03 novembre 2009

Il Pound editore le cantava alle banche usuraie


Il Deuteronomio è chiaro come il sole: «Tu presterai a molte genti, e tu non prenderai nulla in prestito; e signoreggerai sopra grandi nazioni, ed esse non signoreggeranno sopra te» (15,6). Ecco fatto: è nata l’economia. Peggio, sono nate le banche.

Il lettore non tema, la foliazione del Giornale non è impazzita. Qui di economia si tratta, è vero, ma di quella particolare economia «eretica» e in fondo poeticamente utopica che porta la firma di un sottoscrittore (né di bond argentini, né di altre diavolerie...) che più eretico non si può: Ezra Pound. Per il quale non vale l’antico adagio «nomen omen» in quanto, pur chiamandosi Pound, cioè «sterlina», si rifiutò di battere moneta, preferendo battersi contro la moneta. Cioè contro l’usura. E non ci riferiamo tanto al saggio di Giano Accame Ezra Pound economista. Contro l’usura (Settimo Sigillo, 1995), quanto a una chicca ora proposta per la prima volta in italiano e dal titolo inequivocabile: Storia dei crimini monetari (excelsior 1881, pagg. 262, euro 15,50, traduzione di Luca Gallesi).

L’autore di questo volume che potrebbe con pieno diritto fregiarsi del sottotitolo «Il libro nero delle banche» è Alexander Del Mar (1836-1926), definito così dal «miglior fabbro» dei Cantos: «Il più grande storico americano, che prosegue l’opera di Mommsen e, come Louis Agassiz e Leo Frobenius, mette in pratica l’insegnamento di Alexander von Humboldt di raccogliere e ordinare un gran numero di fatti isolati per riuscire poi a costruire delle idee generali». L’affinità elettiva che legava i due si materializzò quando mister Sterlina era diventato... mister Dollaro. Ecco come.

Dopo la prigionia pisana, fu l’ospedale criminale federale di St. Elizabeths (Washington) a spalancare le porte al poeta, accusato di alto tradimento. Fu una detenzione di lavoro: Pound ne approfittò per dirigere una nuova collana della piccola casa editrice newyorkese Kasper and Horton che si chiamava...
«Square Dollars Series». E fra i volumi a buonissimo mercato (un dollaro, appunto) covati e fatti dischiudere da lui, spicca proprio quello di Del Mar, dalle origini spagnole ed ebree e dal piglio, economicamente parlando, poco yankee. La carriera di Del Mar non fu quella del classico studioso emarginato e solitario. Segretario del Tesoro e membro della Commissione monetaria, creò e diresse l’Ufficio di statistica degli Stati Uniti. Fu inoltre delegato ai congressi internazionali monetari di Torino (1866) e di San Pietroburgo (1872). Insomma, un pezzo grosso.

Ma un pezzo grosso con in testa una convinzione poco progressiva (oggi diremmo poco creativa...) della finanza. In particolare delle finanze dello Stato e dei singoli cittadini. «Del Mar credeva - dice Francesco Merlo nella “Prefazione” all’edizione di excelsior 1881 - che qualsiasi cambiamento del valore della moneta fosse un attentato alla sovranità dello Stato, al benessere dei cittadini e alla solidità delle banche». Egli «sognava una moneta immodificabile, non convertibile in metallo: valore assoluto». Qualcosa, insomma, da non affidare, pena una criminale instabilità, a mani private. Il titolo originale del suo libro era Barbara Villiers, or a History of Monetary Crimes. La Villiers, spiega Gallesi, «era l’amante di Carlo II, il sovrano Stuart chiamato a restaurare la monarchia dopo la parentesi repubblicana di Cromwell. A lei il re concesse di usufruire delle rendite del signoraggio, e tramite questa dama la nuova élite emergente di orafi e banchieri riuscì a ottenere che il privilegio dell’emissione di denaro, fino allora prerogativa reale, passasse in mani private».

La decadenza dell’Occidente origina da quel momento. E Pound, estimatore di Del Mar, per parte sua fissa una data precisa: il 1694, l’anno della fondazione della Banca d’Inghilterra. Sappiamo che l’autore dei Cantos le cantava belle ai fan del mercato. Per esempio: «I liberali che non sono tutti usurai, dovrebbero spiegarci perché gli usurai sono tutti liberali...». Sappiamo anche che, come Clifford Douglas, riteneva che la differenza fra salario e potere d’acquisto dovesse essere colmata dallo Stato con l’emissione corrispondente in carta moneta di un «credito sociale».

