava spedito pur con uno stivale sdrucito, quando anni dopo si era appurato che questo stivale, il destro, visibile anche a Piazzale Loreto completamente rovesciato sul piede, non era sdrucito, ma era saltata la cerniera della chiusura lampo e quindi Mussolini non avrebbe potuto assolutamente tenerlo al piede e camminarci, tanto più speditamente.

Inoltre e ancor di più le foto dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci nei corridoi dell’obitorio di via Ponzio a Milano, scattate tra il tardo pomeriggio del 29 e l’alba del 30 aprile (l’orario è incerto), mostravano una evidente risoluzione avanzata del rigor mortis al collo, agli arti superiori e per buona parte del tronco, dimostrando che quelle morti non potevano essere avvenute alle 16,10 del 28 aprile, ma molte ore ore prima.

Infine due altri pesanti macigni si abbattevano sulla grande bufala seppellendola definitivamente:
- nel 1996 una anziana testimone di Bonzanigo, Dorina Mazzola, al tempo abitante a poco più di 100 metri da casa De Maria (dove erano stati nascosti Mussolini e la Petacci) rilasciò una clamorosa e decisiva testimonianza che attestava l’uccisione di Mussolini intorno alle 9 del mattino sotto il cortile di casa De Maria e quella della Petacci intorno al mezzogiorno sul prato di un viottolo proprio di fronte a casa Mazzola.

Non si trattava, in questo caso, della solita inaffidabile testimonianza, ma di un racconto preciso, dettagliato, pieno di riferimenti e di riscontri trasversali con quanto già si conosceva in merito (vedere Giorgio Pisanò «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», Edizioni Il Saggittario, 1996).
- nel maggio del 2006 la rivista Storia in Rete, con un articolo di Fabio Andriola (visibile anche nel sito: www.ilduce.net/specialemorteduce.htm) riportava i risultati dei riscontri eseguiti dall’equipe del professor Giovanni Pierucci dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Pavia.

Questa perizia, avvalendosi delle moderne tecniche computerizzate e dell’uso di speciali filtri, attestava che gli indumenti indosso al cadavere di Mussolini, tranne la sola maglietta sanitaria, visibili in svariate foto e filmini d’epoca, non evidenziavano alcun foro o strappo che potesse attestare una fucilazione.
Da altri riscontri si confermava poi che la fucilazione (veramente inconsueta) era avvenuta a meno di mezzo metro di distanza e (clamoroso questo) probabilmente ai nove colpi riportati nel verbale di Cattabeni bisognava aggiungere altri due colpi all’addome sottaciuti in quel verbale.

Quindi Mussolini era stato ucciso mentre si trovava con indosso la sola canottiera di flanella e forse i pantaloni e successivamente era stato rivestito da morto, proprio come attestato dalla testimonianza di Dorina Mazzola.
Alle 16,10 di fronte al cancello di Villa Belmonte si era recitata un messa in scena con una finta fucilazione di due cadaveri!

Ma torniamo ad Audisio, Lampredi e Moretti cioè i tre pezzi da novanta della storica missione giustizialista i quali costituiscono un corpo unico, ma trino, nella storica versione.
In questa camaleontica versione, infatti, si riscontra un palese indice di inaffidabilità che riguarda proprio i tre artefici della fucilazione del Duce e si può affermare con matematica certezza che almeno due di questi giustizieri hanno palesemente e reiteratamente mentito.

Come sappiamo, infatti, Valerio (Walter Audisio) aveva sempre detto e messo per iscritto di aver condotto alla fucilazione un Duce al quale si era presentato come un liberatore dandogli insolentemente del «tu» (che nessun fascista si sarebbe mai permesso di usare!).
Quindi ci descrisse un Mussolini meditabondo, inebetito e sconvolto dalla paura, tanto da blaterale poche ed improponibili frasi come «ma, ma, ma signor colonnello...» (come il Duce avesse dedotto che Valerio fosse un colonnello, restava un altro mistero).
In questo stato di inanità e paura, l’aveva ammazzato.
Questo, nero su bianco, per quanto riguarda Valerio.

Il Guido (Aldo Lampredi), invece, mise per iscritto nella sua relazione al partito del 1972 (ma questo particolare fu reso noto solo nel gennaio del 1996) che Mussolini, seppur alquanto inebetito, finì per scuotersi ed aperto il bavero del pastrano ebbe a gridare «Mirate al cuore».
E Lampredi aggiunse, per giunta, che di questo fatto non ne aveva mai parlato a nessuno, ma lo conosceva anche Michele Moretti che però si era impegnato a tacerlo.
Anche questo, nero su bianco, per quanto riguarda Guido e non furono pochi coloro che sospettarono in questa clamorosa rivelazione, pregna di un certo riconoscimento al Duce, il disperato espediente di avallare tutta la traballante storica versione: se un comunista come Lampredi aveva pur confessato questo particolare, al contempo smentendo indirettamente Valerio, come non ritenere che tutto il resto di quella versione fosse veritiero?

