14 settembre 2011

Quel che resta del rating




A volte gli americani non sanno cosa sia il pudore. E’ il caso del recente licenziamento di Deven Sharma, responsabile di Standard & Poor’s, cacciato a tamburo battente ( a Cagliari dicono “bogai a sono e corru”) per essersi permesso di declassare a 2A il debito americano e su esplicita richiesta del Presidente. La motivazione ufficiale è il comportamento dell’agenzia che, pur ammettendo un errore di 2.000 miliardi nel proprio computo (e fattogli rilevare dai funzionari del Tesoro americano), ha comunque deciso di confermare il declassamento. Comportamento, in effetti un po’ disinvolto, ma se l’errore avesse riguardato la Grecia, l’Italia, la Francia o il Giappone, cosa sarebbe successo? Assolutamente nulla, lo sappiamo perfettamente.
Che le agenzie di rating americane fossero un canale di direzione –più o meno occulta- della finanza mondiale nelle mani di Wall Street era noto. E non c’era bisogno della chiromante per scopreire che esse hanno (come dire…?) un rapporto …“privilegiato” con l’amministrazione americana. E che l’indipendenza delle agenzie di rating americane dai “poteri fortissimi” fosse solo una favola era chiaro al colto e all’inclita. Ma che non si salvasse nemmeno la forma e che il responsabile di una delle tre potentissime agenzie fosse licenziato in tronco come una colf, su esplicita richiesta del potere politico, era una prova di tutto questo che nemmeno il più sfegatato avversario degli Usa e del rating avrebbe mai osato sperare.

Ma questo finisce di distruggere la credibilità del rating. Immaginiamo che fra qualche mese S&P rettifichi il suo giudizio, restituendo la terza A ai bond Usa, che valore avrebbe questo apprezzamento? Tutti capirebbero che si tratterebbe di un giudizio politico e frutto di un accordo politico. Ma, qualcuno potrebbe obbiettare. la bocciatura a S&P è venuta dai mercati che hanno assorbito con entusiasmo la nuova emissione di bond, al punto che l’interesse –soprattutto dei poliennali- è sceso di quasi un punto e gli investitori hanno mostrato di credere piuttosto a Moody’s e Fich che hanno confermato le tre A. Ora, a parte il fatto che una manipolazione transitoria di mercato non è cosa impossibile quando si hanno alle spalle la Fed ed il servizio segreto del Tesoro (a proposito, lo sapevate che anche il dipartimento del Tesoro Usa ha un suo servizio di informazioni e sicurezza, vero?, va detto che il successo dell’asta è da mettere in relazione al crollo dei titoli azionari (soprattutto dei bancari) su tutte le piazze occidentali.

E’ noto che nelle fasi di turbolenze di borsa gli investitori (almeno sinora) hanno sempre premiato il dollaro ed i bond Usa visti come beni rifugio. Per cui, paradossalmente, il debito pubblico americano ha potuto giovarsi della stessa perturbazione che ha creato. Tutto sta a vedere quanto possa durare questa dinamica in una situazione di questo genere che ha pochi precedenti. Peraltro, anche accettando l’idea che la degradazione dei bond americani sia stata un errore (e che errore, a questo punto!) questo dice quanto poco credibili siano i giudizi del rating. Se il mercato avesse seguiti l’indicazione di S&P, questo sarebbe costato al Tesoro Usa molte centinaia di milioni di dollari. Vice versa, se è sbagliato il giudizio di Moody’s e di Ficht che hanno confermato le tre A, questo significa che le due agenzie manipolano il mercato, consentendo al Tesoro Usa di risparmiare indebitamente quelle centinaia di milioni di dollari.

Chi ha ragione? La questione potrebbe essere ragionevolmente risolta solo esaminando i calcoli delle società di rating ed i criteri che hanno usato per giungere alla loro conclusioni. Ma, qui sta il problema, le procedure delle agenzie di rating, i loro dati, i loro criteri, le loro formule di calcolo, sono segrete. Ufficialmente questo viene spiegato con la necessità di non rivelare i dati che i loro clienti gli hanno fornito per ottenere la “certificazione” del solo stato di solvenza. Peraltro, le stesse agenzie definiscono i loro giudizi come “pareri”, “consigli” che ogni singolo operatore è libero di seguire. Ad esempio, uno Stato è liberissimo di offrire i suoi titoli a basso interesse anche se ha un rating BB, anche se poi bisogna vedere se qualcuno se li compera.

