17 giugno 2010

I testimoni confermano assassinii a sangue freddo

Il primo giugno, il Presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha rilasciato una dichiarazione a nome del Consiglio stesso:Il consiglio di

Sicurezza si rammarica profondamente per la perdita di vite e le

menomazioni causate dall’uso della forza durante le operazioni

dell’esercito israeliano in acque internazionali contro un convoglio in

navigazione alla volta di Gaza. Il Consiglio, in tale contesto, condanna

quegli atti che hanno portato alla morte di almeno dieci civili e di

molti feriti, ed porge le proprie condoglianze alle loro famiglie».Il

Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ha votato nessuna risoluzione

formale a condanna di Israele per aver condotto quello che è equivalente

ad un atto di pirateria in acque internazionali, in violazione delle

Leggi Internazionali del Mare e della Carta dell’ONU.Il testo

che segue, scritto da Mahdi Darius Nazemroaya, Associata del Research

presso il Centre for Research on Globalization (CRG), presenta una

rassegna preliminare delle prove. Nelle settimane e nei mesi che

seguiranno, Global Research metterà punto un dossier esaustivo relativo

all’attacco di Israele in acque internazionali, attacco diretto contro

la Gaza Freedom Flotilla [Flottiglia per la Libertà di Gaza, ndt].
Michel Chossudovsky, 3 Giugno 2010

Dopo aver studiato con attenzione i resoconti dei testimoni, si può

concludere che il «combattimento" svoltosi sulla Gaza Peace Flotilla fra

un commando israeliano con armi pesanti e dei civili disarmati, è stato

deliberatamente istigato dai soldati israeliani.Le azioni del

commando israeliano - ordinate dal governo di Israele - sono state

caratterizzate da assassìnii a sangue freddo e da esecuzioni. In base

alle testimonianze dei passeggeri, sono state uccise persone dopo che si

erano arrese e mentre sventolava una bandiera bianca. Siccome ad alcuni

attivisti in condizioni critiche sono state rifiutate le cure da parte

degli Israeliani, anche questi sono morti. I passeggeri civili

della Mavi Maramara includevano accademici, parlamentari, artisti,

dottori, avvocati, giornalisti e rappresentanti di organizzazioni per i

diritti umani. Fra di essi c’era l’Arcivescovo Cattolico Melchita Greco

di Gerusalemme. Israele e gli USA hanno anche esercitato pressioni su

Cipro perchè impedisse a 30 parlamentari provenienti da tutta Europa e

ad un sopravvissuto dell’olocausto, di salire a bordo sulla Gaza Peace

Flotilla.

Sfidati dalle truppe scelte israeliane, i passeggeri

civili si sono trovati coinvolti in atti disperati di auto-difesa, per

proteggere le proprie vite dopo che passeggeri amici erano stati già

uccisi dal fuoco dei cecchini israeliani. Questo è stato testimoniato da

tutti i membri della Gaza Peace Flotilla, dai parlamentari tedeschi ai

lavoratori turchi. I gruppi di fuoco israeliani, con alle loro azioni,

hanno deliberatamente provocato atti di auto-difesa, con la prospettiva

di demonizzare i passeggeri e giustificare la brutalità israeliana.

Inizialmente

- prima di passare alle pallottole di vernice - le forze israeliane

hanno sparato con armi lunghe automatiche.Secondo gli attivisti

algerini a bordo, alcuni dei passeggeri hanno cercato di resistere, ma

si sono arresi quando il giovane figlio del capitano turco è stato preso

in ostaggio dagli israeliani durante una seconda ondata di attacchi.In

base ai resoconti dei passeggeri, c’è la possibilità che alcune perdite

includano passeggeri di nazionalità algerina. Si sa che almeno un

americano e molti turchi, sono stati uccisi dall’esercito israeliano

(IDF).
Non c’è stata nessuna «cattiva valutazione" [«bad

intelligence" nell’originale, ndt] da parte dei militari israeliani,

come invece sostenuto dai media israeliani e dai loro apologeti. Il

governo israeliano ha tenuto numerose riunioni di alto livello

antecedenti alla partenza della Gaza Peace Flotilla.

Gli Israeliani avrebbero potuto benissimo impedire alle navi di avanzare

verso Gaza senza dover procedere all’arrembaggio. I resoconti dei

testimoni suggeriscono che questi attacchi fossero parte di

un’operazione dei servizi militari progettata con cura. Israele aveva

anche effettuato delle esercitazioni navali che simulavano il blocco di

navi umanitarie per impedir loro di raggiungere la Striscia di Gaza.

Tutte le armi che si suppone siano state utilizzate dai passeggeri erano

parte della dotazione standard’ della nave, che includeva attrezzi per

la riparazione ed utensili da cucina. Tali oggetti sono stati raccolti

dall’IDF per creare un resoconto dei fatti falso e precostituito.

Il

cosiddetto «video ed immagini delle prove" è fornito in un dossier del

Ministero per gli Affari Esteri :Le forze israeliane hanno raccolto gli attrezzi e

l’equipaggiamento di pertinenza delle navi.L’affermazione che

delle armi siano state trafugate di nascosto sulle navi per contrastare i

militari israeliani è pura fantasia: uno sguardo attento alle immagini

suggerisce che l’IDF ha preso dei coltelli dalle cucine ed altre

attrezzature standard sulle navi (la cosa è particolarmente ovvia per

l’affilacoltelli preso dalla cucina). Uno dei coltelli nell’immagine

fornita da Israele è un coltello tradizionale «khanjar»,  che

potrebbe appartenere ai membri del parlamento dell’Oman o dello Yemen

presenti sulla Gaza Peace Flotilla

Indumenti con chiari segni di riconoscimento della Mezzaluna Rossa - usati dal

personale medico e dai volontari umanitari della Croce Rossa

Internazionale - sono stati indicati come la prova che il gruppo

umanitario internazionale fosse costituito anche da violenti sostenitori

del terrorismo.Relativamente ai video, ne sono state mostrate

solo delle parti, mentre andrebbe mostrato tutto. Se Israele fosse

onesto, avrebbe mostrato le registrazioni complete e non spezzoni

scelti, nei quali gli attivisti reagiscono.Va poi notato che -

stando ai testimoni oculari - l’IDF ha sistematicamente preso di mira

per primi i giornalisti della stampa internazionale. Se l’IDF non avesse

avuto nulla da nascondere, perchè ha confiscato tutte le attrezzature

di registrazione video ed audio? E’ chiaro che i militari israeliani

stavano sistematicamente impedendo che i giornalisti internazionali

potessero mostrare cosa fosse realmente accaduto.

Una delle organizzazioni turche, l’ IHH (Insani Yardim Vakfi/Humanitarian Aid

Fund), legata a questa flottiglia di navi umanitarie provenienti da

tutta Europa e dal Mediterraneo, è stata accusata anche di essere

collegata ad Al-Qaeda.

Il governo turco ha replicato definendo i

funzionari israeliani come dei «mentitori patentati». In una intervista

con Bulent Yildirm - un funzionario dell’IHH - condotta in inglese da

Hassan Ghani, il funzionario dell’IHH parla solo di scopi umanitari e

dice che spera prevarranno, nel governo israeliano, il buon senso e la

moderazione.

Nell’intervista, il funzionario IHH dice anche che

altre navi (molto probabilmente navi commerciali israeliane), stavano

navigando nella cosiddetta «zona di esclusione militare».

Si veda

al minuto 3 e 30 dell’intervista :

Israele ha violato la legge internazionale. Non ha nemmeno

aspettato, prima di agire, di vedere se le navi avrebbero violato la

«zona di esclusione militare». Secondo i resoconti fatti dai

parlamentari del Kuwait, e dagli attivisti, le navi stavano per

negoziare con Israele il loro ingresso.