Come non detto: Pietro (Michele Moretti), dopo che per anni aveva sempre blaterato che «non è che poi Mussolini sia morto molto bene», arrivato agli sgoccioli della sua vita va a confessare nel 1990 al giornalista storico comasco Giorgio Cavalleri, che lo pubblicherà nel suo libro «Ombre sul Lago», Piemme, 1995, che Mussolini al momento di essere fucilato aveva gridato «Con gran foga, Viva l’Italia» particolare questo che non gli aveva dato fastidio in quanto, egli sostenne, si trattava dell’Italia di Mussolini, non certo della sua.

Nessuno osò smentire o mettere in dubbio questa testimonianza riportata dal Cavalleri e del resto la deduzione che immediatamente ne scaturiva era quella che finalmente il Moretti aveva detto la verità visto che era improbabile che lo stesso, per avallare il resto delle sue testimonianze, avesse ripetuto l’espediente di infilarci dentro un altro riconoscimento al Duce. In questo caso, infatti, avrebbe ripetuto il «mirate al cuore» di Lampredi perchè altrimenti un altra diversa versione avrebbe sortito l’effetto opposto.

Resta il fatto, certo e sicuro, che ci ritroviamo con almeno due, di questi tre eroici giustizieri, Audisio, Moretti e Lampredi, che hanno spudoratamente mentito!
E’ questo è quel che è rimasto della storica versione!

Maurizio Barozzi

17 aprile 2008

La Nato e i talebani: Quali rapporti?

Non possiamo chiamarla Guerra perché il nemico è poco visibile, nascosto dentro e fuori le proprie linee ma, in Afghanistan la guerra non finisce mai. Chissà perchè! Anzi, i motivi sono sempre più di uno, ma sempre di più, deboli e inconstintenti. Povere persone, che perderanno la vita per una causa debole ed inutile come, purtroppo la loro vita.

La commissione Sicurezza Interna del parlamento afgano ha formalmente accusato la Nato di armare la guerriglia talebana, dichiarando non veritiera la versione dei fatti fornita dai comandi alleati riguardo un grosso rifornimento di armi caduto “per errore” in mano ai ribelli.
“Un piano Nato per devastare l’Afghanistan”. Secondo Zalmai Mujaddedi, presidente della commissione, nella notte tra il 27 e il 28 marzo scorsi elicotteri kazachi affittati dalla Nato hanno caricato all’aeroporto militare di Kandahar casse contenenti centinaia di kalashnikov, lanciarazzi e mezzo milione di munizioni, per poi paracadutarli in territorio talebano nel distretto di Arghandab, provincia di Zabul. La commissione parlamentare afferma che il comandante talebano locale, mullah Muhammad Alam, aveva predisposto misure di sicurezza nel luogo esatto della consegna, tali da escludere la tesi alleata dell’errore. “E’ stupefacente che il comandante mullah Alam, proprio quella notte, si trovasse...
in una casa a cento metri dal luogo in cui sono state paracadutate le casse dagli elicotteri. Se si fosse trattato di un errore, allora spiegatemi chi ha avvertito mullah Alam di recarsi esattamente in quel luogo. Non è la prima volta che sentiamo parlare di forniture di armi ai talebani da parte della Nato. Le forze d’occupazione straniere stavano operando per i propri interessi sulla base di piani volti a devastare l’Afghanistan”. L’onorevole Hamidullah Tokhi, parlamentare eletto nella provincia di Zabul, ha confermato le dichiarazioni di Zalmai Mujaddedi.
TalebaniVersione ufficiale: casse cadute per errore. La commissione parlamentare si è espressa dopo che il portavoce della missione Nato Isaf, il generale Carlos Branco, era stato costretto domenica a commentare le notizie che circolavano da giorni su armi Nato cadute in mano ai talebani, ammettendo che la cosa era effettivamente accaduta, ma per un errore sul quale si sta investigando.
La presa di posizione dell’organo parlamentare afgano ha subito suscitato la reazione degli Stati Uniti. L’assistente del segretario di Stato Usa, Richard Boucher, ha dichiarato che le affermazioni della commissione sono “infondate” e “prive di logica”.
Il direttore dei servizi segreti afgani, Amrullah Saleh, è intervenuto spiegando che le casse di armi erano destinate a una postazione dell’esercito afgano nella zona di Ghazni, molto più a nord, e che durante il viaggio una delle casse è accidentalmente caduta da uno degli elicotteri in territorio talebano.

