01 giugno 2008

Arconte, agente segreto Gladio G71, esiste o non esiste?


A trent'anni dall'omicidio di Aldo Moro, riprendiamo il contatto con Nino Arconte, il "gladiatore" che operava negli anni settanta e ottanta in missioni internazionali con il nome in codice G71 e la cui storia voi conoscete fin dall'estate del 1998 (per chi segue America Oggi/Oggi7 da tempi più recenti, consigliamo di andare in internet: scrivendo nel motore di ricerca Arconte Vaccara troverete diversi articoli). Quindi da dieci anni più volte su questo giornale abbiamo seguito la vicenda di G71, l'agente segreto della marina militare italiana appartenente ad una delle cosidette "Centurie" della Gladio denominata anche "Stay Behind" (dietro le linee nemiche), che dopo aver servito la sua Patria durante la Guerra Fredda, improvvisamente si ritrovò non riconosciuto dallo Stato italiano mentre alcuni dei suoi commilitoni cadevano come birilli in sempre più misteriosi "suicidi" o morti giudicate accidentali.

Arconte, o meglio G71, cinque anni dopo quella prima intervista, ci mostrò un altro documento, il più esplosivo di tutti che questo giornale, questa volta insieme ad altri due (Famiglia Cristiana e Liberazione) pubblicò immediatamente. In quel documento, che apparentemente sembrava essere del Ministero della Difesa italiano e che G71 nel marzo del 1978 era stato incaricato di portare a Beirut al capo dei servizi italiani nella capitale libanese che allora, come del resto ora, era sconvolta dalla guerra civile. Nel documento si faceva riferimento al rapimento di Aldo Moro e si chiedeva ai servizi italiani nella regione di attivarsi per la sua liberazione ma con un particolare sconcertante: la data in cui era stato scritto, 2 marzo 1978, precedeva quella del rapimento avvenuto il 16 marzo in via Fani a Roma.

G71 doveva consegnare il documento a Beirut all'agente G-219 (identificabile nel colonnello Ferraro, rimasto poi vittima nel 1995 di uno strano suicidio), dislocato e dipendente dal capocentro G-216 (il colonnello Stefano Giovannone e che poi Moro menzionerà proprio in una delle sue lettere dal carcere delle BR), affinché prendesse contatti con i movimenti di liberazione del Medio Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione dello statista democristiano. È grazie al "gladiatore" G71 che questo documento a "distruzione immediata" è invece ancora qui. E prima di lui grazie al colonnello Ferraro che, secondo Arconte, prima di morire misteriosamente impiccato nel suo bagno di casa, gli ha consegnato il documento che lui non aveva distrutto.

Cinque anni fa, all'uscita di quel documento, ci furono delle interrogazioni parlamentari. Anche l'ex capo del governo ai tempi del rapimento Moro e ora senatore a vita Giulio Andreotti, chiese espressamente al governo Berlusconi allora in carica di far subito luce sulla vicenda, perché se quel documento fosse stato provato autentico ovviamente avrebbe riscritto (e in che modo!) la storia d'Italia, se invece fosse stato un falso allora chi lo spacciava per vero avrebbe dovuto essere ovviamente perseguito. Invece Arconte non venne affatto perseguito anzi fu lui a denunciare chi lo discreditava. Il ministero della Difesa di allora, senza portare alcuna prova definitiva, si limitò a delle comunicazioni in cui sosteneva che Nino Arconte non era attendibile e poi aggiunse qualcosa che ci insospettì.

Nel cercare di screditare il racconto di G71, le autorità italiane scrissero che era priva di ogni fondamento la tesi di Arconte che sosteneva il coinvolgimento degli Usa e della Cia nella vicenda del rapimento... Ma Arconte aveva sempre sostenuto il contrario! E cioè che secondo lui dietro al rapimento Moro si nascondeva la lunga mano dei servizi segreti di oltre cortina sovietica, e quindi quell'accusa ci apparve a dir poco stramba per non dire depistante.

Il 7 giugno del 2006 il presidente del Senato Franco Marini, rispondendo ad una lettera di Arconte in cui chiedeva almeno delle scuse ufficiali, ha scritto che "ho valutato la complessità della vicenda e posso rendere conto del suo punto di vista" ma che come presidente del Senato, non ha il potere di imporle a nessuno quelle scuse. Marini concludeva dicendo di aver fatto acquisire agli atti del Senato la lettera di Arconte. Cinque anni sono passati dall'emersione di quel documento, ma sembra che a Roma nessuno abbia fretta di chiarirne definitivamente l'autenticità o che si debba quindi perseguire Arconte. Noi aspettiamo e intanto ecco le nostre domande per G71.

