12 febbraio 2010

Berlusconi, Israele e la sinistra





Ci sono sostanzialmente due modi di far politica: uno pensando al proprio tornaconto, l’altro a quello della comunità. No, non mettetevi a ridere. C’è gente, a questo mondo, tanti pochi, sempre più o sempre meno, che vivono vite normali, pensando a lavorare onestamente e a vivere il più serenamente possibile, non evadendo le tasse, facendo sacrifici, non approfittando dell’ altrui ingenuità, aiutando il prossimo con opere di volontariato e lavorando più per amore che per danaro.

Che costoro rappresentino oggi una esigua minoranza e che l’attuale non sia il loro mondo è un dato di fatto inoppugnabile. “Ognuno ha il governo che si merita”, si diceva un tempo; ma forse questi pochi fanno parte di quel 50% di cittadini che non si reca a votare avendone mille e una ragioni.

Ne pensavo in questi giorni seguendo la visita del Presidente del Consiglio Berlusconi in Israele. Chi era e chi è Berlusconi lo sanno tutti, anche se i giudizi sono spesso discordanti. Per qualche giudice è un delinquente incallito, per i suoi sostenitori è un perseguitato che s’è fatto dal niente, per Bossi era un mafioso diventato improvvisamente santo. Per noi è semplicemente un imprenditore che ha fatto tanti soldi troppo in fretta, cosa che ci riporta in mente quel famoso detto di Honoré de Balzac secondo il quale “ dietro ogni grande fortuna si nasconde un delitto”.

Che poi in questo mare politico di lazzaroni, di ladroni, di buzzurri, di personaggi arroganti e ignoranti riciclati dalla pattumiera della prima repubblica la faccia di Berlusconi ispiri anche un po’ di simpatia è anch’esso un dato di fatto. Ma queste sono caratteristiche che con la politica - che dovrebbe consistere nell’arte di governare uno stato – poco “c’azzeccano”. In politica ciò che conta sono i risultati e a noi non pare che di risultati i vari governi Berlusconi ne abbiano prodotti molti: il debito pubblico ha continuato a crescere, il boom economico ha lasciato il posto ad una massiccia disoccupazione e le riforme sono rimaste appiccicate sui manifesti demagogici della Lega (partito di proprietà di Berlusconi) e di qualche ministro bontempone che vorrebbe aiutare i giovani disoccupati dando loro i soldi tolti dalle miserevoli pensioni dei vecchi.

La colpa dell’attuale crisi - si sente spesso dire - non è dei nostri governanti, è dell’America. Sono loro che ci hanno trascinato nell’ attuale baratro finanziario. Cosa certamente vera, ma che non giustifica le scelte dei nostri governanti di continuare a prender ordini, in campo economico e militare, da una potenza che ha da tempo imboccato il viale del tramonto.

Nei giorni scorsi hanno fatto un gran clamore le parole pronunciate da Berlusconi al parlamento di Israele, lo stato che cura gli interessi imperialisti degli USA in Medio Oriente. Nell’occasione il nostro premier ha detto tutto e il contrario di tutto: giustificando i continui massacri dei terroristi sionisti contro il popolo palestinese, ma commovendosi per gli innocenti morti in quei massacri; sposando tesi demenziali ( “Giusto l’attacco su Gaza”) ed invocando il diritto di Israele a difendersi da cosiddetti missili che a malapena riescono a superare il confine israeliano, ma criticando l’entità sionista per la continua occupazione di territori palestinesi; invitando Israele a rispettare i diritti umani, ma promettendo il disimpegno dell’Italia nei rapporti commerciali con l’Iran; trattenendosi amichevolmente con personaggi del calibro di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro degli esteri Tipzi Livni contro la quale un tribunale inglese ha emesso di recente un mandato di cattura per crimini di guerra, ma incontrandosi subito dopo con Abu Mazen per manifestargli il suo dolore per le stragi di Gaza. E a chi gli chiedeva se avesse visto il “Muro dell’apartheid” appena eretto dal governo sionista ha risposto di no, che era intento a prender appunti sul discorso che doveva tenere alla Knesset. Contraddizioni pesanti, che hanno fatto il giro del mondo, nonostante il silenzio assordante delle destre e delle sinistre italiane, unite oggi nel nome di Israele come lo erano ieri quando D’Alema bombardava Belgrado.

Dal dopoguerra ad oggi il nostro Paese ha sempre mantenuto una certa neutralità sulla questione palestinese e l’uscita del nostro premier ha colto molti di sorpresa. Qualcuno ha scritto che tutta questa confusione può esser stata generata dallo “spasmodico desiderio dell’uomo di essere amato da tutti”, qualcun altro che in questo agire insensato sia stato influenzato dal suo Ministro degli Esteri Frattini (sionista di ferro fin da quando scriveva per il “Manifesto”), altri ancora (Gianni Petrosillo) che “Berlusconi è solo un politico di infima caratura” .

A noi che ricordiamo un altro Silvio Berlusconi, amico di Craxi e dei palestinesi, queste tesi non convincono. E’ per questo che ci spaventano le parole pronunciate da Mohammad Hannoun, presidente dell’API, l’associazione dei palestinesi italiani: “Non bisogna dimenticare che è un uomo d’affari e avrà obiettivi personali e aziendali da raggiungere…Non ultimo nei confronti del suo rivale commerciale, Rupert Murdoch, le cui tv sono state co-protagoniste delle campagne di diffamazione nei suoi confronti. Avrà voluto dimostrargli che anche lui è filo-sionista e sta con il più forte”.

Parole pesanti che però, alla luce della stranezza di questa vicenda, non possono non venir considerate. Ci sarebbe da rabbrividire al solo pensare di esser rappresentati da un primo ministro che confonde i propri interessi economici con i crimini di guerra. Strano che la sinistra dei diritti umani, quella che tanto tuonò sul conflitto di interessi sulle televisioni, non se ne sia accorta.

