23 maggio 2010

I furbetti della cedola


Che il mercato finanziario abbia bisogno di un rinnovamento esemplare non è un mistero. Da tempo, ormai, si parla quotidianamente di speculazioni nocive, titoli tossici, strumenti di investimento “alternativi” o “non convenzionali”, insolvenze e così via, per arrivare, immancabilmente, allo spauracchio delle Grande Crisi. Un po’ meno chiaro, purtroppo, è il modo concreto in cui questa trasformazione dovrà avvenire. E, soprattutto, nessuno sa spiegare come si farà a coinvolgere la Borsa dei “piani alti” nei costi della crisi: anche perché ogni riforma, dalla più banale, sembra non trovare spazio all’interno del far west finanziario.

Ancora non è stato deciso, ad esempio, come e se verrà disciplinato il mercato dei cosiddetti credit default swaps, o CDS, contratti derivati sul rischio di credito. I CDS costituiscono la polizza assicurativa degli attori di borsa: chi acquista questi contratti, si assicura contro l’eventualità di un fallimento della società (o dello Stato) che le emette. L’investitore compra i CDS da società finanziarie terze, che risarciranno l’investitore dell’intera somma corrispondente alle obbligazioni assicurate in caso di default. L’unico problema è che le società venditrici di CDS non sono società assicurative ed inoltre sono in grado di garantire protezione anche a chi non detiene in portafoglio i titoli “garantiti” dal derivato.

Benché i CDS siano nati negli anni 90 come prodotto protettivo per creditori reali, il suo impiego speculativo è stato deleterio. Chi sottoscrive CDS per speculare non compra protezione ma piuttosto assume una posizione di vendita allo scoperto sulle emissioni della società oggetto di speculazione, di fatto scommettendo sul suo fallimento: in caso di default, infatti, lo speculatore riceverà dall’emittente del derivato un pagamento pari al nominale garantito.

Ma il circolo vizioso è più ampio: i contratti CDS sono un buon indicatore del premio per il rischio che il mercato richiede per mettere dei soldi nella società su cui vengono “scritti”: pertanto, quando aumenta la probabilità percepita di un fallimento, cresce il valore dei CDS, e con esso il costo dell’indebitamento per la società, in un avvitamento pernicioso e difficilmente controllabile.

Ed è proprio questa l’accusa da parte dei politici europei nei confronti di molti Hedge Fund inglesi e americani. Questi operatori non bancari, che utilizzano di regola strategie molto sofisticate, hanno realizzato profitti astronomici scommettendo sulla bancarotta di società o Stati terzi (vedi la Grecia). Che il mercato dei CDS sia stato pesantemente “drogato” dalla speculazione è provato dal fatto che al momento dello scoppio della crisi il valore complessivo del mercato dei credit default swap ha superato (e di molto) quello della somma di tutte le obbligazioni nazionali, aziendali, e municipali in circolazione: l’eccedenza tra le due misure è costituita da quei titoli creati e sottoscritti per puri intenti “di scommessa”. Ad aggravare la situazione, i CDS vengono stipulati senza alcuna formalità, né per gli emittenti sono previsti particolari requisiti di capitale. E ora ci si ritrova con una pila di CDS conclusi sullo stesso sottostante.

La Germania, che in questo momento di crisi ha assunto di fatto la leadership dell’Area Euro, sta lanciando segnali confortanti sul piano della lotta contro la speculazione basata sui derivati di credito. Tanto per dimostrare al mondo che la Cancelliera non solo abbaia ma è in grado anche di assestare qualche morso, la BaFin (CONSOB tedesca) ha annunciato ieri sera il divieto vendite allo scoperto su un paniere di titoli azionari di società assicurative e banche di importanza strategica (tra cui Allianz, Deutsche Bank e Commerzbank) nonché quello di negoziazione di “naked CDS”, ovvero CDS senza sottostante su titoli obbligazionari di emittenti sovrani (per impedire il tipo di giochino, per intenderci, che ha spacciato la Grecia).

