13 marzo 2012

Gli Dei cialtroni

Monti è sempre più popolare sulla stampa italiana e su quella mondiale che s’inventano impennate negli indici di gradimento della pubblica opinione, nonostante le scudisciate sferrate da costui alle terga dei connazionali. A meno di non essere del tutto pervertiti c’è da giurare che solo in pochi apprezzano le pratiche “slave” e sadomaso del professore borchiato sotto il cappotto d’ordinanza cattedratica. Gentaglia da salotto insomma che non frequentando bar e bettole da volgo si arroga comunque il diritto di mettere in bocca alla plebe parole di giubilo per il Salvator cortese della Patria. Ma l’uomo della provvidenza parziale, il semidio dello spread, l’eroe dei mercati internazionali si guarda bene dal provocare l’ira degli dèi del Grande Capitale e della Finanza Internazionale contro i quali ogni tanto inveisce ma non agisce mentre è sempre pronto a scatenare fulmini e saette sui comuni mortali, sottoposti ad ogni tipo di persecuzione e vessazione. Nettare per gli dèi, lacrime e sangue per noi. Qualcuno si è preso la briga di fare due conti su questo primo periodo del governo soprannaturale composto da tecnici avviati alla carriera divina per una scorciatoia “trilaterale”. Così è emerso dal torbido clima di questa abominevole sobrietà che la spinta celeste dei suddetti figliastri di Pluvio, Olimpo ladro!, è assolutamente unidirezionale e preme soltanto sui settori sociali più svantaggiati. Che pertanto sacramentano e ne hanno ben donde, altro che sacrifici in onore delle divinità professorali! Per esempio, un articolo di Domenico Moro –con un taglio un po’ troppo ancestrale con ancora al centro il conflitto capitale/lavoro- sul sito Marx XXI (Marx che, ricordiamolo, nella sua epoca veniva spesso raffigurato dalla pubblicistica come un Prometeo al quale l’aquila imperiale andava a mangiare il fegato, punizione guadagnata per aver consegnato il fuoco teorico della rivoluzione al proletariato) riporta una serie di gravi iniquità nemmeno citate dai giornali:

“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.

Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”

E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo

12 marzo 2012

La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

La crisi dell’Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.

Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.

L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.

Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.

Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.

Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.

In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.

Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.

Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.

Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.

Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.

Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.

Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.

Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.

La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.

Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.

Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.

Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh

(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)

11 marzo 2012

Il TAV divora il futuro

Fiato corto e cuore che batte all'impazzata: non abbiamo le gambe abituate a falcare su e giù per i sentieri e i pendii di montagna. Superiamo un posto di blocco dei carabinieri: ci permettono di aggirare newjersey e reti metalliche e di inoltrarci nel bosco verso l'area del cantiere. Sul versante a sinistra, sulla linea ferroviaria che collega Italia e Francia passa un merci. Ma a sentire la tv, l'Italia non era isolata dalla Francia? Non ci ripetono continuamente che c'è bisogno di una ferrovia che colleghi i due paesi per il traffico di passeggeri e merci? E allora, cos'è quel serpente di vagoni che arriva da oltre confine?
Il rumore dei mezzi che vanno e vengono da oltralpe, intervallato da lunghi silenzi spazzati dal vento, comincia a sentirsi più vicino. Pochi passi e ci troviamo sopra l'autostrada. E giù, fra uno scavo e un furgone della Polizia, fra un mezzo della Guardia di Finanza e un bosco raso al suolo, c'è il cantiere. Un cantiere per un buco, geognostico. Devono capire le caratteristiche del terreno, devono allungare le braccia delle ruspe nel ventre delle montagne prima di scavare il tunnel. Eppure, c'è chi ben conosce nel dettaglio la composizione di quelle rocce; ci sono esperti, ma anche semplici cittadini che sanno che là dentro ci sono amianto e uranio. Proprio come la gente del Vajont sapeva che in lingua ladina quel nome significava "va giù" e che il nome Toc, quello del monte da cui si è staccata la frana che ha sepolto vive quasi duemila persone nel 1963, significa "pezzo", "marcio". Lo sapevano. Ma allora si disse che chi era contro la mega diga voluta dalla Sade-Enel era contro il progresso. L'Italia doveva essere all'avanguardia, aveva bisogno di grandi opere. E così fu. E in quasi duemila morirono.....