In realtà, il rating appare come un servizio all’acquirente del titolo, ma, nello stesso tempo, fa un servizio anche al venditore che cerca una certificazione del suo grado di credibilità e, per questo, concede la visione dei suoi bilanci e della sua documentazione interna. Il risultato è il regno dell’ambiguità e dell’opacità che rende il rating uno strumento di governo occulto della finanza mondiale (le sue indicazioni, in regime di monopolio, non sono semplici consigli, ma profezie che si autoinverano).

Facciamo ora l’esempio opposto: che fra 6 mesi o un anno, anche Moody’ e Ficht declassino il debito americano, cosa succederebbe? Potrebbe essere un disastro senza prevedenti: S&P avrebbe avuto ragione ed, a questo punto, i mercati potrebbero registrare un effetto slavina nell’uscita dai bond americani, con esiti imprevedibili. Ergo, se anche le condizioni degli Usa peggiorassero molto di più del presente, non è immaginabile che lo facciano, per lo meno non per ora.

Ma, messa così, come si fa a credere ancora a qualsiasi cosa dicano dopo un episodio come quello di Sharma?

di Aldo Giannuli

13 settembre 2011

Il vero costo del cibo a buon mercato




Il cibo economico provoca la fame. Apparentemente questa frase non ha senso. Più il cibo è economico più dovrebbe essere accessibile e più la gente dovrebbe essere in grado di ottenere una dieta adeguata. Questo è vero per le persone che acquistano prodotti alimentari, come quelli che vivono in città.
Ma non è così se sei tu a coltivare il tuo cibo. In questo caso il raccolto diventa sempre meno, così come il tuo lavoro e ciò che è necessario per la vita della famiglia. Questo vale sia per i produttori di latte che per i coltivatori di riso nelle Filippine. I produttori di latte oggi devono fare i conti con prezzi molto al di sotto dei costi di produzione. […] Quando la polvere si depositerà sul sistema economico, questo ci lascerà con un minor numero di famiglie di agricoltori che producono i prodotti caseari dai cui dipende la maggior parte di noi.

Questa è la contraddizione centrale del cibo a buon mercato. Prezzi agricoli bassi causano, a breve termine, la fame tra gli agricoltori. E provocano insicurezza alimentare nel lungo periodo perché riducono sia il numero di agricoltori sia il denaro che dev’essere investito nella produzione di alimenti.

Si stima che circa il 70% dei poveri del mondo vive in aree rurali che dipendono direttamente o indirettamente dall'agricoltura. Il cibo economico li ha resi affamati e tenuti in condizioni di povertà. Inoltre ha affamato la campagna nei paesi in via di sviluppo, che avevano grande bisogno di investimenti agricoli. Gli agricoltori non hanno nulla da investire se perdono i soldi dei loro raccolti.

La crisi alimentare ha effettivamente servito da sveglia per i governi e le agenzie internazionali responsabili in materia. Tra i più scossi dal loro sonno politico sono stati i funzionari della Banca Mondiale, che hanno tagliato la quota della spesa per lo sviluppo agricolo dal 30% nel 1980 ad appena il 6% nel 2006. Ma il resoconto della Banca mondiale per lo sviluppo nel 2008 aveva come sottotitolo “Agricoltura per lo Sviluppo”. Era la prima volta in venticinque anni che la Banca si concentrava sull’agricoltura. La rinnovata attenzione venne apprezzata, poiché comprendeva un invito a reinvestire in agricoltura su piccola scala, non solo sulle colture di esportazione su larga scala. La Banca, naturalmente, ha però evitato di assumere qualsiasi responsabilità per aver promosso le politiche stesse che avevano causato il disinteresse verso l’agricoltura, in primo luogo non solo i tagli agli aiuti e agli investimenti, ma i programmi di aggiustamento strutturale, imposti come condizione per i suoi prestiti, che avevano sventrato la capacità della maggior parte dei governi di sostenere l'agricoltura nazionale. […]

Nel settore agricolo, nei paesi in via di sviluppo, la Banca dichiarava che se non potevano produrre cereali di base in maniera efficiente – ossia economica – come riuscivano a fare USA, Australia o Brasile, era meglio che non li producessero affatto. Sarebbe stato più economico - "più efficiente" – comprarli sul mercato internazionale. Forse si sarebbero dovuti produrre, per esempio, i fiori per l'esportazione, o fragole per il mercato statunitense. Ma forse non si sarebbe dovuto produrre nulla, perché magari la terra non era buona e non c’erano comunque le strade per il trasporto delle merci. […]

L'idea è che un paese può importare tutto il cibo di cui ha bisogno, e può farlo ottenendo gli alimenti più a buon mercato provenienti dall'estero, piuttosto che sfruttando le proprie potenzialità e facendo al contempo crescere i propri agricoltori. Un problema evidente di questo approccio è che se gli agricoltori smettono di coltivare cibo, le loro famiglie non hanno nulla da mangiare, e se non possono ottenere posti di lavoro, non hanno soldi per comprare cibo.

