04 maggio 2009

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

ist2_279137_money_mind

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.


Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

by megachip

01 maggio 2009

Radio France: Politica, mafia e l'omertà in tv

borsellino_falcone

Eric Valmir è il corrispondente, per l'Italia, di Radio France, la radio pubblica francese. Di ritorno da un incontro col giudice Roberto Scarpinato -autore, con Lodato Saverio, de "Il ritorno del principe" (Chiare Lettere)- ha pubblicato sul suo blog questo post, che traduco.

La prima frase mi disorienta: “Non parliamo di Berlusconi, d’accordo?”. Mi disorienta perché due ore prima, davanti al teatro Massimo di Palermo, uno degli attori, sul fronte economico, della lotta contro la mafia mi ha posto la stessa condizione. Io non sono lì per parlare di Berlusconi, ma dei meccanismi di Cosa Nostra.

E con un sorriso d’intesa lo dico pure al mio ospite: “Sono venuto per parlare del suo libro, Il ritorno del principe”. E’ vero... l’entourage di Berlusconi è spesso sospettato di collusione con la Mafia, il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, è stato peraltro condannato nel corso della precedente legislatura, ma nessuna prova ha mai implicato formalmente il Presidente del Consiglio.

Roberto Scarpinato è l’ultimo dei giudici di Palermo. L’ultimo della generazione di Falcone e Borsellino, i due magistrati assassinati nel 1992 e nel 1993. Una memoria storica della giustizia palermitana che ha rifiutato di trasferirsi a Milano o a Verona. Vive sotto scorta. E’ stato lui ad istruire il processo contro Giulio Andreotti per complicità mafiosa. Giulio Andreotti, oggi senatore a vita – e sette volte presidente del Consiglio.

La sentenza di primo grado l’aveva assolto per insufficienza di prove, ma la Corte d’Appello, tre anni più tardi, rovesciò il verdetto. Andreotti colpevole. Il delitto di “associazione a delinquere” venne riconosciuto, ma i fatti, nel frattempo, erano caduti in prescrizione.

Il ritorno del principe non è una descrizione dell’inchiesta Andreotti. Per Roberto Scarpinato, che si esprime con voce lieve, Andreotti non è che il prodotto di un sistema pronto ad ogni prova, e protetto, oggi, da una cornice mediatica. Le conclusioni dell’inchiesta Andreotti non sono mai state riportate troppo chiaramente dalla stampa italiana. Il giudice Scarpinato cita nel suo libro un esempio della copertura mediatica televisiva: Porta a Porta, il talk di successo di Bruno Vespa, su Rai Uno.

Quando Andreotti viene assolto, Bruno Vespa gli consacra una trasmissione trionfale.
Quando viene dichiarato colpevole, non una parola.

Quando il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, si becca nove anni di reclusione per collusione con la Mafia, Porta a Porta propone un’edizione speciale sulla sessualità degli anziani. Stessa cosa in occasione della condanna di Bruno Contrada, numero tre dei servizi segreti italiani, vicino agli ambienti mafiosi.

Questi esempi sono citati quasi a titolo d’ironia nel libro. Il resto dell’intervista scompone tutto un meccanismo che prende avvio da un sistema di tipo feudale. Una minoranza di potenti che mantiene il proprio potere ed i propri interessi ricorrendo ad ogni mezzo. Fino alla violenza e all’omicidio politico.

La Mafia non è un’organizzazione criminale, è una cultura clientelare. La sola che esista, quella di chi dirige. Quella di cui è sempre stata negata l’esistenza fino agli anni 70. La borghesia mafiosa palermitana utilizzava gruppi per imporre un regno di terrore, ma al riparo da ogni sguardo. La Mafia era una leggenda. Tutto cambia con Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due leggendari padrini di Corleone, che mettono a segno una strage dopo l’altra. La Mafia diviene un fatto mediatico. Il cinema se ne impadronisce. E il Principe si adatta. La Mafia… sono loro. Il Principe finisce per liquidarli. In galera. Cosa Nostra è finita. Basta crederci!

Il Principe è una classe dirigente fatta di notabili, imprenditori ed eletti. Un corpo a se' stante che risale al XVI secolo. Nel libro, Scarpinato scrive: “Dapprima sono apparsi i metodi mafiosi, poi la Mafia. Nel 1861, al momento dell’unità d’Italia, il 90% della popolazione era analfabeta; nel 1848, il 60%. Non per colpa sua: essa era stata tenuta nell’ignoranza e non aveva mai potuto conoscere i princìpi di una democrazia. E non sono sufficienti cinquant’anni di Repubblica per modificare il corso delle cose, soprattutto quando il Principe sta nel cuore della vita pubblica".