Cinque anni fa uscì la nostra seconda intervista, questa volta sullo straordinario documento del Ministero della Difesa che ti fu ordinato di portare nel marzo del 1978 a Beirut e che annunciava il rapimento di Moro prima che avvenisse... Cosa è successo da quelle rivelazioni e dopo le interrogazioni parlamentari di Andreotti e di altri legislatori? Che fine ha fatto quel documento? Il governo Berlusconi prima e quello Prodi dopo, hanno comunicato qualcosa, lo hanno spiegato? Sono state fatte indagini? E' stato smentito? Ti hanno denunciato o ti hanno ridato gli onori militari?

«Quel documento è stato fatto oggetto di dibattiti parlamentari; in Senato sono state presentate 23 interpellanze a risposta scritta ed è stato risposto di tutto e il contrario di tutto. Molte di queste risposte sono state pubblicate da America Oggi ed Oggi7 nel 2003. Ricorderai l'articolo su Martino, Ministro della Difesa dell'epoca, che dichiarava cose non vere, come il tuo giornale poté benissimo testimoniare in proposito dell'inchiesta per falso avviata contro di me e che due anni dopo, il 7 maggio 2004, fu archiviata per infondatezza della notizia di reato, mentre il GIP di Roma mi riconosceva "parte offesa da ignoti" perché nessuno di coloro che mi avevano accusato pubblicamente, di fronte all'infondatezza di esse, confermava le sue accuse.

Ricorderai che quel documento fu anche sottoposto a perizia scientifica per l'interessamento del settimanale Famiglia Cristiana, la RAI e il quotidiano Liberazione, organo del Partito di Rifondazione Comunista e che tale perizia diede esito di autenticità. Nel senso che risultò che carta, inchiostri e caratteri di stampa, come bolli e sigilli usati, erano quelli normalmente in uso al Ministero della Difesa, Marina Militare, Ufficio X°, negli anni '70. Conformi ad altri documenti di raffronto che indubitabilmente provenivano da quelle sedi e in quelle date. Gli stessi giornalisti che parteciparono a quelle operazioni di verifica e controllo hanno anche testimoniato queste cose sotto giuramento nel Tribunale di Oristano, dove ho dovuto citare la RAI 1 e RAI 3, per avere offeso la verità a cui avevo accettato di collaborare effettuando tagli alle trasmissioni che non avevo autorizzato. Scelte non dei giornalisti , ma delle redazioni politiche che li controllano».

Hai altri documenti che non hai ancora mostrato? E se sì, quando li renderai pubblici e che cosa rivelerebbero?

«Si, ho altri documenti che però non riguardano il caso Moro, ma la mia vita in servizio dietro le linee della Guerra Fredda Italiana e non solo Italiana. Vorrei evitare di renderli pubblici, ma questo non dipenderà da me, ma dal comportamento del Governo Italiano. Sto per spedire al nuovo Governo la solita richiesta di Congedo che invio ad ogni nuova legislatura ricevendo risposte dei più svariati generi: Alcune le hai smentite anche tu nel tuo giornale. A volte persino divertenti, altre vergognose, da parte di Ministri della Difesa che mostravano di non conoscere nemmeno la storia Patria, alcune altre nessuna risposta! Ora vedremo cosa risponderà il nuovo Governo Berlusconi. Io sono sempre sereno e fiducioso come chi sa di essere dalla parte del giusto e nel suo pieno diritto. Mi auguro sempre che finalmente si faccia giustizia anche di questa storia, sarebbe buon segno, non solo per me, ma per tutta l'Italia e, addirittura, senza voler esagerare, credo che sarebbe buon segno per tutto l'Occidente Democratico che sembra aver smarrito la via!»

Sono stati fatti tanti film sul caso Moro, ora uno anche con Michele Placido nella parte dello statista si vede in questi giorni in tv. Qualche regista - o sceneggiatore o produttore - ti ha mai contattato per avere da te una collaborazione? C'è un film la cui ricostruzione ti ha soddisfatto?

«Si, tantissimi sono venuti qui a trovarmi per convincermi, ma sono bastate poche parole per capire che c'era incompatibilità di vedute. Sono tutti troppo politicizzati e vedono la storia, soprattutto la storia d'Italia, attraverso i filtri colorati ed i paraocchi della politica. Dovrebbero occuparsi solo di fiction senza pretendere patenti di autenticità storiche che non hanno. Così ho sempre rinunciato. A parte per il film di Carlo Infanti "La verità negata" per il quale ho scritto una sceneggiatura per la parte da girare in Sardegna che ho interpretato con la protagonista qui nel Sinis di Cabras, perché mi è sembrato che cercasse di dare una visione dei fatti storici di cui si occupa e relativi al caso Moro che più si avvicinava alla mia testimonianza. Inoltre ho collaborato perché non mi ha parlato di tagli e devianze su ciò che dovevo fare nel suo film.