Sappiamo però anche che il poeta non prediligeva, diversamente da Del Mar, la moneta immortale, bensì, come Silvio Gesell, quella «prescrivibile»: una moneta emessa dallo Stato e affrancata ogni mese con una marca da bollo pari all’1 per cento del suo valore nominale, pena la sua invalidità, così che in cento mesi la moneta esaurisca il proprio corso e venga sostituita.

Gli pareva una bella idea, tanto che dopo l’armistizio, il 10 settembre 1943, propose alla Repubblica di Salò di adottarla. Non se ne fece nulla. Dieci anni prima, rivolgendosi direttamente a Mussolini, gli aveva indicato il sistema per «non far pagare le tasse ai cittadini, tassando il denaro alla Banca centrale al momento dell’emissione». Come tutti sanno, non se n’era fatto nulla neanche allora...

di Daniele Abbiati

02 novembre 2009

La crisi vi renderà liberi







Non e' ancora finita sotto i ferri di Marco Cedolin e Beppe Grillo la notizia dell’ addio che la multinazionale McDonald si appresta a dare all'Islanda [1], ma immagino i possibili commenti che leggeremo nei loro blog nei prossimi giorni. In breve, per coloro che non ne fossero ancora al corrente, la nota catena di "cibo spazzatura" ha dovuto gettare la spugna contro la concorrenza locale puntando il dito contro il "collasso della corona” nei confronti di euro e dollaro e chiuderà i battenti questo fine settimana dopo una storia durata 16 anni.

Una storia che potrebbe essere benissimo il paradigma, o meglio la parabola di quell'ideologia impropriamente chiamata "liberismo" che ha travolto la piccola isola dell'Europa settentrionale di appena 300.000 anime che, fino agli inizi di questa storia, aveva un economia prevalentemente incentrata sulla pesca al merluzzo e l’industria ad essa collegata – un paradiso con un indice di speranza di vita, non a caso di ben 81.8 anni (Italia 79.9 anni) [2].

Come nel Paradiso Perduto” di John Milton (da non confondere con Milton Friedman, il fautore del liberismo della famosa “Scuola di Chicago), questa storia ha inizio da un morso, il primo morso innagurale ad un "Big Mac" dell' allora primo ministro David Oddsson (chiamato dagli amici “King David”) nel 1993, che, come un peccato originario, segna l'avvento della globalizzazione e l’abbattimento generalizzato di vincoli al commercio estero e al controllo dei capitali, rafforzato dalla innovazioni informatiche e tecnologiche. Ebbene, a seguito di quell’ atto, in poco più di un decennio questo luogo dimenticato da dio si è trasformato in uno dei paesi piu’ sviluppati al mondo, con un livello di reddito pro-capite tra i più alti del pianeta (cresciuto del 45% in cinque anni, fino a raggiungere il primo posto posto nella statistica “Human Development Index” stilata dalle nazioni Unite nel 2007 [3] ).

Purtroppo oltre ai dubbi (ed effimeri) vantaggi per la popolazione locale, la globalizzazione porta in seno anche il peccato originale, la bolla del debito sostenuta artificialmente dai bassi tassi di interesse e da agenzie di rating non particolarmente acute e vigili. La repentina caduta del paradiso e' segnata dal deprezzamento della corona islandese (che tra l'altro sottraeva valore alle attività reali in Islanda), gonfiando il valore dei debiti in valuta nazionale contratti all’estero [4]. Il sistema bancario islandese ha cominciato a scricchiolare; quando le banche internazionali hanno cominciato a chiudere i rubinetti del credito, il governo islandese è stato costretto a nazionalizzare una dopo l’altre le tre banche e il paese si è risvegliato dal suo delirio per ritrovarsi davanti agli occhi un sistema finanziario oberato da 100 miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di soli 14 miliardi di dollari, nonche’ un economia reale completamente devastata.