A proposito di armi per l’esercito afgano. Da mesi la Nato, o meglio gli Stati Uniti, hanno imposto all’esercito afgano di dimettere i fucili kalashnikov, rifornendo tutti i battaglioni di fucili M-16 made in Usa, con annesse munizioni.

19 aprile 2008

Il culto della modernità


Indro Montanelli mi raccontò che Leo longanesi una volta gli aveva detto: "Tu e Ansaldo mi fregherete sempre. Perchè io capisco le cose cinque anni prima che accadono, voi cinque giorni prima". Vasco Rossi, fatte tutte le debite proporzioni, è più vicino al tipo Montanelli -Ansaldo che a Longanesi. È un istintivo, ha fiuto, sente cosa c'è nell'aria e sta per arrivare e lo capta un po' prima degli altri. Per questo trovo molto interessante il suo ultimo disco, appena uscito, "Il mondo che vorrei". Ricordate l'autore che cantava "vado al massimo"? Bene, adesso lo stesso uomo, certo un po' invecchiato, dice: "Non si può fare sempre quello che si vuole/non si può spingere solo l'acceleratore/guarda un po': ci si deve accontentare". E se ci è arrivato lui fra poco ci arriveranno anche gli altri a capire che noi non abbiamo bisogno di più velocità, di più Tav, di più Expo, di più Pil, di più produttività, di più consumo, di più crescita, di maggiore modernizzazione ma, al contrario, di rallentare, di frenare, di fare qualche passo indietro. Abbiamo bisogno di ritornare a una vita più semplice e più umana. "Ci si deve accontentare di ciò che si ha" canta Vasco. È stato Ludwig von Mi ses, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo a sintetizzarne l'essenza e a individuarne la molla con l'affermare, capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale ed orientale, che "non è bene accontentarsi di ciò che si ha". E così fondando la necessità dell'infelicità umana. Poiché ciò che non si ha non ha limi ti, l'uomo moderno non può mai raggiungere un momento di armonia, di equilibrio, di soddisfazione: conseguito un obiettivo deve immediatamente puntarne un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così all'infinito, a ciò costretto dall'ineludibile meccanismo che lo sovrasta. Ineludibile perchè si regge su questa ossessiva corsa in avanti alle cui esigenze piega, lo vogliano o no, anche i singoli individui. Siamo come i cani levrieri (fra le bestie, sia detto di passata, più stupide del Creato) che al cinodromo inseguono la lepre meccanica coperta di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere. Perché serve solo per farli correre. E il futuro orgiastico, che le leads mondiali agitano continuamente davanti ai nostri occhi come una sempre nuova Terra Promessa, arretra costantemente davanti ai nostri occhi come l'orizzonte davanti a chi si incammini avendo la pretesa di raggiungerlo.
Questa è la condizione dell'uomo contemporaneo. Ed è da questa frustrazione che nasce il mal di vivere, il disagio esistenziale acutissimo che si diffonde sempre più fra gli abitanti anche, anzi soprattutto, dei Paesi benestanti o ricchi o ricchissimi , provocando ansia, angosce, nevrosi, depressioni, dipendenza da sostanze chimi che e picchi di suicidi sconosciuti al mondo pre Rivoluzione industriale (decuplicati, in Europa, dal 1650 ad oggi).

Ma il paradosso finale di questo modello di sviluppo che ha puntato tutto sull'economi a, subordinando ad essa ogni altra esigenza dell'essere umano, è che ha completamente fallito anche in quest'ambito. Da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia la povertà nel mondo non ha fatto che aumentare, interi continenti ne sono stati distrutti, come l'Africa nera (che nessun "aiuto", peloso o meno, potrà salvare, ma, al contrario, contribuirà ad inguaiare ulteriormente strangolandola col cappio inesorabile della globalizzazione), e adesso la fame, la dura fame, comincia a lambire anche noi se è vero che si vedono già in giro persone, per ora vecchi, costrette a rubare nei supermercati perché nel mondo del Denaro chi non ne ha è perduto, né può trovare sostegno in un tessuto sociale che è stato distrutto.

