03 giugno 2009

Perchè la fame deve essere così incalzante nel XXI secolo?



Mentre i paesi ricchi si preoccupano delle conseguenze della crisi finanziaria, la fame continua indisturbata a mietere vittime nei paesi poveri. Gli obiettivi di sviluppo del millennio programmati dall'ONU dovevano sconfiggerla, ma in realtà, la carestia progredisce.

Le cause di questo dramma vanno cercate nelle politiche pubbliche ispirate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale, nella speculazione e, ovviamente, nel fenomeno del debito, fanno notare Damien Millet e Éric Toussaint del CADTM (Comité pour l’Annulation de la Dette du Tiers Monde).


Come giustificare che ci si debba ancora confrontare con la problematica della fame nel 21esimo secolo? Al mondo, un abitante su sette soffre costantemente di fame.

Le cause sono conosciute: la profonda ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e il possesso delle terre coltivabili da parte di una piccola minoranza di grandi proprietari. Secondo la FAO[1], 963 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2008. Paradossalmente, queste persone, dal punto di vista strutturale, appartengono alla popolazione rurale. Sono per la maggior parte contadini che non posseggono la terra che lavorano, o non ne hanno abbastanza, o ancora non hanno accesso ai mezzi necessari per valorizzarla.

Quali le ragioni della crisi alimentare del 2007-2008?

Va sottolineato il fatto che durante il biennio 2007-2008 il numero delle persone che soffrono la fame è aumentato di 140 milioni. Questo netto aumento è dovuto all'impennata improvvisa dei prezzi dei prodotti alimentari[2]. In molti paesi, questo aumento nei prezzi al dettaglio degli alimenti si aggira intorno al 50%, a volte più.

A cosa è dovuto un tale aumento? Per rispondere a questa domanda, è necessario comprendere cosa sia successo durante gli ultimi tre anni e, in seguito, pensare e attuare politiche alternative adeguate.

Da una parte, i governi del nord del mondo hanno aumentato i loro aiuti e le loro sovvenzioni per gli agro-carburanti (chiamati a torto “biocarburanti”, quando non hanno assolutamente niente di biologico). All'improvviso, è diventato redditizio sostituire le colture alimentari con delle colture foraggiere e oleaginose, o convertire una parte della produzione di grano (mais, frumento...) in produzione di agro-carburanti.

D'altro canto, dopo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (poi nel resto del mondo, di riflesso), la speculazione dei grandi investitori si è spostata verso i mercati della borsa in cui si negoziano i contratti delle derrate alimentari (principalmente tre borse statunitensi specializzate nella contrattazione a termine del grano: Chicago, Kansas City e Minneapolis). Ecco perché è così urgente che i cittadini agiscano in via legale per vietare la speculazione sugli alimenti...Anche se la speculazione al rialzo è finita verso la metà del 2008, e i prezzi sui mercati a termine siano di conseguenza scesi clamorosamente, i prezzi al dettaglio non hanno subito gli stessi andamenti. La schiacciante maggioranza della popolazione mondiale dispone di redditi molto bassi e subisce ancora oggi le conseguenze drammatiche dell'aumento del prezzo degli alimenti del biennio 2007-2008. Su scala mondiale si preannunciano, per il biennio 2008-2009, decine di milioni di licenziamenti, il che non fa che aggravare la situazione. Per contrastare tutto ciò, bisogna che le autorità pubbliche esercitino un controllo sui prezzi degli alimenti.

Attualmente, il cambiamento climatico non è la causa dell'aumento della fame nel mondo, ma questo fattore avrà certamente un ruolo chiave, in futuro, nella produzione agricola in certe parti del mondo. Se le zone temperate non subiranno troppo le conseguenze negative, le zone tropicali e subtropicali invece saranno particolarmente danneggiate.

È possibile sradicare la fame?

Estirpare la fame è assolutamente possibile. Le soluzioni fondamentali per raggiungere questo obiettivo vitale passano per una politica di sovranità alimentare e una riforma agraria. Il che implicherebbe nutrire la popolazione con le produzioni locali, limitando al massimo importazioni ed esportazioni.

La sovranità alimentare dovrebbe essere un punto chiave nelle decisioni politiche dei governi. Ci si dovrebbe basare su attività agricole a gestione familiare che producano alimenti detti bio (o organici). Questo inoltre, ci permetterebbe di accedere ad una alimentazione di qualità, priva di OGM, pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici. Per raggiungere un tale obiettivo, più di 3 miliardi di contadini dovrebbero avere accesso a una quantità di terra sufficiente al loro sostentamento e ai mezzi per coltivarla senza impoverirla e senza arricchire i grandi proprietari, le multinazionali dell'agrobusiness e i commercianti, e questo può avvenire solo tramite l'intervento delle istituzioni pubbliche.

Per fare ciò, serve una riforma agraria. Riforma di cui necessitano imperativamente Brasile, Bolivia, Paraguay, Perù, o certi paesi dell'Asia e dell'Africa: dovrebbe essere organizzata la ridistribuzione delle terre, dovrebbe essere fornito un sostegno pubblico al lavoro degli agricoltori e vietati i grandi proprietari terrieri privati.