di Enzo Chiaradia

Una storia ordinaria di Intelligence


Questa storia di spie, infedeltà, menzogne, intercettazioni e pedinamenti illegali, comincia con una confessione e con una confessione finisce. La prima volontaria. L'ultima, rubata in conversazioni telefoniche intercettate. Comincia con il racconto di un tipo gioviale che alla Procura di Milano tutti conoscono e di nome fa Luigi Pironi, per molti anni maresciallo dei Ros. E' storia di due mesi fa. Il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro e la Digos lo collocano sulla scena dei rapimento di Abu Omar. Lui, ammette. La notizia fa il giro dei mondo, ma quel che Pironi racconta davvero resta un segreto. Il maresciallo non si limita a riconoscere la propria partecipazione nel sequestro. Fa di più. Spiega di essere stato avvicinato alla fine del 2002 dall'uomo di cui nel tempo era diventato amico: Robert Seldon Lady, allora capo del centro Cia di Milano. Lo spione americano lo arruola per partecipare all'operazione coperta di “rimozione” dell'imam egiziano e lo rassicura: “Il Sismi sta lavorando con noi. E' della partita”. Gli fa balenare un premio: “Se ci stai, ti faccio entrare al Sismi". Per il maresciallo è un'offerta irrinunciabile, il sogno di un'intera carriera: approdare nei ranghi dell'intelligence militare. Pironi sa che Lady non è un buffone. Che fa quel che dice. Che dice quel che fa. E ritiene di averne la prova. Alla fine di novembre del 2002, incontra il colonnello Stefano D'Ambrosio, allora capo centro del Sismi di Milano. L'ufficiale dice che ha avuto eccellenti referenze sui suo conto, che una chiamata dal Servizio e nelle cose. Pironi si convince definitivamente che se farà ciò che gli è stato chiesto, avrà ciò che desidera. Si mette a disposizione di Lady. Il varco che il maresciallo apre alla Procura di Milano è stretto ma cruciale. Lo allarga l’unico testimone in grado di confermare se Pironi racconti o meno il vero: Stefano D'Ambrosio. L'ufficiale non è più in servizio al Sismi. E' rientrato nei ranghi dell'Arma nel dicembre dei 2002, dopo essere stato misteriosamente rimosso dall'incarico di capocentro di Milano. Raccontano D'Ambrosio come un ufficiale serio, preparato. E’ andato a comandare i carabinieri di Gorizia. Portando con sé dicono il suo segreto. Quando Spataro lo convoca, anche lui sceglie di raccontare. La fessura aperta da Pironi diventa un paesaggio ricco di figure.

Anche lui riporta il tempo a quel novembre 2002 a Milano. D'Ambrosio, per ovvie ragioni di ufficio, ha eccellenti rapporti con Lady e proprio da lui, del tutto casualmente, apprende in quei giorni quel che sta bollendo in pentola a Milano e che lui scopre di ignorare. Lady lo avverte che “a Roma i suoi superiori del Sismi" hanno cominciato a lavorare con la Cia all'operazione di sequestro di Abu Omar. Lady confida a D'Ambrosio di essere contrario. Di averlo detto chiaro e tondo a Jeff Castelli, capo della Cia in Italia. Per lui, "rimuovere" l'imam è “una cazzata”. Per almeno due buone ragioni, che nulla hanno a che fare con il diritto internazionale, ma molto hanno a che vedere con la praticità con cui Lady si muove. Sequestrare Abu Omar ragiona lo spione americano con D'Ambrosio significa perdere all'interno della moschea di viale Jenner un uomo che la Cia ha imparato a conoscere e che verrà rimpiazzato da qualcun altro con cui si dovrà ricominciare da capo. Ln più, Abu Omar è sotto inchiesta della Procura e della Digos di Milano. Portarglielo via di nascosto può essere solo foriero di grossi guai.

D'Ambrosio è d'accordo. L'operazione di Abu Omar 'è una cazzata”. Ma, dal suo punto di vista di funzionario del Sismi, è qualcosa di peggio: è un reato. Non impedire il sequestro di Abu Omar equivale a commetterlo. Dunque, l'ufficiale decide di rispettare la lettera della legge. Informa di quanto ha appreso da Lady e della personale contrarietà all'operazione il suo immediato superiore gerarchico: Marco Mancini.

L'ex brigadiere dei carabinieri dell'Anticrimine di Milano, già capo centro Sismi di Bologna, ha fatto carriera in fretta, in quella fine di novembre del 2002 sovrintende l'attività di tutti i centri Sismi del nord Italia. Quando ascolta quanto ha da dirgli D'Ambrosio non fa una piega. Ascolta in silenzio la storia del sequestro, annota le informazioni che D'Ambrosio ha raccolto da Lady. Dice al suo ufficiale che ne parlerà con Roma e gli farà sapere. D'Ambrosio non ne saprà più nulla. Agli inizi di dicembre dei 2002, dieci giorni dopo il suo colloquio con Mancini, da Forte Braschi, la sede dei Servizio, viene informato che, con effetto immediato, è rimosso dal comando del centro Sismi di Milano e trasferito a Roma. Al suo posto, assume pro tempore l'incarico Marco Mancini.

Dicembre 2002. Mancano sessanta giorni ai sequestro di Abu Omar. Cosa accade? Cosa fa o cosa viene chiesto di fare a Marco Mancini?

Armando Spataro lo chiede al generale Gustavo Pignero. E’ un carabiniere cresciuto alla scuola di Dalla Chiesa, sotto il cui comando, in un tempo ormai lontano, ha messo le mani su Renato Curcio. Pignero, nel dicembre del 2002, comanda la prima divisione del Sismi, il controspinnaggio. E’ il superiore gerarchico di Mancini. Quello cui, a rigore di logica e risalendo la catena di comando, Mancini deve aver riferito dei colloquio con D'Ambrosio. Ma il primo approccio è deludente. Pignoro di Abu Omar nulla sa e nulla ha saputo. E’ vero, sono ormai passati quattro anni dall'inverno 2002, ma certe cose non si dovrebbero dimenticare se sono accadute. Eppure, nulla. Pignero non sa nulla.

Lo scorso primo giugno, pero, accade qualcosa. Pignero si fa vivo con Spataro. Rispetto al primo interrogatorio, gli è tornata la memoria. Il generale riferisce di un incontro avuto nel dicembre 2002 con Jeff Castelli, a Roma. Il capo della Cia in Italia, racconta il generale, ci propone di lavorare insieme su “12 obiettivi operativi”. Dodici arabi. La Cia li ritiene terroristi e intende “rimuoverli”. Vivono a Milano, Napoli, Torino, Vercelli, Berlino. Uno dl loro, appunto, è Abu Omar. C'e di più. “Dopo il colloquio con Castelli dice il generale” incarico Mancini e 5-6 uomini della sua squadra di pedinare e seguire gli spostamenti di Abu Omar per verificare se intorno all'imam si muove qualcosa. La cosa va avanti per pochi giorni, dopodiché lo abbandoniamo. Sapremo quel che è accaduto solo a cose fatte”.