Ma io credo che la crisi economica ci sarà d'aiuto. Perchè ci costringerà a pensare al di là dell'economico. A riflettere se aver abbattuto l'antico principio "è bene accontentarsi di ciò che si ha" non si sia risolto in una follia autodistruttiva. E chissà se Vasco Rossi, con le parole semplici delle canzoni, non finirà per essere più convincente dei tanti intellettuali che, derisi e vilipesi, da decenni denunciano e annunciano il crepuscolo della Modernità

18 aprile 2008

La morte di Mussolini, solo versioni di parte



Di tutte le versioni che cercano di spiegare la morte di Mussolini questa sembra la più lineare ma, manca di un tassello importante. Chi era quel colonnello inglese fotografato insieme ai 3 partigiani nei pressi della villa De Maria.?Poi, si scoprirà che dette generalità false. E, perchè Mussolini non aveva paura per la sua morte, ma solo per le carte che conteneva nelle sue borse?
Queste non vennero mai trovate, a differenza del tesoro di Dongo che finì conteggiato nei libri mastri dei vari capi partigiani.

Una «storica versione» non soltanto piena di incongruenze ed assurdità, ma anche di eventi che non è possibile che si siano verificati.

E’ disgustoso ed incredibile constatare come, per circa sessanta anni, molti giornalisti, scrittori e storici, se così possono ancora chiamarsi, abbiano potuto dare credito ad una grande bufala, una improponibile messa in scena già apparsa sull’Unità del 30 aprile 1945, e poi rimescolata e reiterata in articoli, libri e relazioni estratti dai racconti di tre presunti giustizieri ciellenisti: Walter Audisio (Valerio), Michele Moretti (Pietro) e Aldo Lampredi (Guido).
Occorre intanto precisare che stiamo parlando di tre eminenti partigiani, vere colonne della «storica versione», la quale attesta che furono spediti, con un ordine del Comando CVL, il pomeriggio del 28 aprile 1945 a Bonzanigo per prelevare il Duce (sorvolando che venne coinvolta anche la Petacci) per fucilarlo(i) seduta stante, ma stranamente di nascosto e frontalmente, al cancello di Villa Belmonte nella sottostante Giulino di Mezzegra, quando poi, ministri e personalità della RSI saranno invece fucilati alla schiena e ostentatamente davanti a donne e bambini, al parapetto del lungolago di Dongo.
Una anomalia non da poco.

In ogni caso si tratta di tre testi storici, tre partigiani comunisti, da sempre in cima ai resoconti che confermano quegli eventi così come li vuole la storia della Resistenza. Ricordiamoci di questo particolare quando ritorneremo più avanti a parlare di loro perché, se dovessero dimostrarsi inattendibili le loro testimonianze, crollerebbe miseramente, a prescindere dal resto, tutta questa impostura.

Ad onor del vero da quel 30 aprile del 1945, quando venne emesso il primo sintetico ed anonimo articolo sull’Unità in cui si forniva il resoconto dell’esecuzione di Mussolini, passando poi per i successivi memoriali del novembre ‘45 e del marzo ‘47 (sempre sull’Unità), fino ad arrivare al 1975, quando uscì postumo il libro «In nome del popolo italiano» Edizione Teti di Walter Audisio, nel frattempo deceduto, che ancor più ingarbugliava e mal spiegava le incongruenze e le contraddizioni delle precedenti relazioni, di acqua ne è passata sotto i ponti.

Oggi, infatti, possiamo dire che la stessa storiografia resistenziale e gli Istituti storici della liberazione, pur senza affermarlo apertamente, hanno finito per attestarsi su una versione, relativa a quella esecuzione, in parte più elastica nella sua dinamica dei fatti e comunque sfrondata dalle tante assurdità messe in bocca da Valerio a Mussolini per denigrarlo, ma alle quali oramai più nessuno dava credito.

Del resto un certo revisionismo era estremamente necessario perché le precedenti versioni del ragionier Audisio, alla luce di quanto era poi emerso, non stavano proprio in piedi.
Nel complesso, oltre alle versioni di Valerio, alle quali si poteva aggiungere la relazione di Lampredi al PCI stilata nel 1972 (ma resa nota integralmente solo nel 1996) ed alcune testimonianze di Michele Moretti, si poteva aggiungere il seppur carente referto dell’autopsia sulla salma del Duce, del professor Cattabeni.
Ma una certa importanza assumevano poi i vari riscontri che era stato possibile eseguire sul materiale cine fotografico che ritraeva i cadaveri di Mussolini e della Petacci a piazzale Loreto ed all’obitorio di Milano il 29 aprile 1945.

Partendo dall’esame di questi elementi e considerando le modalità e la dinamica che ci erano state raccontate per quella fucilazione, ne risultavano delle gravissime incongruenze (per una più ampia ed esauriente esposizione vedere il libro on line: «L’assassinio di Benito Mussolini», Marzio Di Belmonte, visibile nel sito «fncrsi.altervista.org»).
Vediamole.