Note Conclusive

ultimo punto: gli USA entrarono in guerra nella Prima Guerra Mondiale

quando la Royal Mail Ship Lusitania venne attaccata da un sottomarino -

od un U-boat - tedesco.

Attaccare navi e civili in acque

internazionali, è un atto di guerra ed un atto illegale in base alle

leggi internazionali.

E’ ironico che Joseph Meadors, uno dei membri della Gaza Freedom Flotilla - che è

stata attaccata - fosse un ex

marinaio della marina USA sopravvissuto all’attacco israeliano alla

U.S.S. Liberty, nel 1967. Così, questa è stata la seconda volta che

l’IDF lo ha attaccato in acque internazionali.

Ma le azioni di

Israele sono andate ben oltre la violazione delle leggi internazionali.

Il portavoce militare dell’IDF - Avital Avital Liebowitz - ha anche

fatto riferimento alla Striscia di Gaza quale territorio israeliano,

dicendo così quello che veramente pensa Israele, ma che non dice a

livello internazionale.Israele è un pericolo per se stessa e per

la sicurezza mondiale. Israele si sta anche preparando per una ben più

grande guerra contro il Libano, la Siria e l’Iran, e non c’è modo che

Israele possa battere l’Iran senza ricorrere ad armi nucleari.

A livello mondiale, i popoli devono chiedere giustizia per i Palestinesi e

la fine dell’occupazione dei territori arabi. Devono anche mobilitarsi

perchè sia impedita una più vasta guerra nel Medio Oriente.

15 giugno 2010

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iran

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iràn

1. Mercoledì 9 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha imposto nuove sanzioni all’Iràn per il suo programma nucleare. Molti analisti sono rimasti sorpresi dal voto favorevole di Russia e Cina alle sanzioni, sebbene si tratti della quarta tornata di misure prese contro l’Iràn, e tutte avallate da Mosca e Pechino. A stupire è stato soprattutto che tali sanzioni facessero seguito ad un accordo concluso da Tehrān con la Turchia e il Brasile, per evitare l’arricchimento dell’uranio sul suolo iraniano senza privare il paese persiano della tecnologia atomica. In realtà, proprio quest’accordo ha costituito una delle principali motivazioni per cui Russia e Cina hanno accolto le nuove sanzioni.

2. L’accordo turco-iraniano mediato dal presidente brasiliano Lula prevede che nel corso dell’anno l’Iràn consegni 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (ossia composto per meno del 20% dall’isotopo 235U, che può essere sottoposto a fissione nucleare; nel caso iraniano parliamo di uranio al 3,5%) alla Turchia, ricevendone in cambio 120 kg di combustibile nucleare arricchito al 19,5%; tale combustibile sarebbe destinato al Centro di Ricerca Nucleare di Tehrān, che lavora alla sviluppo d’isotopi a scopo medico. Dall’isotopo 235U, infatti, si può estrarre il molibdeno-99, da cui si ottiene il tecnezio-99m, usato nell’85% dei procedimenti diagnostici di medicina nucleare. Attualmente il 95% della produzione mondiale di molibdeno-99 avviene in sei reattori dislocati rispettivamente in Canada, Belgio, Olanda, Francia, Germania e Sudafrica, i quali utilizzano uranio-235 fornito prevalentemente dagli USA. Gli Stati Uniti d’America, col 4,5% della popolazione mondiale, impiegano il 40% della produzione globale di molibdeno-99, mentre l’Iràn, dove si trovano l’1% degli abitanti della Terra, ne impiega lo 0,25% della produzione totale. Fino al 2007 l’Iràn importava tutto il molibdeno-99 di cui abbisogna: da allora riesce a produrlo autonomamente, ma solo grazie a scorte di combustibile nucleare che risalgono ai primi anni ‘90 (fornite dall’Argentina) e che sono destinate ad esaurirsi nel giro di qualche mese. Gl’Iraniani si sono dichiarati disposti ad acquistare sul mercato internazionale nuovo LEU al 19,5%, ma hanno finora incontrato il veto degli USA, che pretendono in cambio una rinuncia completa al programma nazionale d’arricchimento dell’uranio (che pure è un diritto garantito dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, di cui la Repubblica Islamica è una firmataria). Rimangono perciò poche alternative: una rinuncia iraniana a produrre isotopi medici, tornando ad acquistarli dall’estero (l’opzione più gradita a Washington, ma giudicata inaccettabile da Tehrān); l’arricchimento dell’uranio al 19,5% da parte dell’Iràn (l’eventualità temuta dagli Atlantici, e non ancora tecnicamente sperimentata dai persiani); lo scambio di LEU al 3,5% con combustibile al 19,5%, proprio come previsto dal recente accordo con la Turchia (la soluzione di compromesso che, in teoria, dovrebbe accontentare tutti).

Val la pena notare che: i 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (LEU secondo l’acronimo inglese) che l’Iràn consegnerebbe alla Turchia costituiscono più della metà delle sue scorte totali d’uranio; il LEU iraniano raggiunge al momento il 3,5% d’arricchimento, ancora ben lontano dalla soglia del 20% oltre il quale si realizza l’uranio ad alto arricchimento (HEU); per realizzare armi atomiche minimamente efficienti servono grosse quantità di uranio altamente arricchito (anche 90%).

3. L’accordo Turchia-Brasile-Iràn ricalca una precedente bozza negoziale proposta proprio dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dell’ONU ed avallata dalle grandi potenze, USA compresi. Tale bozza d’accordo prevedeva che l’Iràn consegnasse i 1200 kg di LEU alla Russia: quest’ultima li avrebbe arricchiti al 19,5% e girati alla Francia, la quale li avrebbe incorporati in combustibile nucleare e consegnati all’Iràn. L’accordo era stato accettato con riserva da Tehrān: gl’Iraniani volevano infatti che lo scambio avvenisse simultaneamente e sul territorio iraniano, mentre le grandi potenze pretendevano che lo scambio fosse sequenziale (prima l’uranio iraniano alla Russia, e solo dopo il completamento del processo d’arricchimento il combustibile francese all’Iràn). La diffidenza iraniana derivava da precisi trascorsi negativi avuti con Parigi e Mosca.

Negli anni ‘70 l’Iràn investì circa 1 miliardo di dollari in Eurodif, un consorzio basato in Francia per l’arricchimento dell’uranio. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Parigi non solo si è rifiutata di consegnare l’uranio arricchito a Tehrān, ma per giunta si è tenuta i soldi pagati dagl’Iraniani. Con la Russia è successo qualcosa di simile. Nel dicembre 2005 fu siglato un contratto per la fornitura di missili terra-aria S-300 dalla Russia all’Iràn, ma da allora Mosca ha sempre addotto generiche e poco credibili scuse pur di non onorare l’impegno preso. Da qui il comprensibile timore dell’Iràn che, una volta consegnate le proprie scorte di LEU a Russia e Francia, questi due paesi possano rimangiarsi la parola data e non dare la contropartita pattuita.

Grazie alla mediazione di Lula da Silva, si è raggiunto l’accordo che in linea teorica permetterebbe di superare quest’ostacolo: agl’inaffidabili Russi e Francesi si sostituirebbero i Turchi, che godono della fiducia iraniana.

