03 agosto 2010

Dietro un conflitto incompreso



http://www.quipunet.it/rinascita/images/stories/internazionale/afghanistan_soldati500.jpg

Più si ripetono gli episodi in cui perdono la vita i nostri militari in Afghanistan, tanto meno la stampa gli dedica spazio. Sui giornali dura maggiormente la “scoperta” delle sniffate di cocaina alla discoteca Hollywood di Milano, con il contorno di starlette procaci e vip di mezza tacca. Non si tratta di censura, ma del disinteresse dell’opinione pubblica per quanto avviene nella lontana Kabul. La morte dei nostri due artificieri, mercoledì scorso, sarà così dimenticata presto.
Se lo stillicidio di caduti proseguirà con questo ritmo, è probabile che sparisca dalle prime pagine. Solo un coinvolgimento totale nel conflitto del nostro contingente, con un numero di morti molto elevato, riaccenderebbe l’interesse. L’Italia sta comunque combattendo, di fatto, una guerra. Come altro definire una situazione in cui il nostro esercito è impegnato quotidianamente contro un nemico al quale infligge perdite (molto più numerose di quanto si creda), subendone a sua volta, nel tentativo di difendere il territorio affidatogli? L’italiano medio, però, se ne va in ferie e ciò lo conforta, se mai ce ne fosse bisogno, sul fatto che il suo Paese vive in pace. Eppure, lo sforzo bellico che l’Italia sta compiendo, considerate le risorse ristrette, non è indifferente: quasi 4mila uomini schierati, oltre a tutti gli altri soldati impegnati nelle varie missioni internazionali.
L’opinione pubblica Usa percepisce le due guerre nelle quali Washington è impegnata non molto diversamente da noi. La vera emergenza nazionale, che turba la popolazione e infiamma la polemica, è costituita dall’onda nera del petrolio che minaccia le coste della Florida. Quello è il dramma vero perché si svolge dentro casa; le guerre sono qualcosa che accade lontano, una preoccupazione “astratta”. Sia Bush come Obama hanno deciso di non finanziare i costi assai elevati di Iraq e Afghanistan con l’aumento delle tasse, preferendo scaricarli su un debito pubblico che, pure, ha raggiunto una quota preoccupante. Sono così riusciti a “distrarre” ancora di più la popolazione, facendola sentire estranea allo sforzo bellico della nazione. C’è, poi, il welfare di guerra. L’aumento delle spese militari, oltre a ingrassare le aziende del settore, produce anche un certo numero di posti di lavoro non disprezzabile in questa fase di aumento della disoccupazione.
Spesso, nel giudicare le difficoltà delle nuove guerre Usa, si fa riferimento al Vietnam. E’ un paragone da usare con molta precauzione, perché non si deve innanzitutto dimenticare che i soldati mandati combattere in Indocina erano reclutati attraverso la leva, mentre oggi si tratta di professionisti. Il Vietnam era un incubo per tutti i giovani statunitensi dell’epoca (anche se alcuni riuscivano ad assicurarsi in vario modo l’esenzione) l’Iraq e l’Afghanistan, almeno per quanto riguarda la truppa, sono un affare dei più poveri e dei nuovi immigrati. Tutta gente che non fa tendenza e della cui esistenza la grande classe media si può facilmente dimenticare. Non c’è stato quindi, né c’è da aspettarselo in futuro, un revival del grande movimento pacifista che, all’epoca, mise in difficoltà la Casa Bianca.
Le nuove guerre occidentali guidate dagli Usa interessano segmenti molto limitati della popolazione. La propaganda le ha chiamate in vario modo per esorcizzare la parola tabù guerra, con definizioni che convergono nel rappresentarle come operazioni di polizia internazionale. E’ un falso perché si tratta di vere e proprie guerre, con alte perdite fra i guerriglieri e la popolazione civile e con battaglie combattute per impossessarsi di zone del territorio controllate dal nemico, come nei conflitti tradizionali. L’uso del termine polizia ha però un senso per le popolazioni degli Usa e dei Paesi al loro seguito: i soldati partiti per quei territori stanno facendo nient’altro del loro dovere di professionisti, ovvero sconfiggere i delinquenti e mantenere l’ordine. Come non ci si emoziona più di tanto per i pericoli che affrontano, nel loro lavoro, i poliziotti in patria, così non ci si sente partecipi della missione di altri professionisti che fanno più o meno le stesse cose all’estero.
Le guerre ineguali, come le definisce Alessandro Colombo per via dell’enorme disparità di mezzi fra le parti in lotta, rappresentano la forma della privatizzazione della guerra. Non casualmente vi partecipa un enorme numero dei cosiddetti contractor, i militari stipendiati da compagnie private. E’ un aspetto di cui si parla ancora troppo poco, ma potrebbe rappresentare il futuro dei conflitti armati, che verrebbero appaltati quasi in esclusiva ai nuovi mercenari. In fin dei conti, non sarebbe neanche una novità storica in assoluto, ma una riedizione, in grandi dimensioni, delle compagnie di ventura con cui i principi italiani si combattevano durante il Rinascimento.
La privatizzazione attuale della guerra, però, si inserisce nel generale processo di privatizzazione del mondo, che non risparmia nemmeno risorse essenziali come l’acqua. Sarà un caso -ma se lo è si tratta di un caso veramente propizio alla comprensione delle trasformazioni in atto- che la Serbia, dove la Fiat intende trasportare una parte delle sue produzioni, sottraendola a Mirafiori, sia stato uno dei Paesi ad avere subito sul proprio territorio un’operazione di polizia internazionale. Nel 1999 l’Italia svolse un ruolo essenziale in quella aggressione, fornendo le basi per gli aerei che effettuavano i bombardamenti. Oggi, la nostra maggiore azienda “investe” proprio in quel Paese che il governo italiano, con le sue decisioni, contribuì a devastare. La fabbrica dove produrrà la Fiat è la Zastava, di cui lo Stato serbo pagherà la bonifica: 370 tonnellate di sostanze nocive procurate proprio da un bombardamento della Nato. Più simbolico di così.
Le condizioni offerte da Belgrado sono estremamente allettanti per Marchionne: la Fiat per dieci anni non pagherà tasse e riceverà 10mila euri di finanziamento pubblico per ogni assunzione, mettendoci, di tasca propria, solo 350 milioni del miliardo di investimento totale. Aggiungeteci che la paga media di un operaio serbo è di circa 400 euri al mese e capirete che per il Lingotto si tratta di un affarone. Simili condizioni di dumping sociale, che non si trovano nemmeno in Cina, le può però offrire solo uno Stato disperato, che prima è stato messo al guinzaglio con le maniere forti ed oggi viene “premiato” con il lavoro. I vertici Fiat e molti opinionisti affermano che, “ovviamente”, un’azienda globalizzata produce dove le condizioni di mercato sono migliori. Una logica stringente per chi pensa al lavoro solo come questione privata. Di cosa si lamentano dunque gli operai di Torino? Non li leggono gli editoriali dei maggiori quotidiani, in cui si esalta la globalizzazione che, cancellando i confini, toglierà finalmente di mezzo le nefaste rigidità degli Stati nazionali con tutte le loro lentezze politiche?