Dunque, nella sua prima relazione, pubblicata sull’Unità il 30 aprile ‘45, l’anonimo «esecutore della condanna a morte di Mussolini» aveva semplicemente affermato: «Da una distanza di tre passi feci partire 5 colpi contro Mussolini, che si accasciò sulle ginocchia con la testa leggermente reclinata sul petto».
Proprio lo stesso 30 aprile però ci fu l’autopsia del professor Cattabeni la quale, nonostante le pressioni, il caos ambientale ed i suggerimenti ricevuti, andò pur ad attestare che Mussolini era stato colpito da 8 colpi sicuri, se non addirittura 9 con una distribuzione che andava da un lato all’altro del corpo e dal fianco (il più basso) fin sotto il mento (l’incertezza tra otto o nove colpi derivava da fatto che il colpo al braccio si poteva anche ipotizzare che fosse poi penetrato nel tronco).
Ma il misterioso esecutore aveva parlato di solo cinque colpi sparati dal suo solo mitra, e allora?

Nessun problema: sette mesi dopo a novembre, la stessa Unità ridà la parola a questo esecutore, che ora ci informa di chiamarsi Valerio il quale, sempre unico e solo giustiziere all’opera, specificherà goffamente che: «Scaricai cinque colpi al cuore del criminale di guerra Nro 2 che si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa leggermente reclinata sul petto. Non era morto. Tirai ancora una sventagliata rabbiosa di quattro colpi» (e poi ancora entro circa un paio di minuti) «Mussolini respirava ancora e gli diressi un sesto (?) colpo dritto al cuore».
Il tutto con il solo mitra Mas, modello 38 e calibro 7,65 che si saprà poi, datogli al momento da Moretti perchè il suo mitra Thompson si era inceppato.

Quindi adesso (a parte l’assurda dinamica della morte della Petacci) dovremmo essere a posto visto che abbiamo ben 10 colpi ovvero 5 + 4 + 1 sparati da un tiratore evidentemente esperto anche se poi, testimonianze unanimi, ci racconteranno che questo Valerio, che in futuro, si saprà essere il ragionier Walter Audisio, con le armi proprio non ci sapeva fare!
A ben vedere però il professor Cattabeni nel suo «Rendiconto di una necroscopia d’eccezione» pubblicato nell’agosto 1945, aveva specificato che «la morte era stata istantanea», visto che oltretutto si era verificata anche la rottura dell’aorta, ed allora come mai, asseriva Valerio, che Mussolini, caduto sulle ginocchia con la testa reclinata sul petto non era ancora morto, tanto da dovergli dare un altro colpo di grazia, per di più stranamente al petto e non al capo come di prassi in questi casi?

Effettivamente la faccenda non era molto chiara, ma ecco che poco più di un anno dopo sull’Unità del marzo 1947, puntuale arriva la precisazione di questo Valerio, che ora finalmente ci informa di chiamarsi Walter Audisio il quale preciserà: «L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva reciso netto l’aorta».
Pertanto, prendendo per buona la sua sequenza di spari, anche questa discrasia bene o male poteva essere spiegata e anzi l’anomalo colpo di grazia al petto, pur restando anomalo, guarda caso, spiegava tutto il resto.

Per la verità restava però un altro colpo, riscontrato sulla nuca di Mussolini, che probabilmente nelle intenzioni di chi lo aveva sparato voleva simulare un classico colpo di grazia, ma visto che tale colpo era chiaramente postmortale, cioè tirato su di un cadavere, evidentemente l’ingenuo sparatore non sapeva che sarebbe stato alquanto facile distinguere una ferita premortale da una postmortale.
Due colpi di grazia, in ogni caso, erano un po’ troppi.

A scanso di equivoci allora, con molta perspicacia, nella successiva versione, quella definitiva del libro di Audisio del 1975, il colpo di grazia venne eliminato sperando così di aver finalmente semplificato e chiarito tutto.
Ed invece no!

Quando, infatti, a suo tempo, si prese a studiare il verbale autoptico e si osservarono anche le foto delle ferite sul cadavere, pur con tutte le limitazioni di una indagine semplicemente fotografica, ci si rese conto di due cose:
- primo, Mussolini era stato colpito sui due lati del corpo, e cioè:
emisoma destro: da 1 colpo al braccio ed 1 al fianco, più 1 colpo sopraioideo nel collo ed infine 2 colpi nella regione sopraclaveare (uno più alto e uno più in basso); emisoma sinistro: 4 colpi ravvicinati (sventagliata di mitra) quasi sulla spalla.
- Secondo, tutti questi colpi, oltretutto, sembravano avere traiettorie diverse e persino inclinate dall’alto verso il basso o viceversa, ed alcune anche estremamente ravvicinate, tanto da lasciare aloni di sparo o, come nei 4 colpi sulla spalla sinistra, una rosa estremamente compatta in uscita dietro la schiena.