È importante precisare che sia Banca Mondiale che FMI hanno responsabilità enormi nella crisi alimentare, poiché sono stati loro a consigliare ai governi del sud del mondo di rinunciare, in caso di insufficienza dell'offerta e/o di esplosione dei prezzi, ai silos di grano che servivano al sostentamento del mercato nazionale. Sempre Banca Mondiale e FMI hanno spinto i governi del Sud a sopprimere i finanziatori pubblici di credito agli agricoltori, gettando i contadini nelle grinfie di creditori privati (spesso grandi commercianti) o di banche private che praticano tassi usurari. Questo ha provocato un indebitamento di massa dei piccoli contadini in India, Nicaragua, Messico, Egitto e di numerosi paesi dell'Africa Sub-sahariana. Secondo le indagini ufficiali, l'indebitamento dei contadini che affligge i paesi dell'area indiana è la principale causa di suicidio di 150 000 contadini nel corso degli ultimi 10 anni. L'India è un paese in cui la Banca Mondiale ha promosso con successo presso le autorità locali una politica di soppressione delle agenzie di credito pubblico agli agricoltori.

E questo non è tutto: nel corso degli ultimi 40 anni, Banca Mondiale e FMI hanno spinto i peasi tropicali a ridurre la produzione di grano, riso o mais, sostituendola con colture da esportazione, quali cacao, caffé, thé, banane, arachidi o fiori. Infine, per perfezionare il loro servizio nei confronti delle grandi società dell'agrobusiness e dei grandi paesi esportatori di cereali (a cominciare da Stati Uniti, Canada e Europa Occidentale), hanno convinto i governi della positività dell'apertura incondizionata delle frontiere all'importazione di alimenti prodotti tramite sovvenzioni massiccie da parte dei governi del Nord, provocando così un inevitabile fallimento di numerosi produttori del Sud e una drastica riduzione della produzione alimentare locale.

Riassumendo, è davvero necessario applicare la sovranità alimentare e la riforma agraria. Serve abbandonare la produzione degli agrocarburanti industriali e tagliare le sovvenzioni pubbliche a coloro che li producono. Bisogna inoltre ricreare al Sud delle riserve pubbliche di alimenti (in particolare di grano: riso, frumento, mais...), degli organismi di credito pubblico agli agricoltori e ristabilire una regolamentazione dei prezzi degli alimenti. Serve garantire che anche i redditi più bassi possano permettersi alimenti di qualità a prezzi accessibili. Lo Stato deve garantire ai piccoli produttori agricoli dei prezzi di vendita sufficientemente elevati da consentire loro un miglioramento delle condizioni di vita. Lo Stato deve ugualmente sviluppare i servizi pubblici nelle zone rurali (sanità, educazione, comunicazioni, cultura, "banche" delle sementi...). Le istituzioni pubbliche sono tenute a garantire sia prezzi al dettaglio accessibili ai consumatori, che prezzi di vendita sufficientemente alti per il sostentamento dei piccoli produttori agricoli.

Questa lotta contro la fame non è solo un tassello di un mosaico molto più ampio?

Non si può intraprendere una seria lotta contro la fame senza ricollegarsi alle cause che forgiano la situazione attuale. Il debito internazionale dei paesi del Sud è sicuramente una fra queste e tutti gli effetti d'annuncio su questo tema frequenti negli ultimi anni, come i summit G8 o G20, hanno maldestramente cercato di celare quanto questo problema giaccia intoccato.

La crisi globale che sta interessando il mondo intero aggrava la situazione dei paesi in via di sviluppo e li mette di fronte ai costi e alle nuove crisi del debito. Ora, questo debito ha portato i popoli del Sud, spesso ricchi in termini di risorse umane e materie prime, a un impoverimento generale. Il debito è un saccheggio organizzato al quale è urgente mettere fine.

In effetti, il meccanismo infernale del debito pubblico è un ostacolo insormontabile alla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, tra i quali un'alimentazione decente. Sicuramente, il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo dovrebbe primeggiare su tutte le considerazoni di merito geopolitico o finanziario. Sul piano morale, i diritti di creditori, redditieri o speculatori non hanno alcun peso se confrontati ai diritti fondamentali di 6 miliardi di cittadini, afflitti da questo meccanismo implacabile rappresentato dal debito.

È immorale chiedere a paesi impoveriti da una crisi globale di cui non sono per nulla responsabili di consacrare una buona parte delle loro risorse al rimborso di creditori agiati (che siano del Nord o del Sud, poco cambia) piuttosto che al soddisfacimento di questi bisogni fondamentali. L'immoralità del debito deriva ugualmente dal fatto che, in molti casi, questo è stato contratto da regimi autoritari che non hanno utilizzato le somme prese in prestito nell'interesse dei loro popoli, ma che hanno invece organizzato imponenti traffici di denaro, con il tacito accordo, o peggio la collaborazione, degli stati del Nord, della Banca Mondiale e del FMI. I creditori dei paesi industrializzati hanno effettuato i prestiti a regimi corrotti con piena cognizione di causa e ora non hanno affatto il diritto di esigere dai popoli il rimborso di un debito talmente immorale e illegittimo.