di Roberto Zavaglia

02 agosto 2010

I supermercati e la crisi mondiale dei generi alimentari





La crisi dei generi alimentari ha lasciato senza cibo milioni di persone nel mondo. Agli 850 milioni di persone che soffrono la fame, la Banca Mondiale ne ha aggiunti altri 100 in seguito alla crisi attuale. Questo “tsunami” della carestia non ha nulla di naturale, al contrario, è il risultato delle politiche neoliberali imposte da decenni dalle istituzioni internazionali. Oggi il problema non è la mancanza di generi alimentari in quantità sufficiente, bensì l’impossibilità di avere accesso a tali generi alimentari per via dei prezzi troppo alti.

Questa crisi dei generi alimentari lascia dietro di sé una lunga lista di vincitori e perdenti. Tra i più colpiti troviamo le donne, i bambini, i contadini espulsi dalle loro terre, i poveri d’ambiente urbano…In definitiva, le persone che costituiscono la massa degli oppressi del sistema capitalista. Tra i vincitori troviamo le multinazionali dell’industria agroalimentare che controllano dall’inizio alla fine tutta la catena di produzione, di trasformazione e commercializzazione dei generi alimentari. Quindi, se la crisi alimentare colpisce principalmente i paesi del Sud, le multinazionali assistono a una forte crescita dei loro introiti.