In secondo luogo, un paese può finire in una situazione di dipendenza alimentare, che diventa particolarmente problematica quando i prezzi sono alti e le forniture ristrette. Questo è ciò che abbiamo visto recentemente con la crisi alimentare. Paesi come le Filippine non ha potuto ottenere il riso di cui avevano bisogno. Avevano smesso di produrre riso a sufficienza per proteggersi da un tale shock di mercato, e nessuno ha venduto loro il riso perché tutti i governi si preoccupano soprattutto dell’alimentazione della propria gente. A questo ci si espone nel seguire le politiche che puntano ad ottenere cibo economico necessario nel mercato internazionale. Molti paesi hanno preso atto di questo, le stesse Filippine hanno messo in atto una campagna pluriennale nazionale per ripristinare l'autosufficienza nella produzione di riso.

Un luogo dove il governo sembra indossare ancora i paraocchi è il Messico. Nel luogo di nascita del mais, nel paese dove è stato domesticata una delle colture alimentari più importanti al mondo, si sono verificati tumulti per le strade perchè la gente non poteva più permettersi neanche un cibo comune come la tortilla. Nei quindici anni in cui North American Free Trade Agreement è entrato in vigore, il mais degli Stati Uniti ha invaso il Messico ad un prezzo pari alla metà di quello prodotto in Messico. Il Messico, ora dipende dalle importazioni degli Stati Uniti per più di un terzo del suo mais. Circa due milioni di contadini affamati hanno lasciato l'agricoltura nel flusso del cibo a buon mercato.

La crisi alimentare illustra anche quello che alcuni hanno definito la globalizzazione del fallimento del mercato. La globalizzazione comporta l'apertura dei mercati e lo spostamento in diverse parti del mondo delle merci che vengono prodotte, in diretta concorrenza. L'ipotesi nei mercati del lavoro è che i prezzi riflettano in realtà il valore reale di ciò che è oggetto di scambi commerciali. In agricoltura, l'ipotesi è che l'efficienza è pari ad alto rendimento, il che significa che il prezzo basso riflette il valore reale di ciò che è prodotto. Quando non lo fa, gli economisti lo chiamano fallimento del mercato. L'agricoltura è piena di fallimenti del mercato. Lo si può vedere nel commercio di mais Messico-USA.

I costi ambientali sono uno dei settori chiave in cui il mercato non riesce a valorizzare in modo adeguato sia i costi che benefici. L'America è specializzata in costi ambientali. Il mais è una delle colture più inquinanti degli Stati Uniti di tutti. L’uso eccessivo di acqua e prodotti chimici, il dilavamento dei fertilizzanti nei corsi d'acqua, le “zone morte” alla foce del fiume Mississippi e nel Golfo del Messico: sono tutti esempi di elevati costi ambientali derivanti dalla produzione di mais degli Stati Uniti. Ma produttori e commercianti non pagano praticamente nessuno dei costi di tali danni, e il prezzo del grano quando va oltre confine, in Messico, non riflette i costi ambientali.

Ebbene, i piccoli produttori sono la salvaguardia della grande biodiversità- sia delle specie selvatiche che delle varietà di mais - con sistemi a basso costo. Tali contributi positivi non prevedono alcuna ricompensa dal mercato. La biodiversità del mais non ha praticamente alcun valore nel mercato globale, eppure questi semi di mais assicurano il futuro alle varietà di mais: quelli in grado di resistere ai cambiamenti climatici, di resistere ai pesticidi, e così via. Il prezzo del mais messicano non riflette tali contributi al bene comune.

Quando si globalizza il commercio, anche globalizzare è un fallimento del mercato. Lo vedete nel del mais degli Stati Uniti che entra in concorrenza diretta con il sottovalutato mais messicano. Il mais messicano perde che la concorrenza, ma non perché sia meno 'efficiente'. Un contadino messicano ha detto: "Siamo stati produttori di mais in Messico per 8.000 anni. Se non abbiamo un vantaggio relativo sul mais, dove possiamo avere un vantaggio? " Ha ragione. Il problema è che il vantaggio relativo viene definito dal mercato globale, per questo il vantaggio che offre il mais messicano non ha valore. Nel mercato liberalizzato, l'unico valore è che una cosa sia a buon mercato.

La globalizzazione del fallimento del mercato ci offre un ambiente sempre più deteriorato, povertà crescente tra i produttori di generi alimentari, crescente dipendenza alimentare e fame. Per questo motivo uno dei principali colpevoli della crisi alimentare è la nostra cieca ricerca del cibo a buon mercato.