Dopo mesi di manifestazioni pacifiche, una folla imbestialita [5] a gennaio di quest'anno (circa tremila persone, e tremila persone in Islanda sono tanti, specie a gennaio) ha addirittura deciso di entrare -non di cortesia- in Parlamento per reclamare (ed ottenere) le dimissioni in blocco del governo e dei parlamentari e l'immediata rimozione del presidente della banca centrale controllata proprio dal peccatore originario David Oddsson che nel frattempo era stato (guarda caso) chiamato a dirigere.
In questo contesto si creano le condizioni che porteranno a chiudere il prossimo fine settimana i tre ristoranti McDonald presenti sull' isola.

La Lyst, proprietaria del marchio McDonald in Islanda e' infatti costretta per legge a dover acquistare fuori dall' isola tutta la materia prima necessaria, dalla carne al materiale per gli imballi, a tutto vantaggio dei prodotti locali non sottoposti a tassi di cambio penalizzanti e sopratutto a dazi doganali che sfiorano l'80% per alcuni prodotti alimentari semi-lavorati (http://www.tollur.is/default.asp?cat_id=61).

Attualmente il prezzo di un "Big Mac" in Islanda e’ di 650 corone (5.29 dollari), ma per rientrare nei costi di esercizio, a parità di merce venduta il prezzo dovrebbe essere portato a 780 corone (6.36 dollari), troppo per poter competere con i prodotti locali, sulla cui qualità non mi pronuncio, ma sono pronto a scommettere migliore rispetto a quelli che possono essere distribuiti da una multinazionale della ristorazione rapida divenuto sinonimo di "cibo spazzatura". Ma l'impatto che le grosse multinazionali hanno sul tessuto economico e sociale va ben al di là della pur grave malnutrizione. Non voglio "ribattere concetti che i lettori degli autori dei blog citati all’'inizio di quest’articolo conoscono benissimo, ma vorrei limitarmi ad osservare come ad esempio il costo del “Big Mac”, non tenga conto dello spreco di energia richiesto per il trasporto di prodotti che hanno equivalenti locali. Questi sprechi hanno un impatto sulla domanda di energia con il conseguente aumento di prezzo che viene pagato anche da chi non comprerebbe mai un prodotto McDonald.

Spero che il popolo islandese festeggi quest’avvenimento epocale e che chiude questa parabola. Epocale perché non solo il logo della catena della ristorazione rapida McDonald e' uno dei simboli della globalizzazione, ma anche in quanto il suo prodotto principale, il "Big Mac" ne e' anche lo strumento di misura.

Il Big Mac Index [6] e' infatti l'indice ufficioso di comparazione del potere d'acquisto di una valuta.

"L'assunto centrale della "parità dei poteri d’acquisto" è che il tasso di cambio tra due valute dovrebbe tendere naturalmente ad aggiustarsi in modo che un paniere di beni abbia lo stesso costo in entrambe le valute. Nell'indice Big Mac, il "paniere" è composto da un singolo Big Mac, così come viene venduto dalla catena di fast food della McDonald's. Il Big Mac è stato scelto perché è disponibile con le stesse specifiche in diverse nazioni del mondo" [7]

Di conseguenza, il "Big Mac Index", misura sopratutto il grado di appiattimento di usi, costumi e valori (in questo caso alimentari) con l'indice che tende a coincidere con il tasso ufficiale di sconto laddove usi, costumi, ma anche condizioni lavorative sono omogenee e proporzionali rispetto al mondo di McDonald, un mondo che spero questa crisi riuscirà a spazzare via dalla storia.
di Stefano Vernavideo

01 novembre 2009

Il trattato di Lisbona estorce l'ultimo sì

Il Trattato di Lisbona, creato per sostituire il precedente progetto di Costituzione Europea affossato nel 2005 dai no dei referendum francese ed olandese, già da tempo ratificato dal parlamento italiano
all’unanimità, sembra essere ormai in dirittura d’arrivo. Dopo un percorso assai tortuoso che pareva essersi spezzato inesorabilmente nel giugno dello scorso anno, quando il referendum in Irlanda decretò una secca bocciatura del documento, la protervia e la tenacia messa in mostra dai grandi poteri finanziari ed economici che governano l’Europa, sembra essere riuscita ad avere ragione anche degli ultimi aneliti di scetticismo.