4. L’accordo a tre Iràn-Turchia-Brasile ha subito suscitato una reazione di difesa nel “concerto” delle grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, ossia quelle dotate di seggio permanente e diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: USA, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina. Questi cinque paesi hanno fin dall’inizio preso in mano la gestione del dossier nucleare iraniano, ammettendo al proprio fianco la sola Germania (il cosiddetto sistema “5+1”). L’iniziativa di Brasile e Turchia è stata immediatamente percepita come un’intrusione di nuove potenze emergenti nell’egemonia diplomatica delle potenze tradizionali. Non a caso, al Consiglio di Sicurezza i “cinque grandi” hanno fatto causa comune, votando all’unisono per sanzioni contro l’Iràn, trovando la scontata opposizione di Brasile e Turchia e l’astensione del piccolo Libano, conteso tra la sfera d’influenza siro-iraniana e quella saudita-nordamericana. La spaccatura dei “cinque grandi” in due fronti (gli Atlantici da una parte, Cina e Russia dall’altra) si è momentaneamente ricomposta per ribadire la propria posizione privilegiata nel panorama diplomatico internazionale. Non a caso Lula e Erdoğan hanno criticato la deliberazione del Consiglio di Sicurezza affermando che ne indebolisce l’autorità. Lo strapotere diplomatico dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale appare ormai anacronistico, ma le nuove grandi potenze emergenti (non solo Brasile e Turchia, ma anche Germania, India e Giappone) non sono ancora abbastanza solide ed unite per abbatterne l’egemonia. Tuttavia, pure i “cinque grandi” da anni lavorano ad una riforma del Consiglio di Sicurezza, palese segnale che loro stessi si sono accorti di come la sistemazione attuale sia insostenibile sul lungo periodo.

5. La Russia, che fino a pochi mesi fa appariva la principale protettrice dell’Iràn, aveva delle motivazioni aggiuntive per votare la nuova tornata di sanzioni. La prima è affermare il proprio ruolo di potenza mediatrice nel Vicino Oriente.

Durante la Guerra Fredda il Vicino Oriente era quella che i geopolitici moderni definiscono una shatterbelt, ossia un teatro regionale in cui le rivalità interne coinvolgono i competitori globali. Nello scontro tra paesi arabi e paesi non arabi (Israele, Turchia e Iràn) s’inserirono le due potenze mondiali, l’URSS coi primi e gli USA coi secondi. La posizione regionale di Mosca, che dovette essere costruita ex novo negli anni ‘50 e ‘60 (prima il Vicino Oriente era un condominio franco-anglosassone), s’indebolì tuttavia molto presto col passaggio dell’Egitto e di altri paesi arabi nel campo atlantico. Il crollo dell’URSS ha portato negli anni ‘90 ad una completa esclusione dei Russi dalla regione, tant’è vero che per oltre un decennio Washington è stata arbitra indiscussa degli equilibri locali.

Negli ultimi anni, tuttavia, il prestigio statunitense nel Vicino Oriente è stato minato da tre fattori: l’eccessiva accondiscendenza verso Israele, che non conferisce credibilità alcuna al preteso ruolo di “mediatore”; la maldestra decisione strategica di liquidare l’Iràq baathista aprendo la via all’influenza iraniana, che ha preoccupato i paesi arabi del Golfo; le difficoltà militari incontrate nel paese mesopotamico.

Il Cremlino cerca d’avvantaggiarsi delle difficoltà di Washington, ma non si sente pronto ad avviare un nuovo bipolarismo regionale, facendosi tutore d’una delle due fazioni che si vanno configurando nel Vicino Oriente (da un lato Iràn, Siria ed alcuni movimenti palestinesi, libanesi ed iracheni; dall’altro Israele ed i restanti paesi arabi, spalleggiati dagli USA). I Russi si sono perciò limitati a dare una discreta assistenza alla Siria e all’Iràn per ristabilire un maggiore equilibrio delle forze in campo, e quindi cercare d’inserirsi come potenza mediatrice neutrale. Ciò richiede però due cose: Mosca non deve apparire troppo schierata (e perciò accondiscendere di tanto in tanto alle richieste d’Israele); nessun’altra potenza deve cercare d’inserirsi nel medesimo ruolo equilibratore. Quest’ultimo fattore crea qualche incomprensione tra Mosca e Ankara, pur in un quadro di marcata distensione ed avvicinamento. Anche la Turchia, infatti, nel momento in cui sostiene Iràn e Siria cerca anche di porsi come protettrice dei paesi arabi, in un’ottica definita spesso “neo-ottomana”. Di fatto, Ankara vorrebbe diventare il polo regionale, che unisca tutti i paesi del Vicino Oriente sulla base dell’esclusione d’uno solo: Israele. Potrebbe trattarsi solo d’un caso, ma lo sgarbo russo alla Turchia rappresentato dalle sanzioni all’Iràn segue di poche settimane il più sanguinoso oltraggio sionista alla dirigenza anatolica, ossia l’attacco alla Freedom Flotilla.

Mosca deve fare attenzione a non discendere lungo una china pericolosa. L’amicizia turca è fondamentale per la geostrategia russa, perché il paese anatolico può, potenzialmente, minarne l’influenza nei Balcani, nel Mar Nero, nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ed anche in Europa se si pone come fulcro energetico alternativo. Al contrario, collaborando con esso Mosca può più facilmente proiettarsi nel Vicino Oriente. Fortunatamente per i Russi, al momento non ci sono segnali che indichino nulla più d’una contingente incomprensione coi Turchi, in un quadro di crescente amicizia e collaborazione.

6. D’altro canto, in Russia c’è sempre stato un acceso dibattito sulle relazioni da instaurare con l’Iràn. Mentre alcuni settori vorrebbero stringere una vera e propria alleanza in funzione anti-statunitense, altri – che per ora hanno il sopravvento – si mostrano più cauti. Per costoro la situazione attuale, di contrasto latente ma non bellico tra l’Iràn e il Patto Atlantico, è la più proficua per la Russia. E non solo perché permette ai Russi di concludere eccellenti contratti col paese persiano sfruttandone il semi-isolamento.

L’Iràn possiede le seconde maggiori riserve di gas naturali al mondo, seconde solo a quelle della Russia. Tuttavia, consuma quasi tutta la produzione per soddisfare il proprio fabbisogno interno, sicché è appena il ventinovesimo esportatore mondiale. Potenzialmente, un Iràn dotato di energia nucleare e non più ai ferri corti con gli Atlantici potrebbe cominciare ad esportare ingenti quantità di gas naturale in Europa, magari tramite il Nabucco (che parte da Erzurum, non molto distante dal confine iraniano), e quindi porsi come competitore della stessa Russia. Ma finché i rapporti tra queste due entità si mantengono tesi, Mosca non rischia nulla, e può invece cercare di convincere l’Iràn a vendere il gas all’India e quest’ultima ad acquistarlo, lasciando così intatta la leva energetica che la Russia possiede nei confronti dell’Europa.

7. Proprio l’energia è uno dei capisaldi della nuova politica estera russa. Mosca vuole mantenere ed anzi rinsaldare il proprio ruolo di perno energetico mondiale, o quanto meno eurasiatico. In tale scenario rientrano proprio gli accordi di cooperazione nucleare con l’India, la Turchia e l’Iràn. Come già riferito, l’accordo mediato da Lula non faceva altro che sostituire la Turchia alla Russia nel medesimo ruolo di fornitore del combustibile nucleare all’Iràn. Mosca non ha gradito e si è messa di traverso, facendo così capire chiaramente che qualsiasi accordo futuro dovrà coinvolgerla in prima persona.

8. Del resto, tra Russia e Iràn non è la fine della relazione. Il loro rapporto di collaborazione proseguirà, anche se – almeno nei prossimi mesi – con maggiore freddezza. I Russi promettono di aprire la centrale di Bushehr in agosto. Col voto favorevole alle sanzioni e col rifiuto di ammettere l’Iràn all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai hanno voluto chiarire a Tehrān di non accettare ruoli da comprimari, ma di voler condurre le danze essi stessi. Mosca vorrebbe instaurare con l’Iràn un rapporto “ineguale”, com’è quello con la Siria: da un lato il tutore, dall’altro il protetto. È comprensibile, ma i Russi non dovrebbero mai dimenticare che l’Iràn è una vera e propria potenza regionale emergente, di ben altra pasta rispetto alla Siria. Le relazioni con Tehrān andranno modulate su basi differenti, oppure finiranno con l’essere conflittuali, a tutto vantaggio di Washington che prenderebbe due piccioni con una fava, mettendo una contro l’altra due potenze rivali.

