03 novembre 2010

La potenza dei poveri




Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Incontrare personaggi come Majid Rahnema è un’esperienza che capita poche volte nella vita. Esistono incontri illuminanti e luoghi che li rendono disponibili, come il Salone dell’Editoria Sociale.

Raccontare la biografia del co-autore – insieme a Jean Robert – de La potenza dei poveri (Jaca Book, 2010), sarebbe di per sè istruttivo: così densa di episodi significativi che l’assoluta originalità e l’alto valore intellettuale del pensiero dello scrittore iraniano, sembrano una naturale conseguenza di una vita passata tra ministeri, ruoli di primo piano nell’Onu e nell’Unesco.

Nella lezione organizzata dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma Rahnema conversa con il pubblico partendo sempre da episodi della sua biografia. Così ricorda, come quando gli fu affidato dall’Onu il compito di redigere un dossier sulla povertà, dopo 6 mesi di studio fervente su ciò che gli altri avevano detto in merito all’argomento, si accorse di non sapere ancora nulla. Come uno scettico antico sospese il giudizio, continuò a riflettere e a distanza di 25 anni capì che finalmente aveva qualcosa di diverso da dire sull’argomento. Anzitutto si tratta di rilevare come il concetto economico di sviluppo non rappresenti altro che l’ennesimo inganno che l’economia capitalista cerca di propugnare al resto del mondo. Tramite le parole l’Occidente cerca di colonizzare culture diversa dalla nostra, presupponendo che la loro qualità di vita debba essere misurata con gli standard – e il linguaggio – della Vecchia Europa. Partendo da questa riflessione Rahnema, riesce oggi, a distanza di un quarto di secolo dall’affidamento del dossier, a distinguere 3 tipi di povertà:

1 . La povertà conviviale. Si tratta del modo di vivere dignitoso con ciò che si ha. Fino all’anno mille, secondo le ricerche dell’intellettuale iraniano, non esisteva il sostantivo povertà. Esistevano semplicemente dei singoli poveri, che non erano neanche così definiti per mere questioni monetarie. Nella lingua persiana antica povero è colui che è solo e una simile condizione, si poteva riparare con l’ambiente circostante. In miseria – concetto diverso da quello di povertà – ci cadeva solo chi restava irrimediabilmente isolato.

2. La povertà volontaria. In questo caso si parla di chi rinuncia per scelta alla propria ricchezza. L’esempio lampante è quello di San Francesco d’Assisi, che Rahnema dice che potremo considerare il Rockfeller dell’epoca. Invece decide di abbandonare i suoi possidimenti. Significa che la povertà non è poi così male, o no?

3. La povertà modernizzata (definizione presa in prestito da Ivan Illich). Qui invece abbiamo a che fare con persoe che avrebbero di che vivere, ma i cui bisogni aumentano smisuratamente, perchè indotti dalla società. Questa è la nostra povertà, quella delle società occidentali.

La domanda che sorge spontanea è questa: se i 2/3 della popolazione si dicono poveri perchè guadagnano meno di un dollaro al giorno, perchè in Francia è povero chi ne guadagna meno di trenta? Qui qualcosa non quadra. Il fatto sconvolgente, è che i veri poveri in termini edonistici, vivono meglio di quelli delle società occidentali, che sono poveri per modo di dire, perchè hanno dei bisogni indotti, che chi riesce a vivere con pochi centesimi al giorno non conosce nemmeno. Come, a dire non sanno cosa si perdono e proprio per questo vivono meglio di noi.

Si tratta di una questione che secondo Rahnema andrebbe tratta dal punto di vista scientifico: la scienza – episteme – anzitutto non è una cosa innocente. Può essere definita in due modi: da una parte risponde al desiderio di vivere e qui si caratterizza come insieme di conoscenze. Per il potere però diventa ciò che è utile al dominio, rispondendo quindi a un desiderio di conquista. Purtroppo, secondo l’autore iraniano, quello che viene insegnata nelle grandi università è il secondo tipo di scienza. Così noi europei, vittime della seconda tipologia di episteme, non sappiamo mantenere la dignità che gli altri mantengono guadagnando molto di meno.