A seguito di tutta una serie di forzature che fotografano appieno la qualità dello spirito democratico che animerà la nuova Europa, il referendum irlandese è stato ripetuto una seconda volta lo scorso 2 ottobre, riuscendo in questo caso a spuntare un sofferto si, dopo una campagna elettorale ossessiva e infarcita di mistificazioni in favore dell’approvazione del Trattato, portata avanti sfruttando l’argomento della crisi economica.
Il 10 ottobre è stata la volta della ratifica da parte del Presidente polacco Lech Kaczynski, le cui perplessità sono state “addomesticate” con estremo vigore dal Presidente della Commissione Europea Barroso e dal Premier svedese Fredrick Reinfeldt, Presidente di turno dell’Unione, entrambi presenti alla cerimonia.
Ieri i leader della UE hanno accolto unanimemente la deroga richiesta dalla Repubblica ceca, unico paese a non avere ancora sottoscritto il Trattato, aprendo la strada alla ratifica da parte del Presidente Vaclav Klaus, dopo che il prossimo 3 novembre la Corte Costituzionale, si sarà pronunciata sulla legittimità del Trattato di Lisbona rispetto all'ordinamento ceco. A questo riguardo va sottolineato come le pressioni da parte della UE nei confronti di Klaus, notoriamente scettico nei confronti di questo modello di Europa, siano state fortissime, spaziando dagli ammonimenti concernenti i costi determinati dai ritardi nella ratifica, per giungere alle vere e proprie minacce neppure troppo velate.

Caduto (o meglio fatto cadere a forza) anche l’ultimo ostacolo sembra dunque ormai spianata la strada per la nuova Europa, lastricata di falsi buoni propositi ma in realtà caratterizzata dal progressivo regresso delle conquiste sociali che i suoi cittadini avevano conquistato nel corso della seconda metà del novecento.
Un'Europa sempre più schiava delle Corporation, delle banche, delle grandi multinazionali, all’interno della quale perderà sempre più importanza il valore dell'individuo, deprivato dei propri diritti ed immolato sull'altare della competitività, del mercato e della concorrenza. Un'Europa sempre più privatizzata, succube della competizione sfrenata, probabilmente più omogenea solamente perché appiattita su un livello di qualità della vita decisamente più basso rispetto a quello di oggi.

di Marco Cedolin

03 novembre 2009

Il Pound editore le cantava alle banche usuraie


Il Deuteronomio è chiaro come il sole: «Tu presterai a molte genti, e tu non prenderai nulla in prestito; e signoreggerai sopra grandi nazioni, ed esse non signoreggeranno sopra te» (15,6). Ecco fatto: è nata l’economia. Peggio, sono nate le banche.

Il lettore non tema, la foliazione del Giornale non è impazzita. Qui di economia si tratta, è vero, ma di quella particolare economia «eretica» e in fondo poeticamente utopica che porta la firma di un sottoscrittore (né di bond argentini, né di altre diavolerie...) che più eretico non si può: Ezra Pound. Per il quale non vale l’antico adagio «nomen omen» in quanto, pur chiamandosi Pound, cioè «sterlina», si rifiutò di battere moneta, preferendo battersi contro la moneta. Cioè contro l’usura. E non ci riferiamo tanto al saggio di Giano Accame Ezra Pound economista. Contro l’usura (Settimo Sigillo, 1995), quanto a una chicca ora proposta per la prima volta in italiano e dal titolo inequivocabile: Storia dei crimini monetari (excelsior 1881, pagg. 262, euro 15,50, traduzione di Luca Gallesi).

L’autore di questo volume che potrebbe con pieno diritto fregiarsi del sottotitolo «Il libro nero delle banche» è Alexander Del Mar (1836-1926), definito così dal «miglior fabbro» dei Cantos: «Il più grande storico americano, che prosegue l’opera di Mommsen e, come Louis Agassiz e Leo Frobenius, mette in pratica l’insegnamento di Alexander von Humboldt di raccogliere e ordinare un gran numero di fatti isolati per riuscire poi a costruire delle idee generali». L’affinità elettiva che legava i due si materializzò quando mister Sterlina era diventato... mister Dollaro. Ecco come.