Monopoli

La catena agroalimentare è controllata in ogni sua fase (semenze, fertilizzanti, trasformazione, distribuzione, ecc) dalle multinazionali che accumulano introiti elevati grazie a un modello agro-industriale liberalizzato e senza regole. Un sistema che conta, con il sostegno esplicito delle élite politiche e delle istituzioni internazionali che mettono i profitti di queste imprese al di sopra della soddisfazione dei bisogni alimentari delle persone e del rispetto dell’ambiente.

La grande distribuzione si caratterizza per un alto livello di concentrazione capitalista, come in altri settori. In Europa, tra il 1987 e il 2005, la porzione di mercato delle 10 maggiori multinazionali di distribuzione, rappresentava il 45% del totale e si prevede che raggiungerà il 75% nei prossimi 10-15 anni. In paesi come la Svezia, tre catene di supermercati controllano circa il 91% del mercato e in Danimarca, Belgio, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Argentina, un pugno d’imprese domina tra il quarantacinque e il 60% del mercato.

Le megafusioni sono all’ordine del giorno in questo settore. In questo modo, le grandi multinazionali installate nei paesi occidentali, assorbono le catene più piccole in tutto il pianeta, assicurandosi un’espansione su scala mondiale, in particolar modo nei paesi del Sud.

Questa concentrazione monopolistica permette di garantire un controllo importante di quello che consumiamo, dei loro prezzi, della provenienza e del modo in cui i prodotti sono elaborati, con quali ingredienti ecc. Nel 2006, la seconda maggior impresa mondiale per volume di vendite, è stata Wal-Mart e tra i top 50 mondiali di queste aziende, figura anche Carrefour, Tesco, Kroger, Royal Ahold e Costco. La nostra alimentazione dipende ogni giorno di più dagli interessi di queste grandi catene di vendita al dettaglio e il loro potere si mette in evidenza drammaticamente nelle situazioni di crisi.

Di fatto, nell’aprile 2008, di fronte alla crisi alimentare mondiale, le due più grandi catene di supermercati degli Stati Uniti, Sam’s Club (proprietà di Wal-Mart) e Costco, hanno scelto di razionare la vendita di riso nelle loro aziende per gonfiare i prezzi. Da Sam’s Club è stata limitata la vendita di riso a tre varietà (basmati, gelsomino/”jasmin” e grano lungo) come pure la vendita di sacchi di riso da 9 kg a 4 kg per cliente. Da Costco, la vendita di farina e di riso è stata limitata. In Gran Bretagna, Tilda (principale importatore di riso basmati a livello mondiale) ha anch’esso stabilito delle restrizioni di vendita. Con queste misure è stata messa in evidenza la capacità delle grandi catene di distribuzione di influenzare l’acquisto e la vendita di determinati prodotti, di limitare la loro distribuzione al fine di influenzare la formazione dei prezzi. Un fatto che non si era più verificato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale quando erano state imposte restrizioni sul petrolio, sulla gomma e sulle lampadine, ma non sui generi alimentari.

Cambiamenti di abitudini

Un’altra dinamica che è stata messa in rilievo con la crisi alimentare è stata quella del cambiamento di abitudini all’atto dell’acquisto. Di fronte alla necessità dei clienti di stringere la cintura e di andare nei negozi con i prezzi più bassi, le catene di discount sono state vincenti. In Italia, Gran Bretagna, Spagna, Portogallo e Francia, questi supermercati hanno visto aumentare le vendite dal 9% al 13% nel primo trimestre del 2008, rispetto all’anno precedente.

Un altro fattore che indica il cambiamento delle tendenze è l’aumento delle vendite degli elettrodomestici che ammontano, secondo le cifre del primo trimestre del 2008, in Gran Bretagna, al 43,7% del volume totale delle vendite, al 32,8% in Spagna, 31,6% in Germania e in Portogallo e al 30% circa, in Francia. Sono appunto questi elettrodomestici che offrono i maggiori introiti alle grandi catene di distribuzione e che permettono una più vasta fidelizzazione della clientela.
Tuttavia, al di là del ruolo che può avere la grande distribuzione in una situazione di crisi (con la restrizione della vendita di certi prodotti, i cambiamenti di abitudini d’acquisto, ecc), questo modello di distribuzione esercita a livello strutturale un controllo stretto che ha un impatto negativo sulle varie figure partecipano alla catena di distribuzione alimentare: contadini, fornitori, consumatori, lavoratori, ecc. Di fatto, l’apparizione dei supermercati, centri commerciali, catene discount, express, ecc, nel corso del XX secolo, ha contribuito alla commercializzazione delle nostre abitudini alimentari e alla sottomissione dell’agricoltura e dell’alimentazione alla logica del capitale e del mercato.
di Esther Vivas