In conclusione si può dire che i veri miserabili siamo noi, perchè abbiamo costretto la maggior parte della popolazione a vivere con dei bisogni indotti, abbiamo escluso i 2/3 della popolazione dai nostri piani, ma tutto ciò va a nostro discapito. Loro, la maggioranza, ci potrebbero aiutare. Ci potrebbero insegnare a vivere dignitosamente con poco. In realtà noi siamo drogati dall’economia e dal concetto di sviluppo e tutte le teorie sulla decrescita, che presuppongono un radicale cambiamento dei nostri costumi, probabilmente arrivano troppo tardi. Saremo davvero capaci di cambiare così profondamente i nostri stili di vita? Oppure riusciremo a corrompere, con la nostra miseria, il patrimonio di dignità che quei ricconi degli africani hanno da insegnarci?

di Andrea Scutellà

02 novembre 2010

Crescita impossibile e fine del progresso

guidorossi

Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?

Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi.

Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione », con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori».

Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell’attività umana è presente anche nell’ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero.

E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n’è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.

E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccato livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l’intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?

Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa.

Veramente l’ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l’unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d’altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil,

che non considerano affatto la qualità della vita.

Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi…

Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?

No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...

E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.

Non c’è dubbio. Anche su questo sono d’accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all’estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.

E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...

Perché l’ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...

Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra…

Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l’ideologia che ha vinto. Ed è un’ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l’ultima enciclica di Ratzinger.

Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...

Certo. Ma lei dimentica un’altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l’economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede

alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L’arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l’economia ha conquistato un predominio assoluto.

A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l’hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l’intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.

Dopotutto il progresso l’ha inventato lui… e se l’è tenuto ben stretto…

Be’ per la verità l’ha inventato la scienza....

La quale è comandata dalla stessa ideologia…

Anche perché hanno bisogno di finanziamenti... Però all’origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c’è il pensiero di uno scienziato...

Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto… che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.

Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.

Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce?

Nessuno ha un’idea in testa. Questa è la verità.

Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.

E non esiste una globalizzazione giuridica tra l’altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suomezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c’è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavorominorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.

E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d’altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.

Ma la ragione c’è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un’ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l’economia ha il sopravvento e s’impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.

Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un’opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno…

Non ci provano perché manca l’ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un’ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un’autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.

Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia …Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...

Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa?

Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni… secondo il modello storico…

Che non è più possibile, ovviamente...

Appunto. Per questo parlavo di BrettonWoods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l’autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.

Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l’ho scritto più volte…

Perché l’Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi… E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil…

Be’ sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell’Assemblea generale dell’Onu del ’48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall’economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista… Però io credo che l’utopia sia decisamente meglio dell’apocalisse: che è l’alternativa che ci aspetta.

di Guido Rossi - Carla Ravaioli

01 novembre 2010

Quando Pasolini scrisse a un giovane fascista per salvare il suo mondo



Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel "Saluto e augurio" che rivolge a un giovane fascista, definendolo "morto" e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa "allegria" incosciente e "diversa" fosse "difesa e conservata" era anche una forma di ipocrisia un po' vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo». Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c'è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall'omologazione ("globalizzazione" la chiameremmo oggi) ma io non me lo posso permettere, fallo te che tanto sei un "morto".
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l'avamposto della reazione al progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva di aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne essere un movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico. E quindi? Quindi, aveva semplicemente sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era semplicemente sconosciuto all'indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò?, a un khmer rosso, per esempio.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti…) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi - eravamo intorno alla metà degli anni 70 - che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana. Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all'incipiente "società del consumo" nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una "mutazione antropologica" dell'individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione.
Converrà rileggere le sue parole: «Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa».
Porca miseria: queste parole furono pronunciate - credo - intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo tre e tutte e tre erano controllate dall'apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo reazionario poeta, narratore regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Manco il fascismo - sosteneva - era riuscito a tanto.
Per una corretta cronologia, basterà far caso che, in quel fatidico 1975, Silvio Berlusconi si occupava ancora solo di attività edilizia. Sconosciuto al grande pubblico, e allo stesso Pasolini ma non, probabilmente, al suo superconscio, il futuro avvento del "Grande Comunicatore" - e chi altri se non lui? - già dettava al poeta la profezia finale: «È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo». Che strano uomo questo Pasolini. Reazionario fino al punto di esaltare l'azione repressiva dei poliziotti a Valle Giulia, all'alba del 68, e lungimirante fino al limite di immaginare dove la società del "Drive in" ci avrebbe approdati: in quella dittatura del "Truman Show" che abbiamo sperimentato ben bene in questi ultimi 16 anni. E dalla quale, finalmente, stiamo cercando di uscire. Forse, un po', anche grazie a lui…
di Miro Renzaglia

03 novembre 2010

La potenza dei poveri




Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Incontrare personaggi come Majid Rahnema è un’esperienza che capita poche volte nella vita. Esistono incontri illuminanti e luoghi che li rendono disponibili, come il Salone dell’Editoria Sociale.