Ho anche scritto io un'altra sceneggiatura. Sono impegnato proprio in questi giorni a trovare, con produzioni europee, un possibile accordo per finanziare il primo dei tre film di cui si compone l'opera cinematografica tratta dal libro L'Ultima Missione!»

Con la tua rivelazione del documento di Beirut, si confermavano i contatti tra terrorismo rosso e ambienti del terrorismo mediorientale. Oggi l'Italia è sempre più invischiata nella regione, in Libano, in Afghanistan... I gruppi terroristi mediorientali legati ad Al Qaeda, Hamas, Hezbollah, potrebbero cercare ancora di avere legami in Italia con terroristi locali? Cosa facevate voi allora per scongiurare queste "alleanze" e cosa si dovrebbe fare adesso?

«Nell'ultimo speciale su Moro a cui ho collaborato e che si intitola "Moro: se ci fosse luce sarebbe bellissimo", il magistrato del caso Moro Dr. Imposimato fa alcune dichiarazioni che si avvicinano alla verità. Dice che secondo alcuni suoi riscontri in Via Fani c'erano stati anche terroristi della RAF tedesca che era collegata alla Stasi, servizi segreti della Germania comunista che a sua volta era collegata al KGB sovietico. Ebbene Imposimato si avvicina molto alla verità, ma non abbastanza, perché gli mancano le basi della conoscenza della rete terroristica filo sovietica che comprendeva tutte queste organizzazioni, IRA, ETA, RAF, BR, OLP tutte orchestrate da Mosca attraverso la Separat comandata dallo Sciacallo, che aveva basi a Tripoli, in Libia e a Damasco, in Siria, ma anche in Germania Est ed in Cecoslovacchia. Tutti paesi controllati direttamente dal KGB sovietico. Ma la vera storia anche di quella parte la descrivo meglio e la documento nella sceneggiatura del primo film dal titolo provvisorio "L'Isola dei combattenti".

Il mondo è cambiato, ma certe strategie sono le stesse. Cosa facevamo noi? Eravamo in mezzo a loro! L'Italia era presente anche a quel tempo in Nord Africa, in Afghanistan, in Libano ... Ieri come oggi, solo che all'epoca non si poteva dire, né mostrare... Lo racconto e documento nelle mie opere autobiografiche e adesso anche al cinema. Ma per poter raccontare davvero questa storia, anzi queste storie, devo riuscire a realizzare il progetto di film seriale tratto dall'Ultima Missione e di cui ho già pronta la sceneggiatura per il primo. In questo ci sarà, per onore al vero, anche il nostro primo incontro a New York, nel giugno 1998, che fu descritto poi dal tuo articolo su America Oggi/Oggi 7 di quell'estate. Da allora sono stati centinaia, ma il tuo fu il primo e penso che contribuì a salvarmi la vita. Per vedere realizzata quest'opera vera sulla Guerra Fredda servono solo i finanziatori e li sto cercando anche in Europa, soprattutto in Europa, perché in Italia è impossibile che qualcuno accetti di finanziare un film di questo genere senza voler mettere sotto controllo la storia dal punto di vista politico e io questo non lo posso fare e non lo farò.»

Ti senti ancora in pericolo di vita? Se attraverso questa intervista volessi mandare un messaggio al premier Berlusconi e ai nuovi ministri degli Esteri Frattini, degli interni Maroni e della Difesa La Russa, cosa diresti?

«Sono prudente in maniera del tutto naturale e sentirmi in pericolo è la mia condizione abituale, non mi pesa. Gli chiederei di fare qualcosa di serio per cambiare il destino della nostra Patria. E la prima cosa da fare è quella di dare giustizia agli italiani. Oggi abbiamo uno Stato dei privilegi e di privilegiati che è riuscito a distruggere tutto, anche l'amor di Patria. Il compito che si trovano davanti non è certo facile. Non sono il solo a parlare di sfascio generale: della Giustizia, della scuola, della sanità delle Istituzioni e non è certo a suon di chiacchiere che si può risanare tutto questo. Io faccio la mia piccola parte, basterebbe che ognuno facesse la sua. Ho visto l'elenco dei Ministri del Governo Berlusconi... staremo a vedere».