Il Principe ha tremato nel 1992. Il Muro di Berlino italiano. I due terzi della classe politica decimati dall’inchiesta Mani Pulite, i comunisti risparmiati, i giudici al potere - ed allora il Principe decide di usare i metodi forti. Riina e Provenzano uccidono, massacrano. Falcone e Borsellino vengono assassinati. Per vendetta, si dice.

"Non credo", risponde Roberto Scarpinato. “In quel momento, in cui tutto era destabilizzato, il Principe doveva conservare il potere. Un colpo di Stato non era possibile. Dopo il crollo del sistema politico, era stato progettato un attentato mostruoso alla Stadio Olimpico di Roma. La bomba non ha funzionato. Quella carneficina sarebbe rimasta nella Storia. Per l’onda emotiva si sarebbe portato al potere una nuova generazione scelta dal Principe. Falcone e Borsellino avevano scoperto simili manipolazioni politico-mafiose, che avrebbero portato ad una riorganizzazione dello Stato, ed un progetto comparabile ad una sorta di balcanizzazione dell’Italia. Abbiamo ripreso l’inchiesta, ma mai ci è riuscito di produrre le prove necessarie. Tuttavia il Principe voleva dividere l’Italia in tre, affinché ognuno potesse conservare i propri privilegi. Il Nord agganciato alla locomotiva europea, il Centro tecnocratico, e il Sud una sorta di Singapore italiana con tutte e quattro le Mafie al comando.

"Ovviamente -prosegue il giudice- mi si dirà che la mia immaginazione è fertile, e che la Mafia appartiene al passato. Ma io non cerco che la verità: non per altro sono minacciato di morte e non ho più una vita privata. Lo trova normale"?

Abbiamo parlato per due ore, ma il tempo m’è sembrato scorrere molto più in fretta. Tornato nel frastuono della strada palermitana, osservo le facciate color ocra di via Roma. Il sole è dolce, una coppia si bacia, i primi odori dell’estate… L’Italia.

Eric Valmir
traduzione di Daniele Sensi

Commissione 11/9: "il governo decise di mentire"





Il consulente legale senior della Commissione sull’11/9, John Farmer, sostiene che il governo deliberò di non raccontare la verità sull’11/9, confermando con ciò le affermazioni dei colleghi membri della Commissione d’inchiesta, i quali erano giunti a concludere che il Pentagono si era impegnato in un inganno deliberato in merito alla sua risposta all’attacco.

Farmer ha ricoperto l’incarico di consulente senior della Commissione sull’11/9 (ufficialmente nota come la Commissione nazionale sugli attentati terroristici contro gli Stati Uniti), ed è anche un ex Attorney General del New Jersey.

Il libro di Farmer sulla sua esperienza di lavoro per la Commissione è intitolato The Ground Truth: The Story Behind America’s Defense on 9/11 (La verità sul terreno: il retroscena della Difesa americana dell’11/9, Ndt), ed è in uscita [a partire dal 15 aprile 2009].
Il libro rivela come «il pubblico sia stato seriamente fuorviato su quanto è avvenuto durante la mattina degli attentati,» e lo stesso Farmer dichiara che «a un qualche livello di governo, a un certo punto... c'è stato un accordo inteso a non dire la verità su ciò che è accaduto».

Solo i molto ingenui contesterebbero che un accordo per non dire la verità sia un accordo per mentire. La tesi di Farmer è che il governo ha accettato di creare una versione ufficiale spuria degli eventi, per coprire la vera storia che sta dietro l’11/9.
L'editore del libro, Houghton Mifflin Harcourt, afferma che «Farmer argomenta l’ipotesi necessariamente convincente che la versione ufficiale non solo è quasi del tutto falsa, ma serve a creare una falsa impressione di ordine e sicurezza.»

Nel mese di agosto 2006, il «Washington Post» riferiva: «Alcuni membri dello staff e dei commissari dell’organismo d’inchiesta sull’11 settembre hanno concluso che la versione iniziale del Pentagono su come ha reagito agli gli attacchi terroristici del 2001 potrebbe essere stata parte di un deliberato tentativo di indurre in errore la Commissione e il pubblico, anziché un’espressione della nebulosità degli eventi di quel giorno, secondo fonti coinvolte nella discussione.»