Raccontare la biografia del co-autore – insieme a Jean Robert – de La potenza dei poveri (Jaca Book, 2010), sarebbe di per sè istruttivo: così densa di episodi significativi che l’assoluta originalità e l’alto valore intellettuale del pensiero dello scrittore iraniano, sembrano una naturale conseguenza di una vita passata tra ministeri, ruoli di primo piano nell’Onu e nell’Unesco.

Nella lezione organizzata dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma Rahnema conversa con il pubblico partendo sempre da episodi della sua biografia. Così ricorda, come quando gli fu affidato dall’Onu il compito di redigere un dossier sulla povertà, dopo 6 mesi di studio fervente su ciò che gli altri avevano detto in merito all’argomento, si accorse di non sapere ancora nulla. Come uno scettico antico sospese il giudizio, continuò a riflettere e a distanza di 25 anni capì che finalmente aveva qualcosa di diverso da dire sull’argomento. Anzitutto si tratta di rilevare come il concetto economico di sviluppo non rappresenti altro che l’ennesimo inganno che l’economia capitalista cerca di propugnare al resto del mondo. Tramite le parole l’Occidente cerca di colonizzare culture diversa dalla nostra, presupponendo che la loro qualità di vita debba essere misurata con gli standard – e il linguaggio – della Vecchia Europa. Partendo da questa riflessione Rahnema, riesce oggi, a distanza di un quarto di secolo dall’affidamento del dossier, a distinguere 3 tipi di povertà:

1 . La povertà conviviale. Si tratta del modo di vivere dignitoso con ciò che si ha. Fino all’anno mille, secondo le ricerche dell’intellettuale iraniano, non esisteva il sostantivo povertà. Esistevano semplicemente dei singoli poveri, che non erano neanche così definiti per mere questioni monetarie. Nella lingua persiana antica povero è colui che è solo e una simile condizione, si poteva riparare con l’ambiente circostante. In miseria – concetto diverso da quello di povertà – ci cadeva solo chi restava irrimediabilmente isolato.

2. La povertà volontaria. In questo caso si parla di chi rinuncia per scelta alla propria ricchezza. L’esempio lampante è quello di San Francesco d’Assisi, che Rahnema dice che potremo considerare il Rockfeller dell’epoca. Invece decide di abbandonare i suoi possidimenti. Significa che la povertà non è poi così male, o no?

3. La povertà modernizzata (definizione presa in prestito da Ivan Illich). Qui invece abbiamo a che fare con persoe che avrebbero di che vivere, ma i cui bisogni aumentano smisuratamente, perchè indotti dalla società. Questa è la nostra povertà, quella delle società occidentali.

La domanda che sorge spontanea è questa: se i 2/3 della popolazione si dicono poveri perchè guadagnano meno di un dollaro al giorno, perchè in Francia è povero chi ne guadagna meno di trenta? Qui qualcosa non quadra. Il fatto sconvolgente, è che i veri poveri in termini edonistici, vivono meglio di quelli delle società occidentali, che sono poveri per modo di dire, perchè hanno dei bisogni indotti, che chi riesce a vivere con pochi centesimi al giorno non conosce nemmeno. Come, a dire non sanno cosa si perdono e proprio per questo vivono meglio di noi.

Si tratta di una questione che secondo Rahnema andrebbe tratta dal punto di vista scientifico: la scienza – episteme – anzitutto non è una cosa innocente. Può essere definita in due modi: da una parte risponde al desiderio di vivere e qui si caratterizza come insieme di conoscenze. Per il potere però diventa ciò che è utile al dominio, rispondendo quindi a un desiderio di conquista. Purtroppo, secondo l’autore iraniano, quello che viene insegnata nelle grandi università è il secondo tipo di scienza. Così noi europei, vittime della seconda tipologia di episteme, non sappiamo mantenere la dignità che gli altri mantengono guadagnando molto di meno.