Dopo la prigionia pisana, fu l’ospedale criminale federale di St. Elizabeths (Washington) a spalancare le porte al poeta, accusato di alto tradimento. Fu una detenzione di lavoro: Pound ne approfittò per dirigere una nuova collana della piccola casa editrice newyorkese Kasper and Horton che si chiamava...
«Square Dollars Series». E fra i volumi a buonissimo mercato (un dollaro, appunto) covati e fatti dischiudere da lui, spicca proprio quello di Del Mar, dalle origini spagnole ed ebree e dal piglio, economicamente parlando, poco yankee. La carriera di Del Mar non fu quella del classico studioso emarginato e solitario. Segretario del Tesoro e membro della Commissione monetaria, creò e diresse l’Ufficio di statistica degli Stati Uniti. Fu inoltre delegato ai congressi internazionali monetari di Torino (1866) e di San Pietroburgo (1872). Insomma, un pezzo grosso.

Ma un pezzo grosso con in testa una convinzione poco progressiva (oggi diremmo poco creativa...) della finanza. In particolare delle finanze dello Stato e dei singoli cittadini. «Del Mar credeva - dice Francesco Merlo nella “Prefazione” all’edizione di excelsior 1881 - che qualsiasi cambiamento del valore della moneta fosse un attentato alla sovranità dello Stato, al benessere dei cittadini e alla solidità delle banche». Egli «sognava una moneta immodificabile, non convertibile in metallo: valore assoluto». Qualcosa, insomma, da non affidare, pena una criminale instabilità, a mani private. Il titolo originale del suo libro era Barbara Villiers, or a History of Monetary Crimes. La Villiers, spiega Gallesi, «era l’amante di Carlo II, il sovrano Stuart chiamato a restaurare la monarchia dopo la parentesi repubblicana di Cromwell. A lei il re concesse di usufruire delle rendite del signoraggio, e tramite questa dama la nuova élite emergente di orafi e banchieri riuscì a ottenere che il privilegio dell’emissione di denaro, fino allora prerogativa reale, passasse in mani private».

La decadenza dell’Occidente origina da quel momento. E Pound, estimatore di Del Mar, per parte sua fissa una data precisa: il 1694, l’anno della fondazione della Banca d’Inghilterra. Sappiamo che l’autore dei Cantos le cantava belle ai fan del mercato. Per esempio: «I liberali che non sono tutti usurai, dovrebbero spiegarci perché gli usurai sono tutti liberali...». Sappiamo anche che, come Clifford Douglas, riteneva che la differenza fra salario e potere d’acquisto dovesse essere colmata dallo Stato con l’emissione corrispondente in carta moneta di un «credito sociale».

Sappiamo però anche che il poeta non prediligeva, diversamente da Del Mar, la moneta immortale, bensì, come Silvio Gesell, quella «prescrivibile»: una moneta emessa dallo Stato e affrancata ogni mese con una marca da bollo pari all’1 per cento del suo valore nominale, pena la sua invalidità, così che in cento mesi la moneta esaurisca il proprio corso e venga sostituita.

Gli pareva una bella idea, tanto che dopo l’armistizio, il 10 settembre 1943, propose alla Repubblica di Salò di adottarla. Non se ne fece nulla. Dieci anni prima, rivolgendosi direttamente a Mussolini, gli aveva indicato il sistema per «non far pagare le tasse ai cittadini, tassando il denaro alla Banca centrale al momento dell’emissione». Come tutti sanno, non se n’era fatto nulla neanche allora...

di Daniele Abbiati

02 novembre 2009

La crisi vi renderà liberi







Non e' ancora finita sotto i ferri di Marco Cedolin e Beppe Grillo la notizia dell’ addio che la multinazionale McDonald si appresta a dare all'Islanda [1], ma immagino i possibili commenti che leggeremo nei loro blog nei prossimi giorni. In breve, per coloro che non ne fossero ancora al corrente, la nota catena di "cibo spazzatura" ha dovuto gettare la spugna contro la concorrenza locale puntando il dito contro il "collasso della corona” nei confronti di euro e dollaro e chiuderà i battenti questo fine settimana dopo una storia durata 16 anni.

Una storia che potrebbe essere benissimo il paradigma, o meglio la parabola di quell'ideologia impropriamente chiamata "liberismo" che ha travolto la piccola isola dell'Europa settentrionale di appena 300.000 anime che, fino agli inizi di questa storia, aveva un economia prevalentemente incentrata sulla pesca al merluzzo e l’industria ad essa collegata – un paradiso con un indice di speranza di vita, non a caso di ben 81.8 anni (Italia 79.9 anni) [2].