Esther Vivas è membro della direzione di Izquierda Anticapitalista-Revolta Global in Spagna. Ha pubblicato in francese «En campagne contre la dette» (Syllepse, 2008) (In campagna contro il debito) e è coordinatrice dei libri in spagnolo «Supermarchés, non merci»! (Supermercati, no grazie!) et «Où va le commerce»?(Dove va il commercio?). Questo articolo è stato tradotto dallo spagnolo per www.lcr-lagauche.be

Fonte: www.mondialisation.ca

01 agosto 2010

Le truppe segrete inviate dall’Italia: la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti

Le truppe segrete inviate dall'Italia: la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti

Nei vari materiali che si possono rintracciare fra quelli resi pubblici attraverso il sito “Wikileaks”- probabilmente a causa di una fuga di notizie voluta da una parte dell’intelligence Usa (1)- è possibile leggerne diversi riguardanti l’Italia e uno in particolare pare interessante per confermare la natura “antidemocratica” della gestione della politica estera sotto una democrazia, in special modo in riferimento alla coalizione nord atlantica (Nato) guidata dagli Usa.

In un documento classificato confidential e contraddistinto dall’acronimo “Noform” che significa che “non può essere comunicato a governi e persone non americane”, troviamo la pianificazione decisa nel 2007 dall’amministrazione Usa e il governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi di un aumento dello sforzo militare italiano in Afganistan. La cosa interessante è che già dal titolo del rapporto Usa si capisce che “bisogna lavorare con discrezione, ad un livello tecnico”, ossia in altre parole l’ambasciata Usa a Roma – fonte delle notizie secondo il documento – informa Washington che il premier Prodi è disposto ad aumentare la capacità militare all’Isaf, ma che può farlo soltanto segretamente senza dibattere la questione pubblicamente e nel Parlamento, perché in tal caso avrebbe trovato degli ostacoli…nella sovranità popolare! Citando il documento: a patto che la questione “non sia trattata pubblicamente ma solo a un livello tecnico” data “la sensibilità politica nazionale”. In particolare sono Gianni Bardini (all’epoca ministro plenipotenziario e responsabile per le problematiche di sicurezza e le questioni Nato della Direzione Generale Affari Politici Multilaterali e Diritti Umani [non c’è da stupirsi di niente con nomi così orwelliani che rendono palese a chi vuole capire il dominio globale NdR]) e il diplomatico Achille Amerio a spiegare nel testo che il governo Prodi sta già aumentando in maniera discreta le capacità militari in Afganistan e che comunque si sarebbero trovate modalità tecniche per rendere ancora più profondo tale obiettivo.

In definitiva quello che si evince è la classica prerogativa che gli Usa ricoprono sulla politica estera italiana (e in tutti gli Stati appartenenti alla Nato), per niente affatto sottoposta alla sovranità ed agli interessi della popolazione della Penisola e dell’Europa; le decisioni sull’utilizzo dei nostri soldati in scenari di guerra voluti dagli Stati Uniti per controllare la massa continentale eurasiatica, vengono semplicemente ordinate da Washington e messe in atto da un punto di vista tecnico, facendole così passare inosservate. Il Ministro degli Esteri del governo Prodi, Massimo D’Alema come i suoi colleghi precedenti e successivi sono semplici esecutori in un Paese a sovranità limitata come l’Italia (in cui sono presenti, ricordiamo più di cento basi militari controllate dagli Usa e che contengono un centinaio di bombe nucleari).