In sostanza, il debito è un nuovo meccanismo attraverso il quale si è può attuare una nuova forma di colonizzazione (sempre a scapito dei popoli) e va semplicemente ad aggiungersi ad altri traguardi storici, raggiunti sempre dai paesi più ricchi, quali la schiavitù, lo sterminio dei popoli indigeni, il giogo coloniale, l'irreversibile alterazione della biodiversità, il saccheggio delle materie prime (a partire dalle capacità professionali specifiche sottratte ai contadini e dal subdolo sistema di brevetti che ha visto l'appropriazione di un prodotto agricolo del Sud quale il riso basmati indiano a favore delle multinazionali dell'agro-business del Nord) e dei beni culturali, la fuga dei cervelli, etc... È decisamente venuta l'ora di sostituire la logica di dominazione delle ricchezze con una logica di ridistribuzione delle ricchezze, unica via verso la giustizia.

Il G8, il FMI, la Banca Mondiale e il Club di Parigi impongono la loro verità, la loro giustizia, e si autoproclamano giudice e parte in causa. Di fronte alla crisi, il G20 ha dato il cambio e ha cercato di rimettere il FMI, ormai discreditato e delegittimato, al centro del gioco politico ed economico. È venuta ora di mettere fine a questo sistema ingiusto, di profitto per i soli oppressori, siano essi del Nord o del Sud.

NOTE

[1] Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura

[2] « Retour sur les causes de la crise alimentaire mondiale », di Damien Millet e Éric Toussaint, Réseau Voltaire, 7 settembre 2008.

Éric Toussaint è il presidente del CADTM Belgio (Comitato per l'Annullazione del Debito del Terzo Mondo). Ultimo libro pubblicato: "Banque du Sud et nouvelle crise internationale", CADTM/Syllepse, 2008.

Damien Millet è segretario generale del CADTM Francia (Comitato per l'Annullazione del Debito del Terzo Mondo). Ultimo libro pubblicato: "Dette odieuse" (con Frédédric Chauvreau), CADTM/Syllepse, 2006.

02 giugno 2009

Destra e sinistra unite dai portaborse

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Ricordate lo scontro tra la destra e la sinistra durante l`ultima campagna elettorale in Sardegna? Pareva la battaglia all`ultimo sangue tra Orazi e Curiazi. Bene, pochi mesi dopo i protagonisti di quella sanguinosissima disfida hanno trovato un punto su cui andare d`amore e d`accordo: la sistemazione dei portaborse. Sempre la solita storia, già denunciata al Sud in Calabria, in Sicilia e in Campania ma anche al Nord in Friuli Venezia Giulia e in Veneto, dove l`unico a mettersi di traverso («è una vergogna!») fu il governatore Giancarlo Galan. La legge è chiara: nei posti pubblici si accede per concorsi pubblici. E proprio perché le norme sono state troppo spesso violate (perfino al Quirinale dove Napolitano ha preso l`impegno di ripristinare le gare dopo un`eternità, dato che l`ultimo concorso risale al 1963, l`anno in cui tutti i bambini del mondo battevano le mani a Semola, il bambino de «La spada nella roccia») sarebbe indispensabile rispettarle oggi. Tanto più dopo che Renato Brunetta ha scatenato la sua offensiva per rimuovere alcune incrostazioni del pubblico impiego. Macché, in Sardegna si è rimesso in moto il solito meccanismo: l`elettore che ti ha votato, l`amico, il parente o il militante di partito vengono «provvisoriamente» assunti senza concorso: tanto, si tratta solo di un «contrattino» di pochi mesi... Un contrattino dovuto al rapporto di fiducia che deve esistere tra chi viene eletto come consigliere e i suoi principali collaboratori. Fiducia indispensabile: un comunista non accetterebbe mai di vedersi assegnare un collaboratore di destra, un post-fascista non accetterebbe mai di vedersi assegnare un collaboratore sinistrorso. Giusto così, sulla carta, tanto è vero che, ad esempio, Camera e Senato danno oltre quattromila curo al mese a ogni parlamentare perché possa prendere «provvisoriamente», finché resta in carica, un paio di persone di fiducia. La regola è: chiuso il mandato parlamentare, chiuso il rapporto di lavoro del portaborse. Ovvio. Un emendamento presentato dalla sinistra oggi all`opposizione ma subito accolto dalla destra, che gode di una maggioranza schiacciante dopo la vittoria in febbraio di Ugo Cappellacci contro Renato Sorti, ha invece consentito a Cagliari la nuova «aggiustatina» del principio. Nella legge finanziaria 2009 appena pubblicata dal bollettino ufficiale della regione Sardegna, al comma 55 dell`articolo uno c`è scritto che l`Amministrazione regionale «subentra» ai Gruppi consiliari «nei rapporti giuridici ed economici con il personale». Il tutto con una serie di dettagli di contorno di estremo favore. Quanti saranno a beneficiarne? Risposta ufficiale: poco più di una ventina. Ma la vaghezza sulle date lascia capire che le maglie potrebbero essere molto, molto, molto più larghe... «Una porcheria. Io ho in tasca la tessera di An ma non accetto che la destra, proprio oggi che conduce una battaglia sul pubblico impiego per certi aspetti giusta ma anche venata spesso di qualunquismo, usi la legge finanziaria per assumere con un contratto definitivo persone che non hanno fatto alcun concorso», accusa Luciano Melis, segretario del sindacato autonomo Sadirs. Parole d`oro. Troppo facile sparacchiare proclami demagogici e poi governare con le piccole clientele locali...

di Gian Antonio Stella

01 giugno 2009

Oltre la crisi deve esserci la sostenibilità?