Stefano Vaccara

L'imperialismo coloniale americano: le basi militari


Pur in presenza di un debito estero da capogiro, oltre 8.000 miliardi di dollari nel 2007, il bilancio militare degli Stati Uniti ha superato i 625 miliardi durante lo stesso anno e raggiungerà i 640 nel 2008 (in confronto ai 47 della Russia ed ai 43 dell’intera Unione Europea…). Alla fine degli anni settanta, esso ammontava a circa 100 miliardi, era triplicato all’inizio degli anni novanta, nel 2001 era pari a 404 miliardi. Nel 2006 corrispondeva al 3,7% del Pil statunitense ed a poco meno di mille dollari procapite.
Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti mantengono 700 e più installazioni militari (il numero non è definibile in modo certo, per motivi di segretezza) in Europa, Africa, Vicino Oriente, Golfo Persico, Asia Centrale, Oceania ed Estremo Oriente, ed in mare una forza aereonavale di 9 portaerei, 75 sommergibili ed uno stuolo di incrociatori, fregate lanciamissili, corvette e naviglio di difesa costiera, scorta ed appoggio.
Secondo il Rapporto Gelman, militari statunitensi sono presenti in 156 Paesi mentre le basi militari sono installate in 63 Stati di quattro continenti. Con quelle del territorio metropolitano e dei loro possedimenti, le basi coprono una superficie totale superiore a 2 milioni di ettari, cosa che fa del Pentagono uno dei più grandi proprietari terrieri del pianeta.
Il numero totale di personale civile e militare statunitense residente in permanenza fuori dal territorio metropolitano è stimato, anche se fluttuante, in 366.000 unità. Di questi, 116.000 sono di stanza in Europa, di cui 75.000 circa in Germania. Secondo le statistiche del Dipartimento della Difesa statunitense, riferite al 31 dicembre 2005, circa 271.000 di queste unità sono di personale militare: 96.000 operano in Paesi Nato, e l’Italia ne ospita più di 11.000. Non meno significativi i contingenti dispiegati in Giappone (35.000) e Corea del Sud (30.000).
L’operazione Iraqi Freedom è condotta da 207.000 effettivi, quella Enduring Freedom in Afghanistan da 20.400: di questi, una percentuale di circa il 10% è stata dislocata a partire dai contingenti statunitensi sparsi nel mondo (in particolare, dalla Germania).
Per la gestione del centro di detenzione di Guantanamo, dulcis in fundo, sono impiegati circa 1.000 soldati.

Le statistiche ufficiali, per quanto accurate, mancano di menzionare alcuni importanti insediamenti: ad esempio, il Base Structure Report del 2003 non nominava l’immensa base di Camp Bondsteel in Kosovo, e diversi altri insediamenti in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Qatar e Kirghizistan,ed Uzbekistan. Nemmeno citava importanti infrastrutture militari e spionistiche presenti nel Regno Unito, a lungo convenientemente classificate come basi dell’aviazione britannica.
Usando onestà, probabilmente si arriverebbero a contare non meno di 1.000 installazioni militari statunitensi in Paesi stranieri, ma nessuno – allo stato attuale neanche lo stesso Pentagono – è in grado di determinare questa cifra con certezza.

Alcune curiosità, per finire:
- alla base di Camp Anaconda, vicino a Baghdad, sono in funzione nove linee di autobus interne per trasportare i soldati ed il personale civile nel suo perimetro di 25 kmq;
- negli ospedali militari delle basi all’estero è proibito, alle 100.000 donne che vivono in esse (comprese quelle che ivi lavorano, mogli e congiunte dei soldati), sottoporsi ad operazioni di aborto;
- la base di Camp Lemonier a Gibuti, storico insediamento della Legione Straniera Francese, oggi è occupata da quasi 2.000 soldati statunitensi, a presidio dell’ingresso al Mar Rosso;
- fra i numerosi progetti di nuove basi (loro lo chiamano “riposizionamento”), gli Stati Uniti pensano di mettere sotto il loro diretto controllo un’area pari a quasi un quarto dell’intera superficie del Kuwait, dove organizzare i rifornimenti del contingente impiegato in Iraq e consentire ai burocrati della cosiddetta Zona Verde di Baghdad di “ritemprarsi” (lontano dagli ormai quotidiani tiri di mortaio della resistenza irakena…).

Un tempo, era possibile tracciare la diffusione dell’imperialismo contando il numero di colonie sparse per il mondo.
La versione americana della colonia è la base militare.
byebyeunclesam

31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

01 giugno 2008

Arconte, agente segreto Gladio G71, esiste o non esiste?