Non sono di certo novità, ma semplici conferme dell’ipocrisia della sovranità che si vorrebbe democratica, ma della quale viene proibito l’esercizio alla popolazione, per paura (giustificata) che questa possa non essere d’accordo con gli obiettivi di dominio globale degli Stati Uniti, e sia invece più interessata a difendere la libertà italiana, europea ed eurasiatica; conferma dell’inutilità odierna della distinzione fra “destra” e “sinistra” entrambe referenti di certi poteri atlantici; conferma infine della sudditanza del nostro Paese nei confronti del centro di potere residente a Washington.

di Matteo Pistilli -

03 agosto 2010

Dietro un conflitto incompreso



http://www.quipunet.it/rinascita/images/stories/internazionale/afghanistan_soldati500.jpg

Più si ripetono gli episodi in cui perdono la vita i nostri militari in Afghanistan, tanto meno la stampa gli dedica spazio. Sui giornali dura maggiormente la “scoperta” delle sniffate di cocaina alla discoteca Hollywood di Milano, con il contorno di starlette procaci e vip di mezza tacca. Non si tratta di censura, ma del disinteresse dell’opinione pubblica per quanto avviene nella lontana Kabul. La morte dei nostri due artificieri, mercoledì scorso, sarà così dimenticata presto.
Se lo stillicidio di caduti proseguirà con questo ritmo, è probabile che sparisca dalle prime pagine. Solo un coinvolgimento totale nel conflitto del nostro contingente, con un numero di morti molto elevato, riaccenderebbe l’interesse. L’Italia sta comunque combattendo, di fatto, una guerra. Come altro definire una situazione in cui il nostro esercito è impegnato quotidianamente contro un nemico al quale infligge perdite (molto più numerose di quanto si creda), subendone a sua volta, nel tentativo di difendere il territorio affidatogli? L’italiano medio, però, se ne va in ferie e ciò lo conforta, se mai ce ne fosse bisogno, sul fatto che il suo Paese vive in pace. Eppure, lo sforzo bellico che l’Italia sta compiendo, considerate le risorse ristrette, non è indifferente: quasi 4mila uomini schierati, oltre a tutti gli altri soldati impegnati nelle varie missioni internazionali.
L’opinione pubblica Usa percepisce le due guerre nelle quali Washington è impegnata non molto diversamente da noi. La vera emergenza nazionale, che turba la popolazione e infiamma la polemica, è costituita dall’onda nera del petrolio che minaccia le coste della Florida. Quello è il dramma vero perché si svolge dentro casa; le guerre sono qualcosa che accade lontano, una preoccupazione “astratta”. Sia Bush come Obama hanno deciso di non finanziare i costi assai elevati di Iraq e Afghanistan con l’aumento delle tasse, preferendo scaricarli su un debito pubblico che, pure, ha raggiunto una quota preoccupante. Sono così riusciti a “distrarre” ancora di più la popolazione, facendola sentire estranea allo sforzo bellico della nazione. C’è, poi, il welfare di guerra. L’aumento delle spese militari, oltre a ingrassare le aziende del settore, produce anche un certo numero di posti di lavoro non disprezzabile in questa fase di aumento della disoccupazione.
Spesso, nel giudicare le difficoltà delle nuove guerre Usa, si fa riferimento al Vietnam. E’ un paragone da usare con molta precauzione, perché non si deve innanzitutto dimenticare che i soldati mandati combattere in Indocina erano reclutati attraverso la leva, mentre oggi si tratta di professionisti. Il Vietnam era un incubo per tutti i giovani statunitensi dell’epoca (anche se alcuni riuscivano ad assicurarsi in vario modo l’esenzione) l’Iraq e l’Afghanistan, almeno per quanto riguarda la truppa, sono un affare dei più poveri e dei nuovi immigrati. Tutta gente che non fa tendenza e della cui esistenza la grande classe media si può facilmente dimenticare. Non c’è stato quindi, né c’è da aspettarselo in futuro, un revival del grande movimento pacifista che, all’epoca, mise in difficoltà la Casa Bianca.
Le nuove guerre occidentali guidate dagli Usa interessano segmenti molto limitati della popolazione. La propaganda le ha chiamate in vario modo per esorcizzare la parola tabù guerra, con definizioni che convergono nel rappresentarle come operazioni di polizia internazionale. E’ un falso perché si tratta di vere e proprie guerre, con alte perdite fra i guerriglieri e la popolazione civile e con battaglie combattute per impossessarsi di zone del territorio controllate dal nemico, come nei conflitti tradizionali. L’uso del termine polizia ha però un senso per le popolazioni degli Usa e dei Paesi al loro seguito: i soldati partiti per quei territori stanno facendo nient’altro del loro dovere di professionisti, ovvero sconfiggere i delinquenti e mantenere l’ordine. Come non ci si emoziona più di tanto per i pericoli che affrontano, nel loro lavoro, i poliziotti in patria, così non ci si sente partecipi della missione di altri professionisti che fanno più o meno le stesse cose all’estero.
Le guerre ineguali, come le definisce Alessandro Colombo per via dell’enorme disparità di mezzi fra le parti in lotta, rappresentano la forma della privatizzazione della guerra. Non casualmente vi partecipa un enorme numero dei cosiddetti contractor, i militari stipendiati da compagnie private. E’ un aspetto di cui si parla ancora troppo poco, ma potrebbe rappresentare il futuro dei conflitti armati, che verrebbero appaltati quasi in esclusiva ai nuovi mercenari. In fin dei conti, non sarebbe neanche una novità storica in assoluto, ma una riedizione, in grandi dimensioni, delle compagnie di ventura con cui i principi italiani si combattevano durante il Rinascimento.
La privatizzazione attuale della guerra, però, si inserisce nel generale processo di privatizzazione del mondo, che non risparmia nemmeno risorse essenziali come l’acqua. Sarà un caso -ma se lo è si tratta di un caso veramente propizio alla comprensione delle trasformazioni in atto- che la Serbia, dove la Fiat intende trasportare una parte delle sue produzioni, sottraendola a Mirafiori, sia stato uno dei Paesi ad avere subito sul proprio territorio un’operazione di polizia internazionale. Nel 1999 l’Italia svolse un ruolo essenziale in quella aggressione, fornendo le basi per gli aerei che effettuavano i bombardamenti. Oggi, la nostra maggiore azienda “investe” proprio in quel Paese che il governo italiano, con le sue decisioni, contribuì a devastare. La fabbrica dove produrrà la Fiat è la Zastava, di cui lo Stato serbo pagherà la bonifica: 370 tonnellate di sostanze nocive procurate proprio da un bombardamento della Nato. Più simbolico di così.
Le condizioni offerte da Belgrado sono estremamente allettanti per Marchionne: la Fiat per dieci anni non pagherà tasse e riceverà 10mila euri di finanziamento pubblico per ogni assunzione, mettendoci, di tasca propria, solo 350 milioni del miliardo di investimento totale. Aggiungeteci che la paga media di un operaio serbo è di circa 400 euri al mese e capirete che per il Lingotto si tratta di un affarone. Simili condizioni di dumping sociale, che non si trovano nemmeno in Cina, le può però offrire solo uno Stato disperato, che prima è stato messo al guinzaglio con le maniere forti ed oggi viene “premiato” con il lavoro. I vertici Fiat e molti opinionisti affermano che, “ovviamente”, un’azienda globalizzata produce dove le condizioni di mercato sono migliori. Una logica stringente per chi pensa al lavoro solo come questione privata. Di cosa si lamentano dunque gli operai di Torino? Non li leggono gli editoriali dei maggiori quotidiani, in cui si esalta la globalizzazione che, cancellando i confini, toglierà finalmente di mezzo le nefaste rigidità degli Stati nazionali con tutte le loro lentezze politiche?