Oggi in Val di Susa c'è una popolazione che non vuole morire: ci sono imprenditori che hanno investito tutto nelle loro attività e nel futuro della valle, che rischia di essere spazzato via perchè - ci propagandano - non c'è collegamento fra Italia e Francia. E allora, il merci che ho visto io o il TGV che passa regolarmente, cosa sono? Illusioni ottiche? Miraggi?

Pensando alla morsa della crisi, ai lavoratori licenziati, ai pensionati affamati, agli imprenditori che si suicidano, l'unico miraggio di cui si può parlare è quello di un governo che finalmente decida nell'interesse della gente, anziché in quello delle banche (che di certo sono ben felici del progetto TAV, visto che i finanziamenti e i relativi interessi transitano obbligatoriamente per gli istituti di credito). L'ammodernamento della linea ferroviaria esistente è stato terminato nel 2008-2009: ora circolano sia merci che passeggeri. E allora? Perchè questa assoluta necessità di costruire un nuovo tunnel? Perchè la necessità di occupare un intero territorio, con forze dell'ordine (che magari potrebbero invece essere impiegate nella lotta alle infiltrazioni mafiose e della 'ndrangheta negli stessi cantieri come denunciato da Imposimato), con mezzi e uomini della Guardia di Finanza (non avevano la priorità della lotta all'evasione?), con reparti armati dell'esercito (quelli che hanno richiesto denaro sonante per andare a liberare i centri abitati sepolti dalla neve)? Ma quanto diavolo costano (in termini puramente economici, ma anche rispetto ai mancati diversi utilizzi) quei mezzi, quegli uomini, quei soldati a noi italiani?
Ma soprattutto, quanto dovrebbe venirci a costare il TAV? Quand'è che avremo finalmente una seria e dettagliata analisi costi-benefici dell'opera? Quante persone e mezzi dovrebbero circolare in quel lungo buco che dovrebbe sventrare la montagna? Perchè la Francia ha ripensato alla priorità della Torino-Lione e perchè L'Agenzia Nazionale per l'Ambiente Francese chiede maggiori risposte, maggiori garanzie, nuovi studi? Perchè invece in Italia la banda mista degli amichetti del banchierino (in senso generale, ovviamente, da destra a sinistra, politici e tecnici nella stessa misura) spingono l'acceleratore perchè l'opera è irrinunciabile? E soprattutto perchè se io, che peraltro non vivo in Val di Susa (pur comprendendo e condividendo le ragioni dei Valsusini), dimostro che l'opera è costosissima, dannosa e non utile sono subito accusata di essere contro il progresso, di volere isolare l'Italia, di volerla tagliata fuori dall'Europa? Magari potessi sottrarla alla dittatura finanziaria europea e dell'euro! Ma ovviamente non è su questo terreno che i tifosi del TAV mi contestano. Mi contestano perchè sognano la grandeur italiana e io invece - a loro dire - sarei contro il futuro del mio paese.