Quando Pignero esce dall'ufficio di Armando Spataro, appare sollevato. E ha una sola urgenza: informare Marco Mancini di quei che è andato a raccontare. I ruoli, infatti, si sono invertiti. E' Mancini ora a comandare la divisione che è stata di Pignero: la prima, il controspionaggio. E' Pignero a dover riferire a Mancini. Lo chiama da un telefono pubblico dei palazzo di giustizia. Se la ride. Non sa che quell'apparecchio è ascoltato dalla Digos e pensa sia sufficiente la cautela che, d’accordo con Mancini, hanno deciso di adottare: le loro comunicazioni devono passare sempre attraverso il telefono cellulare di Luciano Seno, un funzionano dei Sismi. Con Mancini chiamano confidenzialmente Spataro “quel cretino dl Milano”. E al “cretino” Pignero ha appena raccontato una storiella di cui va fiero. Mancini lo ascolta e va su tutte le lune. Lo insulta, il copione non prevedeva che Pignero pronunciasse il suo nome. Che lo accostasse ad Abu Omar. I due si danno appuntamento per il giorno successivo a Roma, in via Tomacelli. Mancini vuole mettere una pezza al buco. La Digos li ascolta e li fotografa.

Per il Sismi, è l'inizio della fine. Ascoltando Pignero, Mancini e Seno, la Digos arriva all'ultimo piano di via Nazionale 230. Un grande ufficio di proprietà dei Sismi, intestato a Pio Pompa, abruzzese di 55 anni, funzionario dei Servizio, addetto alla disinformazione e al dossieraggio. Pompa ha un rapporto diretto con il direttore dei Servizio, Nicolo Pollari. Ma, soprattutto, informa Mancini delle mosse di Spataro e di quelle di due giornalisti di "Repubblica" Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini. L'11 maggio ne segnala la presenza a Milano all'hotel Diana, dove alloggiano: "Stanno a fa' la spola", "hanno visto il cretino". Se sa quei che sa è perché “intercetta il cellulare di D'Avanzo”, documentano gli atti della Procura. In giugno, Pompa ordina ai vicedirettore dei quotidiano "Libero", Renato Farina, di procurarsi un appuntamento con Spataro per cercare di capire dove sta andando a parare l'indagine. Prepara la lista delle domande da fare. E' un ordine, perché per li Servizio, Farina non è un giornalista, ma è così almeno lo chiamano al telefono “fonte Betulla”. Farina esegue diligente, incontra Spataro e Pomarici. Fa le domande che gli è stato chiesto di fare Non sa che due registratori stanno incidendo quella finta intervista su commissione. Non sa che il gioco è al capolinea.

di Carlo Bonini

Il metodo FIAT

Quando si parla di Fiat e di Termini Imerese, mi viene sempre da pensare ad una cosa che successe circa 7 anni fa. A quei tempi mi proposero un lavoro di responsabile qualita’ in una piccola azienda di meccanica di precisione delle mie parti. Durante i primi giorni, mi successe una cosa incredibile, che in seguito appresi essere molto comune.

Ad un certo punto, la padrona dell’azienda mi disse “ormai siamo economicamente piu’ robusti, e abbiamo superato la crisi, al punto che non lavoriamo piu’ per FIAT”.

Li per li’ la cosa mi lascio’ perplesso: che senso aveva vantarsi di aver perso un cliente che, a rigor di logica, e’ il piu’ succoso del paese? Laa risposta e’ molto semplice: FIAT non e’ il piu’ succoso cliente del paese per le PMI. Questo non perche’ non dia lavoro, anzi: fosse per FIAT, produrrebbe in Italia.

Il guaio e’ che FIAT ha un’organizzazione a dir poco “esponenziale”, con un middle management che e’ , in pratica, una casta sacerdotale intoccabile. Come tutte le caste sacerdotali, quella di FIAT ha instaurato alcune pratiche verso i fornitori. Ovviamente non mi riferisco a tutte le persone del middle management, ma a tutte quelle che si occupano di rapporti coi fornitori.

A parte i pagamenti a tempi inaccettabili, quando FIAT comincio’ a contattare le PMI italiane per terziarizzare il lavoro, esse non ebbero nulla da ridire, anzi. Spesso si ridimensionarono per sostenere il nuovo carico. Una volta che le aziende furono “assuefatte” al carico di lavoro dovuto a FIAT, arrivo’ la generazione dei “colletti bianchi” figli di Romiti , e prese il controllo dei centri di costo e degli uffici acquisti.

Morale della storia: le aziende che lavoravano con FIAT si videro richiedere, con sempre maggiore insistenza, dei “regali” per continuare a lavorare con FIAT. Questa prassi crebbe sino a diventare consolidata, al punto che c’era un vero e proprio listino: a quanto mi raccontarono, a seconda dei volumi di commesse elargite, si oscillava tra semplici “visite all’azienda fornitrice” con tanto di escort pronta, sino agli scooter (il manager dell’ufficio acquisti parlava dicendo che suo figli aveva ormai 14 anni: segnale in codice che significava “voglio uno scooter”), automobili, immobili, soldi liquidi, a seconda dell’importo delle commesse.

Una volta iniziato col malcostume, si aggiunse una nuova cricca di persone, cioe’ quelli che dopo aver ricevuto i pezzi lavorati facevano i controlli di accettazione. Succedeva questo: l’azienda riceveva la commessa per lavorare , che so io, mille barre di un acciaio molto pregiato, che so io, un ECG. A quel punto , quando arrivava il camion con le barre, si scopriva che l’acciaio consegnato era una robaccia proveniente dall’ est europa, magari radioattiva. Si chiamava l’ufficio acquisti e si veniva minacciati di cause civili, per i ritardi di consegna.

Allora, obtorto collo, il nostro padrone di officina lavorava le barre e le rispediva indietro. Risultato: il signore dell’accettazione del materiale minacciava di rifiutarlo, perche’ la qualita’ era troppo scadente. Ovviamente il nostro imprenditore meccanico rispondeva che di certo lui non aveva cambiato il materiale delle barre, ma si vedeva rispondere che sulla bolla si parlava di purissime barre di ottimo acciaio ECG.

Morale della storia: ungere le ruote prima e dopo. Risultato: a parte il giro di cassa, non era conveniente. Per circa un decennio, il massimo imperativo di coloro che avevano lavorato per FIAT (magari espandendosi e quindi avendone bisogno per reggere le spese correnti) fu quello di “uscire dalla schiavitu’ di FIAT”.

Per circa un ventennio, potersi vantare di “non lavorare piu’ per FIAT” fu un sinonimo di ottima saluta finanziaria. Una PMI che prima lavorava con FIAT o che era nata con FIAT e che aveva la forza si separarsene aveva fatto un “salto di qualita”. Nella mente dei piccoli imprenditori, nel corso dei decenni si e’ fatta strada una strana divisione: da una parte le aziende ancora deboli o naviganti in cattive acque, cosi’ con l’acqua alla gola da dover lavorare con FIAT. Dall’altra parte le aziende fiche, quelle brave, che riuscivano ad affrancarsi da questa schiavitu’.