Se l’idea alla base della decisione della BaFin è pienamente condivisibile sul piano del principio, non si può negare che essa è stata presa senza nemmeno preoccuparsi di consultare i Francesi, né Bruxelles, il che le ha conferito il poco gradevole stigma della disperazione. Il tutto senza contare che, da un punto di vista pratico non è ben chiaro il modo in cui l’autorità di vigilanza tedesca riuscirà a monitorare il rispetto del divieto da parte degli operatori, dato che la stragrande maggioranza delle transazioni sui derivati di credito continua ad essere negoziata su Londra.

La FSA, Financial Services Authority britannica si è tra l’altro affrettata a spiegare che il veto non potrà applicarsi alle filiali londinesi delle banche tedesche... Se poi si pensava di proteggere i titoli greci, si può concludere che la mossa è platealmente fallita, dato che lo spread sui titoli ellenici, proibizioni o no sui CDS, si è allargato di altri 37 centesimi.

Se gli Stati europei riusciranno a portare avanti un ordinamento del mercato finanziario senza il sostegno degli Stati Uniti è tutto da vedere: sarebbe un primo, indicativo passo verso un nuovo ottimismo nei confronti di un’economia capitalista che ha deluso i più. Certo, l’esordio gauchiste della Merkel non è dei più confortanti.

di Emanuela Pessina

22 maggio 2010

La casta e le sforbiciatine


L’idea di stampare in arabo, nel 2002, una sorta di guida della Camera con tanto di copertina verde islamica sarà stata forse una botta di genio. Ma Dio sa quanto sarebbe utile una traduzione dei bilanci della politica italiana in italiano. Questa sarebbe, la vera svolta epocale. Intendiamoci, sarebbe insensato non apprezzare il taglio alle buste paga dei parlamentari e dei ministri. Tanto più dopo che Tremonti ha detto che sarà assai più netto della sforbiciatina proposta da Calderoli, quel 5% di limatura alle indennità che, mettendo al riparo la polpa delle diarie, dei rimborsi e delle prebende varie, era stato bollato anche dai giornali non ostili al governo come una «elemosina».

In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.

Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.

È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?

Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.

Gian Antonio Stella

20 maggio 2010

Presi per il PIL



La crisi finanziaria sta accartocciando le nostre economie. Esportazioni in caduta libera, licenziamenti selvaggi, investimenti in picchiata, sfratti esecutivi per milioni di famiglie e deficit pubblici impazziti (che pompano verso l’alto il debito pubblico) sono solo alcuni degli effetti disastrosi dell’attuale crisi economica mondiale.

Sebbene l’attenzione dei media sia tutta concentrata sulla strada molto accidentata che dovrebbe portarci al “risanamento”, le montagne russe dell’economia mondiale hanno finalmente innescato un dibattito che mette in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo fondato sulla crescita economica infinita. Tale critica non è soltanto basata sull’instabilità endemica delle dinamiche di mercato (di cui ormai vediamo gli effetti in tutti i settori), ma anche e soprattutto sull’impatto che questo modello economico ha sulle risorse limitate del pianeta e sul nostro benessere reale. Ma la nostra qualità della vita migliora davvero quando l’economia cresce del 2 o 3%? Possiamo davvero sacrificare il nostro ecosistema (con l’inevitabile conseguenza di distruggere noi stessi) per mantenere intatto un modello caratterizzato da squilibri e contraddizioni?