Mi spieghino dunque perchè mai noi tutti, che già dobbiamo fare i conti con un debito e con una crisi che toglie il fiato, dobbiamo cacciare altri quattrini di tasca nostra per finanziare un'opera che non serve (c'è già!) e che non ci è imposta dall'Europa. Questa scusa è il solito ritornello che utilizzano quando ci vogliono far prendere una medicina amara, mentre ci nascondono che l'Europa chiede che le opere siano fatte con il consenso delle popolazioni. Perchè dovremmo pagare per una grande opera tanto gradita alle banche? Chissà mai a chi gioverà una tale voragine! No, non quella nella montagna, ma quella dei miliardi di euro che costerà il tunnel.
Nei media, ma anche in rete, chi si oppone a questo progetto Tav è deriso, insultato, criminalizzato: è un arretrato, un idiota, quando non un pericoloso violento. Ma chi è che è entrato in un bar frantumando le vetrine e compiendo una scorribanda degna del peggior rastrellamento? Chi ha impartito l'ordine a quegli uomini? Chi è che adotta la violenza per militarizzare una valle? Poi, non mi si venga a dire che è colpa dei NO Tav se in Valle il turismo è in ginocchio: voi ci andreste a fare le vacanze in una caserma militare?
Forse Napolitano dovrebbe cominciare a chiedere in primis alle truppe schierate e delle quali lo Stato sta abusando (indirizzandole contro altri cittadini che difendono il loro territorio e le nostre tasche) di "escludere il ricorso a violazioni di legge, violenze, intolleranze e intimidazioni". Ma invece queste parole le ha scagliate a Torino contro quella gente che sta cercando di far soppravvivere la Valle, proteggendoci da un ulteriore indebitamento. Le ha pronunciate proprio mentre rifiutava di incontrare i Sindaci che si oppongono alla nuova linea ferroviaria, perchè il Presidente non entra "nel merito dei contrasti politici". Eh già. Si limita a chiedere più sacrifici, a tutti. Lui, la massima carica garante del rispetto della carta costituzionale. Di quella carta costituzionale che dichiara nel primo articolo che la sovranità appartiene al popolo. Ma visto come l'Italia è stata svenduta alla BCE e alla grande finanza internazionale, viene da chiedersi se abbia ancora un senso parlare di Repubblica, di sovranità (Monti ha già apertamente dichiarato che è necessario cederne all'Europa ed ha agito, indisturbato, di conseguenza), se ha senso parlare di Stato.
Quale Stato? Governato da chi? Per conto di chi? Per interesse di chi? Mi lascio trascinare dall'emotività e mi dico che tutto non ha senso e che questo sistema è una macchina impazzita lanciata a folle velocità contro un muro. Ma poi freno. E rivedo le immagini dei camionisti, bloccati in autostrada a Chianocco dai No Tav che, una volta liberata la sede stradale, ripartono suonando il clacson, salutando e condividendo, dai finestrini aperti delle loro cabine (nonostante il freddo gelido), la protesta degli abitanti della Val di Susa. Una protesta che è anche la loro. La nostra. Ed ecco che mi sento valsusina anche io e torno orgogliosa di essere Italiana.
di Monia Benini

13 marzo 2012

Gli Dei cialtroni

Monti è sempre più popolare sulla stampa italiana e su quella mondiale che s’inventano impennate negli indici di gradimento della pubblica opinione, nonostante le scudisciate sferrate da costui alle terga dei connazionali. A meno di non essere del tutto pervertiti c’è da giurare che solo in pochi apprezzano le pratiche “slave” e sadomaso del professore borchiato sotto il cappotto d’ordinanza cattedratica. Gentaglia da salotto insomma che non frequentando bar e bettole da volgo si arroga comunque il diritto di mettere in bocca alla plebe parole di giubilo per il Salvator cortese della Patria. Ma l’uomo della provvidenza parziale, il semidio dello spread, l’eroe dei mercati internazionali si guarda bene dal provocare l’ira degli dèi del Grande Capitale e della Finanza Internazionale contro i quali ogni tanto inveisce ma non agisce mentre è sempre pronto a scatenare fulmini e saette sui comuni mortali, sottoposti ad ogni tipo di persecuzione e vessazione. Nettare per gli dèi, lacrime e sangue per noi. Qualcuno si è preso la briga di fare due conti su questo primo periodo del governo soprannaturale composto da tecnici avviati alla carriera divina per una scorciatoia “trilaterale”. Così è emerso dal torbido clima di questa abominevole sobrietà che la spinta celeste dei suddetti figliastri di Pluvio, Olimpo ladro!, è assolutamente unidirezionale e preme soltanto sui settori sociali più svantaggiati. Che pertanto sacramentano e ne hanno ben donde, altro che sacrifici in onore delle divinità professorali! Per esempio, un articolo di Domenico Moro –con un taglio un po’ troppo ancestrale con ancora al centro il conflitto capitale/lavoro- sul sito Marx XXI (Marx che, ricordiamolo, nella sua epoca veniva spesso raffigurato dalla pubblicistica come un Prometeo al quale l’aquila imperiale andava a mangiare il fegato, punizione guadagnata per aver consegnato il fuoco teorico della rivoluzione al proletariato) riporta una serie di gravi iniquità nemmeno citate dai giornali:

“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.

Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”

E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo

12 marzo 2012

La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

La crisi dell’Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito

C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.

Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.

L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.

Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.

Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.

Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.

In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.

Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.

Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.

Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.

Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.

Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.

Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.

Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.

La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.

Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.

Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.

Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh

(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)

11 marzo 2012

Il TAV divora il futuro

Fiato corto e cuore che batte all'impazzata: non abbiamo le gambe abituate a falcare su e giù per i sentieri e i pendii di montagna. Superiamo un posto di blocco dei carabinieri: ci permettono di aggirare newjersey e reti metalliche e di inoltrarci nel bosco verso l'area del cantiere. Sul versante a sinistra, sulla linea ferroviaria che collega Italia e Francia passa un merci. Ma a sentire la tv, l'Italia non era isolata dalla Francia? Non ci ripetono continuamente che c'è bisogno di una ferrovia che colleghi i due paesi per il traffico di passeggeri e merci? E allora, cos'è quel serpente di vagoni che arriva da oltre confine?
Il rumore dei mezzi che vanno e vengono da oltralpe, intervallato da lunghi silenzi spazzati dal vento, comincia a sentirsi più vicino. Pochi passi e ci troviamo sopra l'autostrada. E giù, fra uno scavo e un furgone della Polizia, fra un mezzo della Guardia di Finanza e un bosco raso al suolo, c'è il cantiere. Un cantiere per un buco, geognostico. Devono capire le caratteristiche del terreno, devono allungare le braccia delle ruspe nel ventre delle montagne prima di scavare il tunnel. Eppure, c'è chi ben conosce nel dettaglio la composizione di quelle rocce; ci sono esperti, ma anche semplici cittadini che sanno che là dentro ci sono amianto e uranio. Proprio come la gente del Vajont sapeva che in lingua ladina quel nome significava "va giù" e che il nome Toc, quello del monte da cui si è staccata la frana che ha sepolto vive quasi duemila persone nel 1963, significa "pezzo", "marcio". Lo sapevano. Ma allora si disse che chi era contro la mega diga voluta dalla Sade-Enel era contro il progresso. L'Italia doveva essere all'avanguardia, aveva bisogno di grandi opere. E così fu. E in quasi duemila morirono.....

Oggi in Val di Susa c'è una popolazione che non vuole morire: ci sono imprenditori che hanno investito tutto nelle loro attività e nel futuro della valle, che rischia di essere spazzato via perchè - ci propagandano - non c'è collegamento fra Italia e Francia. E allora, il merci che ho visto io o il TGV che passa regolarmente, cosa sono? Illusioni ottiche? Miraggi?

Pensando alla morsa della crisi, ai lavoratori licenziati, ai pensionati affamati, agli imprenditori che si suicidano, l'unico miraggio di cui si può parlare è quello di un governo che finalmente decida nell'interesse della gente, anziché in quello delle banche (che di certo sono ben felici del progetto TAV, visto che i finanziamenti e i relativi interessi transitano obbligatoriamente per gli istituti di credito). L'ammodernamento della linea ferroviaria esistente è stato terminato nel 2008-2009: ora circolano sia merci che passeggeri. E allora? Perchè questa assoluta necessità di costruire un nuovo tunnel? Perchè la necessità di occupare un intero territorio, con forze dell'ordine (che magari potrebbero invece essere impiegate nella lotta alle infiltrazioni mafiose e della 'ndrangheta negli stessi cantieri come denunciato da Imposimato), con mezzi e uomini della Guardia di Finanza (non avevano la priorità della lotta all'evasione?), con reparti armati dell'esercito (quelli che hanno richiesto denaro sonante per andare a liberare i centri abitati sepolti dalla neve)? Ma quanto diavolo costano (in termini puramente economici, ma anche rispetto ai mancati diversi utilizzi) quei mezzi, quegli uomini, quei soldati a noi italiani?
Ma soprattutto, quanto dovrebbe venirci a costare il TAV? Quand'è che avremo finalmente una seria e dettagliata analisi costi-benefici dell'opera? Quante persone e mezzi dovrebbero circolare in quel lungo buco che dovrebbe sventrare la montagna? Perchè la Francia ha ripensato alla priorità della Torino-Lione e perchè L'Agenzia Nazionale per l'Ambiente Francese chiede maggiori risposte, maggiori garanzie, nuovi studi? Perchè invece in Italia la banda mista degli amichetti del banchierino (in senso generale, ovviamente, da destra a sinistra, politici e tecnici nella stessa misura) spingono l'acceleratore perchè l'opera è irrinunciabile? E soprattutto perchè se io, che peraltro non vivo in Val di Susa (pur comprendendo e condividendo le ragioni dei Valsusini), dimostro che l'opera è costosissima, dannosa e non utile sono subito accusata di essere contro il progresso, di volere isolare l'Italia, di volerla tagliata fuori dall'Europa? Magari potessi sottrarla alla dittatura finanziaria europea e dell'euro! Ma ovviamente non è su questo terreno che i tifosi del TAV mi contestano. Mi contestano perchè sognano la grandeur italiana e io invece - a loro dire - sarei contro il futuro del mio paese.