Questa mentalita’ e’ ormai cosi’ diffusa che e’ quasi normale sentir dire, come motivo di vanto, “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”, come se perdere un cliente fosse una cosa buona. E questo perche’ il middle management di FIAT ha reso cosi’ incredibilmente lercio il business che le stesse PMI hanno dovuto cercare altro da farsi.

Il problema e’, a questo punto, che volendo costruire uno stabilimento bisogna avere per forza di cose una grandissima quantita’ di fornitori da gestire. E se pochi sono disposti a lavorare con pagamenti a 360 giorni, mazzetta propedeutica e mazzetta digestiva, il risultato sara’ che gran parte dei servizi e delle forniture bisognera’ farle venire da fuori.

Il problema vero di FIAT e’ che alle condizioni con cui fa le commesse NON PUO’ piu’ aprire stabilimenti in Italia. O trova imprese cosi’ disperate da dover accettare di lavorare coi suoi termini inaccettabili e il malcostume imperante dei suoi funzionari, e quindi aziende a bassa innovazione e bassa qualita’ (o alti prezzi, onde rientrare degli interessi di un anno di pagamento delazionato e di eventuali regalie) , oppure deve far venire dall’estero il materiale.

Non so se il top management di FIAT sia cosciente di questo malcostume, cioe’ di come i loro uffici acquisti lavorano coi fornitori; probabilmente no, e si sentono dire che produrre in Italia costi troppo senza chiedersi per quale motivo non riescano a strappare prezzi migliori dai propri fornitori, nemmeno in tempi di crisi. Fattosta che questa situazione dura ormai da decenni, e “non lavorare piu’ con FIAT” e’ ormai un simbolo di indipendenza economica e di salute aziendali.

Di fatto, costruire uno stabilimento in Italia, grazie a questo middle management, e’ praticamente impssibile. I pochi stabilimenti che ancora ci sono moriranno lentamente, mano a mano che sempre piu’ aziende riusciranno ad ottenere l’agognato status di “noi non lavoriamo piu’ per FIAT”.

Queste PMI che non sognano altro che “non lavorare piu’ per FIAT” sono il cuore dell’elettorato leghista e berlusconiano. Il che significa che, trasferendo il problema sul piano politico, quello attuale e’ un governo che ha una gran voglia di dichiarare “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”.

Qui avviene il transfert: una volta che per un elettorato di riferimento “non lavorare piu’ per FIAT” diventa motivo di vanto, lo diventa anche per il partito. E quindi, per il governo.

A questo punto, abbiamo uno Scajola che da un lato non vuole piu’ dare soldi a FIAT , perche’ questa eventuale dazione ricorderebbe ai suoi elettori il ricatto da cui loro stessi voglioni (e alcuni sono riusciti) affrancarsi: “se vuoi il lavoro , paga”.

Non c’e’ , quindi, da temere che il governo possa finanziare, direttamente o in qualsiasi modo, la FIAT. Con una base che ricorda con ribrezzo e assai poca nostalgia gli anni in cui veniva taglieggiata con “se vuoi il lavoro, paga”, ne’ la Lega ne’ FI possono permettersi di farlo. La base vuole “non lavorare piu’ con FIAT”, il governo deve seguire.

Dall’altro lato, la crisi di termini deve portare una soluzione simile a quella degli imprenditori “vincenti”: trovare altri clienti “buoni” che permettano all’ azienda (in questo caso all’ Italia) di “non lavorare piu’ per FIAT”.

Cosi’, quello che dobbiamo aspettarci da questo governo, almeno sul piano della trattativa pubblica, e’ quello che i piccoli imprenditori sono riusciti ad ottenere con grande fatica (e chi non c’e’ riuscito sta sudando per arrivarci), ovvero:

  • Smettere di pagare qualsiasi dazio/contributo/aiuto a FIAT, sotto qualsiasi forma. (essi ricordano troppo alle PMI quei “regalini” che dovevano fare per “avere il lavoro”).
  • Lavorare come hanno lavorato le PMI, ovvero cercare altri clienti che permettano di evitare l’abbraccio di FIAT.
  • Poter annunciare con fierezza “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”.

Questo pone innanzitutto due problemi.

Il primo e’ per FIAT: e’ vero che nei paesi stranieri non si e’ ancora verificato il peggioramento del middle management che e’ avvenuto in Italia, ed e’ vero che paesi poveri sono disposti a lavorare a tali condizioni. Ma e’ anche vero che mano a mano che crescono, tali paesi tenteranno a loro volta di affrancarsi da quel modo di fare.

In secondo luogo, la capacita’ di ricatto politico che un gruppo ha sul governo e’ rappresentata dal numero di dipendenti che puo’ licenziare in campagna elettorale. Mano a mano che questo numero si affievolisce il governo ha sempre piu’ le mani libere, e molti governi stranieri non sono altrettanto nella disposizione di finanziare FIAT.

Non sarebbe meglio per FIAT agire sul malcostume del middle management, che ha reso il fatto di lavorare per FIAT quasi un’onta ?

In secondo punto, per il governo: e” vero che gran parte delle PMI trarrebbe sollievo dal sentire il governo annunciare “noi non lavoriamo piu’ per FIAT”, ma rimane il fatto che molte PMI hanno l’acqua alla gola e devono, obtorto collo, lavorarci. Il che significa, in un modo o nell’altro, che queste aziende sono cosi’ fragili da rischiare il collasso se FIAT continua a dismettere.

La mia opinione e, a questo punto, che in questa situazione tantovarrebbe seguire la strada contraria: il governo finanzia FIAT, ma la finanzia troppo. Cosi’ tanto, e a tali condizioni, che il gruppo non riesca piu’ a vivere senza. In questo modo, le parti si invertono e le redini del gruppo vanno al governo. Che poi riporta in Italia la produzione.

Si tratterebbe cioe’ di una “nazionalizzazione alla francese”, nella quale il governo aiuta cosi’ tanto alcune aziende che esse hanno bisogno del governo per sopravvivere. Cosi’ facendo, la politica prende di fatto il controllo dell’azienda, e i soldi investiti vengono recuperati ordinando all’azienda di rispostare la produzione in casa.

Onestamente, non vedo alternative: se continua la contrapposizione tra una FIAT che ha perso il controllo del middle management e non riesce piu’ a lavorare in Italia ed un governo che mira a sostituirla con altre attivita’ per accontentare un elettorato di PMI che hanno fatto altrettanto, il risultato presto sara’ una FIAT che lascia di fatto il paese ed un governo che trova delle alternative non italiane.