Per la prima volta da quando è stato inventato negli anni ‘40, il prodotto interno lordo (PIL) - ovvero l’icona popolare della crescita economica - è sotto accusa da parte di organismi internazionali e studiosi. Non sono più soltanto ONG come Sbilanciamoci, New Economics Foundation o il Movimento per la Decrescita Felice a sferrare l’attacco, ma anche tradizionali bastioni di ispirazione liberale. Persino l’Economist, un difensore del libero mercato, recentemente ha ospitato un dibattito sull’utilità del PIL concludendo che “si tratta di un pessimo indicatore per la misurazione del benessere” (http://www.economist.com/debate/days/view/503#mod_module). Anche l’OCSE, un altro colosso del tradizionalismo economico, ha cominciato a gettare dubbi sul dogma della crescita economica. Sul sito web dell’organizzazione intergovernativa, che raccoglie le economie più “sviluppate” del pianeta, si legge: “Per una buona parte del ventesimo secolo si è dato per scontato che la crescita economica fosse sinonimo di progresso, cioè, che un aumento del PIL significasse una vita migliore per tutti. Ma ora il mondo comincia a riconoscere che non è così semplice. Nonostante livelli sostenuti di crescita economica, non siamo più soddisfatti della nostra vita (e tanto meno più felici) di cinquant’anni fa” (http://www.oecd.org/pages/0,3417,en_40033426_40033828_1_1_1_1_1,00.html).

Questo dibattito ha cominciato (finalmente) a fare breccia nell’arena politica europea. Nel novembre 2007, l’Unione europea ha promosso una conferenza dal titolo ‘Al di là del PIL’ e, due anni più tardi, la Commissione ha emesso una direttiva su “Oltre il PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si sostiene che il PIL è stato scorrettamente utilizzato come un indicatore “generale dello sviluppo sociale e del progresso”, ma siccome non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “occorre tenere conto di questi limiti quando se ne fa uso nelle analisi o nei dibattiti politici”. Secondo la Commissione Ue “il PIL non può costituire la chiave di lettura di tutte le questioni oggetto di dibattito pubblico”.

Alla fine dell’anno scorso, la Commissione sul progresso sociale creata dal presidente francese Nicholas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha sottolineato con forza l’inadeguatezza del PIL come misura del benessere sociale. Nel rapporto finale, la Commissione ricorda che il “PIL è una mera misura della produttività di un mercato, sebbene sia stata utilizzata come una misura di benessere economico. Questo ha comportato una confusione enorme nell’analisi di come vivono davvero le persone ed ha portato all’adozione di politiche sbagliate” (http://www.policyinnovations.org/ideas/innovations/data/000144/_res/id=sa_File1/economicperformancecommissionreport.pdf).

Pochi giorni fa, il New York Times ha pubblicato sul suo magazine un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta del PIL”, in cui si passano in rassegna i progetti di revisione dei sistemi statistici nazionali per introdurre misure correttive o sostitutive del prodotto interno lordo (http://www.nytimes.com/2010/05/16/magazine/16GDP-t.html?th&emc=th).

Questi sviluppi recenti traggono la loro origine da una branca importante della ricerca economica che ha ormai dimostrato come la qualità della vita e il progresso sociale siano indipendenti dalla crescita economica. In molti casi, proprio i paesi che vantano una crescita economica sostenuta sono quelli in cui il benessere dei cittadini è più a rischio. Eppure, immancabilmente a ogni tornata elettorale, i nostri politici continuano a riempirsi la bocca di promesse su come far crescere il paese. La crescita economica è parte integrante dei programmi di tutti i partiti politici e, nei dibattiti televisivi, non c’è candidato che faccia un discorso alternativo: un discorso informato sui fatti, in grado almeno di recepire il dibattito in corso a livello globale. Per quanto tempo ancora continueremo a farci prendere per il PIL?

di Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti è visiting professor all’Università di Heidelberg (Germania) e capo ricercatore della società di consulenza Beyond Development-Dopo lo Sviluppo Srl (http://www.be-dev.com/). Una versione sintetica di quest’ articolo è stata pubblicata sull’edizione internazionale del New York Times il 12 Maggio 2010 (http://www.nytimes.com/2010/05/12/opinion/12iht-edlet.html?scp=1&sq=fioramonti&st=cse).