9. Va infine tenuto conto della probabilità di un “voto di scambio”. Il Cremlino avrà chiesto qualche contropartita alla Casa Bianca in cambio del proprio assenso alle sanzioni, e la più plausibile è un rallentamento del programma di scudo anti-missili balistici portato avanti dagli USA. Evidentemente Mosca non si sente ancora pronta ad ingaggiare una nuova corsa agli armamenti con Washington, e perciò cerca di rimandarla il più possibile con ogni mezzo.

10. La Cina, dal canto suo, aveva molte meno ragioni per avallare la nuova tornata di sanzioni, e proprio per tale motivo è stata l’ultima ad accettarle e, secondo alcune voci, molto più della Russia avrebbe lavorato per ammorbidirle. Probabilmente, Pechino ha voluto evitare l’isolamento e continuare a muoversi in accordo con Mosca sul dossier iraniano: rimanendo sola contro tutti la propria capacità contrattuale nella questione si sarebbe alquanto indebolita.

11. Pechino e Mosca hanno modellato le sanzioni di modo da non compromettere i propri interessi economici in Iràn. Gli USA ed alcuni paesi europei faranno il resto, varando sanzioni unilaterali aggiuntive. In tal modo, il peso economico di Cina e Russia in Iràn andrà rafforzandosi ulteriormente nei prossimi mesi, a maggiore detrimento di quel che resta degli operatori europei.

12. In definitiva, l’assenso russo e cinese alle nuove sanzioni contro l’Iràn s’inserisce nel complesso ed intricato quadro delle interazioni tra le grandi potenze, un gioco diplomatico che prevede ambiguità ed apparenti voltafaccia, soprattutto da parte di quei paesi non abbastanza forti da mostrarsi intransigenti su ogni questione, di grande o piccolo conto (una possibilità oggi appannaggio solo degli USA). Tuttavia, lo scenario di medio e lungo termine non è destinato a mutare. Russia e Cina operano per scalzare l’influenza statunitense anche dal Vicino Oriente, e l’accordo con gli Atlantici verrà meno già nelle prossime settimane, quando questi ultimi cercheranno di varare sanzioni unilaterali che colpiscano anche quelle compagnie di paesi terzi che fanno affari con Tehrān. Perciò Russia e Cina continueranno ad essere per l’Iràn, se non gli amici più sinceri, di sicuro quelli più utili e potenti.


di Daniele Scalea

America, dove il denaro conta più della vita


america tassa successione
"Morirei piuttosto che farmi spillare soldi dal fisco!". Quello che sembra lo sfogo sarcastico di qualche evasore fiscale rischia di diventare l’agghiacciante realtà nella Terra delle opportunità
"Morirei piuttosto che farmi spillare soldi dal fisco!". Quello che sembra lo sfogo sarcastico di qualche evasore fiscale rischia di diventare l’agghiacciante realtà nella Terra delle opportunità. Nonostante i tentativi di abolirla risalenti al 2001, infatti, negli Stati Uniti esiste ancora una pesante tassa di successione, che prevede un’aliquota del 45% applicata al patrimonio dei ricchi che lasciano questo mondo – la soglia di imponibile sotto la quale scatta l’esenzione è di 2,6 milioni di euro –, che obbliga gli eredi a corrispondere allo Stato quasi metà del patrimonio che si apprestano a ricevere. Oggetto di aspri scontri in Congresso fin dall’amministrazione Clinton, la tassa ha resistito fino all’insediamento di Obama, il quale ha dichiarato di voler porre fine alla manovra avviata da Bush per abolirla.

C’è però un piccolo inconveniente: sembra che per un motivo non meglio precisato, il Congresso di Washington si sia “scordato” di votare la proroga per il 2010 e che in attesa del 2011, quando si potrà riportare in vigore la tassa a un’aliquota maggiorata (55%), si sia creata una specie di finestra di esenzione fiscale che permette agli ereditieri dei più ricchi (e anziani) americani di ricevere le fortune dei padri senza sganciare un solo dollaro allo Stato.

Perché questo accada deve però realizzarsi un evento non di poco conto: il riccone deve tirare le cuoia entro il 31 dicembre 2010. Questo grazie a una dimenticanza che, considerando i tempi che corrono, appare più che mai sospetta. Il gettito netto garantito da questa tassa ammonta infatti a 23 miliardi di dollari e pare molto strano che i parlamentari americani abbiano rinunciato a tale somma – vitale per un paese che ha un deficit di 1200 miliardi – solo perché hanno controllato male la propria agenda. Che sia stato invece una specie di gentile omaggio che Obama abbia voluto fare ai ricchi e potenti contribuenti americani…?

Al di là delle considerazioni politiche e del tono quasi scherzoso con cui si descrive la situazione, ci sono da fare alcune considerazioni di ordine ben più alto che testimoniano la gravità della condizione culturale e spirituale dell’uomo moderno e occidentale. Il punto da cui sono partiti giornalisti e osservatori per commentare il fatto è stata la morte di Dan Duncan, ricco imprenditore texano del settore del gas naturale, che è deceduto a marzo lasciando una fortuna ammontante a 9 miliardi di dollari di cui, in virtù del buco legislativo citato prima, neanche un dollaro è andato all’erario.

anziani duncan morte tassa successione america
Più di un giornalista ha avanzato il sospetto che la morte del facoltoso settantasettenne sia stata in qualche modo calcolata per evitare di cedere al fisco
Più di un giornalista ha avanzato il sospetto che la morte del facoltoso settantasettenne sia stata in qualche modo calcolata per evitare di cedere al fisco, contro cui Duncan ha lottato tutta la vita a suon di iniziative benefiche tax free e finanziamenti a enti di volontariato che davano diritto a consistenti agevolazioni fiscali. Allargando l’obiettivo, molti hanno pensato che i numerosi ricchi e vecchi americani, diversi dei quali tenuti in vita da macchinari e respiratori artificiali, abbiano fatto un serio pensiero all’opportunità di togliersi la vita per risparmiare sulle tasse. Senza contare che il sistema sanitario americano, di fatto privatizzato, è uno dei più cari del mondo.

Senza voler entrare nel campo dell’eutanasia, troppo spinoso e soggettivo per poterne discutere in un articoletto di attualità, si ritiene comunque gravissimo il fatto che molti abbiano anche solo pensato a dare un prezzo alla vita. Anch’essa quindi, bene supremo e intangibile, viene contabilizzata nella società occidentale, materialista e utilitarista, il cui obiettivo è quello di massimizzare costantemente i guadagni e minimizzare le perdite.

Del disprezzo della vita altrui ce n’eravamo accorti tutti da tempo: le inutili guerre, i crimini umanitari, i cibi tossici, i disastri ambientali ci fanno capire ogni giorno come per questa gente la vita del prossimo abbia un valore pari a zero. Ma, pur in questo scenario sconcertante, pensavamo magari che il loro egoismo li tenesse attaccati quantomeno alla propria di vita. Invece non è così: pur di godere di un’esenzione fiscale, pur di mantenere intatto un patrimonio che – per chi crede nell’aldilà – dove stanno andando loro non servirà a un bel niente, sono disposti a valutare addirittura la possibilità di togliersi la vita, volontariamente e con una tempistica calcolata con precisione.