La globalizzazione svilisce tutto. Il problema è che alcune cose non devono essere svalutate. Il mercato è molto bravo a stabilire il valore di molte cose ma non è un buon sostituto per i valori umani. Le società devono determinare i propri valori umani, non lasciare che il mercato lo faccia per loro. Ci sono alcune cose essenziali, come la nostra terra e il cibo che produce e sostiene la vita, questo non deve essere svalutato.
di Timothy R. Wise

Timothy R. Wise è Direttore del Programma di politica di ricerca sullo sviluppo globale all'Istituto per l'ambiente presso la Tufts University

12 settembre 2011

Il monsignore e la falsa democrazia



Di recente, a noi pochi che a Vicenza da un pezzo sosteniamo che la democrazia è un’oligarchia mascherata, si è aggiunto un illustre uomo chiesa e di cultura, don Giuseppe Dal Ferro. Oggi a Recoaro si apre una tre giorni di convegni, organizzata dal vicentino Istituto di Scienze Sociali “Rezzara” di cui il monsignore è direttore, dedicata alle “Democrazie a confronto”. In un’intervista rilasciata al Giornale di Vicenza domenica 28 agosto, Dal Ferro ha fatto alcune affermazioni che meritano di essere citate per intero: «La tradizione dei Paesi occidentali è quella della democrazia quantitativa, che però ha i suoi limiti. Ci sono altre forme: nel mondo islamico, ad esempio, ci sono alcuni principi non negoziabili, cioè che non possono essere decisi dal 50 percento più uno. Nasce quindi il problema di una revisione critica di cosa è democrazia. (…) la democrazia quantitativa è ormai anacronistica. Il singolo cittadino non conta più niente. Un tempo i partiti veicolavano le esigenze dei cittadini, ora non più. C'è un grande problema di partecipazione e rappresentanza. Chi esprime oggi le emergenze problematiche della rappresentanza? Anche i mass media sono soggetti alla manipolazione da parte dei poteri forti. Ci stiamo avviando verso una democrazia di stile americano. (…) Insisto sull'importanza della partecipazione, che fa emergere i problemi, mentre la rappresentanza li generalizza e tenta di risolverli. In pochi, pochissimi si sono accorti che nel 2001 la modifica all'articolo 118 della Costituzione ha introdotto il concetto di sussidiarietà orizzontale. (…) Gli enti pubblici, dallo Stato ai Comuni, devono favorire l'iniziativa dei cittadini, anche in forma associata, per svolgere attività di interesse generale. Questo ridefinisce in modo nuovo la partecipazione e la cittadinanza: gruppi e associazioni possono far emergere dal basso alcune istanze, questo è un nuovo tipo di democrazia. (…) La democrazia è già schiacciata dai poteri forti, dall'economia».
Esaminiamo quanto dice il prelato, partendo dal fondo. Sostiene che è il potere del denaro la causa dello svuotamento del sistema democratico, per così dire, dall’interno: ogni persona dotata di occhi orecchie e cervello non può che sottoscriverne la palese evidenza. Suggerisce, parafrasando Giorgio Gaber, che “democrazia è partecipazione”, e questo è indiscutibilmente vero se si pensa chi ne ha inventato il concetto e lo ha applicato, il Greco antico, la concepiva esclusivamente come esercizio diretto della sovranità da parte dei “molti” (il “popolo”), altrimenti il rischio è cadere nel suo contrario, che è appunto l’oligarchia (“governo dei pochi”, intesi come privilegiati per ricchezza e lignaggio). Dal Ferro ricorda che, inserita nella Costituzione vigente, è già a disposizione un’arma che è la sussidiarietà, principio che favorisce la partecipazione riavvicinando il cittadino al potere. Infine, boccia la democrazia rappresentativa, che lui chiama “quantitativa”, in quanto la delega è facilmente manipolabile dalle lobby politico-economiche, specialmente attraverso i media da loro controllati. Da cattolico auspica, poi, che la democrazia possa riformularsi secondo valori etici validi per tutti, come succede nell’Islam (fra parentesi: questo accade nel tanto vituperato Iran, dove ognuno può avere ed esprimere le opinioni che vuole a condizione di non mettere in discussione neanche per sbaglio il Corano e la sua interpretazione sciita).
Ora, a parte l’ultima nota che non condivido ma che, in bocca a un prete, posso capire, mi trovo d’accordo con quanto detto da monsignor Dal Ferro dalla prima all’ultima parola. Concordo sull’analisi del problema, e anche su quella che mi pare la direzione d’uscita: partecipazione dal basso, cioè democrazia diretta su base locale. Mi sento un po’ meno solo, oggi, in questa città.