23 maggio 2010

I furbetti della cedola


Che il mercato finanziario abbia bisogno di un rinnovamento esemplare non è un mistero. Da tempo, ormai, si parla quotidianamente di speculazioni nocive, titoli tossici, strumenti di investimento “alternativi” o “non convenzionali”, insolvenze e così via, per arrivare, immancabilmente, allo spauracchio delle Grande Crisi. Un po’ meno chiaro, purtroppo, è il modo concreto in cui questa trasformazione dovrà avvenire. E, soprattutto, nessuno sa spiegare come si farà a coinvolgere la Borsa dei “piani alti” nei costi della crisi: anche perché ogni riforma, dalla più banale, sembra non trovare spazio all’interno del far west finanziario.

Ancora non è stato deciso, ad esempio, come e se verrà disciplinato il mercato dei cosiddetti credit default swaps, o CDS, contratti derivati sul rischio di credito. I CDS costituiscono la polizza assicurativa degli attori di borsa: chi acquista questi contratti, si assicura contro l’eventualità di un fallimento della società (o dello Stato) che le emette. L’investitore compra i CDS da società finanziarie terze, che risarciranno l’investitore dell’intera somma corrispondente alle obbligazioni assicurate in caso di default. L’unico problema è che le società venditrici di CDS non sono società assicurative ed inoltre sono in grado di garantire protezione anche a chi non detiene in portafoglio i titoli “garantiti” dal derivato.

Benché i CDS siano nati negli anni 90 come prodotto protettivo per creditori reali, il suo impiego speculativo è stato deleterio. Chi sottoscrive CDS per speculare non compra protezione ma piuttosto assume una posizione di vendita allo scoperto sulle emissioni della società oggetto di speculazione, di fatto scommettendo sul suo fallimento: in caso di default, infatti, lo speculatore riceverà dall’emittente del derivato un pagamento pari al nominale garantito.

Ma il circolo vizioso è più ampio: i contratti CDS sono un buon indicatore del premio per il rischio che il mercato richiede per mettere dei soldi nella società su cui vengono “scritti”: pertanto, quando aumenta la probabilità percepita di un fallimento, cresce il valore dei CDS, e con esso il costo dell’indebitamento per la società, in un avvitamento pernicioso e difficilmente controllabile.

Ed è proprio questa l’accusa da parte dei politici europei nei confronti di molti Hedge Fund inglesi e americani. Questi operatori non bancari, che utilizzano di regola strategie molto sofisticate, hanno realizzato profitti astronomici scommettendo sulla bancarotta di società o Stati terzi (vedi la Grecia). Che il mercato dei CDS sia stato pesantemente “drogato” dalla speculazione è provato dal fatto che al momento dello scoppio della crisi il valore complessivo del mercato dei credit default swap ha superato (e di molto) quello della somma di tutte le obbligazioni nazionali, aziendali, e municipali in circolazione: l’eccedenza tra le due misure è costituita da quei titoli creati e sottoscritti per puri intenti “di scommessa”. Ad aggravare la situazione, i CDS vengono stipulati senza alcuna formalità, né per gli emittenti sono previsti particolari requisiti di capitale. E ora ci si ritrova con una pila di CDS conclusi sullo stesso sottostante.

La Germania, che in questo momento di crisi ha assunto di fatto la leadership dell’Area Euro, sta lanciando segnali confortanti sul piano della lotta contro la speculazione basata sui derivati di credito. Tanto per dimostrare al mondo che la Cancelliera non solo abbaia ma è in grado anche di assestare qualche morso, la BaFin (CONSOB tedesca) ha annunciato ieri sera il divieto vendite allo scoperto su un paniere di titoli azionari di società assicurative e banche di importanza strategica (tra cui Allianz, Deutsche Bank e Commerzbank) nonché quello di negoziazione di “naked CDS”, ovvero CDS senza sottostante su titoli obbligazionari di emittenti sovrani (per impedire il tipo di giochino, per intenderci, che ha spacciato la Grecia).