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Quando abbiamo parlato di “nuovo paradigma economico” riferendoci a quanto sta praticando Obama negli Usa, sottolineavamo che di fronte alla crisi ecologica forse era “quasi niente”. Ma che nel confronto con quanto sta accadendo nel mondo era “quasi tutto”. Quasi niente perché – pur potentissima e capace di svolgere un´egemonia a livello planetario– è comunque una federazione di Stati che agisce sul proprio territorio. Che non significa una governance mondiale per affrontare la crisi, quindi, anche se è pur sempre un’azione di governo che sembra avere come criterio direttore la sostenibilità ambientale e sociale. Per questo è anche “quasi tutto”.


Lo si capisce bene leggendo quanto dichiarato dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia (Sole 24 Ore di oggi) che pensando al dopo crisi, punta forte (ed è comunque positivo) sull’economia verde, ma come “driver futuro della crescita”. Un driver, dunque, buono ora per crescere e che un domani potrà essere abbandonato per un altro driver. Siamo invece certi che Obama non abbia - anche lui nei suoi punti di riferimento - la crescita? Assolutamente no, anzi, ma nelle sue azioni - oltre che nei suoi discorsi - la barra l’ha sempre tenuta sulla necessità di affrontare le sfide ambientali, in primis il cambiamento climatico e l’energia, non dopo aver affrontato la crisi, bensì per uscire dalla crisi e per costruire un futuro sostenibile no oil. Questo non significa appunto frenare la crescita ma indirizzarla verso un modello nuovo.


La differenza salta all’occhio. Se il paragone tra Italia e Usa però avesse stancato, quale sia il pensiero dominante in Confindustria e, diciamo noi, anche nel governo italiano lo esprime ancora una volta chiaramente Alberto Alesina nel suo editoriale odierno sulla crisi. Dopo un’accurata ricostruzione di quello che è stato il new deal americano, che non commentiamo e prendiamo per buona, sono le conclusioni che lasciano perplessi e che spiegano dove sta, dal nostro punto di vista, l’inghippo.


Scrive Alesina: «La lezione da trarre da questa crisi è quella che ha tratteggiato Guido Tabellini sul Sole del 7 maggio. Ovvero, il capitalismo dopo questo shock non cambierà. Riscriveremo alcune regole per mercati finanziari. Cercheremo di migliorare la supervisione e gli incentivi per i manager della finanza, oltre a cambiarne parecchi. Ma il capitalismo anglosassone, fondato sul mercato, continuerà ad essere quello che produce più crescita. Teniamocelo».


Due interrogativi: il primo, chi sta proponendo nel dibattito in corso un modello diverso da quello capitalistico fondato sul mercato? Il secondo, se tutto va bene o quasi, di cosa stiamo parlando?


Da ambientalisti che studiano l’economia convinti che solo da qui si possa combattere la battaglia della sostenibilità, ci pare evidente che l’analisi di una parte degli economisti – Alesina in testa – semplicemente fa i conti senza l’oste. L’oste è la crisi ecologica, che Alesina evidentemente non ritiene di interesse e da affrontare se non magari quando sarà risolta la crisi economica. A differenza di Stiglitz, per dirne uno. O di Stern, per dirne un altro.


E’ chiaro che se la si omette e si pensa che le risorse del pianeta – vedi altro pezzo di greenreport di oggi sui flussi di materia – siano infinite, l’unico orizzonte è quello di rimettere il treno sul vecchio binario e al massimo registrare qualche dado della ferrovia e del motore. A cantarla ad Alesina, però, stavolta non siamo solo noi ‘sporchi’ ambientalisti, ma Marzio Galeotti (de la voce.info e già intervistato più volte anche da greenreport) che proprio sul Sole di oggi lo incalza.


Lo spunto è l’intervento di Alesina del 28 aprile, dove sosteneva che «se uscire dalla crisi nel 2010 significa inquinare ancora per un anno ai ritmi attuali, facciamolo pure. Poi con calma, usciti dal panico per la crisi e dal rischio di una lunga depressione, ci dedicheremo con rinnovato vigore a proteggere l’ambiente».


Galeotti dissente da questa analisi e spiega che: «Se stiamo alla stretta tempistica vale la pena ricordare che il pacchetto europeo energia-clima e la strategia energetica-climatica contenuta nel programma elettorale di Barack Obama precedono lo scoppio della crisi economica e finanziaria». Nella sostanza la questione è chiara: la crisi ecologica era già scoppiata prima di quella economico-finanziaria.


Per uscire dalla triplice crisi, dunque, si devono affrontare tutti insieme i tre corni e la strada per noi più opportuna è quella di un nuovo modello economico basato sulla sostenibilità ambientale e sociale. Per altri la crisi ecologica si affronterà casomai dopo aver affrontato quella economico-finanziaria. Per altri ancora la crisi ecologica non esiste.


In campo dunque tre posizioni (prima la nostra neppure c’era e quindi c’è di che essere ottimisti). Con Obama però che nel frattempo si è portato un pezzo avanti verso la sostenibilità (pur con tutti i logici compromessi e le contraddizioni del caso), mentre gli altri arrancano, o lo inseguono in ordine sparso o, i più, discutono…

03 giugno 2009

Perchè la fame deve essere così incalzante nel XXI secolo?