di Roberto Zavaglia

02 agosto 2010

I supermercati e la crisi mondiale dei generi alimentari





La crisi dei generi alimentari ha lasciato senza cibo milioni di persone nel mondo. Agli 850 milioni di persone che soffrono la fame, la Banca Mondiale ne ha aggiunti altri 100 in seguito alla crisi attuale. Questo “tsunami” della carestia non ha nulla di naturale, al contrario, è il risultato delle politiche neoliberali imposte da decenni dalle istituzioni internazionali. Oggi il problema non è la mancanza di generi alimentari in quantità sufficiente, bensì l’impossibilità di avere accesso a tali generi alimentari per via dei prezzi troppo alti.

Questa crisi dei generi alimentari lascia dietro di sé una lunga lista di vincitori e perdenti. Tra i più colpiti troviamo le donne, i bambini, i contadini espulsi dalle loro terre, i poveri d’ambiente urbano…In definitiva, le persone che costituiscono la massa degli oppressi del sistema capitalista. Tra i vincitori troviamo le multinazionali dell’industria agroalimentare che controllano dall’inizio alla fine tutta la catena di produzione, di trasformazione e commercializzazione dei generi alimentari. Quindi, se la crisi alimentare colpisce principalmente i paesi del Sud, le multinazionali assistono a una forte crescita dei loro introiti.



