03 giugno 2012

La guerra dell’informazione nell’ interpretazione di Jacques Baud

La guerra dell’informazione nell’ interpretazione di Jacques Baud Constatare che la società occidentale dipenda dall’informazione è certamente un truismo logico. La conoscenza degli avvenimenti ma anche la capacità di apportare rapidamente delle risposte pertinenti sono diventate parte integrante della società attuale. Ebbene, in materia di guerra dell’informazione, si è messo eccessivamente l’accento sulla dipendenza crescente dell’Occidente nei confronti della tecnologia dell’informazione; tuttavia le vere minacce non sono solo nel settore tecnologico ma sulla dimensione dell’influenza dell’informazione. Pensiamo al fatto che il terrorismo può essere visto anche come una maniera di comunicare. Ad ogni modo, a differenza delle armi tradizionali, quelle della guerra dell’informazione sono utilizzabili in tutti i tempi sia per servire interessi economici sia per neutralizzare la concorrenza internazionale. Inoltre, la loro messa in opera risulta estremamente agevole e queste armi possono esser utilizzate o da organizzazioni o da individui. La dimensione della guerra dell’informazione comprende tre aspetti: 1. La guerra informatica o guerra numerica relativa alla distruzione delle infrastrutture informatiche e che mira a paralizzare gli schemi difensivi dell’avversario; 2. La guerra del sapere che ha come obiettivo l’acquisizione, la circolazione e l’integrazione delle informazioni necessarie a mantenere una conoscenza superiore rispetto all’avversario per potersene poi avvantaggiare in ambito operativo; 3. La guerra d’influenza che è volta a manipolare le opinioni religiose e politiche al fine di agevolare l’azione contro la parte avversaria. Anche se questi tre aspetti sono autonomi sono tuttavia strettamente interdipendenti. Non bisogna dimenticare che nella lotta al terrorismo, l’Occidente ha concentrato con eccessiva frequenza la sua attenzione solo sulla dimensione informatica; al contrario, la reale vulnerabilità delle società democratiche si situa nel contesto dell’influenza che costituisce, ribadiamo, il campo d’azione del terrorismo. Ebbene, l’intelligence deve intervenire all’interno della guerra dell’informazione – come d’altra parte all’interno delle altre forma di conflitto – come elemento per prendere decisioni e non come arma. Non c’è dubbio, a tale proposito, che l’intelligence avendo come suo obiettivo la conoscenza dell’avversario, può servirsene a livello di guerra informativa per conoscere i punti deboli e per attuare una campagna di influenza. Volgiamo ora la nostra attenzione alla guerra del sapere che comprende tutti i metodi e i processi per acquisire, esplorare e diffondere le informazioni necessarie in ambito operativo. L’acquisizione dell’informazione in tutte le sue forme, anche quella informatica, fa parte delle guerre e implica non soltanto di poter avere notizie maggiori rispetto all’avversario ma anche di avere accesso più rapidamente alle fonti informative al fine di poter agire in modo più efficace. Di conseguenza la guerra del sapere comprende misure di camuffamento e di protezione dell’informazione – le cosiddette misure passive – ma comprende anche gli strumenti destinati a