Mentre i paesi ricchi si preoccupano delle conseguenze della crisi finanziaria, la fame continua indisturbata a mietere vittime nei paesi poveri. Gli obiettivi di sviluppo del millennio programmati dall'ONU dovevano sconfiggerla, ma in realtà, la carestia progredisce.

Le cause di questo dramma vanno cercate nelle politiche pubbliche ispirate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale, nella speculazione e, ovviamente, nel fenomeno del debito, fanno notare Damien Millet e Éric Toussaint del CADTM (Comité pour l’Annulation de la Dette du Tiers Monde).


Come giustificare che ci si debba ancora confrontare con la problematica della fame nel 21esimo secolo? Al mondo, un abitante su sette soffre costantemente di fame.

Le cause sono conosciute: la profonda ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e il possesso delle terre coltivabili da parte di una piccola minoranza di grandi proprietari. Secondo la FAO[1], 963 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2008. Paradossalmente, queste persone, dal punto di vista strutturale, appartengono alla popolazione rurale. Sono per la maggior parte contadini che non posseggono la terra che lavorano, o non ne hanno abbastanza, o ancora non hanno accesso ai mezzi necessari per valorizzarla.

Quali le ragioni della crisi alimentare del 2007-2008?

Va sottolineato il fatto che durante il biennio 2007-2008 il numero delle persone che soffrono la fame è aumentato di 140 milioni. Questo netto aumento è dovuto all'impennata improvvisa dei prezzi dei prodotti alimentari[2]. In molti paesi, questo aumento nei prezzi al dettaglio degli alimenti si aggira intorno al 50%, a volte più.

A cosa è dovuto un tale aumento? Per rispondere a questa domanda, è necessario comprendere cosa sia successo durante gli ultimi tre anni e, in seguito, pensare e attuare politiche alternative adeguate.

Da una parte, i governi del nord del mondo hanno aumentato i loro aiuti e le loro sovvenzioni per gli agro-carburanti (chiamati a torto “biocarburanti”, quando non hanno assolutamente niente di biologico). All'improvviso, è diventato redditizio sostituire le colture alimentari con delle colture foraggiere e oleaginose, o convertire una parte della produzione di grano (mais, frumento...) in produzione di agro-carburanti.

D'altro canto, dopo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (poi nel resto del mondo, di riflesso), la speculazione dei grandi investitori si è spostata verso i mercati della borsa in cui si negoziano i contratti delle derrate alimentari (principalmente tre borse statunitensi specializzate nella contrattazione a termine del grano: Chicago, Kansas City e Minneapolis). Ecco perché è così urgente che i cittadini agiscano in via legale per vietare la speculazione sugli alimenti...Anche se la speculazione al rialzo è finita verso la metà del 2008, e i prezzi sui mercati a termine siano di conseguenza scesi clamorosamente, i prezzi al dettaglio non hanno subito gli stessi andamenti. La schiacciante maggioranza della popolazione mondiale dispone di redditi molto bassi e subisce ancora oggi le conseguenze drammatiche dell'aumento del prezzo degli alimenti del biennio 2007-2008. Su scala mondiale si preannunciano, per il biennio 2008-2009, decine di milioni di licenziamenti, il che non fa che aggravare la situazione. Per contrastare tutto ciò, bisogna che le autorità pubbliche esercitino un controllo sui prezzi degli alimenti.

Attualmente, il cambiamento climatico non è la causa dell'aumento della fame nel mondo, ma questo fattore avrà certamente un ruolo chiave, in futuro, nella produzione agricola in certe parti del mondo. Se le zone temperate non subiranno troppo le conseguenze negative, le zone tropicali e subtropicali invece saranno particolarmente danneggiate.

È possibile sradicare la fame?

Estirpare la fame è assolutamente possibile. Le soluzioni fondamentali per raggiungere questo obiettivo vitale passano per una politica di sovranità alimentare e una riforma agraria. Il che implicherebbe nutrire la popolazione con le produzioni locali, limitando al massimo importazioni ed esportazioni.

La sovranità alimentare dovrebbe essere un punto chiave nelle decisioni politiche dei governi. Ci si dovrebbe basare su attività agricole a gestione familiare che producano alimenti detti bio (o organici). Questo inoltre, ci permetterebbe di accedere ad una alimentazione di qualità, priva di OGM, pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici. Per raggiungere un tale obiettivo, più di 3 miliardi di contadini dovrebbero avere accesso a una quantità di terra sufficiente al loro sostentamento e ai mezzi per coltivarla senza impoverirla e senza arricchire i grandi proprietari, le multinazionali dell'agrobusiness e i commercianti, e questo può avvenire solo tramite l'intervento delle istituzioni pubbliche.

Per fare ciò, serve una riforma agraria. Riforma di cui necessitano imperativamente Brasile, Bolivia, Paraguay, Perù, o certi paesi dell'Asia e dell'Africa: dovrebbe essere organizzata la ridistribuzione delle terre, dovrebbe essere fornito un sostegno pubblico al lavoro degli agricoltori e vietati i grandi proprietari terrieri privati.