Era quindi molto probabile che, oltre a dei strani movimenti e inclinazioni dei corpi, eravamo in presenza di due tiratori, uno frontale e l’altro più defilato e con due armi diverse: mitra ed automatica a colpi singoli.
Una fucilazione poi mai vista essendo stata eseguita da una distanza forse inferiore ai 50 cm., altro che aver sparato da «tre passi» come attestava la prima versione del 30 aprile ‘45)!

In poche parole: tutto il raccontino dell’unico e abilissimo tiratore andava a farsi benedire!
Senza contare poi la quasi inspiegabile morte di Claretta Petacci colpita da una raffica alle spalle che aveva perforato anche lo schienale della sua pelliccia.

Come detto, con il passare degli anni e l’accavallarsi dei dubbi e delle contraddizioni su quanto la versione ufficiale voleva far credere e mal ci riusciva, anche gli storici della Resistenza ed i sostenitori di questa versione, hanno dovuto accettare, sia pure in sordina e senza dirlo apertamente, che il fucilatore di Mussolini potesse essere, in combutta con Valerio, o il Moretti (soprattutto) o il Lampredi, con nervosi scambi d’arma e sequenze di sparo indefinite.
Tutto sommato bastava far intendere, senza dirlo apertamente, che Valerio era stato un po’ fanfarone e che si era voluto arrogare lui solo, tutto il merito, mentre invece all’atto di giustizia ciellenista avevano partecipato, oltre a lui, anche Guido e Pietro.

Per la storica versione, infatti, così come è stata con gli anni revisionata, non è tanto importante «chi» effettivamente sparò a Mussolini: che sia stato Audisio o Lampredi o Moretti, o magari un paio di costoro, non cambia la sostanza di tutta la versione e pazienza per l’esclusiva che ad Audisio/Valerio pur era stata conferita.
E’ però importante che vengano mantenute ferme le modalità (spedizione del trio giustizialista per la fucilazione), il luogo (il cancello di Villa Belmonte) e l’ora (intorno alle 16,10 del 28 aprile): altrimenti tutta la «versione» cade irrimediabilmente!

In definitiva e dopo una cinquantina di anni, correggi qua, aggiusta là, accantona Valerio, ecc., il «non dichiarato» revisionismo resistenziale venne ad attestarsi proprio su di una versione più possibilista dove si lasciava l’eventualità che al momento della fucilazione si era determinata una situazione imprevista, con fasi di sparo caotiche nelle quali si erano probabilmente cimentati un paio di sparatori tra Audisio, Lampredi e sopratutto Moretti.

Con una solenne e stringata dichiarazione dell’Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, datata 25 settembre 1995, veniva all’uopo emessa una sottile dichiarazione in cui si sintetizzava al massimo l’episodio della fucilazione, non ci si azzardava a dare ulteriori particolari e modalità su quell’evento, lasciando così la possibilità di interpretarlo in modo più estensivo e possibilista di quanto era stato fatto in passato con le versioni di Audisio.
Ma se con questo colpo di genio si pensava di aver superato ogni polemica e contraddizione, si erano fatti male i conti.

Intanto restava sempre problematico capire come poteva Mussolini aver mangiato pane e salame (e forse polenta) circa 3,30 ore prima di essere ucciso, quando il referto autoptico aveva indicato: «Stomaco: ampio: cavità contenente poco liquido torbido bilioso».
Ma questo era il meno.

Più grave risultava, invece, il fatto che si era dovuto sorvolare su quanto non si riusciva a spiegare, ovvero su come mai quello strano giaccone indosso al cadavere di Mussolini e visibile in svariate foto di Piazzale Loreto non mostrava fori o strappi quali esiti di una fucilazione (e questo valeva anche per la camicia nera).
Una inaudita fucilazione tra l’altro, è bene ricordarlo, eseguita forse a meno di mezzo metro dal condannato.

Poi non si spiegava il fatto che Valerio aveva scritto, in tutte le sue relazioni, di un Duce che per quei viottoli di Bonzanigo camminava spedito pur con uno stivale sdrucito, quando anni dopo si era appurato che questo stivale, il destro, visibile anche a Piazzale Loreto completamente rovesciato sul piede, non era sdrucito, ma era saltata la cerniera della chiusura lampo e quindi Mussolini non avrebbe potuto assolutamente tenerlo al piede e camminarci, tanto più speditamente.