ingannare l’avversario sulle nostre intenzioni operative reali (le cosiddette misure attive). Inoltre, la guerra del sapere è un elemento che si trova anche all’interno dei meccanismi della gestione industriale poiché essa integra la nozione di intelligence economica ma anche i meccanismi di gestione della conoscenza, i processi di diffusione del sapere con i meccanismi di protezione. Per quanto riguarda la guerra di influenza, essa non rappresenta solamente una minaccia assai concreta ma sta alla base di numerosi conflitti asimmetrici. Infatti questa riguarda, in primo luogo, l’uso dei media e l’utilizzazione dei messaggi destinati a influenzare o manipolare l’opinione pubblica (o comunque le decisioni politiche). La società democratica basata sulla circolazione fluida dell’informazione non accetta – almeno apertamente – una pratica attiva di influenza; nonostante ciò le nostre società democratiche sono molto vulnerabili alla manipolazione informativa. Naturalmente questa manipolazione non viene fatta solo dagli Stati ma anche da gruppi di pressione privati e può rivestire un ruolo considerevole nell’influenzare l’opinione pubblica. In secondo luogo, le azioni di influenza devono necessariamente mirare al conseguimento di obiettivi strategici, devono essere conosciute congiuntamente sia nell’ambito civile che in quello militare, devono essere controllate per conseguire obiettivi psicologici specifici, essere fondate su una stretta collaborazione tra organismi di intelligence civili e militari; quanto alle azioni di influenza, queste rispondono ad una finalità fondamentale e cioè a quella di restaurare o mantenere la fiducia della popolazione civile all’interno dell’autorità o indebolire la volontà combattiva delle forze avversarie. Allo scopo di conseguire in modo efficace questi obiettivi, le azioni d’influenza devono essere condotte come se fossero operazioni militari e quindi sulla base di informative obiettive non faziose. Naturalmente questi obiettivi possono essere condotti attraverso operazioni discrete che comprendano la propaganda e la disinformazione. D’altra parte, valorizzare la propria potenza – denigrando o compromettendo quella dell’avversario attraverso la disinformazione, ha sempre fatto parte dell’arte della guerra. In una società aperta e democratica la manipolazione dell’opinione pubblica resta certamente possibile ma si deve attuare attraverso nuove forme. Nel contesto della lotta al terrorismo, l’informazione rimane un elemento determinante e nella guerra dell’informazione deve articolarsi secondo questi tre obiettivi: a)vi deve essere una matrice informativa a monte della presa di decisione operativa che suppone una capacità di generare la conoscenza del campo di battaglia e di integrarla insieme alle informazioni necessarie per gestire e condurre una guerra (concerne sostanzialmente la capacità di anticipare il nemico); b)la matrice di informazione che si trova a valle della decisione che è volta ad acquisire e mantenere i mezzi tecnici e i processi di comando e di condotta che permettono di seguire una determinata missione; c)la matrice della comunicazione tra lo Stato e l’opinione pubblica relativa alla gestione e alla percezione del conflitto. di Giuseppe Gagliano