Mi spieghino dunque perchè mai noi tutti, che già dobbiamo fare i conti con un debito e con una crisi che toglie il fiato, dobbiamo cacciare altri quattrini di tasca nostra per finanziare un'opera che non serve (c'è già!) e che non ci è imposta dall'Europa. Questa scusa è il solito ritornello che utilizzano quando ci vogliono far prendere una medicina amara, mentre ci nascondono che l'Europa chiede che le opere siano fatte con il consenso delle popolazioni. Perchè dovremmo pagare per una grande opera tanto gradita alle banche? Chissà mai a chi gioverà una tale voragine! No, non quella nella montagna, ma quella dei miliardi di euro che costerà il tunnel.
Nei media, ma anche in rete, chi si oppone a questo progetto Tav è deriso, insultato, criminalizzato: è un arretrato, un idiota, quando non un pericoloso violento. Ma chi è che è entrato in un bar frantumando le vetrine e compiendo una scorribanda degna del peggior rastrellamento? Chi ha impartito l'ordine a quegli uomini? Chi è che adotta la violenza per militarizzare una valle? Poi, non mi si venga a dire che è colpa dei NO Tav se in Valle il turismo è in ginocchio: voi ci andreste a fare le vacanze in una caserma militare?
Forse Napolitano dovrebbe cominciare a chiedere in primis alle truppe schierate e delle quali lo Stato sta abusando (indirizzandole contro altri cittadini che difendono il loro territorio e le nostre tasche) di "escludere il ricorso a violazioni di legge, violenze, intolleranze e intimidazioni". Ma invece queste parole le ha scagliate a Torino contro quella gente che sta cercando di far soppravvivere la Valle, proteggendoci da un ulteriore indebitamento. Le ha pronunciate proprio mentre rifiutava di incontrare i Sindaci che si oppongono alla nuova linea ferroviaria, perchè il Presidente non entra "nel merito dei contrasti politici". Eh già. Si limita a chiedere più sacrifici, a tutti. Lui, la massima carica garante del rispetto della carta costituzionale. Di quella carta costituzionale che dichiara nel primo articolo che la sovranità appartiene al popolo. Ma visto come l'Italia è stata svenduta alla BCE e alla grande finanza internazionale, viene da chiedersi se abbia ancora un senso parlare di Repubblica, di sovranità (Monti ha già apertamente dichiarato che è necessario cederne all'Europa ed ha agito, indisturbato, di conseguenza), se ha senso parlare di Stato.
Quale Stato? Governato da chi? Per conto di chi? Per interesse di chi? Mi lascio trascinare dall'emotività e mi dico che tutto non ha senso e che questo sistema è una macchina impazzita lanciata a folle velocità contro un muro. Ma poi freno. E rivedo le immagini dei camionisti, bloccati in autostrada a Chianocco dai No Tav che, una volta liberata la sede stradale, ripartono suonando il clacson, salutando e condividendo, dai finestrini aperti delle loro cabine (nonostante il freddo gelido), la protesta degli abitanti della Val di Susa. Una protesta che è anche la loro. La nostra. Ed ecco che mi sento valsusina anche io e torno orgogliosa di essere Italiana.
di Monia Benini