di Alessio Mannino

14 settembre 2011

Quel che resta del rating




A volte gli americani non sanno cosa sia il pudore. E’ il caso del recente licenziamento di Deven Sharma, responsabile di Standard & Poor’s, cacciato a tamburo battente ( a Cagliari dicono “bogai a sono e corru”) per essersi permesso di declassare a 2A il debito americano e su esplicita richiesta del Presidente. La motivazione ufficiale è il comportamento dell’agenzia che, pur ammettendo un errore di 2.000 miliardi nel proprio computo (e fattogli rilevare dai funzionari del Tesoro americano), ha comunque deciso di confermare il declassamento. Comportamento, in effetti un po’ disinvolto, ma se l’errore avesse riguardato la Grecia, l’Italia, la Francia o il Giappone, cosa sarebbe successo? Assolutamente nulla, lo sappiamo perfettamente.
Che le agenzie di rating americane fossero un canale di direzione –più o meno occulta- della finanza mondiale nelle mani di Wall Street era noto. E non c’era bisogno della chiromante per scopreire che esse hanno (come dire…?) un rapporto …“privilegiato” con l’amministrazione americana. E che l’indipendenza delle agenzie di rating americane dai “poteri fortissimi” fosse solo una favola era chiaro al colto e all’inclita. Ma che non si salvasse nemmeno la forma e che il responsabile di una delle tre potentissime agenzie fosse licenziato in tronco come una colf, su esplicita richiesta del potere politico, era una prova di tutto questo che nemmeno il più sfegatato avversario degli Usa e del rating avrebbe mai osato sperare.

Ma questo finisce di distruggere la credibilità del rating. Immaginiamo che fra qualche mese S&P rettifichi il suo giudizio, restituendo la terza A ai bond Usa, che valore avrebbe questo apprezzamento? Tutti capirebbero che si tratterebbe di un giudizio politico e frutto di un accordo politico. Ma, qualcuno potrebbe obbiettare. la bocciatura a S&P è venuta dai mercati che hanno assorbito con entusiasmo la nuova emissione di bond, al punto che l’interesse –soprattutto dei poliennali- è sceso di quasi un punto e gli investitori hanno mostrato di credere piuttosto a Moody’s e Fich che hanno confermato le tre A. Ora, a parte il fatto che una manipolazione transitoria di mercato non è cosa impossibile quando si hanno alle spalle la Fed ed il servizio segreto del Tesoro (a proposito, lo sapevate che anche il dipartimento del Tesoro Usa ha un suo servizio di informazioni e sicurezza, vero?, va detto che il successo dell’asta è da mettere in relazione al crollo dei titoli azionari (soprattutto dei bancari) su tutte le piazze occidentali.

E’ noto che nelle fasi di turbolenze di borsa gli investitori (almeno sinora) hanno sempre premiato il dollaro ed i bond Usa visti come beni rifugio. Per cui, paradossalmente, il debito pubblico americano ha potuto giovarsi della stessa perturbazione che ha creato. Tutto sta a vedere quanto possa durare questa dinamica in una situazione di questo genere che ha pochi precedenti. Peraltro, anche accettando l’idea che la degradazione dei bond americani sia stata un errore (e che errore, a questo punto!) questo dice quanto poco credibili siano i giudizi del rating. Se il mercato avesse seguiti l’indicazione di S&P, questo sarebbe costato al Tesoro Usa molte centinaia di milioni di dollari. Vice versa, se è sbagliato il giudizio di Moody’s e di Ficht che hanno confermato le tre A, questo significa che le due agenzie manipolano il mercato, consentendo al Tesoro Usa di risparmiare indebitamente quelle centinaia di milioni di dollari.

Chi ha ragione? La questione potrebbe essere ragionevolmente risolta solo esaminando i calcoli delle società di rating ed i criteri che hanno usato per giungere alla loro conclusioni. Ma, qui sta il problema, le procedure delle agenzie di rating, i loro dati, i loro criteri, le loro formule di calcolo, sono segrete. Ufficialmente questo viene spiegato con la necessità di non rivelare i dati che i loro clienti gli hanno fornito per ottenere la “certificazione” del solo stato di solvenza. Peraltro, le stesse agenzie definiscono i loro giudizi come “pareri”, “consigli” che ogni singolo operatore è libero di seguire. Ad esempio, uno Stato è liberissimo di offrire i suoi titoli a basso interesse anche se ha un rating BB, anche se poi bisogna vedere se qualcuno se li compera.