02 giugno 2012

Meglio aumentare la benzina

Più passano i mesi vissuti all'insegna del governo golpista del duo Monti/ Napolitano, più quella che inizialmente era solamente una sensazione a pelle si trasforma in una certezza granitica. Per affossare definitivamente l'Italia, eliminando lo stato sociale, svendendone il residuo patrimonio e creando un regime di polizia fiscale, dove ogni problema si "risolve" attraverso l'introduzione di una nuova tassa, non era certo necessario scomodare i banchieri di Goldman Sachs e tanti "cervelli fini" che hanno studiato alla Bocconi. Sarebbe stato sufficiente un gruppo di detenuti prelevato dalle patrie galere, che almeno avrebbero praticato il ladrocinio con quel briciolo di umanità sconosciuta ai banco robot della banda Monti. La gestione da parte del governo dei rovinosi terremoti che stanno mettendo in ginocchio l'Emilia Romagna ed hanno già provocato una trentina di vittime e almeno 14mila sollati, è stata fin da subito grottesca, vissuta all'insegna di un mix fra il più totale disinteresse e la ferma volontà di far si che la catastrofe non incidesse minimamente sulle casse dello stato. Solamente poche ore prima che le scosse iniziassero a martoriare i territori oggetto della devastazione, il governo golpista, dimostrando sorprendenti doti di lungimiranza, già si era preoccupato di mettere le proprie casse in sicurezza, varando una legge che sgravava lo stato dall'obbligo della ricostruzione nel caso di calamità naturali, naturalmente senza che i media mainstream sentissero la necessità di rendere pubblica la cosa, documentata solamente all'interno di qualche trafiletto sms dell'Ansa..... Solamente dopo avere proclamato lo stato di emergenza, a tre giorni dalle prime scosse, Mario Monti assai svogliatamente ha adempiuto al suo dovere di visitare le zone terremotate, scortato dal bodyguard Cancellieri. Una toccata e fuga estremamente veloce, qualche frasetta di circostanza mormorata con il classico tono da macchinetta del casello autostradale, la promessa di devolvere qualche decina di milioni di euro, sufficienti al massimo per gestire alla meno peggio le prime settimane dell'emergenza, e poi via verso questioni più pregnanti e più degne di cotanto ingegno. A soli 9 giorni di distanza dal primo sisma, quando ancora le popolazioni dei territori devastati vivevano sotto shock il proprio dramma, ieri mattina la terra veniva squassata da un nuovo terremoto, se possibile ancora più intenso del precedente. Altri morti (finora ne sono stati conteggiati 17), altre case e capannoni distrutti, molte altre migliaia di cittadini ritrovatisi senza una casa e senza un lavoro, altro panico ed altro dolore. L'anomalia di quanto sta accadendo in Emilia Romagna è facilmente percettibile anche da chiunque non addetto ai lavori guardi con attenzione all'evolversi degli eventi. Un terremoto di queste proporzioni che colpisca un territorio ritenuto a basso rischio sismico è già un accadimento assai inconsueto, ma la possibilità che lo stesso territorio subisca a distanza di una settimana un nuovo sisma di elevata intensità, legato ad una faglia differente dalla prima, rasenta davvero la fantascienza. Se a queste "coincidenze" davvero originali aggiungiamo il fatto che i territori oggetto del disastro "sembra siano stati oggetto di attività di fracking e trivellazioni "misteriose", spesso nascoste dai media sotto un candido lenzuolo e che alcuni fenomeni riscontrati, fontanazzi, liquefazione a livello del terreno, innalzamento dello stesso e apertura di lunghe e profonde fenditure, sicuramente risulterà chiaro che esiste materiale in abbondanza per procedere ad un'analisi approfondita e professionale delle troppe anomalie riscontrate. Ciò nonostante tanto il governo quanto i tecnici al suo servizio hanno preferito glissare sull'argomento, appena sfiorato dai media mainstrem, spesso al solo scopo di metterlo in ridicolo etichetandolo come "teorie complottiste", fingendo si tratti di un normale terremoto, una calamità naturale come quelle del passato e nulla più. Il problema è dunque esclusivamente di ordine economico, perché se è vero che lo stato non sarà più tenuto a ricostruire le case distrutte dalle catastrofi naturali, è altrettanto vero che un aiuto nell'immediato per far sopravvivere gli sfollati, magari di malavoglia ma dovrà continuare a darlo. Una cospicua parte dell'opinione pubblica ha fatto pressing su Giorgio Napolitano, perché procedesse a sospendere la silata militare del 2 giugno, devolvendo la spesa necessaria per mobilitare aerei, carri armati e diavolerie assortite, alle popolazioni terremotate. Ma l'imbolsito presidente (lui sa di cosa) i carri armati li ama in maniera viscerale fin dai tempi di Budapest ed ha risposto di NO. Le macchine da guerra sfileranno lo stesso, ma lo faranno in onore dei terremotati che certo non mancheranno di apprezzare il nobile gesto, magari su qualche schermo piazzato nelle tendopoli. A procurarsi il denaro per l'emergenza ci penserà l'usuraio di stato e siccome le visite della finanza nei bar assiepati di terremotati, non hanno finora portato grandi introiti, basterà introdurre una nuova accisa sulla benzina. Due centesimi al litro, cosa volete che sia, ed il gioco è fatto. Ecco perchè è importante avere al governo banchieri e tecnici, anche se nessuno li ha votati. Loro sanno sempre cosa fare, magari non si tratta di soluzioni originali ma raggiungono sempre lo scopo, senza privare gli italiani neppure della sfilata militare, delle scie colorate e dei mezzi da guerra comprati di recente, spendendendo decine di miliardi di euro per ordine di Washington. di Marco Cedolin

01 giugno 2012

Governo Monti: tecnici o dilettanti allo sbaraglio?