Inoltre e ancor di più le foto dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci nei corridoi dell’obitorio di via Ponzio a Milano, scattate tra il tardo pomeriggio del 29 e l’alba del 30 aprile (l’orario è incerto), mostravano una evidente risoluzione avanzata del rigor mortis al collo, agli arti superiori e per buona parte del tronco, dimostrando che quelle morti non potevano essere avvenute alle 16,10 del 28 aprile, ma molte ore ore prima.

Infine due altri pesanti macigni si abbattevano sulla grande bufala seppellendola definitivamente:
- nel 1996 una anziana testimone di Bonzanigo, Dorina Mazzola, al tempo abitante a poco più di 100 metri da casa De Maria (dove erano stati nascosti Mussolini e la Petacci) rilasciò una clamorosa e decisiva testimonianza che attestava l’uccisione di Mussolini intorno alle 9 del mattino sotto il cortile di casa De Maria e quella della Petacci intorno al mezzogiorno sul prato di un viottolo proprio di fronte a casa Mazzola.

Non si trattava, in questo caso, della solita inaffidabile testimonianza, ma di un racconto preciso, dettagliato, pieno di riferimenti e di riscontri trasversali con quanto già si conosceva in merito (vedere Giorgio Pisanò «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», Edizioni Il Saggittario, 1996).
- nel maggio del 2006 la rivista Storia in Rete, con un articolo di Fabio Andriola (visibile anche nel sito: www.ilduce.net/specialemorteduce.htm) riportava i risultati dei riscontri eseguiti dall’equipe del professor Giovanni Pierucci dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Pavia.

Questa perizia, avvalendosi delle moderne tecniche computerizzate e dell’uso di speciali filtri, attestava che gli indumenti indosso al cadavere di Mussolini, tranne la sola maglietta sanitaria, visibili in svariate foto e filmini d’epoca, non evidenziavano alcun foro o strappo che potesse attestare una fucilazione.
Da altri riscontri si confermava poi che la fucilazione (veramente inconsueta) era avvenuta a meno di mezzo metro di distanza e (clamoroso questo) probabilmente ai nove colpi riportati nel verbale di Cattabeni bisognava aggiungere altri due colpi all’addome sottaciuti in quel verbale.

Quindi Mussolini era stato ucciso mentre si trovava con indosso la sola canottiera di flanella e forse i pantaloni e successivamente era stato rivestito da morto, proprio come attestato dalla testimonianza di Dorina Mazzola.
Alle 16,10 di fronte al cancello di Villa Belmonte si era recitata un messa in scena con una finta fucilazione di due cadaveri!

Ma torniamo ad Audisio, Lampredi e Moretti cioè i tre pezzi da novanta della storica missione giustizialista i quali costituiscono un corpo unico, ma trino, nella storica versione.
In questa camaleontica versione, infatti, si riscontra un palese indice di inaffidabilità che riguarda proprio i tre artefici della fucilazione del Duce e si può affermare con matematica certezza che almeno due di questi giustizieri hanno palesemente e reiteratamente mentito.

Come sappiamo, infatti, Valerio (Walter Audisio) aveva sempre detto e messo per iscritto di aver condotto alla fucilazione un Duce al quale si era presentato come un liberatore dandogli insolentemente del «tu» (che nessun fascista si sarebbe mai permesso di usare!).
Quindi ci descrisse un Mussolini meditabondo, inebetito e sconvolto dalla paura, tanto da blaterale poche ed improponibili frasi come «ma, ma, ma signor colonnello...» (come il Duce avesse dedotto che Valerio fosse un colonnello, restava un altro mistero).
In questo stato di inanità e paura, l’aveva ammazzato.
Questo, nero su bianco, per quanto riguarda Valerio.

Il Guido (Aldo Lampredi), invece, mise per iscritto nella sua relazione al partito del 1972 (ma questo particolare fu reso noto solo nel gennaio del 1996) che Mussolini, seppur alquanto inebetito, finì per scuotersi ed aperto il bavero del pastrano ebbe a gridare «Mirate al cuore».
E Lampredi aggiunse, per giunta, che di questo fatto non ne aveva mai parlato a nessuno, ma lo conosceva anche Michele Moretti che però si era impegnato a tacerlo.
Anche questo, nero su bianco, per quanto riguarda Guido e non furono pochi coloro che sospettarono in questa clamorosa rivelazione, pregna di un certo riconoscimento al Duce, il disperato espediente di avallare tutta la traballante storica versione: se un comunista come Lampredi aveva pur confessato questo particolare, al contempo smentendo indirettamente Valerio, come non ritenere che tutto il resto di quella versione fosse veritiero?