In realtà, il rating appare come un servizio all’acquirente del titolo, ma, nello stesso tempo, fa un servizio anche al venditore che cerca una certificazione del suo grado di credibilità e, per questo, concede la visione dei suoi bilanci e della sua documentazione interna. Il risultato è il regno dell’ambiguità e dell’opacità che rende il rating uno strumento di governo occulto della finanza mondiale (le sue indicazioni, in regime di monopolio, non sono semplici consigli, ma profezie che si autoinverano).

Facciamo ora l’esempio opposto: che fra 6 mesi o un anno, anche Moody’ e Ficht declassino il debito americano, cosa succederebbe? Potrebbe essere un disastro senza prevedenti: S&P avrebbe avuto ragione ed, a questo punto, i mercati potrebbero registrare un effetto slavina nell’uscita dai bond americani, con esiti imprevedibili. Ergo, se anche le condizioni degli Usa peggiorassero molto di più del presente, non è immaginabile che lo facciano, per lo meno non per ora.

Ma, messa così, come si fa a credere ancora a qualsiasi cosa dicano dopo un episodio come quello di Sharma?

di Aldo Giannuli

13 settembre 2011

Il vero costo del cibo a buon mercato




Il cibo economico provoca la fame. Apparentemente questa frase non ha senso. Più il cibo è economico più dovrebbe essere accessibile e più la gente dovrebbe essere in grado di ottenere una dieta adeguata. Questo è vero per le persone che acquistano prodotti alimentari, come quelli che vivono in città.
Ma non è così se sei tu a coltivare il tuo cibo. In questo caso il raccolto diventa sempre meno, così come il tuo lavoro e ciò che è necessario per la vita della famiglia. Questo vale sia per i produttori di latte che per i coltivatori di riso nelle Filippine. I produttori di latte oggi devono fare i conti con prezzi molto al di sotto dei costi di produzione. […] Quando la polvere si depositerà sul sistema economico, questo ci lascerà con un minor numero di famiglie di agricoltori che producono i prodotti caseari dai cui dipende la maggior parte di noi.

Questa è la contraddizione centrale del cibo a buon mercato. Prezzi agricoli bassi causano, a breve termine, la fame tra gli agricoltori. E provocano insicurezza alimentare nel lungo periodo perché riducono sia il numero di agricoltori sia il denaro che dev’essere investito nella produzione di alimenti.

Si stima che circa il 70% dei poveri del mondo vive in aree rurali che dipendono direttamente o indirettamente dall'agricoltura. Il cibo economico li ha resi affamati e tenuti in condizioni di povertà. Inoltre ha affamato la campagna nei paesi in via di sviluppo, che avevano grande bisogno di investimenti agricoli. Gli agricoltori non hanno nulla da investire se perdono i soldi dei loro raccolti.

La crisi alimentare ha effettivamente servito da sveglia per i governi e le agenzie internazionali responsabili in materia. Tra i più scossi dal loro sonno politico sono stati i funzionari della Banca Mondiale, che hanno tagliato la quota della spesa per lo sviluppo agricolo dal 30% nel 1980 ad appena il 6% nel 2006. Ma il resoconto della Banca mondiale per lo sviluppo nel 2008 aveva come sottotitolo “Agricoltura per lo Sviluppo”. Era la prima volta in venticinque anni che la Banca si concentrava sull’agricoltura. La rinnovata attenzione venne apprezzata, poiché comprendeva un invito a reinvestire in agricoltura su piccola scala, non solo sulle colture di esportazione su larga scala. La Banca, naturalmente, ha però evitato di assumere qualsiasi responsabilità per aver promosso le politiche stesse che avevano causato il disinteresse verso l’agricoltura, in primo luogo non solo i tagli agli aiuti e agli investimenti, ma i programmi di aggiustamento strutturale, imposti come condizione per i suoi prestiti, che avevano sventrato la capacità della maggior parte dei governi di sostenere l'agricoltura nazionale. […]

Nel settore agricolo, nei paesi in via di sviluppo, la Banca dichiarava che se non potevano produrre cereali di base in maniera efficiente – ossia economica – come riuscivano a fare USA, Australia o Brasile, era meglio che non li producessero affatto. Sarebbe stato più economico - "più efficiente" – comprarli sul mercato internazionale. Forse si sarebbero dovuti produrre, per esempio, i fiori per l'esportazione, o fragole per il mercato statunitense. Ma forse non si sarebbe dovuto produrre nulla, perché magari la terra non era buona e non c’erano comunque le strade per il trasporto delle merci. […]

L'idea è che un paese può importare tutto il cibo di cui ha bisogno, e può farlo ottenendo gli alimenti più a buon mercato provenienti dall'estero, piuttosto che sfruttando le proprie potenzialità e facendo al contempo crescere i propri agricoltori. Un problema evidente di questo approccio è che se gli agricoltori smettono di coltivare cibo, le loro famiglie non hanno nulla da mangiare, e se non possono ottenere posti di lavoro, non hanno soldi per comprare cibo.