Ho scritto –e non lo ritiro- che il tentativo di Monti va preso sul serio, perché po’ provocare mutamenti durevoli del sistema politico e non certo di segno progressista o democratico. Ma questo, più che alla personale abilità del Presidente del Consiglio (che, di suo, non è esattamente un genio), è dovuto alla forza delle cose che sta piegando la democrazia europea alle ragioni della finanza. Il suo governo, in quanto tale, si sta rivelando una compagine raccogliticcia di figure di mezza tacca. Si immagina che “tecnico” voglia dire competente nel ramo in cui esplica la sua attività e le note trionfalistiche che accompagnarono l’insediamento del governo Monti ci narravano che questi erano i più bravi fra i tecnici, la “creme del la creme”, il meglio della nostra intellighentzja economica, amministrativa, militare ecc. E si comprese subito che in tutto questo c’era sia una buona dose di piaggeria, sia il bisogno di dare coraggio ad una opinione pubblica sgomentata dal rischio di un vicino default (“arrivano i nostri!”). E tutto questo ci può stare, ma, fatta pure la tara, si poteva comunque sperare che comunque fossimo in presenza di un governo fatto da personalità con competenze professionali di livello superiore alla media. Dopo sei mesi di governo dobbiamo prendere atto di aver a che fare con personaggi men che mediocri e di imbarazzante incompetenza. Lasciamo da parte le questioni economiche sulle quali abbiamo già detto e diremo ancora, e scegliamo altri esempi: Ministero degli Esteri, quello dell’Interno, quello della Giustizia e quello della Pubblica istruzione-Università. Di fatto la Farnesina è in sede vacante: il suo titolare formale (di cui facciamo fatica a ricordare nome, ci pare tal Giulio Terzi di Sant’Agata) è un Ambasciatore che tale è rimasto, ignorando che un Ministro non è un super Ambasciatore, ma qualcosa di qualitativamente diverso. Si pensi alla vicenda dei marò arrestati in India. Come connazionale posso anche fare il tifo per loro e sperare che riescano a dimostrare convincentemente che il loro errore è stato una tragica fatalità, ma non c’è dubbio che a stabilire il grado di responsabilità penale deve essere una regolare corte penale. Ci sono ottimi argomenti di diritto internazionale per sostenere che la competenza è della giurisdizione italiana. Il fatto è che qui non si parla di questo ma di “riportare a casa i nostri soldati”, come se fossero stati sequestrati da una banda di pirati o di terroristi e non arrestati dalla polizia di uno stato sovrano. E’ del 28 maggio una lettera delirante di un caporal maggiore reduce dell’Afghanistan che vorrebbe andare “personalmente a liberare” i suoi colleghi (Corriere della Sera ), come se potessimo risolvere la cosa con una azione di commando (ed il “Corriere” gliela pubblica e pure senza nemmeno un commento). Il sindaco di Roma (con decenza parlando) guida fiaccolate con lo stesso obiettivo, in tutte le città compaiono manifesti con slogan incendiari: siamo usciti tutti matti? Vogliamo metterci in testa che l’India è un paese di primo piano e non un aggregato tribale semi-selvaggio? L’arresto è stato eseguito nel rispetto delle norme di procedura penale di uno stato di diritto, dopo possiamo anche discutere se processarli spetti all’Italia o all’India, ma la cosa va risolta per via diplomatica, ricordando che gli Indiani sono la parte lesa, non una banda di malfattori. Che facciamo, gli mandiamo le cannoniere con non abbiamo più? Qui la figura dei selvaggi la stiamo facendo noi, inclusa la sinistra che non dice niente, come se la cosa non la riguardasse. E’ ovvio che, se gli Indiani percepiscono che l’Italia non vuole processare i suoi soldati, ma solo sottrarli ad ogni processo (o, magari, allestire un processo farsa) non mollano e procedono con i propri tribunali. E fanno benissimo, anche se mi duole molto scriverlo. Ora, un ministro degli Esteri che ha una gestione così debole, di un caso del genere, da non riuscire a farsi capire nel suo paese, volete che sia preso sul serio ad di fuori? E infatti, pensate alla sciagurata azione degli inglesi per liberare gli ostaggi in Nigeria ed a come è stata trattata l’Italia e traetene le conseguenze. Della Cancellieri abbiamo detto e non ci ripetiamo. Veniamo alla Giustizia: lasciamo perdere la debolezza delle proposte balbettate dalla signora Paola Severino in questi mesi, ma dove mai avete visto che un sottosegretario della Presidenza del Consiglio tira fuori una proposta di riforma della commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (per di più, come emendamento all’interno di un disegno di legge che parla di tutt’altro) ed il ministro Guardasigilli non ne sa nulla? E veniamo all’Università che finalmente ha un ministro-rettore, uno dell’ambiente che finalmente capisce di cosa si sta parlando! A parte qualche infortunio su doppie cariche ed incompatibilità su cui passiamo la mano leggera, tutto quello che ha fatto sono state essenzialmente due cose: indire un referendum on line sul valore legale della laurea (che ha clamorosamente perso con il 73% di contrari all’abolizione) e fatto campagna a favore di quella solenne bestialità che sono le lezioni universitarie in Inglese (ma di questo diremo). Per il resto si limita a far andare l’università alla deriva lungo i dettami della sciagurata riforma Gelmini, nella quale nessuno si raccapezza e per la cui applicazione dilaga un catastrofico “fai da te” al termine del quale non capiremo come deve funzionare il tutto. E questi sarebbero i tecnici? AIUTO!!!! di Aldo Giannuli