Non e’ meglio, allora, una nazionalizzazione furba?

di Uriel

12 febbraio 2010

Berlusconi, Israele e la sinistra





Ci sono sostanzialmente due modi di far politica: uno pensando al proprio tornaconto, l’altro a quello della comunità. No, non mettetevi a ridere. C’è gente, a questo mondo, tanti pochi, sempre più o sempre meno, che vivono vite normali, pensando a lavorare onestamente e a vivere il più serenamente possibile, non evadendo le tasse, facendo sacrifici, non approfittando dell’ altrui ingenuità, aiutando il prossimo con opere di volontariato e lavorando più per amore che per danaro.

Che costoro rappresentino oggi una esigua minoranza e che l’attuale non sia il loro mondo è un dato di fatto inoppugnabile. “Ognuno ha il governo che si merita”, si diceva un tempo; ma forse questi pochi fanno parte di quel 50% di cittadini che non si reca a votare avendone mille e una ragioni.

Ne pensavo in questi giorni seguendo la visita del Presidente del Consiglio Berlusconi in Israele. Chi era e chi è Berlusconi lo sanno tutti, anche se i giudizi sono spesso discordanti. Per qualche giudice è un delinquente incallito, per i suoi sostenitori è un perseguitato che s’è fatto dal niente, per Bossi era un mafioso diventato improvvisamente santo. Per noi è semplicemente un imprenditore che ha fatto tanti soldi troppo in fretta, cosa che ci riporta in mente quel famoso detto di Honoré de Balzac secondo il quale “ dietro ogni grande fortuna si nasconde un delitto”.

Che poi in questo mare politico di lazzaroni, di ladroni, di buzzurri, di personaggi arroganti e ignoranti riciclati dalla pattumiera della prima repubblica la faccia di Berlusconi ispiri anche un po’ di simpatia è anch’esso un dato di fatto. Ma queste sono caratteristiche che con la politica - che dovrebbe consistere nell’arte di governare uno stato – poco “c’azzeccano”. In politica ciò che conta sono i risultati e a noi non pare che di risultati i vari governi Berlusconi ne abbiano prodotti molti: il debito pubblico ha continuato a crescere, il boom economico ha lasciato il posto ad una massiccia disoccupazione e le riforme sono rimaste appiccicate sui manifesti demagogici della Lega (partito di proprietà di Berlusconi) e di qualche ministro bontempone che vorrebbe aiutare i giovani disoccupati dando loro i soldi tolti dalle miserevoli pensioni dei vecchi.

La colpa dell’attuale crisi - si sente spesso dire - non è dei nostri governanti, è dell’America. Sono loro che ci hanno trascinato nell’ attuale baratro finanziario. Cosa certamente vera, ma che non giustifica le scelte dei nostri governanti di continuare a prender ordini, in campo economico e militare, da una potenza che ha da tempo imboccato il viale del tramonto.

Nei giorni scorsi hanno fatto un gran clamore le parole pronunciate da Berlusconi al parlamento di Israele, lo stato che cura gli interessi imperialisti degli USA in Medio Oriente. Nell’occasione il nostro premier ha detto tutto e il contrario di tutto: giustificando i continui massacri dei terroristi sionisti contro il popolo palestinese, ma commovendosi per gli innocenti morti in quei massacri; sposando tesi demenziali ( “Giusto l’attacco su Gaza”) ed invocando il diritto di Israele a difendersi da cosiddetti missili che a malapena riescono a superare il confine israeliano, ma criticando l’entità sionista per la continua occupazione di territori palestinesi; invitando Israele a rispettare i diritti umani, ma promettendo il disimpegno dell’Italia nei rapporti commerciali con l’Iran; trattenendosi amichevolmente con personaggi del calibro di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro degli esteri Tipzi Livni contro la quale un tribunale inglese ha emesso di recente un mandato di cattura per crimini di guerra, ma incontrandosi subito dopo con Abu Mazen per manifestargli il suo dolore per le stragi di Gaza. E a chi gli chiedeva se avesse visto il “Muro dell’apartheid” appena eretto dal governo sionista ha risposto di no, che era intento a prender appunti sul discorso che doveva tenere alla Knesset. Contraddizioni pesanti, che hanno fatto il giro del mondo, nonostante il silenzio assordante delle destre e delle sinistre italiane, unite oggi nel nome di Israele come lo erano ieri quando D’Alema bombardava Belgrado.

Dal dopoguerra ad oggi il nostro Paese ha sempre mantenuto una certa neutralità sulla questione palestinese e l’uscita del nostro premier ha colto molti di sorpresa. Qualcuno ha scritto che tutta questa confusione può esser stata generata dallo “spasmodico desiderio dell’uomo di essere amato da tutti”, qualcun altro che in questo agire insensato sia stato influenzato dal suo Ministro degli Esteri Frattini (sionista di ferro fin da quando scriveva per il “Manifesto”), altri ancora (Gianni Petrosillo) che “Berlusconi è solo un politico di infima caratura” .

A noi che ricordiamo un altro Silvio Berlusconi, amico di Craxi e dei palestinesi, queste tesi non convincono. E’ per questo che ci spaventano le parole pronunciate da Mohammad Hannoun, presidente dell’API, l’associazione dei palestinesi italiani: “Non bisogna dimenticare che è un uomo d’affari e avrà obiettivi personali e aziendali da raggiungere…Non ultimo nei confronti del suo rivale commerciale, Rupert Murdoch, le cui tv sono state co-protagoniste delle campagne di diffamazione nei suoi confronti. Avrà voluto dimostrargli che anche lui è filo-sionista e sta con il più forte”.

Parole pesanti che però, alla luce della stranezza di questa vicenda, non possono non venir considerate. Ci sarebbe da rabbrividire al solo pensare di esser rappresentati da un primo ministro che confonde i propri interessi economici con i crimini di guerra. Strano che la sinistra dei diritti umani, quella che tanto tuonò sul conflitto di interessi sulle televisioni, non se ne sia accorta.