Se l’idea alla base della decisione della BaFin è pienamente condivisibile sul piano del principio, non si può negare che essa è stata presa senza nemmeno preoccuparsi di consultare i Francesi, né Bruxelles, il che le ha conferito il poco gradevole stigma della disperazione. Il tutto senza contare che, da un punto di vista pratico non è ben chiaro il modo in cui l’autorità di vigilanza tedesca riuscirà a monitorare il rispetto del divieto da parte degli operatori, dato che la stragrande maggioranza delle transazioni sui derivati di credito continua ad essere negoziata su Londra.

La FSA, Financial Services Authority britannica si è tra l’altro affrettata a spiegare che il veto non potrà applicarsi alle filiali londinesi delle banche tedesche... Se poi si pensava di proteggere i titoli greci, si può concludere che la mossa è platealmente fallita, dato che lo spread sui titoli ellenici, proibizioni o no sui CDS, si è allargato di altri 37 centesimi.

Se gli Stati europei riusciranno a portare avanti un ordinamento del mercato finanziario senza il sostegno degli Stati Uniti è tutto da vedere: sarebbe un primo, indicativo passo verso un nuovo ottimismo nei confronti di un’economia capitalista che ha deluso i più. Certo, l’esordio gauchiste della Merkel non è dei più confortanti.

di Emanuela Pessina

22 maggio 2010

La casta e le sforbiciatine


L’idea di stampare in arabo, nel 2002, una sorta di guida della Camera con tanto di copertina verde islamica sarà stata forse una botta di genio. Ma Dio sa quanto sarebbe utile una traduzione dei bilanci della politica italiana in italiano. Questa sarebbe, la vera svolta epocale. Intendiamoci, sarebbe insensato non apprezzare il taglio alle buste paga dei parlamentari e dei ministri. Tanto più dopo che Tremonti ha detto che sarà assai più netto della sforbiciatina proposta da Calderoli, quel 5% di limatura alle indennità che, mettendo al riparo la polpa delle diarie, dei rimborsi e delle prebende varie, era stato bollato anche dai giornali non ostili al governo come una «elemosina».

In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.

Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.

È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?

Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.

Gian Antonio Stella

20 maggio 2010

Presi per il PIL



La crisi finanziaria sta accartocciando le nostre economie. Esportazioni in caduta libera, licenziamenti selvaggi, investimenti in picchiata, sfratti esecutivi per milioni di famiglie e deficit pubblici impazziti (che pompano verso l’alto il debito pubblico) sono solo alcuni degli effetti disastrosi dell’attuale crisi economica mondiale.

Sebbene l’attenzione dei media sia tutta concentrata sulla strada molto accidentata che dovrebbe portarci al “risanamento”, le montagne russe dell’economia mondiale hanno finalmente innescato un dibattito che mette in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo fondato sulla crescita economica infinita. Tale critica non è soltanto basata sull’instabilità endemica delle dinamiche di mercato (di cui ormai vediamo gli effetti in tutti i settori), ma anche e soprattutto sull’impatto che questo modello economico ha sulle risorse limitate del pianeta e sul nostro benessere reale. Ma la nostra qualità della vita migliora davvero quando l’economia cresce del 2 o 3%? Possiamo davvero sacrificare il nostro ecosistema (con l’inevitabile conseguenza di distruggere noi stessi) per mantenere intatto un modello caratterizzato da squilibri e contraddizioni?