È importante precisare che sia Banca Mondiale che FMI hanno responsabilità enormi nella crisi alimentare, poiché sono stati loro a consigliare ai governi del sud del mondo di rinunciare, in caso di insufficienza dell'offerta e/o di esplosione dei prezzi, ai silos di grano che servivano al sostentamento del mercato nazionale. Sempre Banca Mondiale e FMI hanno spinto i governi del Sud a sopprimere i finanziatori pubblici di credito agli agricoltori, gettando i contadini nelle grinfie di creditori privati (spesso grandi commercianti) o di banche private che praticano tassi usurari. Questo ha provocato un indebitamento di massa dei piccoli contadini in India, Nicaragua, Messico, Egitto e di numerosi paesi dell'Africa Sub-sahariana. Secondo le indagini ufficiali, l'indebitamento dei contadini che affligge i paesi dell'area indiana è la principale causa di suicidio di 150 000 contadini nel corso degli ultimi 10 anni. L'India è un paese in cui la Banca Mondiale ha promosso con successo presso le autorità locali una politica di soppressione delle agenzie di credito pubblico agli agricoltori.

E questo non è tutto: nel corso degli ultimi 40 anni, Banca Mondiale e FMI hanno spinto i peasi tropicali a ridurre la produzione di grano, riso o mais, sostituendola con colture da esportazione, quali cacao, caffé, thé, banane, arachidi o fiori. Infine, per perfezionare il loro servizio nei confronti delle grandi società dell'agrobusiness e dei grandi paesi esportatori di cereali (a cominciare da Stati Uniti, Canada e Europa Occidentale), hanno convinto i governi della positività dell'apertura incondizionata delle frontiere all'importazione di alimenti prodotti tramite sovvenzioni massiccie da parte dei governi del Nord, provocando così un inevitabile fallimento di numerosi produttori del Sud e una drastica riduzione della produzione alimentare locale.

Riassumendo, è davvero necessario applicare la sovranità alimentare e la riforma agraria. Serve abbandonare la produzione degli agrocarburanti industriali e tagliare le sovvenzioni pubbliche a coloro che li producono. Bisogna inoltre ricreare al Sud delle riserve pubbliche di alimenti (in particolare di grano: riso, frumento, mais...), degli organismi di credito pubblico agli agricoltori e ristabilire una regolamentazione dei prezzi degli alimenti. Serve garantire che anche i redditi più bassi possano permettersi alimenti di qualità a prezzi accessibili. Lo Stato deve garantire ai piccoli produttori agricoli dei prezzi di vendita sufficientemente elevati da consentire loro un miglioramento delle condizioni di vita. Lo Stato deve ugualmente sviluppare i servizi pubblici nelle zone rurali (sanità, educazione, comunicazioni, cultura, "banche" delle sementi...). Le istituzioni pubbliche sono tenute a garantire sia prezzi al dettaglio accessibili ai consumatori, che prezzi di vendita sufficientemente alti per il sostentamento dei piccoli produttori agricoli.

Questa lotta contro la fame non è solo un tassello di un mosaico molto più ampio?

Non si può intraprendere una seria lotta contro la fame senza ricollegarsi alle cause che forgiano la situazione attuale. Il debito internazionale dei paesi del Sud è sicuramente una fra queste e tutti gli effetti d'annuncio su questo tema frequenti negli ultimi anni, come i summit G8 o G20, hanno maldestramente cercato di celare quanto questo problema giaccia intoccato.

La crisi globale che sta interessando il mondo intero aggrava la situazione dei paesi in via di sviluppo e li mette di fronte ai costi e alle nuove crisi del debito. Ora, questo debito ha portato i popoli del Sud, spesso ricchi in termini di risorse umane e materie prime, a un impoverimento generale. Il debito è un saccheggio organizzato al quale è urgente mettere fine.

In effetti, il meccanismo infernale del debito pubblico è un ostacolo insormontabile alla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali, tra i quali un'alimentazione decente. Sicuramente, il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo dovrebbe primeggiare su tutte le considerazoni di merito geopolitico o finanziario. Sul piano morale, i diritti di creditori, redditieri o speculatori non hanno alcun peso se confrontati ai diritti fondamentali di 6 miliardi di cittadini, afflitti da questo meccanismo implacabile rappresentato dal debito.

È immorale chiedere a paesi impoveriti da una crisi globale di cui non sono per nulla responsabili di consacrare una buona parte delle loro risorse al rimborso di creditori agiati (che siano del Nord o del Sud, poco cambia) piuttosto che al soddisfacimento di questi bisogni fondamentali. L'immoralità del debito deriva ugualmente dal fatto che, in molti casi, questo è stato contratto da regimi autoritari che non hanno utilizzato le somme prese in prestito nell'interesse dei loro popoli, ma che hanno invece organizzato imponenti traffici di denaro, con il tacito accordo, o peggio la collaborazione, degli stati del Nord, della Banca Mondiale e del FMI. I creditori dei paesi industrializzati hanno effettuato i prestiti a regimi corrotti con piena cognizione di causa e ora non hanno affatto il diritto di esigere dai popoli il rimborso di un debito talmente immorale e illegittimo.