In secondo luogo, un paese può finire in una situazione di dipendenza alimentare, che diventa particolarmente problematica quando i prezzi sono alti e le forniture ristrette. Questo è ciò che abbiamo visto recentemente con la crisi alimentare. Paesi come le Filippine non ha potuto ottenere il riso di cui avevano bisogno. Avevano smesso di produrre riso a sufficienza per proteggersi da un tale shock di mercato, e nessuno ha venduto loro il riso perché tutti i governi si preoccupano soprattutto dell’alimentazione della propria gente. A questo ci si espone nel seguire le politiche che puntano ad ottenere cibo economico necessario nel mercato internazionale. Molti paesi hanno preso atto di questo, le stesse Filippine hanno messo in atto una campagna pluriennale nazionale per ripristinare l'autosufficienza nella produzione di riso.

Un luogo dove il governo sembra indossare ancora i paraocchi è il Messico. Nel luogo di nascita del mais, nel paese dove è stato domesticata una delle colture alimentari più importanti al mondo, si sono verificati tumulti per le strade perchè la gente non poteva più permettersi neanche un cibo comune come la tortilla. Nei quindici anni in cui North American Free Trade Agreement è entrato in vigore, il mais degli Stati Uniti ha invaso il Messico ad un prezzo pari alla metà di quello prodotto in Messico. Il Messico, ora dipende dalle importazioni degli Stati Uniti per più di un terzo del suo mais. Circa due milioni di contadini affamati hanno lasciato l'agricoltura nel flusso del cibo a buon mercato.

La crisi alimentare illustra anche quello che alcuni hanno definito la globalizzazione del fallimento del mercato. La globalizzazione comporta l'apertura dei mercati e lo spostamento in diverse parti del mondo delle merci che vengono prodotte, in diretta concorrenza. L'ipotesi nei mercati del lavoro è che i prezzi riflettano in realtà il valore reale di ciò che è oggetto di scambi commerciali. In agricoltura, l'ipotesi è che l'efficienza è pari ad alto rendimento, il che significa che il prezzo basso riflette il valore reale di ciò che è prodotto. Quando non lo fa, gli economisti lo chiamano fallimento del mercato. L'agricoltura è piena di fallimenti del mercato. Lo si può vedere nel commercio di mais Messico-USA.

I costi ambientali sono uno dei settori chiave in cui il mercato non riesce a valorizzare in modo adeguato sia i costi che benefici. L'America è specializzata in costi ambientali. Il mais è una delle colture più inquinanti degli Stati Uniti di tutti. L’uso eccessivo di acqua e prodotti chimici, il dilavamento dei fertilizzanti nei corsi d'acqua, le “zone morte” alla foce del fiume Mississippi e nel Golfo del Messico: sono tutti esempi di elevati costi ambientali derivanti dalla produzione di mais degli Stati Uniti. Ma produttori e commercianti non pagano praticamente nessuno dei costi di tali danni, e il prezzo del grano quando va oltre confine, in Messico, non riflette i costi ambientali.

Ebbene, i piccoli produttori sono la salvaguardia della grande biodiversità- sia delle specie selvatiche che delle varietà di mais - con sistemi a basso costo. Tali contributi positivi non prevedono alcuna ricompensa dal mercato. La biodiversità del mais non ha praticamente alcun valore nel mercato globale, eppure questi semi di mais assicurano il futuro alle varietà di mais: quelli in grado di resistere ai cambiamenti climatici, di resistere ai pesticidi, e così via. Il prezzo del mais messicano non riflette tali contributi al bene comune.

Quando si globalizza il commercio, anche globalizzare è un fallimento del mercato. Lo vedete nel del mais degli Stati Uniti che entra in concorrenza diretta con il sottovalutato mais messicano. Il mais messicano perde che la concorrenza, ma non perché sia meno 'efficiente'. Un contadino messicano ha detto: "Siamo stati produttori di mais in Messico per 8.000 anni. Se non abbiamo un vantaggio relativo sul mais, dove possiamo avere un vantaggio? " Ha ragione. Il problema è che il vantaggio relativo viene definito dal mercato globale, per questo il vantaggio che offre il mais messicano non ha valore. Nel mercato liberalizzato, l'unico valore è che una cosa sia a buon mercato.

La globalizzazione del fallimento del mercato ci offre un ambiente sempre più deteriorato, povertà crescente tra i produttori di generi alimentari, crescente dipendenza alimentare e fame. Per questo motivo uno dei principali colpevoli della crisi alimentare è la nostra cieca ricerca del cibo a buon mercato.