Monopoli

La catena agroalimentare è controllata in ogni sua fase (semenze, fertilizzanti, trasformazione, distribuzione, ecc) dalle multinazionali che accumulano introiti elevati grazie a un modello agro-industriale liberalizzato e senza regole. Un sistema che conta, con il sostegno esplicito delle élite politiche e delle istituzioni internazionali che mettono i profitti di queste imprese al di sopra della soddisfazione dei bisogni alimentari delle persone e del rispetto dell’ambiente.

La grande distribuzione si caratterizza per un alto livello di concentrazione capitalista, come in altri settori. In Europa, tra il 1987 e il 2005, la porzione di mercato delle 10 maggiori multinazionali di distribuzione, rappresentava il 45% del totale e si prevede che raggiungerà il 75% nei prossimi 10-15 anni. In paesi come la Svezia, tre catene di supermercati controllano circa il 91% del mercato e in Danimarca, Belgio, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Argentina, un pugno d’imprese domina tra il quarantacinque e il 60% del mercato.

Le megafusioni sono all’ordine del giorno in questo settore. In questo modo, le grandi multinazionali installate nei paesi occidentali, assorbono le catene più piccole in tutto il pianeta, assicurandosi un’espansione su scala mondiale, in particolar modo nei paesi del Sud.

Questa concentrazione monopolistica permette di garantire un controllo importante di quello che consumiamo, dei loro prezzi, della provenienza e del modo in cui i prodotti sono elaborati, con quali ingredienti ecc. Nel 2006, la seconda maggior impresa mondiale per volume di vendite, è stata Wal-Mart e tra i top 50 mondiali di queste aziende, figura anche Carrefour, Tesco, Kroger, Royal Ahold e Costco. La nostra alimentazione dipende ogni giorno di più dagli interessi di queste grandi catene di vendita al dettaglio e il loro potere si mette in evidenza drammaticamente nelle situazioni di crisi.

Di fatto, nell’aprile 2008, di fronte alla crisi alimentare mondiale, le due più grandi catene di supermercati degli Stati Uniti, Sam’s Club (proprietà di Wal-Mart) e Costco, hanno scelto di razionare la vendita di riso nelle loro aziende per gonfiare i prezzi. Da Sam’s Club è stata limitata la vendita di riso a tre varietà (basmati, gelsomino/”jasmin” e grano lungo) come pure la vendita di sacchi di riso da 9 kg a 4 kg per cliente. Da Costco, la vendita di farina e di riso è stata limitata. In Gran Bretagna, Tilda (principale importatore di riso basmati a livello mondiale) ha anch’esso stabilito delle restrizioni di vendita. Con queste misure è stata messa in evidenza la capacità delle grandi catene di distribuzione di influenzare l’acquisto e la vendita di determinati prodotti, di limitare la loro distribuzione al fine di influenzare la formazione dei prezzi. Un fatto che non si era più verificato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale quando erano state imposte restrizioni sul petrolio, sulla gomma e sulle lampadine, ma non sui generi alimentari.

Cambiamenti di abitudini

Un’altra dinamica che è stata messa in rilievo con la crisi alimentare è stata quella del cambiamento di abitudini all’atto dell’acquisto. Di fronte alla necessità dei clienti di stringere la cintura e di andare nei negozi con i prezzi più bassi, le catene di discount sono state vincenti. In Italia, Gran Bretagna, Spagna, Portogallo e Francia, questi supermercati hanno visto aumentare le vendite dal 9% al 13% nel primo trimestre del 2008, rispetto all’anno precedente.

Un altro fattore che indica il cambiamento delle tendenze è l’aumento delle vendite degli elettrodomestici che ammontano, secondo le cifre del primo trimestre del 2008, in Gran Bretagna, al 43,7% del volume totale delle vendite, al 32,8% in Spagna, 31,6% in Germania e in Portogallo e al 30% circa, in Francia. Sono appunto questi elettrodomestici che offrono i maggiori introiti alle grandi catene di distribuzione e che permettono una più vasta fidelizzazione della clientela.
Tuttavia, al di là del ruolo che può avere la grande distribuzione in una situazione di crisi (con la restrizione della vendita di certi prodotti, i cambiamenti di abitudini d’acquisto, ecc), questo modello di distribuzione esercita a livello strutturale un controllo stretto che ha un impatto negativo sulle varie figure partecipano alla catena di distribuzione alimentare: contadini, fornitori, consumatori, lavoratori, ecc. Di fatto, l’apparizione dei supermercati, centri commerciali, catene discount, express, ecc, nel corso del XX secolo, ha contribuito alla commercializzazione delle nostre abitudini alimentari e alla sottomissione dell’agricoltura e dell’alimentazione alla logica del capitale e del mercato.
di Esther Vivas