In sostanza, il debito è un nuovo meccanismo attraverso il quale si è può attuare una nuova forma di colonizzazione (sempre a scapito dei popoli) e va semplicemente ad aggiungersi ad altri traguardi storici, raggiunti sempre dai paesi più ricchi, quali la schiavitù, lo sterminio dei popoli indigeni, il giogo coloniale, l'irreversibile alterazione della biodiversità, il saccheggio delle materie prime (a partire dalle capacità professionali specifiche sottratte ai contadini e dal subdolo sistema di brevetti che ha visto l'appropriazione di un prodotto agricolo del Sud quale il riso basmati indiano a favore delle multinazionali dell'agro-business del Nord) e dei beni culturali, la fuga dei cervelli, etc... È decisamente venuta l'ora di sostituire la logica di dominazione delle ricchezze con una logica di ridistribuzione delle ricchezze, unica via verso la giustizia.

Il G8, il FMI, la Banca Mondiale e il Club di Parigi impongono la loro verità, la loro giustizia, e si autoproclamano giudice e parte in causa. Di fronte alla crisi, il G20 ha dato il cambio e ha cercato di rimettere il FMI, ormai discreditato e delegittimato, al centro del gioco politico ed economico. È venuta ora di mettere fine a questo sistema ingiusto, di profitto per i soli oppressori, siano essi del Nord o del Sud.

NOTE

[1] Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura

[2] « Retour sur les causes de la crise alimentaire mondiale », di Damien Millet e Éric Toussaint, Réseau Voltaire, 7 settembre 2008.

Éric Toussaint è il presidente del CADTM Belgio (Comitato per l'Annullazione del Debito del Terzo Mondo). Ultimo libro pubblicato: "Banque du Sud et nouvelle crise internationale", CADTM/Syllepse, 2008.

Damien Millet è segretario generale del CADTM Francia (Comitato per l'Annullazione del Debito del Terzo Mondo). Ultimo libro pubblicato: "Dette odieuse" (con Frédédric Chauvreau), CADTM/Syllepse, 2006.

02 giugno 2009

Destra e sinistra unite dai portaborse

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Ricordate lo scontro tra la destra e la sinistra durante l`ultima campagna elettorale in Sardegna? Pareva la battaglia all`ultimo sangue tra Orazi e Curiazi. Bene, pochi mesi dopo i protagonisti di quella sanguinosissima disfida hanno trovato un punto su cui andare d`amore e d`accordo: la sistemazione dei portaborse. Sempre la solita storia, già denunciata al Sud in Calabria, in Sicilia e in Campania ma anche al Nord in Friuli Venezia Giulia e in Veneto, dove l`unico a mettersi di traverso («è una vergogna!») fu il governatore Giancarlo Galan. La legge è chiara: nei posti pubblici si accede per concorsi pubblici. E proprio perché le norme sono state troppo spesso violate (perfino al Quirinale dove Napolitano ha preso l`impegno di ripristinare le gare dopo un`eternità, dato che l`ultimo concorso risale al 1963, l`anno in cui tutti i bambini del mondo battevano le mani a Semola, il bambino de «La spada nella roccia») sarebbe indispensabile rispettarle oggi. Tanto più dopo che Renato Brunetta ha scatenato la sua offensiva per rimuovere alcune incrostazioni del pubblico impiego. Macché, in Sardegna si è rimesso in moto il solito meccanismo: l`elettore che ti ha votato, l`amico, il parente o il militante di partito vengono «provvisoriamente» assunti senza concorso: tanto, si tratta solo di un «contrattino» di pochi mesi... Un contrattino dovuto al rapporto di fiducia che deve esistere tra chi viene eletto come consigliere e i suoi principali collaboratori. Fiducia indispensabile: un comunista non accetterebbe mai di vedersi assegnare un collaboratore di destra, un post-fascista non accetterebbe mai di vedersi assegnare un collaboratore sinistrorso. Giusto così, sulla carta, tanto è vero che, ad esempio, Camera e Senato danno oltre quattromila curo al mese a ogni parlamentare perché possa prendere «provvisoriamente», finché resta in carica, un paio di persone di fiducia. La regola è: chiuso il mandato parlamentare, chiuso il rapporto di lavoro del portaborse. Ovvio. Un emendamento presentato dalla sinistra oggi all`opposizione ma subito accolto dalla destra, che gode di una maggioranza schiacciante dopo la vittoria in febbraio di Ugo Cappellacci contro Renato Sorti, ha invece consentito a Cagliari la nuova «aggiustatina» del principio. Nella legge finanziaria 2009 appena pubblicata dal bollettino ufficiale della regione Sardegna, al comma 55 dell`articolo uno c`è scritto che l`Amministrazione regionale «subentra» ai Gruppi consiliari «nei rapporti giuridici ed economici con il personale». Il tutto con una serie di dettagli di contorno di estremo favore. Quanti saranno a beneficiarne? Risposta ufficiale: poco più di una ventina. Ma la vaghezza sulle date lascia capire che le maglie potrebbero essere molto, molto, molto più larghe... «Una porcheria. Io ho in tasca la tessera di An ma non accetto che la destra, proprio oggi che conduce una battaglia sul pubblico impiego per certi aspetti giusta ma anche venata spesso di qualunquismo, usi la legge finanziaria per assumere con un contratto definitivo persone che non hanno fatto alcun concorso», accusa Luciano Melis, segretario del sindacato autonomo Sadirs. Parole d`oro. Troppo facile sparacchiare proclami demagogici e poi governare con le piccole clientele locali...

di Gian Antonio Stella

01 giugno 2009

Oltre la crisi deve esserci la sostenibilità?