L’articolo ha evidenziato come la commissione, composta da 10 membri, ha fortemente sospettato un inganno al punto che ha considerato di sottoporre la questione al Dipartimento della giustizia per un’inchiesta penale.

«A tutt’oggi non sappiamo il motivo per cui il NORAD [il comando aerospaziale nordamericano] ci ha detto quello che ci ha detto,» ha detto Thomas H. Kean, ex governatore repubblicano nel New Jersey, che ha guidato la Commissione. «È stato così lontano dalla verità… È uno di quei casi in cui non si trova mai il bandolo della matassa».

Lo stesso Farmer è citato nell’articolo del «Washington Post», dove afferma: «mi ha sconvolto il modo in cui la verità era diversa dal modo in cui è stata descritta .... I nastri [della difesa aerea NORAD] raccontavano una storia radicalmente diversa da quella che era stata raccontata a noi e al pubblico per due anni .... Non era una storia manipolata . Era una storia non vera.»

Come abbiamo anche segnalato nell’agosto 2006, le parti pubblicate delle registrazioni NORAD dell’11/9, illustrate in un articolo di «Vanity Fair», facevano ben poco per rispondere ai quesiti degli scettici circa l'impotenza delle difese aeree USA durante l’11/9, e se non altro hanno aumentato l’attenzione sulla incompatibilità della versione ufficiale degli eventi, con quanto si sa realmente accaduto in quel giorno.

A scanso di equivoci, Farmer non sta dicendo che l’11/9 sia stata una trama orchestrata dall'interno, e tuttavia, la testimonianza di Farmer, insieme a quella dei suoi colleghi membri della Commissione sull’11/9, dimostra definitivamente che, qualunque cosa sia realmente accaduta l’11/9, la versione ufficiale, così come è stata raccontata al pubblico quel giorno, e ciò che rimane oggi delle versioni dei fatti fornite dalle autorità, sono una menzogna – stando alle stesse persone che erano incaricate dal governo di indagare. Questo è un dato di fatto che nessun debunker o apologeta governativo può legittimamente negare ancora.

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip

04 maggio 2009

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

ist2_279137_money_mind

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.


Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

by megachip

01 maggio 2009

Radio France: Politica, mafia e l'omertà in tv

borsellino_falcone

Eric Valmir è il corrispondente, per l'Italia, di Radio France, la radio pubblica francese. Di ritorno da un incontro col giudice Roberto Scarpinato -autore, con Lodato Saverio, de "Il ritorno del principe" (Chiare Lettere)- ha pubblicato sul suo blog questo post, che traduco.

La prima frase mi disorienta: “Non parliamo di Berlusconi, d’accordo?”. Mi disorienta perché due ore prima, davanti al teatro Massimo di Palermo, uno degli attori, sul fronte economico, della lotta contro la mafia mi ha posto la stessa condizione. Io non sono lì per parlare di Berlusconi, ma dei meccanismi di Cosa Nostra.

E con un sorriso d’intesa lo dico pure al mio ospite: “Sono venuto per parlare del suo libro, Il ritorno del principe”. E’ vero... l’entourage di Berlusconi è spesso sospettato di collusione con la Mafia, il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, è stato peraltro condannato nel corso della precedente legislatura, ma nessuna prova ha mai implicato formalmente il Presidente del Consiglio.

Roberto Scarpinato è l’ultimo dei giudici di Palermo. L’ultimo della generazione di Falcone e Borsellino, i due magistrati assassinati nel 1992 e nel 1993. Una memoria storica della giustizia palermitana che ha rifiutato di trasferirsi a Milano o a Verona. Vive sotto scorta. E’ stato lui ad istruire il processo contro Giulio Andreotti per complicità mafiosa. Giulio Andreotti, oggi senatore a vita – e sette volte presidente del Consiglio.

La sentenza di primo grado l’aveva assolto per insufficienza di prove, ma la Corte d’Appello, tre anni più tardi, rovesciò il verdetto. Andreotti colpevole. Il delitto di “associazione a delinquere” venne riconosciuto, ma i fatti, nel frattempo, erano caduti in prescrizione.