03 giugno 2012

La guerra dell’informazione nell’ interpretazione di Jacques Baud

La guerra dell’informazione nell’ interpretazione di Jacques Baud Constatare che la società occidentale dipenda dall’informazione è certamente un truismo logico. La conoscenza degli avvenimenti ma anche la capacità di apportare rapidamente delle risposte pertinenti sono diventate parte integrante della società attuale. Ebbene, in materia di guerra dell’informazione, si è messo eccessivamente l’accento sulla dipendenza crescente dell’Occidente nei confronti della tecnologia dell’informazione; tuttavia le vere minacce non sono solo nel settore tecnologico ma sulla dimensione dell’influenza dell’informazione. Pensiamo al fatto che il terrorismo può essere visto anche come una maniera di comunicare. Ad ogni modo, a differenza delle armi tradizionali, quelle della guerra dell’informazione sono utilizzabili in tutti i tempi sia per servire interessi economici sia per neutralizzare la concorrenza internazionale. Inoltre, la loro messa in opera risulta estremamente agevole e queste armi possono esser utilizzate o da organizzazioni o da individui. La dimensione della guerra dell’informazione comprende tre aspetti: 1. La guerra informatica o guerra numerica relativa alla distruzione delle infrastrutture informatiche e che mira a paralizzare gli schemi difensivi dell’avversario; 2. La guerra del sapere che ha come obiettivo l’acquisizione, la circolazione e l’integrazione delle informazioni necessarie a mantenere una conoscenza superiore rispetto all’avversario per potersene poi avvantaggiare in ambito operativo; 3. La guerra d’influenza che è volta a manipolare le opinioni religiose e politiche al fine di agevolare l’azione contro la parte avversaria. Anche se questi tre aspetti sono autonomi sono tuttavia strettamente interdipendenti. Non bisogna dimenticare che nella lotta al terrorismo, l’Occidente ha concentrato con eccessiva frequenza la sua attenzione solo sulla dimensione informatica; al contrario, la reale vulnerabilità delle società democratiche si situa nel contesto dell’influenza che costituisce, ribadiamo, il campo d’azione del terrorismo. Ebbene, l’intelligence deve intervenire all’interno della guerra dell’informazione – come d’altra parte all’interno delle altre forma di conflitto – come elemento per prendere decisioni e non come arma. Non c’è dubbio, a tale proposito, che l’intelligence avendo come suo obiettivo la conoscenza dell’avversario, può servirsene a livello di guerra informativa per conoscere i punti deboli e per attuare una campagna di influenza. Volgiamo ora la nostra attenzione alla guerra del sapere che comprende tutti i metodi e i processi per acquisire, esplorare e diffondere le informazioni necessarie in ambito operativo. L’acquisizione dell’informazione in tutte le sue forme, anche quella informatica, fa parte delle guerre e implica non soltanto di poter avere notizie maggiori rispetto all’avversario ma anche di avere accesso più rapidamente alle fonti informative al fine di poter agire in modo più efficace. Di conseguenza la guerra del sapere comprende misure di camuffamento e di protezione dell’informazione – le cosiddette misure passive – ma comprende anche gli strumenti destinati a