A trent'anni dall'omicidio di Aldo Moro, riprendiamo il contatto con Nino Arconte, il "gladiatore" che operava negli anni settanta e ottanta in missioni internazionali con il nome in codice G71 e la cui storia voi conoscete fin dall'estate del 1998 (per chi segue America Oggi/Oggi7 da tempi più recenti, consigliamo di andare in internet: scrivendo nel motore di ricerca Arconte Vaccara troverete diversi articoli). Quindi da dieci anni più volte su questo giornale abbiamo seguito la vicenda di G71, l'agente segreto della marina militare italiana appartenente ad una delle cosidette "Centurie" della Gladio denominata anche "Stay Behind" (dietro le linee nemiche), che dopo aver servito la sua Patria durante la Guerra Fredda, improvvisamente si ritrovò non riconosciuto dallo Stato italiano mentre alcuni dei suoi commilitoni cadevano come birilli in sempre più misteriosi "suicidi" o morti giudicate accidentali.

Arconte, o meglio G71, cinque anni dopo quella prima intervista, ci mostrò un altro documento, il più esplosivo di tutti che questo giornale, questa volta insieme ad altri due (Famiglia Cristiana e Liberazione) pubblicò immediatamente. In quel documento, che apparentemente sembrava essere del Ministero della Difesa italiano e che G71 nel marzo del 1978 era stato incaricato di portare a Beirut al capo dei servizi italiani nella capitale libanese che allora, come del resto ora, era sconvolta dalla guerra civile. Nel documento si faceva riferimento al rapimento di Aldo Moro e si chiedeva ai servizi italiani nella regione di attivarsi per la sua liberazione ma con un particolare sconcertante: la data in cui era stato scritto, 2 marzo 1978, precedeva quella del rapimento avvenuto il 16 marzo in via Fani a Roma.

G71 doveva consegnare il documento a Beirut all'agente G-219 (identificabile nel colonnello Ferraro, rimasto poi vittima nel 1995 di uno strano suicidio), dislocato e dipendente dal capocentro G-216 (il colonnello Stefano Giovannone e che poi Moro menzionerà proprio in una delle sue lettere dal carcere delle BR), affinché prendesse contatti con i movimenti di liberazione del Medio Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione dello statista democristiano. È grazie al "gladiatore" G71 che questo documento a "distruzione immediata" è invece ancora qui. E prima di lui grazie al colonnello Ferraro che, secondo Arconte, prima di morire misteriosamente impiccato nel suo bagno di casa, gli ha consegnato il documento che lui non aveva distrutto.

Cinque anni fa, all'uscita di quel documento, ci furono delle interrogazioni parlamentari. Anche l'ex capo del governo ai tempi del rapimento Moro e ora senatore a vita Giulio Andreotti, chiese espressamente al governo Berlusconi allora in carica di far subito luce sulla vicenda, perché se quel documento fosse stato provato autentico ovviamente avrebbe riscritto (e in che modo!) la storia d'Italia, se invece fosse stato un falso allora chi lo spacciava per vero avrebbe dovuto essere ovviamente perseguito. Invece Arconte non venne affatto perseguito anzi fu lui a denunciare chi lo discreditava. Il ministero della Difesa di allora, senza portare alcuna prova definitiva, si limitò a delle comunicazioni in cui sosteneva che Nino Arconte non era attendibile e poi aggiunse qualcosa che ci insospettì.

Nel cercare di screditare il racconto di G71, le autorità italiane scrissero che era priva di ogni fondamento la tesi di Arconte che sosteneva il coinvolgimento degli Usa e della Cia nella vicenda del rapimento... Ma Arconte aveva sempre sostenuto il contrario! E cioè che secondo lui dietro al rapimento Moro si nascondeva la lunga mano dei servizi segreti di oltre cortina sovietica, e quindi quell'accusa ci apparve a dir poco stramba per non dire depistante.

Il 7 giugno del 2006 il presidente del Senato Franco Marini, rispondendo ad una lettera di Arconte in cui chiedeva almeno delle scuse ufficiali, ha scritto che "ho valutato la complessità della vicenda e posso rendere conto del suo punto di vista" ma che come presidente del Senato, non ha il potere di imporle a nessuno quelle scuse. Marini concludeva dicendo di aver fatto acquisire agli atti del Senato la lettera di Arconte. Cinque anni sono passati dall'emersione di quel documento, ma sembra che a Roma nessuno abbia fretta di chiarirne definitivamente l'autenticità o che si debba quindi perseguire Arconte. Noi aspettiamo e intanto ecco le nostre domande per G71.