Come nel Paradiso Perduto” di John Milton (da non confondere con Milton Friedman, il fautore del liberismo della famosa “Scuola di Chicago), questa storia ha inizio da un morso, il primo morso innagurale ad un "Big Mac" dell' allora primo ministro David Oddsson (chiamato dagli amici “King David”) nel 1993, che, come un peccato originario, segna l'avvento della globalizzazione e l’abbattimento generalizzato di vincoli al commercio estero e al controllo dei capitali, rafforzato dalla innovazioni informatiche e tecnologiche. Ebbene, a seguito di quell’ atto, in poco più di un decennio questo luogo dimenticato da dio si è trasformato in uno dei paesi piu’ sviluppati al mondo, con un livello di reddito pro-capite tra i più alti del pianeta (cresciuto del 45% in cinque anni, fino a raggiungere il primo posto posto nella statistica “Human Development Index” stilata dalle nazioni Unite nel 2007 [3] ).

Purtroppo oltre ai dubbi (ed effimeri) vantaggi per la popolazione locale, la globalizzazione porta in seno anche il peccato originale, la bolla del debito sostenuta artificialmente dai bassi tassi di interesse e da agenzie di rating non particolarmente acute e vigili. La repentina caduta del paradiso e' segnata dal deprezzamento della corona islandese (che tra l'altro sottraeva valore alle attività reali in Islanda), gonfiando il valore dei debiti in valuta nazionale contratti all’estero [4]. Il sistema bancario islandese ha cominciato a scricchiolare; quando le banche internazionali hanno cominciato a chiudere i rubinetti del credito, il governo islandese è stato costretto a nazionalizzare una dopo l’altre le tre banche e il paese si è risvegliato dal suo delirio per ritrovarsi davanti agli occhi un sistema finanziario oberato da 100 miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di soli 14 miliardi di dollari, nonche’ un economia reale completamente devastata.

Dopo mesi di manifestazioni pacifiche, una folla imbestialita [5] a gennaio di quest'anno (circa tremila persone, e tremila persone in Islanda sono tanti, specie a gennaio) ha addirittura deciso di entrare -non di cortesia- in Parlamento per reclamare (ed ottenere) le dimissioni in blocco del governo e dei parlamentari e l'immediata rimozione del presidente della banca centrale controllata proprio dal peccatore originario David Oddsson che nel frattempo era stato (guarda caso) chiamato a dirigere.
In questo contesto si creano le condizioni che porteranno a chiudere il prossimo fine settimana i tre ristoranti McDonald presenti sull' isola.

La Lyst, proprietaria del marchio McDonald in Islanda e' infatti costretta per legge a dover acquistare fuori dall' isola tutta la materia prima necessaria, dalla carne al materiale per gli imballi, a tutto vantaggio dei prodotti locali non sottoposti a tassi di cambio penalizzanti e sopratutto a dazi doganali che sfiorano l'80% per alcuni prodotti alimentari semi-lavorati (http://www.tollur.is/default.asp?cat_id=61).

Attualmente il prezzo di un "Big Mac" in Islanda e’ di 650 corone (5.29 dollari), ma per rientrare nei costi di esercizio, a parità di merce venduta il prezzo dovrebbe essere portato a 780 corone (6.36 dollari), troppo per poter competere con i prodotti locali, sulla cui qualità non mi pronuncio, ma sono pronto a scommettere migliore rispetto a quelli che possono essere distribuiti da una multinazionale della ristorazione rapida divenuto sinonimo di "cibo spazzatura". Ma l'impatto che le grosse multinazionali hanno sul tessuto economico e sociale va ben al di là della pur grave malnutrizione. Non voglio "ribattere concetti che i lettori degli autori dei blog citati all’'inizio di quest’articolo conoscono benissimo, ma vorrei limitarmi ad osservare come ad esempio il costo del “Big Mac”, non tenga conto dello spreco di energia richiesto per il trasporto di prodotti che hanno equivalenti locali. Questi sprechi hanno un impatto sulla domanda di energia con il conseguente aumento di prezzo che viene pagato anche da chi non comprerebbe mai un prodotto McDonald.