Per la prima volta da quando è stato inventato negli anni ‘40, il prodotto interno lordo (PIL) - ovvero l’icona popolare della crescita economica - è sotto accusa da parte di organismi internazionali e studiosi. Non sono più soltanto ONG come Sbilanciamoci, New Economics Foundation o il Movimento per la Decrescita Felice a sferrare l’attacco, ma anche tradizionali bastioni di ispirazione liberale. Persino l’Economist, un difensore del libero mercato, recentemente ha ospitato un dibattito sull’utilità del PIL concludendo che “si tratta di un pessimo indicatore per la misurazione del benessere” (http://www.economist.com/debate/days/view/503#mod_module). Anche l’OCSE, un altro colosso del tradizionalismo economico, ha cominciato a gettare dubbi sul dogma della crescita economica. Sul sito web dell’organizzazione intergovernativa, che raccoglie le economie più “sviluppate” del pianeta, si legge: “Per una buona parte del ventesimo secolo si è dato per scontato che la crescita economica fosse sinonimo di progresso, cioè, che un aumento del PIL significasse una vita migliore per tutti. Ma ora il mondo comincia a riconoscere che non è così semplice. Nonostante livelli sostenuti di crescita economica, non siamo più soddisfatti della nostra vita (e tanto meno più felici) di cinquant’anni fa” (http://www.oecd.org/pages/0,3417,en_40033426_40033828_1_1_1_1_1,00.html).

Questo dibattito ha cominciato (finalmente) a fare breccia nell’arena politica europea. Nel novembre 2007, l’Unione europea ha promosso una conferenza dal titolo ‘Al di là del PIL’ e, due anni più tardi, la Commissione ha emesso una direttiva su “Oltre il PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si sostiene che il PIL è stato scorrettamente utilizzato come un indicatore “generale dello sviluppo sociale e del progresso”, ma siccome non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “occorre tenere conto di questi limiti quando se ne fa uso nelle analisi o nei dibattiti politici”. Secondo la Commissione Ue “il PIL non può costituire la chiave di lettura di tutte le questioni oggetto di dibattito pubblico”.

Alla fine dell’anno scorso, la Commissione sul progresso sociale creata dal presidente francese Nicholas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha sottolineato con forza l’inadeguatezza del PIL come misura del benessere sociale. Nel rapporto finale, la Commissione ricorda che il “PIL è una mera misura della produttività di un mercato, sebbene sia stata utilizzata come una misura di benessere economico. Questo ha comportato una confusione enorme nell’analisi di come vivono davvero le persone ed ha portato all’adozione di politiche sbagliate” (http://www.policyinnovations.org/ideas/innovations/data/000144/_res/id=sa_File1/economicperformancecommissionreport.pdf).

Pochi giorni fa, il New York Times ha pubblicato sul suo magazine un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta del PIL”, in cui si passano in rassegna i progetti di revisione dei sistemi statistici nazionali per introdurre misure correttive o sostitutive del prodotto interno lordo (http://www.nytimes.com/2010/05/16/magazine/16GDP-t.html?th&emc=th).

Questi sviluppi recenti traggono la loro origine da una branca importante della ricerca economica che ha ormai dimostrato come la qualità della vita e il progresso sociale siano indipendenti dalla crescita economica. In molti casi, proprio i paesi che vantano una crescita economica sostenuta sono quelli in cui il benessere dei cittadini è più a rischio. Eppure, immancabilmente a ogni tornata elettorale, i nostri politici continuano a riempirsi la bocca di promesse su come far crescere il paese. La crescita economica è parte integrante dei programmi di tutti i partiti politici e, nei dibattiti televisivi, non c’è candidato che faccia un discorso alternativo: un discorso informato sui fatti, in grado almeno di recepire il dibattito in corso a livello globale. Per quanto tempo ancora continueremo a farci prendere per il PIL?

di Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti è visiting professor all’Università di Heidelberg (Germania) e capo ricercatore della società di consulenza Beyond Development-Dopo lo Sviluppo Srl (http://www.be-dev.com/). Una versione sintetica di quest’ articolo è stata pubblicata sull’edizione internazionale del New York Times il 12 Maggio 2010 (http://www.nytimes.com/2010/05/12/opinion/12iht-edlet.html?scp=1&sq=fioramonti&st=cse).