Cinque anni fa uscì la nostra seconda intervista, questa volta sullo straordinario documento del Ministero della Difesa che ti fu ordinato di portare nel marzo del 1978 a Beirut e che annunciava il rapimento di Moro prima che avvenisse... Cosa è successo da quelle rivelazioni e dopo le interrogazioni parlamentari di Andreotti e di altri legislatori? Che fine ha fatto quel documento? Il governo Berlusconi prima e quello Prodi dopo, hanno comunicato qualcosa, lo hanno spiegato? Sono state fatte indagini? E' stato smentito? Ti hanno denunciato o ti hanno ridato gli onori militari?

«Quel documento è stato fatto oggetto di dibattiti parlamentari; in Senato sono state presentate 23 interpellanze a risposta scritta ed è stato risposto di tutto e il contrario di tutto. Molte di queste risposte sono state pubblicate da America Oggi ed Oggi7 nel 2003. Ricorderai l'articolo su Martino, Ministro della Difesa dell'epoca, che dichiarava cose non vere, come il tuo giornale poté benissimo testimoniare in proposito dell'inchiesta per falso avviata contro di me e che due anni dopo, il 7 maggio 2004, fu archiviata per infondatezza della notizia di reato, mentre il GIP di Roma mi riconosceva "parte offesa da ignoti" perché nessuno di coloro che mi avevano accusato pubblicamente, di fronte all'infondatezza di esse, confermava le sue accuse.

Ricorderai che quel documento fu anche sottoposto a perizia scientifica per l'interessamento del settimanale Famiglia Cristiana, la RAI e il quotidiano Liberazione, organo del Partito di Rifondazione Comunista e che tale perizia diede esito di autenticità. Nel senso che risultò che carta, inchiostri e caratteri di stampa, come bolli e sigilli usati, erano quelli normalmente in uso al Ministero della Difesa, Marina Militare, Ufficio X°, negli anni '70. Conformi ad altri documenti di raffronto che indubitabilmente provenivano da quelle sedi e in quelle date. Gli stessi giornalisti che parteciparono a quelle operazioni di verifica e controllo hanno anche testimoniato queste cose sotto giuramento nel Tribunale di Oristano, dove ho dovuto citare la RAI 1 e RAI 3, per avere offeso la verità a cui avevo accettato di collaborare effettuando tagli alle trasmissioni che non avevo autorizzato. Scelte non dei giornalisti , ma delle redazioni politiche che li controllano».

Hai altri documenti che non hai ancora mostrato? E se sì, quando li renderai pubblici e che cosa rivelerebbero?

«Si, ho altri documenti che però non riguardano il caso Moro, ma la mia vita in servizio dietro le linee della Guerra Fredda Italiana e non solo Italiana. Vorrei evitare di renderli pubblici, ma questo non dipenderà da me, ma dal comportamento del Governo Italiano. Sto per spedire al nuovo Governo la solita richiesta di Congedo che invio ad ogni nuova legislatura ricevendo risposte dei più svariati generi: Alcune le hai smentite anche tu nel tuo giornale. A volte persino divertenti, altre vergognose, da parte di Ministri della Difesa che mostravano di non conoscere nemmeno la storia Patria, alcune altre nessuna risposta! Ora vedremo cosa risponderà il nuovo Governo Berlusconi. Io sono sempre sereno e fiducioso come chi sa di essere dalla parte del giusto e nel suo pieno diritto. Mi auguro sempre che finalmente si faccia giustizia anche di questa storia, sarebbe buon segno, non solo per me, ma per tutta l'Italia e, addirittura, senza voler esagerare, credo che sarebbe buon segno per tutto l'Occidente Democratico che sembra aver smarrito la via!»

Sono stati fatti tanti film sul caso Moro, ora uno anche con Michele Placido nella parte dello statista si vede in questi giorni in tv. Qualche regista - o sceneggiatore o produttore - ti ha mai contattato per avere da te una collaborazione? C'è un film la cui ricostruzione ti ha soddisfatto?

«Si, tantissimi sono venuti qui a trovarmi per convincermi, ma sono bastate poche parole per capire che c'era incompatibilità di vedute. Sono tutti troppo politicizzati e vedono la storia, soprattutto la storia d'Italia, attraverso i filtri colorati ed i paraocchi della politica. Dovrebbero occuparsi solo di fiction senza pretendere patenti di autenticità storiche che non hanno. Così ho sempre rinunciato. A parte per il film di Carlo Infanti "La verità negata" per il quale ho scritto una sceneggiatura per la parte da girare in Sardegna che ho interpretato con la protagonista qui nel Sinis di Cabras, perché mi è sembrato che cercasse di dare una visione dei fatti storici di cui si occupa e relativi al caso Moro che più si avvicinava alla mia testimonianza. Inoltre ho collaborato perché non mi ha parlato di tagli e devianze su ciò che dovevo fare nel suo film.