di Enzo Chiaradia

Una storia ordinaria di Intelligence


Questa storia di spie, infedeltà, menzogne, intercettazioni e pedinamenti illegali, comincia con una confessione e con una confessione finisce. La prima volontaria. L'ultima, rubata in conversazioni telefoniche intercettate. Comincia con il racconto di un tipo gioviale che alla Procura di Milano tutti conoscono e di nome fa Luigi Pironi, per molti anni maresciallo dei Ros. E' storia di due mesi fa. Il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro e la Digos lo collocano sulla scena dei rapimento di Abu Omar. Lui, ammette. La notizia fa il giro dei mondo, ma quel che Pironi racconta davvero resta un segreto. Il maresciallo non si limita a riconoscere la propria partecipazione nel sequestro. Fa di più. Spiega di essere stato avvicinato alla fine del 2002 dall'uomo di cui nel tempo era diventato amico: Robert Seldon Lady, allora capo del centro Cia di Milano. Lo spione americano lo arruola per partecipare all'operazione coperta di “rimozione” dell'imam egiziano e lo rassicura: “Il Sismi sta lavorando con noi. E' della partita”. Gli fa balenare un premio: “Se ci stai, ti faccio entrare al Sismi". Per il maresciallo è un'offerta irrinunciabile, il sogno di un'intera carriera: approdare nei ranghi dell'intelligence militare. Pironi sa che Lady non è un buffone. Che fa quel che dice. Che dice quel che fa. E ritiene di averne la prova. Alla fine di novembre del 2002, incontra il colonnello Stefano D'Ambrosio, allora capo centro del Sismi di Milano. L'ufficiale dice che ha avuto eccellenti referenze sui suo conto, che una chiamata dal Servizio e nelle cose. Pironi si convince definitivamente che se farà ciò che gli è stato chiesto, avrà ciò che desidera. Si mette a disposizione di Lady. Il varco che il maresciallo apre alla Procura di Milano è stretto ma cruciale. Lo allarga l’unico testimone in grado di confermare se Pironi racconti o meno il vero: Stefano D'Ambrosio. L'ufficiale non è più in servizio al Sismi. E' rientrato nei ranghi dell'Arma nel dicembre dei 2002, dopo essere stato misteriosamente rimosso dall'incarico di capocentro di Milano. Raccontano D'Ambrosio come un ufficiale serio, preparato. E’ andato a comandare i carabinieri di Gorizia. Portando con sé dicono il suo segreto. Quando Spataro lo convoca, anche lui sceglie di raccontare. La fessura aperta da Pironi diventa un paesaggio ricco di figure.

Anche lui riporta il tempo a quel novembre 2002 a Milano. D'Ambrosio, per ovvie ragioni di ufficio, ha eccellenti rapporti con Lady e proprio da lui, del tutto casualmente, apprende in quei giorni quel che sta bollendo in pentola a Milano e che lui scopre di ignorare. Lady lo avverte che “a Roma i suoi superiori del Sismi" hanno cominciato a lavorare con la Cia all'operazione di sequestro di Abu Omar. Lady confida a D'Ambrosio di essere contrario. Di averlo detto chiaro e tondo a Jeff Castelli, capo della Cia in Italia. Per lui, "rimuovere" l'imam è “una cazzata”. Per almeno due buone ragioni, che nulla hanno a che fare con il diritto internazionale, ma molto hanno a che vedere con la praticità con cui Lady si muove. Sequestrare Abu Omar ragiona lo spione americano con D'Ambrosio significa perdere all'interno della moschea di viale Jenner un uomo che la Cia ha imparato a conoscere e che verrà rimpiazzato da qualcun altro con cui si dovrà ricominciare da capo. Ln più, Abu Omar è sotto inchiesta della Procura e della Digos di Milano. Portarglielo via di nascosto può essere solo foriero di grossi guai.

D'Ambrosio è d'accordo. L'operazione di Abu Omar 'è una cazzata”. Ma, dal suo punto di vista di funzionario del Sismi, è qualcosa di peggio: è un reato. Non impedire il sequestro di Abu Omar equivale a commetterlo. Dunque, l'ufficiale decide di rispettare la lettera della legge. Informa di quanto ha appreso da Lady e della personale contrarietà all'operazione il suo immediato superiore gerarchico: Marco Mancini.

L'ex brigadiere dei carabinieri dell'Anticrimine di Milano, già capo centro Sismi di Bologna, ha fatto carriera in fretta, in quella fine di novembre del 2002 sovrintende l'attività di tutti i centri Sismi del nord Italia. Quando ascolta quanto ha da dirgli D'Ambrosio non fa una piega. Ascolta in silenzio la storia del sequestro, annota le informazioni che D'Ambrosio ha raccolto da Lady. Dice al suo ufficiale che ne parlerà con Roma e gli farà sapere. D'Ambrosio non ne saprà più nulla. Agli inizi di dicembre dei 2002, dieci giorni dopo il suo colloquio con Mancini, da Forte Braschi, la sede dei Servizio, viene informato che, con effetto immediato, è rimosso dal comando del centro Sismi di Milano e trasferito a Roma. Al suo posto, assume pro tempore l'incarico Marco Mancini.

Dicembre 2002. Mancano sessanta giorni ai sequestro di Abu Omar. Cosa accade? Cosa fa o cosa viene chiesto di fare a Marco Mancini?

Armando Spataro lo chiede al generale Gustavo Pignero. E’ un carabiniere cresciuto alla scuola di Dalla Chiesa, sotto il cui comando, in un tempo ormai lontano, ha messo le mani su Renato Curcio. Pignero, nel dicembre del 2002, comanda la prima divisione del Sismi, il controspinnaggio. E’ il superiore gerarchico di Mancini. Quello cui, a rigore di logica e risalendo la catena di comando, Mancini deve aver riferito dei colloquio con D'Ambrosio. Ma il primo approccio è deludente. Pignoro di Abu Omar nulla sa e nulla ha saputo. E’ vero, sono ormai passati quattro anni dall'inverno 2002, ma certe cose non si dovrebbero dimenticare se sono accadute. Eppure, nulla. Pignero non sa nulla.

Lo scorso primo giugno, pero, accade qualcosa. Pignero si fa vivo con Spataro. Rispetto al primo interrogatorio, gli è tornata la memoria. Il generale riferisce di un incontro avuto nel dicembre 2002 con Jeff Castelli, a Roma. Il capo della Cia in Italia, racconta il generale, ci propone di lavorare insieme su “12 obiettivi operativi”. Dodici arabi. La Cia li ritiene terroristi e intende “rimuoverli”. Vivono a Milano, Napoli, Torino, Vercelli, Berlino. Uno dl loro, appunto, è Abu Omar. C'e di più. “Dopo il colloquio con Castelli dice il generale” incarico Mancini e 5-6 uomini della sua squadra di pedinare e seguire gli spostamenti di Abu Omar per verificare se intorno all'imam si muove qualcosa. La cosa va avanti per pochi giorni, dopodiché lo abbandoniamo. Sapremo quel che è accaduto solo a cose fatte”.