ingannare l’avversario sulle nostre intenzioni operative reali (le cosiddette misure attive). Inoltre, la guerra del sapere è un elemento che si trova anche all’interno dei meccanismi della gestione industriale poiché essa integra la nozione di intelligence economica ma anche i meccanismi di gestione della conoscenza, i processi di diffusione del sapere con i meccanismi di protezione. Per quanto riguarda la guerra di influenza, essa non rappresenta solamente una minaccia assai concreta ma sta alla base di numerosi conflitti asimmetrici. Infatti questa riguarda, in primo luogo, l’uso dei media e l’utilizzazione dei messaggi destinati a influenzare o manipolare l’opinione pubblica (o comunque le decisioni politiche). La società democratica basata sulla circolazione fluida dell’informazione non accetta – almeno apertamente – una pratica attiva di influenza; nonostante ciò le nostre società democratiche sono molto vulnerabili alla manipolazione informativa. Naturalmente questa manipolazione non viene fatta solo dagli Stati ma anche da gruppi di pressione privati e può rivestire un ruolo considerevole nell’influenzare l’opinione pubblica. In secondo luogo, le azioni di influenza devono necessariamente mirare al conseguimento di obiettivi strategici, devono essere conosciute congiuntamente sia nell’ambito civile che in quello militare, devono essere controllate per conseguire obiettivi psicologici specifici, essere fondate su una stretta collaborazione tra organismi di intelligence civili e militari; quanto alle azioni di influenza, queste rispondono ad una finalità fondamentale e cioè a quella di restaurare o mantenere la fiducia della popolazione civile all’interno dell’autorità o indebolire la volontà combattiva delle forze avversarie. Allo scopo di conseguire in modo efficace questi obiettivi, le azioni d’influenza devono essere condotte come se fossero operazioni militari e quindi sulla base di informative obiettive non faziose. Naturalmente questi obiettivi possono essere condotti attraverso operazioni discrete che comprendano la propaganda e la disinformazione. D’altra parte, valorizzare la propria potenza – denigrando o compromettendo quella dell’avversario attraverso la disinformazione, ha sempre fatto parte dell’arte della guerra. In una società aperta e democratica la manipolazione dell’opinione pubblica resta certamente possibile ma si deve attuare attraverso nuove forme. Nel contesto della lotta al terrorismo, l’informazione rimane un elemento determinante e nella guerra dell’informazione deve articolarsi secondo questi tre obiettivi: a)vi deve essere una matrice informativa a monte della presa di decisione operativa che suppone una capacità di generare la conoscenza del campo di battaglia e di integrarla insieme alle informazioni necessarie per gestire e condurre una guerra (concerne sostanzialmente la capacità di anticipare il nemico); b)la matrice di informazione che si trova a valle della decisione che è volta ad acquisire e mantenere i mezzi tecnici e i processi di comando e di condotta che permettono di seguire una determinata missione; c)la matrice della comunicazione tra lo Stato e l’opinione pubblica relativa alla gestione e alla percezione del conflitto. di Giuseppe Gagliano