Ho anche scritto io un'altra sceneggiatura. Sono impegnato proprio in questi giorni a trovare, con produzioni europee, un possibile accordo per finanziare il primo dei tre film di cui si compone l'opera cinematografica tratta dal libro L'Ultima Missione!»

Con la tua rivelazione del documento di Beirut, si confermavano i contatti tra terrorismo rosso e ambienti del terrorismo mediorientale. Oggi l'Italia è sempre più invischiata nella regione, in Libano, in Afghanistan... I gruppi terroristi mediorientali legati ad Al Qaeda, Hamas, Hezbollah, potrebbero cercare ancora di avere legami in Italia con terroristi locali? Cosa facevate voi allora per scongiurare queste "alleanze" e cosa si dovrebbe fare adesso?

«Nell'ultimo speciale su Moro a cui ho collaborato e che si intitola "Moro: se ci fosse luce sarebbe bellissimo", il magistrato del caso Moro Dr. Imposimato fa alcune dichiarazioni che si avvicinano alla verità. Dice che secondo alcuni suoi riscontri in Via Fani c'erano stati anche terroristi della RAF tedesca che era collegata alla Stasi, servizi segreti della Germania comunista che a sua volta era collegata al KGB sovietico. Ebbene Imposimato si avvicina molto alla verità, ma non abbastanza, perché gli mancano le basi della conoscenza della rete terroristica filo sovietica che comprendeva tutte queste organizzazioni, IRA, ETA, RAF, BR, OLP tutte orchestrate da Mosca attraverso la Separat comandata dallo Sciacallo, che aveva basi a Tripoli, in Libia e a Damasco, in Siria, ma anche in Germania Est ed in Cecoslovacchia. Tutti paesi controllati direttamente dal KGB sovietico. Ma la vera storia anche di quella parte la descrivo meglio e la documento nella sceneggiatura del primo film dal titolo provvisorio "L'Isola dei combattenti".

Il mondo è cambiato, ma certe strategie sono le stesse. Cosa facevamo noi? Eravamo in mezzo a loro! L'Italia era presente anche a quel tempo in Nord Africa, in Afghanistan, in Libano ... Ieri come oggi, solo che all'epoca non si poteva dire, né mostrare... Lo racconto e documento nelle mie opere autobiografiche e adesso anche al cinema. Ma per poter raccontare davvero questa storia, anzi queste storie, devo riuscire a realizzare il progetto di film seriale tratto dall'Ultima Missione e di cui ho già pronta la sceneggiatura per il primo. In questo ci sarà, per onore al vero, anche il nostro primo incontro a New York, nel giugno 1998, che fu descritto poi dal tuo articolo su America Oggi/Oggi 7 di quell'estate. Da allora sono stati centinaia, ma il tuo fu il primo e penso che contribuì a salvarmi la vita. Per vedere realizzata quest'opera vera sulla Guerra Fredda servono solo i finanziatori e li sto cercando anche in Europa, soprattutto in Europa, perché in Italia è impossibile che qualcuno accetti di finanziare un film di questo genere senza voler mettere sotto controllo la storia dal punto di vista politico e io questo non lo posso fare e non lo farò.»

Ti senti ancora in pericolo di vita? Se attraverso questa intervista volessi mandare un messaggio al premier Berlusconi e ai nuovi ministri degli Esteri Frattini, degli interni Maroni e della Difesa La Russa, cosa diresti?

«Sono prudente in maniera del tutto naturale e sentirmi in pericolo è la mia condizione abituale, non mi pesa. Gli chiederei di fare qualcosa di serio per cambiare il destino della nostra Patria. E la prima cosa da fare è quella di dare giustizia agli italiani. Oggi abbiamo uno Stato dei privilegi e di privilegiati che è riuscito a distruggere tutto, anche l'amor di Patria. Il compito che si trovano davanti non è certo facile. Non sono il solo a parlare di sfascio generale: della Giustizia, della scuola, della sanità delle Istituzioni e non è certo a suon di chiacchiere che si può risanare tutto questo. Io faccio la mia piccola parte, basterebbe che ognuno facesse la sua. Ho visto l'elenco dei Ministri del Governo Berlusconi... staremo a vedere».