Quando Pignero esce dall'ufficio di Armando Spataro, appare sollevato. E ha una sola urgenza: informare Marco Mancini di quei che è andato a raccontare. I ruoli, infatti, si sono invertiti. E' Mancini ora a comandare la divisione che è stata di Pignero: la prima, il controspionaggio. E' Pignero a dover riferire a Mancini. Lo chiama da un telefono pubblico dei palazzo di giustizia. Se la ride. Non sa che quell'apparecchio è ascoltato dalla Digos e pensa sia sufficiente la cautela che, d’accordo con Mancini, hanno deciso di adottare: le loro comunicazioni devono passare sempre attraverso il telefono cellulare di Luciano Seno, un funzionano dei Sismi. Con Mancini chiamano confidenzialmente Spataro “quel cretino dl Milano”. E al “cretino” Pignero ha appena raccontato una storiella di cui va fiero. Mancini lo ascolta e va su tutte le lune. Lo insulta, il copione non prevedeva che Pignero pronunciasse il suo nome. Che lo accostasse ad Abu Omar. I due si danno appuntamento per il giorno successivo a Roma, in via Tomacelli. Mancini vuole mettere una pezza al buco. La Digos li ascolta e li fotografa.

Per il Sismi, è l'inizio della fine. Ascoltando Pignero, Mancini e Seno, la Digos arriva all'ultimo piano di via Nazionale 230. Un grande ufficio di proprietà dei Sismi, intestato a Pio Pompa, abruzzese di 55 anni, funzionario dei Servizio, addetto alla disinformazione e al dossieraggio. Pompa ha un rapporto diretto con il direttore dei Servizio, Nicolo Pollari. Ma, soprattutto, informa Mancini delle mosse di Spataro e di quelle di due giornalisti di "Repubblica" Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini. L'11 maggio ne segnala la presenza a Milano all'hotel Diana, dove alloggiano: "Stanno a fa' la spola", "hanno visto il cretino". Se sa quei che sa è perché “intercetta il cellulare di D'Avanzo”, documentano gli atti della Procura. In giugno, Pompa ordina ai vicedirettore dei quotidiano "Libero", Renato Farina, di procurarsi un appuntamento con Spataro per cercare di capire dove sta andando a parare l'indagine. Prepara la lista delle domande da fare. E' un ordine, perché per li Servizio, Farina non è un giornalista, ma è così almeno lo chiamano al telefono “fonte Betulla”. Farina esegue diligente, incontra Spataro e Pomarici. Fa le domande che gli è stato chiesto di fare Non sa che due registratori stanno incidendo quella finta intervista su commissione. Non sa che il gioco è al capolinea.

di Carlo Bonini

Il metodo FIAT

Quando si parla di Fiat e di Termini Imerese, mi viene sempre da pensare ad una cosa che successe circa 7 anni fa. A quei tempi mi proposero un lavoro di responsabile qualita’ in una piccola azienda di meccanica di precisione delle mie parti. Durante i primi giorni, mi successe una cosa incredibile, che in seguito appresi essere molto comune.

Ad un certo punto, la padrona dell’azienda mi disse “ormai siamo economicamente piu’ robusti, e abbiamo superato la crisi, al punto che non lavoriamo piu’ per FIAT”.

Li per li’ la cosa mi lascio’ perplesso: che senso aveva vantarsi di aver perso un cliente che, a rigor di logica, e’ il piu’ succoso del paese? Laa risposta e’ molto semplice: FIAT non e’ il piu’ succoso cliente del paese per le PMI. Questo non perche’ non dia lavoro, anzi: fosse per FIAT, produrrebbe in Italia.

Il guaio e’ che FIAT ha un’organizzazione a dir poco “esponenziale”, con un middle management che e’ , in pratica, una casta sacerdotale intoccabile. Come tutte le caste sacerdotali, quella di FIAT ha instaurato alcune pratiche verso i fornitori. Ovviamente non mi riferisco a tutte le persone del middle management, ma a tutte quelle che si occupano di rapporti coi fornitori.

A parte i pagamenti a tempi inaccettabili, quando FIAT comincio’ a contattare le PMI italiane per terziarizzare il lavoro, esse non ebbero nulla da ridire, anzi. Spesso si ridimensionarono per sostenere il nuovo carico. Una volta che le aziende furono “assuefatte” al carico di lavoro dovuto a FIAT, arrivo’ la generazione dei “colletti bianchi” figli di Romiti , e prese il controllo dei centri di costo e degli uffici acquisti.

Morale della storia: le aziende che lavoravano con FIAT si videro richiedere, con sempre maggiore insistenza, dei “regali” per continuare a lavorare con FIAT. Questa prassi crebbe sino a diventare consolidata, al punto che c’era un vero e proprio listino: a quanto mi raccontarono, a seconda dei volumi di commesse elargite, si oscillava tra semplici “visite all’azienda fornitrice” con tanto di escort pronta, sino agli scooter (il manager dell’ufficio acquisti parlava dicendo che suo figli aveva ormai 14 anni: segnale in codice che significava “voglio uno scooter”), automobili, immobili, soldi liquidi, a seconda dell’importo delle commesse.

Una volta iniziato col malcostume, si aggiunse una nuova cricca di persone, cioe’ quelli che dopo aver ricevuto i pezzi lavorati facevano i controlli di accettazione. Succedeva questo: l’azienda riceveva la commessa per lavorare , che so io, mille barre di un acciaio molto pregiato, che so io, un ECG. A quel punto , quando arrivava il camion con le barre, si scopriva che l’acciaio consegnato era una robaccia proveniente dall’ est europa, magari radioattiva. Si chiamava l’ufficio acquisti e si veniva minacciati di cause civili, per i ritardi di consegna.

Allora, obtorto collo, il nostro padrone di officina lavorava le barre e le rispediva indietro. Risultato: il signore dell’accettazione del materiale minacciava di rifiutarlo, perche’ la qualita’ era troppo scadente. Ovviamente il nostro imprenditore meccanico rispondeva che di certo lui non aveva cambiato il materiale delle barre, ma si vedeva rispondere che sulla bolla si parlava di purissime barre di ottimo acciaio ECG.

Morale della storia: ungere le ruote prima e dopo. Risultato: a parte il giro di cassa, non era conveniente. Per circa un decennio, il massimo imperativo di coloro che avevano lavorato per FIAT (magari espandendosi e quindi avendone bisogno per reggere le spese correnti) fu quello di “uscire dalla schiavitu’ di FIAT”.

Per circa un ventennio, potersi vantare di “non lavorare piu’ per FIAT” fu un sinonimo di ottima saluta finanziaria. Una PMI che prima lavorava con FIAT o che era nata con FIAT e che aveva la forza si separarsene aveva fatto un “salto di qualita”. Nella mente dei piccoli imprenditori, nel corso dei decenni si e’ fatta strada una strana divisione: da una parte le aziende ancora deboli o naviganti in cattive acque, cosi’ con l’acqua alla gola da dover lavorare con FIAT. Dall’altra parte le aziende fiche, quelle brave, che riuscivano ad affrancarsi da questa schiavitu’.