In conclusione si può dire che i veri miserabili siamo noi, perchè abbiamo costretto la maggior parte della popolazione a vivere con dei bisogni indotti, abbiamo escluso i 2/3 della popolazione dai nostri piani, ma tutto ciò va a nostro discapito. Loro, la maggioranza, ci potrebbero aiutare. Ci potrebbero insegnare a vivere dignitosamente con poco. In realtà noi siamo drogati dall’economia e dal concetto di sviluppo e tutte le teorie sulla decrescita, che presuppongono un radicale cambiamento dei nostri costumi, probabilmente arrivano troppo tardi. Saremo davvero capaci di cambiare così profondamente i nostri stili di vita? Oppure riusciremo a corrompere, con la nostra miseria, il patrimonio di dignità che quei ricconi degli africani hanno da insegnarci?

di Andrea Scutellà

02 novembre 2010

Crescita impossibile e fine del progresso

guidorossi

Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?

Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi.

Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione », con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori».

Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell’attività umana è presente anche nell’ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero.

E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n’è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.

E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccato livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l’intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?

Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa.

Veramente l’ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l’unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d’altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil,

che non considerano affatto la qualità della vita.

Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi…

Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?

No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...

E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.

Non c’è dubbio. Anche su questo sono d’accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all’estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.

E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...

Perché l’ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...

Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra…

Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l’ideologia che ha vinto. Ed è un’ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l’ultima enciclica di Ratzinger.

Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...

Certo. Ma lei dimentica un’altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l’economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede

alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L’arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l’economia ha conquistato un predominio assoluto.

A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l’hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l’intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.

Dopotutto il progresso l’ha inventato lui… e se l’è tenuto ben stretto…

Be’ per la verità l’ha inventato la scienza....

La quale è comandata dalla stessa ideologia…

Anche perché hanno bisogno di finanziamenti... Però all’origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c’è il pensiero di uno scienziato...

Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto… che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.

Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.

Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce?

Nessuno ha un’idea in testa. Questa è la verità.

Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.

E non esiste una globalizzazione giuridica tra l’altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suomezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c’è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavorominorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.

E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d’altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.

Ma la ragione c’è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un’ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l’economia ha il sopravvento e s’impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.

Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un’opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno…

Non ci provano perché manca l’ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un’ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un’autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.

Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia …Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...

Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa?

Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni… secondo il modello storico…

Che non è più possibile, ovviamente...

Appunto. Per questo parlavo di BrettonWoods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l’autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.

Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l’ho scritto più volte…

Perché l’Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi… E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil…

Be’ sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell’Assemblea generale dell’Onu del ’48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall’economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista… Però io credo che l’utopia sia decisamente meglio dell’apocalisse: che è l’alternativa che ci aspetta.

di Guido Rossi - Carla Ravaioli

01 novembre 2010

Quando Pasolini scrisse a un giovane fascista per salvare il suo mondo



Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel "Saluto e augurio" che rivolge a un giovane fascista, definendolo "morto" e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa "allegria" incosciente e "diversa" fosse "difesa e conservata" era anche una forma di ipocrisia un po' vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo». Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c'è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall'omologazione ("globalizzazione" la chiameremmo oggi) ma io non me lo posso permettere, fallo te che tanto sei un "morto".
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l'avamposto della reazione al progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva di aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne essere un movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico. E quindi? Quindi, aveva semplicemente sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era semplicemente sconosciuto all'indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò?, a un khmer rosso, per esempio.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti…) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi - eravamo intorno alla metà degli anni 70 - che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana. Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all'incipiente "società del consumo" nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una "mutazione antropologica" dell'individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione.
Converrà rileggere le sue parole: «Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa».
Porca miseria: queste parole furono pronunciate - credo - intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo tre e tutte e tre erano controllate dall'apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo reazionario poeta, narratore regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Manco il fascismo - sosteneva - era riuscito a tanto.
Per una corretta cronologia, basterà far caso che, in quel fatidico 1975, Silvio Berlusconi si occupava ancora solo di attività edilizia. Sconosciuto al grande pubblico, e allo stesso Pasolini ma non, probabilmente, al suo superconscio, il futuro avvento del "Grande Comunicatore" - e chi altri se non lui? - già dettava al poeta la profezia finale: «È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo». Che strano uomo questo Pasolini. Reazionario fino al punto di esaltare l'azione repressiva dei poliziotti a Valle Giulia, all'alba del 68, e lungimirante fino al limite di immaginare dove la società del "Drive in" ci avrebbe approdati: in quella dittatura del "Truman Show" che abbiamo sperimentato ben bene in questi ultimi 16 anni. E dalla quale, finalmente, stiamo cercando di uscire. Forse, un po', anche grazie a lui…
di Miro Renzaglia