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Quando abbiamo parlato di “nuovo paradigma economico” riferendoci a quanto sta praticando Obama negli Usa, sottolineavamo che di fronte alla crisi ecologica forse era “quasi niente”. Ma che nel confronto con quanto sta accadendo nel mondo era “quasi tutto”. Quasi niente perché – pur potentissima e capace di svolgere un´egemonia a livello planetario– è comunque una federazione di Stati che agisce sul proprio territorio. Che non significa una governance mondiale per affrontare la crisi, quindi, anche se è pur sempre un’azione di governo che sembra avere come criterio direttore la sostenibilità ambientale e sociale. Per questo è anche “quasi tutto”.


Lo si capisce bene leggendo quanto dichiarato dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia (Sole 24 Ore di oggi) che pensando al dopo crisi, punta forte (ed è comunque positivo) sull’economia verde, ma come “driver futuro della crescita”. Un driver, dunque, buono ora per crescere e che un domani potrà essere abbandonato per un altro driver. Siamo invece certi che Obama non abbia - anche lui nei suoi punti di riferimento - la crescita? Assolutamente no, anzi, ma nelle sue azioni - oltre che nei suoi discorsi - la barra l’ha sempre tenuta sulla necessità di affrontare le sfide ambientali, in primis il cambiamento climatico e l’energia, non dopo aver affrontato la crisi, bensì per uscire dalla crisi e per costruire un futuro sostenibile no oil. Questo non significa appunto frenare la crescita ma indirizzarla verso un modello nuovo.


La differenza salta all’occhio. Se il paragone tra Italia e Usa però avesse stancato, quale sia il pensiero dominante in Confindustria e, diciamo noi, anche nel governo italiano lo esprime ancora una volta chiaramente Alberto Alesina nel suo editoriale odierno sulla crisi. Dopo un’accurata ricostruzione di quello che è stato il new deal americano, che non commentiamo e prendiamo per buona, sono le conclusioni che lasciano perplessi e che spiegano dove sta, dal nostro punto di vista, l’inghippo.


Scrive Alesina: «La lezione da trarre da questa crisi è quella che ha tratteggiato Guido Tabellini sul Sole del 7 maggio. Ovvero, il capitalismo dopo questo shock non cambierà. Riscriveremo alcune regole per mercati finanziari. Cercheremo di migliorare la supervisione e gli incentivi per i manager della finanza, oltre a cambiarne parecchi. Ma il capitalismo anglosassone, fondato sul mercato, continuerà ad essere quello che produce più crescita. Teniamocelo».


Due interrogativi: il primo, chi sta proponendo nel dibattito in corso un modello diverso da quello capitalistico fondato sul mercato? Il secondo, se tutto va bene o quasi, di cosa stiamo parlando?


Da ambientalisti che studiano l’economia convinti che solo da qui si possa combattere la battaglia della sostenibilità, ci pare evidente che l’analisi di una parte degli economisti – Alesina in testa – semplicemente fa i conti senza l’oste. L’oste è la crisi ecologica, che Alesina evidentemente non ritiene di interesse e da affrontare se non magari quando sarà risolta la crisi economica. A differenza di Stiglitz, per dirne uno. O di Stern, per dirne un altro.


E’ chiaro che se la si omette e si pensa che le risorse del pianeta – vedi altro pezzo di greenreport di oggi sui flussi di materia – siano infinite, l’unico orizzonte è quello di rimettere il treno sul vecchio binario e al massimo registrare qualche dado della ferrovia e del motore. A cantarla ad Alesina, però, stavolta non siamo solo noi ‘sporchi’ ambientalisti, ma Marzio Galeotti (de la voce.info e già intervistato più volte anche da greenreport) che proprio sul Sole di oggi lo incalza.


Lo spunto è l’intervento di Alesina del 28 aprile, dove sosteneva che «se uscire dalla crisi nel 2010 significa inquinare ancora per un anno ai ritmi attuali, facciamolo pure. Poi con calma, usciti dal panico per la crisi e dal rischio di una lunga depressione, ci dedicheremo con rinnovato vigore a proteggere l’ambiente».


Galeotti dissente da questa analisi e spiega che: «Se stiamo alla stretta tempistica vale la pena ricordare che il pacchetto europeo energia-clima e la strategia energetica-climatica contenuta nel programma elettorale di Barack Obama precedono lo scoppio della crisi economica e finanziaria». Nella sostanza la questione è chiara: la crisi ecologica era già scoppiata prima di quella economico-finanziaria.


Per uscire dalla triplice crisi, dunque, si devono affrontare tutti insieme i tre corni e la strada per noi più opportuna è quella di un nuovo modello economico basato sulla sostenibilità ambientale e sociale. Per altri la crisi ecologica si affronterà casomai dopo aver affrontato quella economico-finanziaria. Per altri ancora la crisi ecologica non esiste.


In campo dunque tre posizioni (prima la nostra neppure c’era e quindi c’è di che essere ottimisti). Con Obama però che nel frattempo si è portato un pezzo avanti verso la sostenibilità (pur con tutti i logici compromessi e le contraddizioni del caso), mentre gli altri arrancano, o lo inseguono in ordine sparso o, i più, discutono…