Spero che il popolo islandese festeggi quest’avvenimento epocale e che chiude questa parabola. Epocale perché non solo il logo della catena della ristorazione rapida McDonald e' uno dei simboli della globalizzazione, ma anche in quanto il suo prodotto principale, il "Big Mac" ne e' anche lo strumento di misura.

Il Big Mac Index [6] e' infatti l'indice ufficioso di comparazione del potere d'acquisto di una valuta.

"L'assunto centrale della "parità dei poteri d’acquisto" è che il tasso di cambio tra due valute dovrebbe tendere naturalmente ad aggiustarsi in modo che un paniere di beni abbia lo stesso costo in entrambe le valute. Nell'indice Big Mac, il "paniere" è composto da un singolo Big Mac, così come viene venduto dalla catena di fast food della McDonald's. Il Big Mac è stato scelto perché è disponibile con le stesse specifiche in diverse nazioni del mondo" [7]

Di conseguenza, il "Big Mac Index", misura sopratutto il grado di appiattimento di usi, costumi e valori (in questo caso alimentari) con l'indice che tende a coincidere con il tasso ufficiale di sconto laddove usi, costumi, ma anche condizioni lavorative sono omogenee e proporzionali rispetto al mondo di McDonald, un mondo che spero questa crisi riuscirà a spazzare via dalla storia.
di Stefano Vernavideo

01 novembre 2009

Il trattato di Lisbona estorce l'ultimo sì

Il Trattato di Lisbona, creato per sostituire il precedente progetto di Costituzione Europea affossato nel 2005 dai no dei referendum francese ed olandese, già da tempo ratificato dal parlamento italiano
all’unanimità, sembra essere ormai in dirittura d’arrivo. Dopo un percorso assai tortuoso che pareva essersi spezzato inesorabilmente nel giugno dello scorso anno, quando il referendum in Irlanda decretò una secca bocciatura del documento, la protervia e la tenacia messa in mostra dai grandi poteri finanziari ed economici che governano l’Europa, sembra essere riuscita ad avere ragione anche degli ultimi aneliti di scetticismo.

A seguito di tutta una serie di forzature che fotografano appieno la qualità dello spirito democratico che animerà la nuova Europa, il referendum irlandese è stato ripetuto una seconda volta lo scorso 2 ottobre, riuscendo in questo caso a spuntare un sofferto si, dopo una campagna elettorale ossessiva e infarcita di mistificazioni in favore dell’approvazione del Trattato, portata avanti sfruttando l’argomento della crisi economica.
Il 10 ottobre è stata la volta della ratifica da parte del Presidente polacco Lech Kaczynski, le cui perplessità sono state “addomesticate” con estremo vigore dal Presidente della Commissione Europea Barroso e dal Premier svedese Fredrick Reinfeldt, Presidente di turno dell’Unione, entrambi presenti alla cerimonia.
Ieri i leader della UE hanno accolto unanimemente la deroga richiesta dalla Repubblica ceca, unico paese a non avere ancora sottoscritto il Trattato, aprendo la strada alla ratifica da parte del Presidente Vaclav Klaus, dopo che il prossimo 3 novembre la Corte Costituzionale, si sarà pronunciata sulla legittimità del Trattato di Lisbona rispetto all'ordinamento ceco. A questo riguardo va sottolineato come le pressioni da parte della UE nei confronti di Klaus, notoriamente scettico nei confronti di questo modello di Europa, siano state fortissime, spaziando dagli ammonimenti concernenti i costi determinati dai ritardi nella ratifica, per giungere alle vere e proprie minacce neppure troppo velate.

Caduto (o meglio fatto cadere a forza) anche l’ultimo ostacolo sembra dunque ormai spianata la strada per la nuova Europa, lastricata di falsi buoni propositi ma in realtà caratterizzata dal progressivo regresso delle conquiste sociali che i suoi cittadini avevano conquistato nel corso della seconda metà del novecento.
Un'Europa sempre più schiava delle Corporation, delle banche, delle grandi multinazionali, all’interno della quale perderà sempre più importanza il valore dell'individuo, deprivato dei propri diritti ed immolato sull'altare della competitività, del mercato e della concorrenza. Un'Europa sempre più privatizzata, succube della competizione sfrenata, probabilmente più omogenea solamente perché appiattita su un livello di qualità della vita decisamente più basso rispetto a quello di oggi.

di Marco Cedolin