Il ritorno del principe non è una descrizione dell’inchiesta Andreotti. Per Roberto Scarpinato, che si esprime con voce lieve, Andreotti non è che il prodotto di un sistema pronto ad ogni prova, e protetto, oggi, da una cornice mediatica. Le conclusioni dell’inchiesta Andreotti non sono mai state riportate troppo chiaramente dalla stampa italiana. Il giudice Scarpinato cita nel suo libro un esempio della copertura mediatica televisiva: Porta a Porta, il talk di successo di Bruno Vespa, su Rai Uno.

Quando Andreotti viene assolto, Bruno Vespa gli consacra una trasmissione trionfale.
Quando viene dichiarato colpevole, non una parola.

Quando il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, si becca nove anni di reclusione per collusione con la Mafia, Porta a Porta propone un’edizione speciale sulla sessualità degli anziani. Stessa cosa in occasione della condanna di Bruno Contrada, numero tre dei servizi segreti italiani, vicino agli ambienti mafiosi.

Questi esempi sono citati quasi a titolo d’ironia nel libro. Il resto dell’intervista scompone tutto un meccanismo che prende avvio da un sistema di tipo feudale. Una minoranza di potenti che mantiene il proprio potere ed i propri interessi ricorrendo ad ogni mezzo. Fino alla violenza e all’omicidio politico.

La Mafia non è un’organizzazione criminale, è una cultura clientelare. La sola che esista, quella di chi dirige. Quella di cui è sempre stata negata l’esistenza fino agli anni 70. La borghesia mafiosa palermitana utilizzava gruppi per imporre un regno di terrore, ma al riparo da ogni sguardo. La Mafia era una leggenda. Tutto cambia con Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due leggendari padrini di Corleone, che mettono a segno una strage dopo l’altra. La Mafia diviene un fatto mediatico. Il cinema se ne impadronisce. E il Principe si adatta. La Mafia… sono loro. Il Principe finisce per liquidarli. In galera. Cosa Nostra è finita. Basta crederci!

Il Principe è una classe dirigente fatta di notabili, imprenditori ed eletti. Un corpo a se' stante che risale al XVI secolo. Nel libro, Scarpinato scrive: “Dapprima sono apparsi i metodi mafiosi, poi la Mafia. Nel 1861, al momento dell’unità d’Italia, il 90% della popolazione era analfabeta; nel 1848, il 60%. Non per colpa sua: essa era stata tenuta nell’ignoranza e non aveva mai potuto conoscere i princìpi di una democrazia. E non sono sufficienti cinquant’anni di Repubblica per modificare il corso delle cose, soprattutto quando il Principe sta nel cuore della vita pubblica".

Il Principe ha tremato nel 1992. Il Muro di Berlino italiano. I due terzi della classe politica decimati dall’inchiesta Mani Pulite, i comunisti risparmiati, i giudici al potere - ed allora il Principe decide di usare i metodi forti. Riina e Provenzano uccidono, massacrano. Falcone e Borsellino vengono assassinati. Per vendetta, si dice.

"Non credo", risponde Roberto Scarpinato. “In quel momento, in cui tutto era destabilizzato, il Principe doveva conservare il potere. Un colpo di Stato non era possibile. Dopo il crollo del sistema politico, era stato progettato un attentato mostruoso alla Stadio Olimpico di Roma. La bomba non ha funzionato. Quella carneficina sarebbe rimasta nella Storia. Per l’onda emotiva si sarebbe portato al potere una nuova generazione scelta dal Principe. Falcone e Borsellino avevano scoperto simili manipolazioni politico-mafiose, che avrebbero portato ad una riorganizzazione dello Stato, ed un progetto comparabile ad una sorta di balcanizzazione dell’Italia. Abbiamo ripreso l’inchiesta, ma mai ci è riuscito di produrre le prove necessarie. Tuttavia il Principe voleva dividere l’Italia in tre, affinché ognuno potesse conservare i propri privilegi. Il Nord agganciato alla locomotiva europea, il Centro tecnocratico, e il Sud una sorta di Singapore italiana con tutte e quattro le Mafie al comando.

"Ovviamente -prosegue il giudice- mi si dirà che la mia immaginazione è fertile, e che la Mafia appartiene al passato. Ma io non cerco che la verità: non per altro sono minacciato di morte e non ho più una vita privata. Lo trova normale"?

Abbiamo parlato per due ore, ma il tempo m’è sembrato scorrere molto più in fretta. Tornato nel frastuono della strada palermitana, osservo le facciate color ocra di via Roma. Il sole è dolce, una coppia si bacia, i primi odori dell’estate… L’Italia.