La globalizzazione svilisce tutto. Il problema è che alcune cose non devono essere svalutate. Il mercato è molto bravo a stabilire il valore di molte cose ma non è un buon sostituto per i valori umani. Le società devono determinare i propri valori umani, non lasciare che il mercato lo faccia per loro. Ci sono alcune cose essenziali, come la nostra terra e il cibo che produce e sostiene la vita, questo non deve essere svalutato.
di Timothy R. Wise

Timothy R. Wise è Direttore del Programma di politica di ricerca sullo sviluppo globale all'Istituto per l'ambiente presso la Tufts University

12 settembre 2011

Il monsignore e la falsa democrazia



Di recente, a noi pochi che a Vicenza da un pezzo sosteniamo che la democrazia è un’oligarchia mascherata, si è aggiunto un illustre uomo chiesa e di cultura, don Giuseppe Dal Ferro. Oggi a Recoaro si apre una tre giorni di convegni, organizzata dal vicentino Istituto di Scienze Sociali “Rezzara” di cui il monsignore è direttore, dedicata alle “Democrazie a confronto”. In un’intervista rilasciata al Giornale di Vicenza domenica 28 agosto, Dal Ferro ha fatto alcune affermazioni che meritano di essere citate per intero: «La tradizione dei Paesi occidentali è quella della democrazia quantitativa, che però ha i suoi limiti. Ci sono altre forme: nel mondo islamico, ad esempio, ci sono alcuni principi non negoziabili, cioè che non possono essere decisi dal 50 percento più uno. Nasce quindi il problema di una revisione critica di cosa è democrazia. (…) la democrazia quantitativa è ormai anacronistica. Il singolo cittadino non conta più niente. Un tempo i partiti veicolavano le esigenze dei cittadini, ora non più. C'è un grande problema di partecipazione e rappresentanza. Chi esprime oggi le emergenze problematiche della rappresentanza? Anche i mass media sono soggetti alla manipolazione da parte dei poteri forti. Ci stiamo avviando verso una democrazia di stile americano. (…) Insisto sull'importanza della partecipazione, che fa emergere i problemi, mentre la rappresentanza li generalizza e tenta di risolverli. In pochi, pochissimi si sono accorti che nel 2001 la modifica all'articolo 118 della Costituzione ha introdotto il concetto di sussidiarietà orizzontale. (…) Gli enti pubblici, dallo Stato ai Comuni, devono favorire l'iniziativa dei cittadini, anche in forma associata, per svolgere attività di interesse generale. Questo ridefinisce in modo nuovo la partecipazione e la cittadinanza: gruppi e associazioni possono far emergere dal basso alcune istanze, questo è un nuovo tipo di democrazia. (…) La democrazia è già schiacciata dai poteri forti, dall'economia».
Esaminiamo quanto dice il prelato, partendo dal fondo. Sostiene che è il potere del denaro la causa dello svuotamento del sistema democratico, per così dire, dall’interno: ogni persona dotata di occhi orecchie e cervello non può che sottoscriverne la palese evidenza. Suggerisce, parafrasando Giorgio Gaber, che “democrazia è partecipazione”, e questo è indiscutibilmente vero se si pensa chi ne ha inventato il concetto e lo ha applicato, il Greco antico, la concepiva esclusivamente come esercizio diretto della sovranità da parte dei “molti” (il “popolo”), altrimenti il rischio è cadere nel suo contrario, che è appunto l’oligarchia (“governo dei pochi”, intesi come privilegiati per ricchezza e lignaggio). Dal Ferro ricorda che, inserita nella Costituzione vigente, è già a disposizione un’arma che è la sussidiarietà, principio che favorisce la partecipazione riavvicinando il cittadino al potere. Infine, boccia la democrazia rappresentativa, che lui chiama “quantitativa”, in quanto la delega è facilmente manipolabile dalle lobby politico-economiche, specialmente attraverso i media da loro controllati. Da cattolico auspica, poi, che la democrazia possa riformularsi secondo valori etici validi per tutti, come succede nell’Islam (fra parentesi: questo accade nel tanto vituperato Iran, dove ognuno può avere ed esprimere le opinioni che vuole a condizione di non mettere in discussione neanche per sbaglio il Corano e la sua interpretazione sciita).
Ora, a parte l’ultima nota che non condivido ma che, in bocca a un prete, posso capire, mi trovo d’accordo con quanto detto da monsignor Dal Ferro dalla prima all’ultima parola. Concordo sull’analisi del problema, e anche su quella che mi pare la direzione d’uscita: partecipazione dal basso, cioè democrazia diretta su base locale. Mi sento un po’ meno solo, oggi, in questa città.

di Alessio Mannino