Come non detto: Pietro (Michele Moretti), dopo che per anni aveva sempre blaterato che «non è che poi Mussolini sia morto molto bene», arrivato agli sgoccioli della sua vita va a confessare nel 1990 al giornalista storico comasco Giorgio Cavalleri, che lo pubblicherà nel suo libro «Ombre sul Lago», Piemme, 1995, che Mussolini al momento di essere fucilato aveva gridato «Con gran foga, Viva l’Italia» particolare questo che non gli aveva dato fastidio in quanto, egli sostenne, si trattava dell’Italia di Mussolini, non certo della sua.

Nessuno osò smentire o mettere in dubbio questa testimonianza riportata dal Cavalleri e del resto la deduzione che immediatamente ne scaturiva era quella che finalmente il Moretti aveva detto la verità visto che era improbabile che lo stesso, per avallare il resto delle sue testimonianze, avesse ripetuto l’espediente di infilarci dentro un altro riconoscimento al Duce. In questo caso, infatti, avrebbe ripetuto il «mirate al cuore» di Lampredi perchè altrimenti un altra diversa versione avrebbe sortito l’effetto opposto.

Resta il fatto, certo e sicuro, che ci ritroviamo con almeno due, di questi tre eroici giustizieri, Audisio, Moretti e Lampredi, che hanno spudoratamente mentito!
E’ questo è quel che è rimasto della storica versione!

Maurizio Barozzi

17 aprile 2008

La Nato e i talebani: Quali rapporti?

Non possiamo chiamarla Guerra perché il nemico è poco visibile, nascosto dentro e fuori le proprie linee ma, in Afghanistan la guerra non finisce mai. Chissà perchè! Anzi, i motivi sono sempre più di uno, ma sempre di più, deboli e inconstintenti. Povere persone, che perderanno la vita per una causa debole ed inutile come, purtroppo la loro vita.

La commissione Sicurezza Interna del parlamento afgano ha formalmente accusato la Nato di armare la guerriglia talebana, dichiarando non veritiera la versione dei fatti fornita dai comandi alleati riguardo un grosso rifornimento di armi caduto “per errore” in mano ai ribelli.
“Un piano Nato per devastare l’Afghanistan”. Secondo Zalmai Mujaddedi, presidente della commissione, nella notte tra il 27 e il 28 marzo scorsi elicotteri kazachi affittati dalla Nato hanno caricato all’aeroporto militare di Kandahar casse contenenti centinaia di kalashnikov, lanciarazzi e mezzo milione di munizioni, per poi paracadutarli in territorio talebano nel distretto di Arghandab, provincia di Zabul. La commissione parlamentare afferma che il comandante talebano locale, mullah Muhammad Alam, aveva predisposto misure di sicurezza nel luogo esatto della consegna, tali da escludere la tesi alleata dell’errore. “E’ stupefacente che il comandante mullah Alam, proprio quella notte, si trovasse...
in una casa a cento metri dal luogo in cui sono state paracadutate le casse dagli elicotteri. Se si fosse trattato di un errore, allora spiegatemi chi ha avvertito mullah Alam di recarsi esattamente in quel luogo. Non è la prima volta che sentiamo parlare di forniture di armi ai talebani da parte della Nato. Le forze d’occupazione straniere stavano operando per i propri interessi sulla base di piani volti a devastare l’Afghanistan”. L’onorevole Hamidullah Tokhi, parlamentare eletto nella provincia di Zabul, ha confermato le dichiarazioni di Zalmai Mujaddedi.
TalebaniVersione ufficiale: casse cadute per errore. La commissione parlamentare si è espressa dopo che il portavoce della missione Nato Isaf, il generale Carlos Branco, era stato costretto domenica a commentare le notizie che circolavano da giorni su armi Nato cadute in mano ai talebani, ammettendo che la cosa era effettivamente accaduta, ma per un errore sul quale si sta investigando.
La presa di posizione dell’organo parlamentare afgano ha subito suscitato la reazione degli Stati Uniti. L’assistente del segretario di Stato Usa, Richard Boucher, ha dichiarato che le affermazioni della commissione sono “infondate” e “prive di logica”.
Il direttore dei servizi segreti afgani, Amrullah Saleh, è intervenuto spiegando che le casse di armi erano destinate a una postazione dell’esercito afgano nella zona di Ghazni, molto più a nord, e che durante il viaggio una delle casse è accidentalmente caduta da uno degli elicotteri in territorio talebano.

A proposito di armi per l’esercito afgano. Da mesi la Nato, o meglio gli Stati Uniti, hanno imposto all’esercito afgano di dimettere i fucili kalashnikov, rifornendo tutti i battaglioni di fucili M-16 made in Usa, con annesse munizioni.