Sarà banale, ma davanti a situazioni come questa viene proprio da chiedersi: ma dove stiamo andando…?

di Francesco Bevilacqua

17 giugno 2010

I testimoni confermano assassinii a sangue freddo

Il primo giugno, il Presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha rilasciato una dichiarazione a nome del Consiglio stesso:Il consiglio di

Sicurezza si rammarica profondamente per la perdita di vite e le

menomazioni causate dall’uso della forza durante le operazioni

dell’esercito israeliano in acque internazionali contro un convoglio in

navigazione alla volta di Gaza. Il Consiglio, in tale contesto, condanna

quegli atti che hanno portato alla morte di almeno dieci civili e di

molti feriti, ed porge le proprie condoglianze alle loro famiglie».Il

Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ha votato nessuna risoluzione

formale a condanna di Israele per aver condotto quello che è equivalente

ad un atto di pirateria in acque internazionali, in violazione delle

Leggi Internazionali del Mare e della Carta dell’ONU.Il testo

che segue, scritto da Mahdi Darius Nazemroaya, Associata del Research

presso il Centre for Research on Globalization (CRG), presenta una

rassegna preliminare delle prove. Nelle settimane e nei mesi che

seguiranno, Global Research metterà punto un dossier esaustivo relativo

all’attacco di Israele in acque internazionali, attacco diretto contro

la Gaza Freedom Flotilla [Flottiglia per la Libertà di Gaza, ndt].
Michel Chossudovsky, 3 Giugno 2010

Dopo aver studiato con attenzione i resoconti dei testimoni, si può

concludere che il «combattimento" svoltosi sulla Gaza Peace Flotilla fra

un commando israeliano con armi pesanti e dei civili disarmati, è stato

deliberatamente istigato dai soldati israeliani.Le azioni del

commando israeliano - ordinate dal governo di Israele - sono state

caratterizzate da assassìnii a sangue freddo e da esecuzioni. In base

alle testimonianze dei passeggeri, sono state uccise persone dopo che si

erano arrese e mentre sventolava una bandiera bianca. Siccome ad alcuni

attivisti in condizioni critiche sono state rifiutate le cure da parte

degli Israeliani, anche questi sono morti. I passeggeri civili

della Mavi Maramara includevano accademici, parlamentari, artisti,

dottori, avvocati, giornalisti e rappresentanti di organizzazioni per i

diritti umani. Fra di essi c’era l’Arcivescovo Cattolico Melchita Greco

di Gerusalemme. Israele e gli USA hanno anche esercitato pressioni su

Cipro perchè impedisse a 30 parlamentari provenienti da tutta Europa e

ad un sopravvissuto dell’olocausto, di salire a bordo sulla Gaza Peace

Flotilla.

Sfidati dalle truppe scelte israeliane, i passeggeri

civili si sono trovati coinvolti in atti disperati di auto-difesa, per

proteggere le proprie vite dopo che passeggeri amici erano stati già

uccisi dal fuoco dei cecchini israeliani. Questo è stato testimoniato da

tutti i membri della Gaza Peace Flotilla, dai parlamentari tedeschi ai

lavoratori turchi. I gruppi di fuoco israeliani, con alle loro azioni,

hanno deliberatamente provocato atti di auto-difesa, con la prospettiva

di demonizzare i passeggeri e giustificare la brutalità israeliana.

Inizialmente

- prima di passare alle pallottole di vernice - le forze israeliane

hanno sparato con armi lunghe automatiche.Secondo gli attivisti

algerini a bordo, alcuni dei passeggeri hanno cercato di resistere, ma

si sono arresi quando il giovane figlio del capitano turco è stato preso

in ostaggio dagli israeliani durante una seconda ondata di attacchi.In

base ai resoconti dei passeggeri, c’è la possibilità che alcune perdite

includano passeggeri di nazionalità algerina. Si sa che almeno un

americano e molti turchi, sono stati uccisi dall’esercito israeliano

(IDF).
Non c’è stata nessuna «cattiva valutazione" [«bad

intelligence" nell’originale, ndt] da parte dei militari israeliani,

come invece sostenuto dai media israeliani e dai loro apologeti. Il

governo israeliano ha tenuto numerose riunioni di alto livello

antecedenti alla partenza della Gaza Peace Flotilla.

Gli Israeliani avrebbero potuto benissimo impedire alle navi di avanzare

verso Gaza senza dover procedere all’arrembaggio. I resoconti dei

testimoni suggeriscono che questi attacchi fossero parte di

un’operazione dei servizi militari progettata con cura. Israele aveva

anche effettuato delle esercitazioni navali che simulavano il blocco di

navi umanitarie per impedir loro di raggiungere la Striscia di Gaza.

Tutte le armi che si suppone siano state utilizzate dai passeggeri erano

parte della dotazione standard’ della nave, che includeva attrezzi per

la riparazione ed utensili da cucina. Tali oggetti sono stati raccolti

dall’IDF per creare un resoconto dei fatti falso e precostituito.

Il

cosiddetto «video ed immagini delle prove" è fornito in un dossier del

Ministero per gli Affari Esteri :Le forze israeliane hanno raccolto gli attrezzi e

l’equipaggiamento di pertinenza delle navi.L’affermazione che

delle armi siano state trafugate di nascosto sulle navi per contrastare i

militari israeliani è pura fantasia: uno sguardo attento alle immagini

suggerisce che l’IDF ha preso dei coltelli dalle cucine ed altre

attrezzature standard sulle navi (la cosa è particolarmente ovvia per

l’affilacoltelli preso dalla cucina). Uno dei coltelli nell’immagine

fornita da Israele è un coltello tradizionale «khanjar»,  che

potrebbe appartenere ai membri del parlamento dell’Oman o dello Yemen

presenti sulla Gaza Peace Flotilla

Indumenti con chiari segni di riconoscimento della Mezzaluna Rossa - usati dal

personale medico e dai volontari umanitari della Croce Rossa

Internazionale - sono stati indicati come la prova che il gruppo

umanitario internazionale fosse costituito anche da violenti sostenitori

del terrorismo.Relativamente ai video, ne sono state mostrate

solo delle parti, mentre andrebbe mostrato tutto. Se Israele fosse

onesto, avrebbe mostrato le registrazioni complete e non spezzoni

scelti, nei quali gli attivisti reagiscono.Va poi notato che -

stando ai testimoni oculari - l’IDF ha sistematicamente preso di mira

per primi i giornalisti della stampa internazionale. Se l’IDF non avesse

avuto nulla da nascondere, perchè ha confiscato tutte le attrezzature

di registrazione video ed audio? E’ chiaro che i militari israeliani

stavano sistematicamente impedendo che i giornalisti internazionali

potessero mostrare cosa fosse realmente accaduto.

Una delle organizzazioni turche, l’ IHH (Insani Yardim Vakfi/Humanitarian Aid

Fund), legata a questa flottiglia di navi umanitarie provenienti da

tutta Europa e dal Mediterraneo, è stata accusata anche di essere

collegata ad Al-Qaeda.

Il governo turco ha replicato definendo i

funzionari israeliani come dei «mentitori patentati». In una intervista

con Bulent Yildirm - un funzionario dell’IHH - condotta in inglese da

Hassan Ghani, il funzionario dell’IHH parla solo di scopi umanitari e

dice che spera prevarranno, nel governo israeliano, il buon senso e la

moderazione.

Nell’intervista, il funzionario IHH dice anche che

altre navi (molto probabilmente navi commerciali israeliane), stavano

navigando nella cosiddetta «zona di esclusione militare».

Si veda

al minuto 3 e 30 dell’intervista :

Israele ha violato la legge internazionale. Non ha nemmeno

aspettato, prima di agire, di vedere se le navi avrebbero violato la

«zona di esclusione militare». Secondo i resoconti fatti dai

parlamentari del Kuwait, e dagli attivisti, le navi stavano per

negoziare con Israele il loro ingresso.

Note Conclusive

ultimo punto: gli USA entrarono in guerra nella Prima Guerra Mondiale

quando la Royal Mail Ship Lusitania venne attaccata da un sottomarino -

od un U-boat - tedesco.

Attaccare navi e civili in acque

internazionali, è un atto di guerra ed un atto illegale in base alle

leggi internazionali.

E’ ironico che Joseph Meadors, uno dei membri della Gaza Freedom Flotilla - che è

stata attaccata - fosse un ex

marinaio della marina USA sopravvissuto all’attacco israeliano alla

U.S.S. Liberty, nel 1967. Così, questa è stata la seconda volta che

l’IDF lo ha attaccato in acque internazionali.

Ma le azioni di

Israele sono andate ben oltre la violazione delle leggi internazionali.

Il portavoce militare dell’IDF - Avital Avital Liebowitz - ha anche

fatto riferimento alla Striscia di Gaza quale territorio israeliano,

dicendo così quello che veramente pensa Israele, ma che non dice a

livello internazionale.Israele è un pericolo per se stessa e per

la sicurezza mondiale. Israele si sta anche preparando per una ben più

grande guerra contro il Libano, la Siria e l’Iran, e non c’è modo che

Israele possa battere l’Iran senza ricorrere ad armi nucleari.

A livello mondiale, i popoli devono chiedere giustizia per i Palestinesi e

la fine dell’occupazione dei territori arabi. Devono anche mobilitarsi

perchè sia impedita una più vasta guerra nel Medio Oriente.

15 giugno 2010

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iran

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iràn

1. Mercoledì 9 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha imposto nuove sanzioni all’Iràn per il suo programma nucleare. Molti analisti sono rimasti sorpresi dal voto favorevole di Russia e Cina alle sanzioni, sebbene si tratti della quarta tornata di misure prese contro l’Iràn, e tutte avallate da Mosca e Pechino. A stupire è stato soprattutto che tali sanzioni facessero seguito ad un accordo concluso da Tehrān con la Turchia e il Brasile, per evitare l’arricchimento dell’uranio sul suolo iraniano senza privare il paese persiano della tecnologia atomica. In realtà, proprio quest’accordo ha costituito una delle principali motivazioni per cui Russia e Cina hanno accolto le nuove sanzioni.

2. L’accordo turco-iraniano mediato dal presidente brasiliano Lula prevede che nel corso dell’anno l’Iràn consegni 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (ossia composto per meno del 20% dall’isotopo 235U, che può essere sottoposto a fissione nucleare; nel caso iraniano parliamo di uranio al 3,5%) alla Turchia, ricevendone in cambio 120 kg di combustibile nucleare arricchito al 19,5%; tale combustibile sarebbe destinato al Centro di Ricerca Nucleare di Tehrān, che lavora alla sviluppo d’isotopi a scopo medico. Dall’isotopo 235U, infatti, si può estrarre il molibdeno-99, da cui si ottiene il tecnezio-99m, usato nell’85% dei procedimenti diagnostici di medicina nucleare. Attualmente il 95% della produzione mondiale di molibdeno-99 avviene in sei reattori dislocati rispettivamente in Canada, Belgio, Olanda, Francia, Germania e Sudafrica, i quali utilizzano uranio-235 fornito prevalentemente dagli USA. Gli Stati Uniti d’America, col 4,5% della popolazione mondiale, impiegano il 40% della produzione globale di molibdeno-99, mentre l’Iràn, dove si trovano l’1% degli abitanti della Terra, ne impiega lo 0,25% della produzione totale. Fino al 2007 l’Iràn importava tutto il molibdeno-99 di cui abbisogna: da allora riesce a produrlo autonomamente, ma solo grazie a scorte di combustibile nucleare che risalgono ai primi anni ‘90 (fornite dall’Argentina) e che sono destinate ad esaurirsi nel giro di qualche mese. Gl’Iraniani si sono dichiarati disposti ad acquistare sul mercato internazionale nuovo LEU al 19,5%, ma hanno finora incontrato il veto degli USA, che pretendono in cambio una rinuncia completa al programma nazionale d’arricchimento dell’uranio (che pure è un diritto garantito dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, di cui la Repubblica Islamica è una firmataria). Rimangono perciò poche alternative: una rinuncia iraniana a produrre isotopi medici, tornando ad acquistarli dall’estero (l’opzione più gradita a Washington, ma giudicata inaccettabile da Tehrān); l’arricchimento dell’uranio al 19,5% da parte dell’Iràn (l’eventualità temuta dagli Atlantici, e non ancora tecnicamente sperimentata dai persiani); lo scambio di LEU al 3,5% con combustibile al 19,5%, proprio come previsto dal recente accordo con la Turchia (la soluzione di compromesso che, in teoria, dovrebbe accontentare tutti).

Val la pena notare che: i 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (LEU secondo l’acronimo inglese) che l’Iràn consegnerebbe alla Turchia costituiscono più della metà delle sue scorte totali d’uranio; il LEU iraniano raggiunge al momento il 3,5% d’arricchimento, ancora ben lontano dalla soglia del 20% oltre il quale si realizza l’uranio ad alto arricchimento (HEU); per realizzare armi atomiche minimamente efficienti servono grosse quantità di uranio altamente arricchito (anche 90%).

3. L’accordo Turchia-Brasile-Iràn ricalca una precedente bozza negoziale proposta proprio dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dell’ONU ed avallata dalle grandi potenze, USA compresi. Tale bozza d’accordo prevedeva che l’Iràn consegnasse i 1200 kg di LEU alla Russia: quest’ultima li avrebbe arricchiti al 19,5% e girati alla Francia, la quale li avrebbe incorporati in combustibile nucleare e consegnati all’Iràn. L’accordo era stato accettato con riserva da Tehrān: gl’Iraniani volevano infatti che lo scambio avvenisse simultaneamente e sul territorio iraniano, mentre le grandi potenze pretendevano che lo scambio fosse sequenziale (prima l’uranio iraniano alla Russia, e solo dopo il completamento del processo d’arricchimento il combustibile francese all’Iràn). La diffidenza iraniana derivava da precisi trascorsi negativi avuti con Parigi e Mosca.

Negli anni ‘70 l’Iràn investì circa 1 miliardo di dollari in Eurodif, un consorzio basato in Francia per l’arricchimento dell’uranio. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Parigi non solo si è rifiutata di consegnare l’uranio arricchito a Tehrān, ma per giunta si è tenuta i soldi pagati dagl’Iraniani. Con la Russia è successo qualcosa di simile. Nel dicembre 2005 fu siglato un contratto per la fornitura di missili terra-aria S-300 dalla Russia all’Iràn, ma da allora Mosca ha sempre addotto generiche e poco credibili scuse pur di non onorare l’impegno preso. Da qui il comprensibile timore dell’Iràn che, una volta consegnate le proprie scorte di LEU a Russia e Francia, questi due paesi possano rimangiarsi la parola data e non dare la contropartita pattuita.

Grazie alla mediazione di Lula da Silva, si è raggiunto l’accordo che in linea teorica permetterebbe di superare quest’ostacolo: agl’inaffidabili Russi e Francesi si sostituirebbero i Turchi, che godono della fiducia iraniana.

4. L’accordo a tre Iràn-Turchia-Brasile ha subito suscitato una reazione di difesa nel “concerto” delle grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, ossia quelle dotate di seggio permanente e diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: USA, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina. Questi cinque paesi hanno fin dall’inizio preso in mano la gestione del dossier nucleare iraniano, ammettendo al proprio fianco la sola Germania (il cosiddetto sistema “5+1”). L’iniziativa di Brasile e Turchia è stata immediatamente percepita come un’intrusione di nuove potenze emergenti nell’egemonia diplomatica delle potenze tradizionali. Non a caso, al Consiglio di Sicurezza i “cinque grandi” hanno fatto causa comune, votando all’unisono per sanzioni contro l’Iràn, trovando la scontata opposizione di Brasile e Turchia e l’astensione del piccolo Libano, conteso tra la sfera d’influenza siro-iraniana e quella saudita-nordamericana. La spaccatura dei “cinque grandi” in due fronti (gli Atlantici da una parte, Cina e Russia dall’altra) si è momentaneamente ricomposta per ribadire la propria posizione privilegiata nel panorama diplomatico internazionale. Non a caso Lula e Erdoğan hanno criticato la deliberazione del Consiglio di Sicurezza affermando che ne indebolisce l’autorità. Lo strapotere diplomatico dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale appare ormai anacronistico, ma le nuove grandi potenze emergenti (non solo Brasile e Turchia, ma anche Germania, India e Giappone) non sono ancora abbastanza solide ed unite per abbatterne l’egemonia. Tuttavia, pure i “cinque grandi” da anni lavorano ad una riforma del Consiglio di Sicurezza, palese segnale che loro stessi si sono accorti di come la sistemazione attuale sia insostenibile sul lungo periodo.

5. La Russia, che fino a pochi mesi fa appariva la principale protettrice dell’Iràn, aveva delle motivazioni aggiuntive per votare la nuova tornata di sanzioni. La prima è affermare il proprio ruolo di potenza mediatrice nel Vicino Oriente.

Durante la Guerra Fredda il Vicino Oriente era quella che i geopolitici moderni definiscono una shatterbelt, ossia un teatro regionale in cui le rivalità interne coinvolgono i competitori globali. Nello scontro tra paesi arabi e paesi non arabi (Israele, Turchia e Iràn) s’inserirono le due potenze mondiali, l’URSS coi primi e gli USA coi secondi. La posizione regionale di Mosca, che dovette essere costruita ex novo negli anni ‘50 e ‘60 (prima il Vicino Oriente era un condominio franco-anglosassone), s’indebolì tuttavia molto presto col passaggio dell’Egitto e di altri paesi arabi nel campo atlantico. Il crollo dell’URSS ha portato negli anni ‘90 ad una completa esclusione dei Russi dalla regione, tant’è vero che per oltre un decennio Washington è stata arbitra indiscussa degli equilibri locali.

Negli ultimi anni, tuttavia, il prestigio statunitense nel Vicino Oriente è stato minato da tre fattori: l’eccessiva accondiscendenza verso Israele, che non conferisce credibilità alcuna al preteso ruolo di “mediatore”; la maldestra decisione strategica di liquidare l’Iràq baathista aprendo la via all’influenza iraniana, che ha preoccupato i paesi arabi del Golfo; le difficoltà militari incontrate nel paese mesopotamico.

Il Cremlino cerca d’avvantaggiarsi delle difficoltà di Washington, ma non si sente pronto ad avviare un nuovo bipolarismo regionale, facendosi tutore d’una delle due fazioni che si vanno configurando nel Vicino Oriente (da un lato Iràn, Siria ed alcuni movimenti palestinesi, libanesi ed iracheni; dall’altro Israele ed i restanti paesi arabi, spalleggiati dagli USA). I Russi si sono perciò limitati a dare una discreta assistenza alla Siria e all’Iràn per ristabilire un maggiore equilibrio delle forze in campo, e quindi cercare d’inserirsi come potenza mediatrice neutrale. Ciò richiede però due cose: Mosca non deve apparire troppo schierata (e perciò accondiscendere di tanto in tanto alle richieste d’Israele); nessun’altra potenza deve cercare d’inserirsi nel medesimo ruolo equilibratore. Quest’ultimo fattore crea qualche incomprensione tra Mosca e Ankara, pur in un quadro di marcata distensione ed avvicinamento. Anche la Turchia, infatti, nel momento in cui sostiene Iràn e Siria cerca anche di porsi come protettrice dei paesi arabi, in un’ottica definita spesso “neo-ottomana”. Di fatto, Ankara vorrebbe diventare il polo regionale, che unisca tutti i paesi del Vicino Oriente sulla base dell’esclusione d’uno solo: Israele. Potrebbe trattarsi solo d’un caso, ma lo sgarbo russo alla Turchia rappresentato dalle sanzioni all’Iràn segue di poche settimane il più sanguinoso oltraggio sionista alla dirigenza anatolica, ossia l’attacco alla Freedom Flotilla.

Mosca deve fare attenzione a non discendere lungo una china pericolosa. L’amicizia turca è fondamentale per la geostrategia russa, perché il paese anatolico può, potenzialmente, minarne l’influenza nei Balcani, nel Mar Nero, nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ed anche in Europa se si pone come fulcro energetico alternativo. Al contrario, collaborando con esso Mosca può più facilmente proiettarsi nel Vicino Oriente. Fortunatamente per i Russi, al momento non ci sono segnali che indichino nulla più d’una contingente incomprensione coi Turchi, in un quadro di crescente amicizia e collaborazione.

6. D’altro canto, in Russia c’è sempre stato un acceso dibattito sulle relazioni da instaurare con l’Iràn. Mentre alcuni settori vorrebbero stringere una vera e propria alleanza in funzione anti-statunitense, altri – che per ora hanno il sopravvento – si mostrano più cauti. Per costoro la situazione attuale, di contrasto latente ma non bellico tra l’Iràn e il Patto Atlantico, è la più proficua per la Russia. E non solo perché permette ai Russi di concludere eccellenti contratti col paese persiano sfruttandone il semi-isolamento.

L’Iràn possiede le seconde maggiori riserve di gas naturali al mondo, seconde solo a quelle della Russia. Tuttavia, consuma quasi tutta la produzione per soddisfare il proprio fabbisogno interno, sicché è appena il ventinovesimo esportatore mondiale. Potenzialmente, un Iràn dotato di energia nucleare e non più ai ferri corti con gli Atlantici potrebbe cominciare ad esportare ingenti quantità di gas naturale in Europa, magari tramite il Nabucco (che parte da Erzurum, non molto distante dal confine iraniano), e quindi porsi come competitore della stessa Russia. Ma finché i rapporti tra queste due entità si mantengono tesi, Mosca non rischia nulla, e può invece cercare di convincere l’Iràn a vendere il gas all’India e quest’ultima ad acquistarlo, lasciando così intatta la leva energetica che la Russia possiede nei confronti dell’Europa.

7. Proprio l’energia è uno dei capisaldi della nuova politica estera russa. Mosca vuole mantenere ed anzi rinsaldare il proprio ruolo di perno energetico mondiale, o quanto meno eurasiatico. In tale scenario rientrano proprio gli accordi di cooperazione nucleare con l’India, la Turchia e l’Iràn. Come già riferito, l’accordo mediato da Lula non faceva altro che sostituire la Turchia alla Russia nel medesimo ruolo di fornitore del combustibile nucleare all’Iràn. Mosca non ha gradito e si è messa di traverso, facendo così capire chiaramente che qualsiasi accordo futuro dovrà coinvolgerla in prima persona.

8. Del resto, tra Russia e Iràn non è la fine della relazione. Il loro rapporto di collaborazione proseguirà, anche se – almeno nei prossimi mesi – con maggiore freddezza. I Russi promettono di aprire la centrale di Bushehr in agosto. Col voto favorevole alle sanzioni e col rifiuto di ammettere l’Iràn all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai hanno voluto chiarire a Tehrān di non accettare ruoli da comprimari, ma di voler condurre le danze essi stessi. Mosca vorrebbe instaurare con l’Iràn un rapporto “ineguale”, com’è quello con la Siria: da un lato il tutore, dall’altro il protetto. È comprensibile, ma i Russi non dovrebbero mai dimenticare che l’Iràn è una vera e propria potenza regionale emergente, di ben altra pasta rispetto alla Siria. Le relazioni con Tehrān andranno modulate su basi differenti, oppure finiranno con l’essere conflittuali, a tutto vantaggio di Washington che prenderebbe due piccioni con una fava, mettendo una contro l’altra due potenze rivali.

9. Va infine tenuto conto della probabilità di un “voto di scambio”. Il Cremlino avrà chiesto qualche contropartita alla Casa Bianca in cambio del proprio assenso alle sanzioni, e la più plausibile è un rallentamento del programma di scudo anti-missili balistici portato avanti dagli USA. Evidentemente Mosca non si sente ancora pronta ad ingaggiare una nuova corsa agli armamenti con Washington, e perciò cerca di rimandarla il più possibile con ogni mezzo.

10. La Cina, dal canto suo, aveva molte meno ragioni per avallare la nuova tornata di sanzioni, e proprio per tale motivo è stata l’ultima ad accettarle e, secondo alcune voci, molto più della Russia avrebbe lavorato per ammorbidirle. Probabilmente, Pechino ha voluto evitare l’isolamento e continuare a muoversi in accordo con Mosca sul dossier iraniano: rimanendo sola contro tutti la propria capacità contrattuale nella questione si sarebbe alquanto indebolita.

11. Pechino e Mosca hanno modellato le sanzioni di modo da non compromettere i propri interessi economici in Iràn. Gli USA ed alcuni paesi europei faranno il resto, varando sanzioni unilaterali aggiuntive. In tal modo, il peso economico di Cina e Russia in Iràn andrà rafforzandosi ulteriormente nei prossimi mesi, a maggiore detrimento di quel che resta degli operatori europei.

12. In definitiva, l’assenso russo e cinese alle nuove sanzioni contro l’Iràn s’inserisce nel complesso ed intricato quadro delle interazioni tra le grandi potenze, un gioco diplomatico che prevede ambiguità ed apparenti voltafaccia, soprattutto da parte di quei paesi non abbastanza forti da mostrarsi intransigenti su ogni questione, di grande o piccolo conto (una possibilità oggi appannaggio solo degli USA). Tuttavia, lo scenario di medio e lungo termine non è destinato a mutare. Russia e Cina operano per scalzare l’influenza statunitense anche dal Vicino Oriente, e l’accordo con gli Atlantici verrà meno già nelle prossime settimane, quando questi ultimi cercheranno di varare sanzioni unilaterali che colpiscano anche quelle compagnie di paesi terzi che fanno affari con Tehrān. Perciò Russia e Cina continueranno ad essere per l’Iràn, se non gli amici più sinceri, di sicuro quelli più utili e potenti.


di Daniele Scalea

America, dove il denaro conta più della vita


america tassa successione
"Morirei piuttosto che farmi spillare soldi dal fisco!". Quello che sembra lo sfogo sarcastico di qualche evasore fiscale rischia di diventare l’agghiacciante realtà nella Terra delle opportunità
"Morirei piuttosto che farmi spillare soldi dal fisco!". Quello che sembra lo sfogo sarcastico di qualche evasore fiscale rischia di diventare l’agghiacciante realtà nella Terra delle opportunità. Nonostante i tentativi di abolirla risalenti al 2001, infatti, negli Stati Uniti esiste ancora una pesante tassa di successione, che prevede un’aliquota del 45% applicata al patrimonio dei ricchi che lasciano questo mondo – la soglia di imponibile sotto la quale scatta l’esenzione è di 2,6 milioni di euro –, che obbliga gli eredi a corrispondere allo Stato quasi metà del patrimonio che si apprestano a ricevere. Oggetto di aspri scontri in Congresso fin dall’amministrazione Clinton, la tassa ha resistito fino all’insediamento di Obama, il quale ha dichiarato di voler porre fine alla manovra avviata da Bush per abolirla.

C’è però un piccolo inconveniente: sembra che per un motivo non meglio precisato, il Congresso di Washington si sia “scordato” di votare la proroga per il 2010 e che in attesa del 2011, quando si potrà riportare in vigore la tassa a un’aliquota maggiorata (55%), si sia creata una specie di finestra di esenzione fiscale che permette agli ereditieri dei più ricchi (e anziani) americani di ricevere le fortune dei padri senza sganciare un solo dollaro allo Stato.

Perché questo accada deve però realizzarsi un evento non di poco conto: il riccone deve tirare le cuoia entro il 31 dicembre 2010. Questo grazie a una dimenticanza che, considerando i tempi che corrono, appare più che mai sospetta. Il gettito netto garantito da questa tassa ammonta infatti a 23 miliardi di dollari e pare molto strano che i parlamentari americani abbiano rinunciato a tale somma – vitale per un paese che ha un deficit di 1200 miliardi – solo perché hanno controllato male la propria agenda. Che sia stato invece una specie di gentile omaggio che Obama abbia voluto fare ai ricchi e potenti contribuenti americani…?

Al di là delle considerazioni politiche e del tono quasi scherzoso con cui si descrive la situazione, ci sono da fare alcune considerazioni di ordine ben più alto che testimoniano la gravità della condizione culturale e spirituale dell’uomo moderno e occidentale. Il punto da cui sono partiti giornalisti e osservatori per commentare il fatto è stata la morte di Dan Duncan, ricco imprenditore texano del settore del gas naturale, che è deceduto a marzo lasciando una fortuna ammontante a 9 miliardi di dollari di cui, in virtù del buco legislativo citato prima, neanche un dollaro è andato all’erario.

anziani duncan morte tassa successione america
Più di un giornalista ha avanzato il sospetto che la morte del facoltoso settantasettenne sia stata in qualche modo calcolata per evitare di cedere al fisco
Più di un giornalista ha avanzato il sospetto che la morte del facoltoso settantasettenne sia stata in qualche modo calcolata per evitare di cedere al fisco, contro cui Duncan ha lottato tutta la vita a suon di iniziative benefiche tax free e finanziamenti a enti di volontariato che davano diritto a consistenti agevolazioni fiscali. Allargando l’obiettivo, molti hanno pensato che i numerosi ricchi e vecchi americani, diversi dei quali tenuti in vita da macchinari e respiratori artificiali, abbiano fatto un serio pensiero all’opportunità di togliersi la vita per risparmiare sulle tasse. Senza contare che il sistema sanitario americano, di fatto privatizzato, è uno dei più cari del mondo.

Senza voler entrare nel campo dell’eutanasia, troppo spinoso e soggettivo per poterne discutere in un articoletto di attualità, si ritiene comunque gravissimo il fatto che molti abbiano anche solo pensato a dare un prezzo alla vita. Anch’essa quindi, bene supremo e intangibile, viene contabilizzata nella società occidentale, materialista e utilitarista, il cui obiettivo è quello di massimizzare costantemente i guadagni e minimizzare le perdite.

Del disprezzo della vita altrui ce n’eravamo accorti tutti da tempo: le inutili guerre, i crimini umanitari, i cibi tossici, i disastri ambientali ci fanno capire ogni giorno come per questa gente la vita del prossimo abbia un valore pari a zero. Ma, pur in questo scenario sconcertante, pensavamo magari che il loro egoismo li tenesse attaccati quantomeno alla propria di vita. Invece non è così: pur di godere di un’esenzione fiscale, pur di mantenere intatto un patrimonio che – per chi crede nell’aldilà – dove stanno andando loro non servirà a un bel niente, sono disposti a valutare addirittura la possibilità di togliersi la vita, volontariamente e con una tempistica calcolata con precisione.

Sarà banale, ma davanti a situazioni come questa viene proprio da chiedersi: ma dove stiamo andando…?

di Francesco Bevilacqua