Questa mentalita’ e’ ormai cosi’ diffusa che e’ quasi normale sentir dire, come motivo di vanto, “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”, come se perdere un cliente fosse una cosa buona. E questo perche’ il middle management di FIAT ha reso cosi’ incredibilmente lercio il business che le stesse PMI hanno dovuto cercare altro da farsi.

Il problema e’, a questo punto, che volendo costruire uno stabilimento bisogna avere per forza di cose una grandissima quantita’ di fornitori da gestire. E se pochi sono disposti a lavorare con pagamenti a 360 giorni, mazzetta propedeutica e mazzetta digestiva, il risultato sara’ che gran parte dei servizi e delle forniture bisognera’ farle venire da fuori.

Il problema vero di FIAT e’ che alle condizioni con cui fa le commesse NON PUO’ piu’ aprire stabilimenti in Italia. O trova imprese cosi’ disperate da dover accettare di lavorare coi suoi termini inaccettabili e il malcostume imperante dei suoi funzionari, e quindi aziende a bassa innovazione e bassa qualita’ (o alti prezzi, onde rientrare degli interessi di un anno di pagamento delazionato e di eventuali regalie) , oppure deve far venire dall’estero il materiale.

Non so se il top management di FIAT sia cosciente di questo malcostume, cioe’ di come i loro uffici acquisti lavorano coi fornitori; probabilmente no, e si sentono dire che produrre in Italia costi troppo senza chiedersi per quale motivo non riescano a strappare prezzi migliori dai propri fornitori, nemmeno in tempi di crisi. Fattosta che questa situazione dura ormai da decenni, e “non lavorare piu’ con FIAT” e’ ormai un simbolo di indipendenza economica e di salute aziendali.

Di fatto, costruire uno stabilimento in Italia, grazie a questo middle management, e’ praticamente impssibile. I pochi stabilimenti che ancora ci sono moriranno lentamente, mano a mano che sempre piu’ aziende riusciranno ad ottenere l’agognato status di “noi non lavoriamo piu’ per FIAT”.

Queste PMI che non sognano altro che “non lavorare piu’ per FIAT” sono il cuore dell’elettorato leghista e berlusconiano. Il che significa che, trasferendo il problema sul piano politico, quello attuale e’ un governo che ha una gran voglia di dichiarare “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”.

Qui avviene il transfert: una volta che per un elettorato di riferimento “non lavorare piu’ per FIAT” diventa motivo di vanto, lo diventa anche per il partito. E quindi, per il governo.

A questo punto, abbiamo uno Scajola che da un lato non vuole piu’ dare soldi a FIAT , perche’ questa eventuale dazione ricorderebbe ai suoi elettori il ricatto da cui loro stessi voglioni (e alcuni sono riusciti) affrancarsi: “se vuoi il lavoro , paga”.

Non c’e’ , quindi, da temere che il governo possa finanziare, direttamente o in qualsiasi modo, la FIAT. Con una base che ricorda con ribrezzo e assai poca nostalgia gli anni in cui veniva taglieggiata con “se vuoi il lavoro, paga”, ne’ la Lega ne’ FI possono permettersi di farlo. La base vuole “non lavorare piu’ con FIAT”, il governo deve seguire.

Dall’altro lato, la crisi di termini deve portare una soluzione simile a quella degli imprenditori “vincenti”: trovare altri clienti “buoni” che permettano all’ azienda (in questo caso all’ Italia) di “non lavorare piu’ per FIAT”.

Cosi’, quello che dobbiamo aspettarci da questo governo, almeno sul piano della trattativa pubblica, e’ quello che i piccoli imprenditori sono riusciti ad ottenere con grande fatica (e chi non c’e’ riuscito sta sudando per arrivarci), ovvero:

  • Smettere di pagare qualsiasi dazio/contributo/aiuto a FIAT, sotto qualsiasi forma. (essi ricordano troppo alle PMI quei “regalini” che dovevano fare per “avere il lavoro”).
  • Lavorare come hanno lavorato le PMI, ovvero cercare altri clienti che permettano di evitare l’abbraccio di FIAT.
  • Poter annunciare con fierezza “noi non lavoriamo piu’ con FIAT”.

Questo pone innanzitutto due problemi.

Il primo e’ per FIAT: e’ vero che nei paesi stranieri non si e’ ancora verificato il peggioramento del middle management che e’ avvenuto in Italia, ed e’ vero che paesi poveri sono disposti a lavorare a tali condizioni. Ma e’ anche vero che mano a mano che crescono, tali paesi tenteranno a loro volta di affrancarsi da quel modo di fare.

In secondo luogo, la capacita’ di ricatto politico che un gruppo ha sul governo e’ rappresentata dal numero di dipendenti che puo’ licenziare in campagna elettorale. Mano a mano che questo numero si affievolisce il governo ha sempre piu’ le mani libere, e molti governi stranieri non sono altrettanto nella disposizione di finanziare FIAT.

Non sarebbe meglio per FIAT agire sul malcostume del middle management, che ha reso il fatto di lavorare per FIAT quasi un’onta ?

In secondo punto, per il governo: e” vero che gran parte delle PMI trarrebbe sollievo dal sentire il governo annunciare “noi non lavoriamo piu’ per FIAT”, ma rimane il fatto che molte PMI hanno l’acqua alla gola e devono, obtorto collo, lavorarci. Il che significa, in un modo o nell’altro, che queste aziende sono cosi’ fragili da rischiare il collasso se FIAT continua a dismettere.

La mia opinione e, a questo punto, che in questa situazione tantovarrebbe seguire la strada contraria: il governo finanzia FIAT, ma la finanzia troppo. Cosi’ tanto, e a tali condizioni, che il gruppo non riesca piu’ a vivere senza. In questo modo, le parti si invertono e le redini del gruppo vanno al governo. Che poi riporta in Italia la produzione.

Si tratterebbe cioe’ di una “nazionalizzazione alla francese”, nella quale il governo aiuta cosi’ tanto alcune aziende che esse hanno bisogno del governo per sopravvivere. Cosi’ facendo, la politica prende di fatto il controllo dell’azienda, e i soldi investiti vengono recuperati ordinando all’azienda di rispostare la produzione in casa.

Onestamente, non vedo alternative: se continua la contrapposizione tra una FIAT che ha perso il controllo del middle management e non riesce piu’ a lavorare in Italia ed un governo che mira a sostituirla con altre attivita’ per accontentare un elettorato di PMI che hanno fatto altrettanto, il risultato presto sara’ una FIAT che lascia di fatto il paese ed un governo che trova delle alternative non italiane.

Non e’ meglio, allora, una nazionalizzazione furba?

di Uriel