Esther Vivas è membro della direzione di Izquierda Anticapitalista-Revolta Global in Spagna. Ha pubblicato in francese «En campagne contre la dette» (Syllepse, 2008) (In campagna contro il debito) e è coordinatrice dei libri in spagnolo «Supermarchés, non merci»! (Supermercati, no grazie!) et «Où va le commerce»?(Dove va il commercio?). Questo articolo è stato tradotto dallo spagnolo per www.lcr-lagauche.be

Fonte: www.mondialisation.ca

01 agosto 2010

Le truppe segrete inviate dall’Italia: la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti

Le truppe segrete inviate dall'Italia: la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti

Nei vari materiali che si possono rintracciare fra quelli resi pubblici attraverso il sito “Wikileaks”- probabilmente a causa di una fuga di notizie voluta da una parte dell’intelligence Usa (1)- è possibile leggerne diversi riguardanti l’Italia e uno in particolare pare interessante per confermare la natura “antidemocratica” della gestione della politica estera sotto una democrazia, in special modo in riferimento alla coalizione nord atlantica (Nato) guidata dagli Usa.

In un documento classificato confidential e contraddistinto dall’acronimo “Noform” che significa che “non può essere comunicato a governi e persone non americane”, troviamo la pianificazione decisa nel 2007 dall’amministrazione Usa e il governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi di un aumento dello sforzo militare italiano in Afganistan. La cosa interessante è che già dal titolo del rapporto Usa si capisce che “bisogna lavorare con discrezione, ad un livello tecnico”, ossia in altre parole l’ambasciata Usa a Roma – fonte delle notizie secondo il documento – informa Washington che il premier Prodi è disposto ad aumentare la capacità militare all’Isaf, ma che può farlo soltanto segretamente senza dibattere la questione pubblicamente e nel Parlamento, perché in tal caso avrebbe trovato degli ostacoli…nella sovranità popolare! Citando il documento: a patto che la questione “non sia trattata pubblicamente ma solo a un livello tecnico” data “la sensibilità politica nazionale”. In particolare sono Gianni Bardini (all’epoca ministro plenipotenziario e responsabile per le problematiche di sicurezza e le questioni Nato della Direzione Generale Affari Politici Multilaterali e Diritti Umani [non c’è da stupirsi di niente con nomi così orwelliani che rendono palese a chi vuole capire il dominio globale NdR]) e il diplomatico Achille Amerio a spiegare nel testo che il governo Prodi sta già aumentando in maniera discreta le capacità militari in Afganistan e che comunque si sarebbero trovate modalità tecniche per rendere ancora più profondo tale obiettivo.

In definitiva quello che si evince è la classica prerogativa che gli Usa ricoprono sulla politica estera italiana (e in tutti gli Stati appartenenti alla Nato), per niente affatto sottoposta alla sovranità ed agli interessi della popolazione della Penisola e dell’Europa; le decisioni sull’utilizzo dei nostri soldati in scenari di guerra voluti dagli Stati Uniti per controllare la massa continentale eurasiatica, vengono semplicemente ordinate da Washington e messe in atto da un punto di vista tecnico, facendole così passare inosservate. Il Ministro degli Esteri del governo Prodi, Massimo D’Alema come i suoi colleghi precedenti e successivi sono semplici esecutori in un Paese a sovranità limitata come l’Italia (in cui sono presenti, ricordiamo più di cento basi militari controllate dagli Usa e che contengono un centinaio di bombe nucleari).

Non sono di certo novità, ma semplici conferme dell’ipocrisia della sovranità che si vorrebbe democratica, ma della quale viene proibito l’esercizio alla popolazione, per paura (giustificata) che questa possa non essere d’accordo con gli obiettivi di dominio globale degli Stati Uniti, e sia invece più interessata a difendere la libertà italiana, europea ed eurasiatica; conferma dell’inutilità odierna della distinzione fra “destra” e “sinistra” entrambe referenti di certi poteri atlantici; conferma infine della sudditanza del nostro Paese nei confronti del centro di potere residente a Washington.

di Matteo Pistilli -