Eric Valmir
traduzione di Daniele Sensi

Commissione 11/9: "il governo decise di mentire"





Il consulente legale senior della Commissione sull’11/9, John Farmer, sostiene che il governo deliberò di non raccontare la verità sull’11/9, confermando con ciò le affermazioni dei colleghi membri della Commissione d’inchiesta, i quali erano giunti a concludere che il Pentagono si era impegnato in un inganno deliberato in merito alla sua risposta all’attacco.

Farmer ha ricoperto l’incarico di consulente senior della Commissione sull’11/9 (ufficialmente nota come la Commissione nazionale sugli attentati terroristici contro gli Stati Uniti), ed è anche un ex Attorney General del New Jersey.

Il libro di Farmer sulla sua esperienza di lavoro per la Commissione è intitolato The Ground Truth: The Story Behind America’s Defense on 9/11 (La verità sul terreno: il retroscena della Difesa americana dell’11/9, Ndt), ed è in uscita [a partire dal 15 aprile 2009].
Il libro rivela come «il pubblico sia stato seriamente fuorviato su quanto è avvenuto durante la mattina degli attentati,» e lo stesso Farmer dichiara che «a un qualche livello di governo, a un certo punto... c'è stato un accordo inteso a non dire la verità su ciò che è accaduto».

Solo i molto ingenui contesterebbero che un accordo per non dire la verità sia un accordo per mentire. La tesi di Farmer è che il governo ha accettato di creare una versione ufficiale spuria degli eventi, per coprire la vera storia che sta dietro l’11/9.
L'editore del libro, Houghton Mifflin Harcourt, afferma che «Farmer argomenta l’ipotesi necessariamente convincente che la versione ufficiale non solo è quasi del tutto falsa, ma serve a creare una falsa impressione di ordine e sicurezza.»

Nel mese di agosto 2006, il «Washington Post» riferiva: «Alcuni membri dello staff e dei commissari dell’organismo d’inchiesta sull’11 settembre hanno concluso che la versione iniziale del Pentagono su come ha reagito agli gli attacchi terroristici del 2001 potrebbe essere stata parte di un deliberato tentativo di indurre in errore la Commissione e il pubblico, anziché un’espressione della nebulosità degli eventi di quel giorno, secondo fonti coinvolte nella discussione.»

L’articolo ha evidenziato come la commissione, composta da 10 membri, ha fortemente sospettato un inganno al punto che ha considerato di sottoporre la questione al Dipartimento della giustizia per un’inchiesta penale.

«A tutt’oggi non sappiamo il motivo per cui il NORAD [il comando aerospaziale nordamericano] ci ha detto quello che ci ha detto,» ha detto Thomas H. Kean, ex governatore repubblicano nel New Jersey, che ha guidato la Commissione. «È stato così lontano dalla verità… È uno di quei casi in cui non si trova mai il bandolo della matassa».

Lo stesso Farmer è citato nell’articolo del «Washington Post», dove afferma: «mi ha sconvolto il modo in cui la verità era diversa dal modo in cui è stata descritta .... I nastri [della difesa aerea NORAD] raccontavano una storia radicalmente diversa da quella che era stata raccontata a noi e al pubblico per due anni .... Non era una storia manipolata . Era una storia non vera.»

Come abbiamo anche segnalato nell’agosto 2006, le parti pubblicate delle registrazioni NORAD dell’11/9, illustrate in un articolo di «Vanity Fair», facevano ben poco per rispondere ai quesiti degli scettici circa l'impotenza delle difese aeree USA durante l’11/9, e se non altro hanno aumentato l’attenzione sulla incompatibilità della versione ufficiale degli eventi, con quanto si sa realmente accaduto in quel giorno.

A scanso di equivoci, Farmer non sta dicendo che l’11/9 sia stata una trama orchestrata dall'interno, e tuttavia, la testimonianza di Farmer, insieme a quella dei suoi colleghi membri della Commissione sull’11/9, dimostra definitivamente che, qualunque cosa sia realmente accaduta l’11/9, la versione ufficiale, così come è stata raccontata al pubblico quel giorno, e ciò che rimane oggi delle versioni dei fatti fornite dalle autorità, sono una menzogna – stando alle stesse persone che erano incaricate dal governo di indagare. Questo è un dato di fatto che nessun debunker o apologeta governativo può legittimamente negare ancora.

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip