23 maggio 2008

Il gioco del Calcio e il criterio della doppia verità



Il campionato di Serie A si è concluso domenica scorsa. E così, a distanza di qualche giorno, in un clima più disteso (si far per dire), proponiamo ai lettori qualche breve riflessione sul gioco del calcio in Italia.
Di solito si ritiene che lo sport riverberi i pregi e i difetti della società dove lo si pratica. Se un secolo fa, affari e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate. Oggi, di fatto, procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta, segnata dal più stretto rapporto tra affari e calcio, risale agli anni Ottanta-Novanta, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse molte società calcistiche a spiccare il grande salto, trasformandosi in società per azioni. Di lì provengono le lucrose sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il titolo in Borsa. Ma anche gli scandali: ultimo (?) quello legato alla nota vicenda Moggi.
Questa “ privatizzazione”, che ha visto imprenditori e finanzieri, da Berlusconi a Cragnotti, legare il proprio nome a società calcistiche, come è stata presa dai tifosi? E soprattutto quali sono le loro reazioni davanti ai frequenti scandali.
Innanzitutto, va ricordato un dato sociologico “duro”: l’80% degli italiani ritiene il campionato di calcio poco credibile, perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 %, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante ciò, come si è già anticipato, il 50% continua a dichiararsi tifoso di una squadra (*).
Facciamo il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi, anche economicamente parlando, sul quale l’apparato economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a “soffrire-gioire” per la propria squadra, almeno tre non nutrono alcuna stima verso il mondo del calcio. Il che vuol dire che sono inclini “tipologicamente” a ritenere vera la tesi ricorrente del complotto occulto contro squadra amata.
E qui il discorso si farebbe interessante sotto l’aspetto sociologico, ma purtroppo mancano dati precisi. Perché il tifoso “disincantato”, quello che vede complotti ovunque ma continua a tifare, applica il criterio della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o comunque legati alle cosiddette “epoche d’oro”. Ad esempio Cagnotti, rimasto invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia. E il discorso potrebbe valere anche per altre società calcistiche.
Il tifoso disincantato, che spesso è anche giustizialista (difficile però stabilire se lo sia pure sul piano politico generale…), di solito difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo scudetto alla squadra del cuore. Applica una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che “ruba” e basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre l’imprenditore che “ruba”, ma porta la squadra per cui si tifa in “Champion League” viene difeso a spada tratta.
Ecco, probabilmente, il criterio delle doppia verità riflette certe caratteristiche della società italiana. Ai tempi di Tangentopoli, molti commentatori, applicando lo stesso criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse “rubato”, non per se stesso ma per il partito. E’ una forma di “comunitarismo amorale”, tipicamente italiano, o comunque di società dove l’individuo si identifica immediatamente nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile.
E che c’è di più campanilistico del tifo per una squadra di calcio? Meditate gente, meditate…
di Carlo Gambescia

L'occidente produce anche la fame



Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica.

Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.

Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo.

Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.

L´intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone.

Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.

Dall´India all´America Latina, dall´Africa all´Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie.

La produttività per ettaro è aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l´unica non americana del gruppo.

Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta.

Oppure si uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle corporation dell´agro-business.

Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.

È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l´imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l´Organizzazione mondiale per il commercio.

Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l´Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell´Africa, dei prodotti locali.

Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.

Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato.

In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall´altro Paese il prodotto che quello fa meglio.

Ma l´onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un´unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunità locale.

Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito per vie naturali. Le grandi società dell´agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo.

Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni.

Da parte loro, illusi dall´idea d´un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.

Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.

Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent´anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l´hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.

Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare.

Può spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all´ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell´immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell´agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza finanziaria.

Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati.

Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.
di Luciano Gallino

22 maggio 2008

Il circo dell'ipocrisia



Viviamo, anzi vivevamo, in un paese in scacco: uccisioni, stupri etnici, ombrellatrici e borseggiatori sulle metro, rapitori e stupratori di bambini. Tutto ad opera delle minoranze che occupano il suolo patrio.
Dopo aver visto Lagos e San Paolo, il sottoscritto credeva di aver tastato l’abisso della violenza urbana, ma si sbagliava.
E pensare che fino al 2006 questo era un paese dove si rispettavano le regole, dove le donne potevano girare indisturbate fino a notte fonda, dove non esisteva la piaga della droga che distruggeva la nostra gioventù. Un paese uscito da una fiaba dei fratelli Grimm. Così almeno ci dicono tutti i nostri rappresentanti parlamentari, da destra e da sinistra e, ovviamente, i media.
La puntata di giovedì 15 maggio di Anno zero è stata paradigmatica. In studio, oltre al feldmaresciallo leghista Kastelli, presenti due sceriffi dagli opposti schieramenti, Tosi di Verona e De Luca di Salerno.
In un simpatico giuoco delle parti, Tosi ha recitato la parte dello sceriffo quasi buono e il pidino De Luca quella dello sceriffo cattivo. Gli sceriffi della sinistra, per essere credibili in questa nuova veste, devono essere più truculenti degli omologhi di opposta fazione.
Da De Luca ho appreso, ad esempio, che non è affatto peregrino tracciare un triangolo di sangue e violenza tra le due città sopracitate (Lagos e San Paolo, appunto) e Salerno: il nostro coraggioso funzionario ha dipinto con enfasi una megalopoli di quasi centomila abitanti in mano a prostitute rumene spietate, ciniche, esperte di legge, ucraini e polacchi ubriachi, spacciatori e stupratori di varia etnia. Altro che le bidonvilles di africana memoria!
Un altro sceriffo, anzi caposceriffo, il radical chic Cacciari, qualche giorno fa ha aggredito Lerner che snocciolava dati reali sui reati italiani (in calo). A lui, infatti, non interessano i dati reali, interessa solo la percezione della gente.
Guarda un po’, sempre ad Anno Zero, ieri sera, è andata in scena la cosiddetta “paura percepita”. In un'altra megalopoli di quasi centomila abitanti, Reggio Emilia, si è capito che, in fondo, gli stranieri non creano tutto questo allarme sociale. Il problema è che fanno rumore, sporcano le scale, cucinano pietanze puzzolenti e deprezzano il valore immobiliare. Alla fine, dai e dai, sembrerebbe uno scontro di civiltà da ballatoio condominiale.
Difficile entrare nella schizofrenia di un sistema industriale, economico e politico in agonia che cerca sempre più carne da immettere su un mercato del lavoro che ricorda la vendita di bestiame e predica il rigetto della presenza fisica di prestatori di opera, persone che vivono, soffrono, sbagliano, commettono reati.
“Io la amavo, la odiavo, la amavo, la odiavo, ero contro di lei”, cantava Celentano. “Rappresentano il 9% del PIL”, hanno detto alcuni. “Generano conflitto e costi sociali e poi hanno i piedi puzzolenti”, hanno detto altri.
Oltre settecentomila clandestini inseriti nel mercato degli schiavi, almeno la maggior parte, c’è chi li blandisce, chi vorrebbe metterli al rogo... Sembra stia prevalendo la seconda ipotesi. E chi glielo dice agli industriali, poi? Ipocrisia congenita di un'economia anti-umana.
Intanto, finita la grande campagna mediatica degli sbarchi dei “disperati” e degli stupratori rom, è appena partita quella dei grandi arresti in pompa magna.
Con diretta televisiva sui rimpatri. E il circo ricomincia.
di Mauro Maggiora

23 maggio 2008

Il gioco del Calcio e il criterio della doppia verità



Il campionato di Serie A si è concluso domenica scorsa. E così, a distanza di qualche giorno, in un clima più disteso (si far per dire), proponiamo ai lettori qualche breve riflessione sul gioco del calcio in Italia.
Di solito si ritiene che lo sport riverberi i pregi e i difetti della società dove lo si pratica. Se un secolo fa, affari e calcio (ma fino a un certo punto) seguivano strade separate. Oggi, di fatto, procedono insieme. E non solo in Italia. La svolta, segnata dal più stretto rapporto tra affari e calcio, risale agli anni Ottanta-Novanta, quando l’ ascesa dei profitti speculativi borsistici, spinse molte società calcistiche a spiccare il grande salto, trasformandosi in società per azioni. Di lì provengono le lucrose sponsorizzazioni pubblicitarie e la necessità di vincere per far salire il titolo in Borsa. Ma anche gli scandali: ultimo (?) quello legato alla nota vicenda Moggi.
Questa “ privatizzazione”, che ha visto imprenditori e finanzieri, da Berlusconi a Cragnotti, legare il proprio nome a società calcistiche, come è stata presa dai tifosi? E soprattutto quali sono le loro reazioni davanti ai frequenti scandali.
Innanzitutto, va ricordato un dato sociologico “duro”: l’80% degli italiani ritiene il campionato di calcio poco credibile, perché viziato da interessi economici e politici. Solo il rimanente 20 %, sostiene che il calcio sia ancora uno sport autentico. Ma nonostante ciò, come si è già anticipato, il 50% continua a dichiararsi tifoso di una squadra (*).
Facciamo il punto: c’è uno zoccolo duro di tifosi, anche economicamente parlando, sul quale l’apparato economico-sportivo-mediatico, può assolutamente fare affidamento. Ciò però non significa che al tifo per la squadra del cuore corrisponda pari fiducia nel sistema: di quei cinque tifosi su dieci che continuano a “soffrire-gioire” per la propria squadra, almeno tre non nutrono alcuna stima verso il mondo del calcio. Il che vuol dire che sono inclini “tipologicamente” a ritenere vera la tesi ricorrente del complotto occulto contro squadra amata.
E qui il discorso si farebbe interessante sotto l’aspetto sociologico, ma purtroppo mancano dati precisi. Perché il tifoso “disincantato”, quello che vede complotti ovunque ma continua a tifare, applica il criterio della doppia verità, soprattutto nei riguardi dei dirigenti vincenti, o comunque legati alle cosiddette “epoche d’oro”. Ad esempio Cagnotti, rimasto invischiato in vicende poco edificanti, è tuttora apprezzato dai tifosi laziali. Lo stesso si potrebbe dire di un ex uomo-squadra come Chinaglia. E il discorso potrebbe valere anche per altre società calcistiche.
Il tifoso disincantato, che spesso è anche giustizialista (difficile però stabilire se lo sia pure sul piano politico generale…), di solito difende l’alto dirigente, magari disonesto, ma capace di far vincere lo scudetto alla squadra del cuore. Applica una specie di criterio della doppia verità morale: l’imprenditore che “ruba” e basta, è disonesto, soprattutto se presidente di una squadra avversaria, mentre l’imprenditore che “ruba”, ma porta la squadra per cui si tifa in “Champion League” viene difeso a spada tratta.
Ecco, probabilmente, il criterio delle doppia verità riflette certe caratteristiche della società italiana. Ai tempi di Tangentopoli, molti commentatori, applicando lo stesso criterio, giustificavano, se non proprio assolvevano, il politico che avesse “rubato”, non per se stesso ma per il partito. E’ una forma di “comunitarismo amorale”, tipicamente italiano, o comunque di società dove l’individuo si identifica immediatamente nei gruppi a lui più vicini: famiglia, amici, campanile.
E che c’è di più campanilistico del tifo per una squadra di calcio? Meditate gente, meditate…
di Carlo Gambescia

L'occidente produce anche la fame



Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica.

Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.

Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo.

Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.

L´intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone.

Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.

Dall´India all´America Latina, dall´Africa all´Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie.

La produttività per ettaro è aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l´unica non americana del gruppo.

Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta.

Oppure si uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle corporation dell´agro-business.

Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.

È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l´imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l´Organizzazione mondiale per il commercio.

Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l´Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell´Africa, dei prodotti locali.

Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.

Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato.

In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall´altro Paese il prodotto che quello fa meglio.

Ma l´onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un´unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunità locale.

Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito per vie naturali. Le grandi società dell´agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo.

Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni.

Da parte loro, illusi dall´idea d´un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.

Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.

Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent´anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l´hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.

Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare.

Può spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all´ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell´immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell´agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza finanziaria.

Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati.

Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.
di Luciano Gallino

22 maggio 2008

Il circo dell'ipocrisia



Viviamo, anzi vivevamo, in un paese in scacco: uccisioni, stupri etnici, ombrellatrici e borseggiatori sulle metro, rapitori e stupratori di bambini. Tutto ad opera delle minoranze che occupano il suolo patrio.
Dopo aver visto Lagos e San Paolo, il sottoscritto credeva di aver tastato l’abisso della violenza urbana, ma si sbagliava.
E pensare che fino al 2006 questo era un paese dove si rispettavano le regole, dove le donne potevano girare indisturbate fino a notte fonda, dove non esisteva la piaga della droga che distruggeva la nostra gioventù. Un paese uscito da una fiaba dei fratelli Grimm. Così almeno ci dicono tutti i nostri rappresentanti parlamentari, da destra e da sinistra e, ovviamente, i media.
La puntata di giovedì 15 maggio di Anno zero è stata paradigmatica. In studio, oltre al feldmaresciallo leghista Kastelli, presenti due sceriffi dagli opposti schieramenti, Tosi di Verona e De Luca di Salerno.
In un simpatico giuoco delle parti, Tosi ha recitato la parte dello sceriffo quasi buono e il pidino De Luca quella dello sceriffo cattivo. Gli sceriffi della sinistra, per essere credibili in questa nuova veste, devono essere più truculenti degli omologhi di opposta fazione.
Da De Luca ho appreso, ad esempio, che non è affatto peregrino tracciare un triangolo di sangue e violenza tra le due città sopracitate (Lagos e San Paolo, appunto) e Salerno: il nostro coraggioso funzionario ha dipinto con enfasi una megalopoli di quasi centomila abitanti in mano a prostitute rumene spietate, ciniche, esperte di legge, ucraini e polacchi ubriachi, spacciatori e stupratori di varia etnia. Altro che le bidonvilles di africana memoria!
Un altro sceriffo, anzi caposceriffo, il radical chic Cacciari, qualche giorno fa ha aggredito Lerner che snocciolava dati reali sui reati italiani (in calo). A lui, infatti, non interessano i dati reali, interessa solo la percezione della gente.
Guarda un po’, sempre ad Anno Zero, ieri sera, è andata in scena la cosiddetta “paura percepita”. In un'altra megalopoli di quasi centomila abitanti, Reggio Emilia, si è capito che, in fondo, gli stranieri non creano tutto questo allarme sociale. Il problema è che fanno rumore, sporcano le scale, cucinano pietanze puzzolenti e deprezzano il valore immobiliare. Alla fine, dai e dai, sembrerebbe uno scontro di civiltà da ballatoio condominiale.
Difficile entrare nella schizofrenia di un sistema industriale, economico e politico in agonia che cerca sempre più carne da immettere su un mercato del lavoro che ricorda la vendita di bestiame e predica il rigetto della presenza fisica di prestatori di opera, persone che vivono, soffrono, sbagliano, commettono reati.
“Io la amavo, la odiavo, la amavo, la odiavo, ero contro di lei”, cantava Celentano. “Rappresentano il 9% del PIL”, hanno detto alcuni. “Generano conflitto e costi sociali e poi hanno i piedi puzzolenti”, hanno detto altri.
Oltre settecentomila clandestini inseriti nel mercato degli schiavi, almeno la maggior parte, c’è chi li blandisce, chi vorrebbe metterli al rogo... Sembra stia prevalendo la seconda ipotesi. E chi glielo dice agli industriali, poi? Ipocrisia congenita di un'economia anti-umana.
Intanto, finita la grande campagna mediatica degli sbarchi dei “disperati” e degli stupratori rom, è appena partita quella dei grandi arresti in pompa magna.
Con diretta televisiva sui rimpatri. E il circo ricomincia.
di Mauro Maggiora