Stefano Vaccara

L'imperialismo coloniale americano: le basi militari


Pur in presenza di un debito estero da capogiro, oltre 8.000 miliardi di dollari nel 2007, il bilancio militare degli Stati Uniti ha superato i 625 miliardi durante lo stesso anno e raggiungerà i 640 nel 2008 (in confronto ai 47 della Russia ed ai 43 dell’intera Unione Europea…). Alla fine degli anni settanta, esso ammontava a circa 100 miliardi, era triplicato all’inizio degli anni novanta, nel 2001 era pari a 404 miliardi. Nel 2006 corrispondeva al 3,7% del Pil statunitense ed a poco meno di mille dollari procapite.
Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti mantengono 700 e più installazioni militari (il numero non è definibile in modo certo, per motivi di segretezza) in Europa, Africa, Vicino Oriente, Golfo Persico, Asia Centrale, Oceania ed Estremo Oriente, ed in mare una forza aereonavale di 9 portaerei, 75 sommergibili ed uno stuolo di incrociatori, fregate lanciamissili, corvette e naviglio di difesa costiera, scorta ed appoggio.
Secondo il Rapporto Gelman, militari statunitensi sono presenti in 156 Paesi mentre le basi militari sono installate in 63 Stati di quattro continenti. Con quelle del territorio metropolitano e dei loro possedimenti, le basi coprono una superficie totale superiore a 2 milioni di ettari, cosa che fa del Pentagono uno dei più grandi proprietari terrieri del pianeta.
Il numero totale di personale civile e militare statunitense residente in permanenza fuori dal territorio metropolitano è stimato, anche se fluttuante, in 366.000 unità. Di questi, 116.000 sono di stanza in Europa, di cui 75.000 circa in Germania. Secondo le statistiche del Dipartimento della Difesa statunitense, riferite al 31 dicembre 2005, circa 271.000 di queste unità sono di personale militare: 96.000 operano in Paesi Nato, e l’Italia ne ospita più di 11.000. Non meno significativi i contingenti dispiegati in Giappone (35.000) e Corea del Sud (30.000).
L’operazione Iraqi Freedom è condotta da 207.000 effettivi, quella Enduring Freedom in Afghanistan da 20.400: di questi, una percentuale di circa il 10% è stata dislocata a partire dai contingenti statunitensi sparsi nel mondo (in particolare, dalla Germania).
Per la gestione del centro di detenzione di Guantanamo, dulcis in fundo, sono impiegati circa 1.000 soldati.

Le statistiche ufficiali, per quanto accurate, mancano di menzionare alcuni importanti insediamenti: ad esempio, il Base Structure Report del 2003 non nominava l’immensa base di Camp Bondsteel in Kosovo, e diversi altri insediamenti in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Qatar e Kirghizistan,ed Uzbekistan. Nemmeno citava importanti infrastrutture militari e spionistiche presenti nel Regno Unito, a lungo convenientemente classificate come basi dell’aviazione britannica.
Usando onestà, probabilmente si arriverebbero a contare non meno di 1.000 installazioni militari statunitensi in Paesi stranieri, ma nessuno – allo stato attuale neanche lo stesso Pentagono – è in grado di determinare questa cifra con certezza.

Alcune curiosità, per finire:
- alla base di Camp Anaconda, vicino a Baghdad, sono in funzione nove linee di autobus interne per trasportare i soldati ed il personale civile nel suo perimetro di 25 kmq;
- negli ospedali militari delle basi all’estero è proibito, alle 100.000 donne che vivono in esse (comprese quelle che ivi lavorano, mogli e congiunte dei soldati), sottoporsi ad operazioni di aborto;
- la base di Camp Lemonier a Gibuti, storico insediamento della Legione Straniera Francese, oggi è occupata da quasi 2.000 soldati statunitensi, a presidio dell’ingresso al Mar Rosso;
- fra i numerosi progetti di nuove basi (loro lo chiamano “riposizionamento”), gli Stati Uniti pensano di mettere sotto il loro diretto controllo un’area pari a quasi un quarto dell’intera superficie del Kuwait, dove organizzare i rifornimenti del contingente impiegato in Iraq e consentire ai burocrati della cosiddetta Zona Verde di Baghdad di “ritemprarsi” (lontano dagli ormai quotidiani tiri di mortaio della resistenza irakena…).

Un tempo, era possibile tracciare la diffusione dell’imperialismo contando il numero di colonie sparse per il mondo.
La versione americana della colonia è la base militare.
byebyeunclesam

31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006