02 giugno 2012

Meglio aumentare la benzina

Più passano i mesi vissuti all'insegna del governo golpista del duo Monti/ Napolitano, più quella che inizialmente era solamente una sensazione a pelle si trasforma in una certezza granitica. Per affossare definitivamente l'Italia, eliminando lo stato sociale, svendendone il residuo patrimonio e creando un regime di polizia fiscale, dove ogni problema si "risolve" attraverso l'introduzione di una nuova tassa, non era certo necessario scomodare i banchieri di Goldman Sachs e tanti "cervelli fini" che hanno studiato alla Bocconi. Sarebbe stato sufficiente un gruppo di detenuti prelevato dalle patrie galere, che almeno avrebbero praticato il ladrocinio con quel briciolo di umanità sconosciuta ai banco robot della banda Monti. La gestione da parte del governo dei rovinosi terremoti che stanno mettendo in ginocchio l'Emilia Romagna ed hanno già provocato una trentina di vittime e almeno 14mila sollati, è stata fin da subito grottesca, vissuta all'insegna di un mix fra il più totale disinteresse e la ferma volontà di far si che la catastrofe non incidesse minimamente sulle casse dello stato. Solamente poche ore prima che le scosse iniziassero a martoriare i territori oggetto della devastazione, il governo golpista, dimostrando sorprendenti doti di lungimiranza, già si era preoccupato di mettere le proprie casse in sicurezza, varando una legge che sgravava lo stato dall'obbligo della ricostruzione nel caso di calamità naturali, naturalmente senza che i media mainstream sentissero la necessità di rendere pubblica la cosa, documentata solamente all'interno di qualche trafiletto sms dell'Ansa..... Solamente dopo avere proclamato lo stato di emergenza, a tre giorni dalle prime scosse, Mario Monti assai svogliatamente ha adempiuto al suo dovere di visitare le zone terremotate, scortato dal bodyguard Cancellieri. Una toccata e fuga estremamente veloce, qualche frasetta di circostanza mormorata con il classico tono da macchinetta del casello autostradale, la promessa di devolvere qualche decina di milioni di euro, sufficienti al massimo per gestire alla meno peggio le prime settimane dell'emergenza, e poi via verso questioni più pregnanti e più degne di cotanto ingegno. A soli 9 giorni di distanza dal primo sisma, quando ancora le popolazioni dei territori devastati vivevano sotto shock il proprio dramma, ieri mattina la terra veniva squassata da un nuovo terremoto, se possibile ancora più intenso del precedente. Altri morti (finora ne sono stati conteggiati 17), altre case e capannoni distrutti, molte altre migliaia di cittadini ritrovatisi senza una casa e senza un lavoro, altro panico ed altro dolore. L'anomalia di quanto sta accadendo in Emilia Romagna è facilmente percettibile anche da chiunque non addetto ai lavori guardi con attenzione all'evolversi degli eventi. Un terremoto di queste proporzioni che colpisca un territorio ritenuto a basso rischio sismico è già un accadimento assai inconsueto, ma la possibilità che lo stesso territorio subisca a distanza di una settimana un nuovo sisma di elevata intensità, legato ad una faglia differente dalla prima, rasenta davvero la fantascienza. Se a queste "coincidenze" davvero originali aggiungiamo il fatto che i territori oggetto del disastro "sembra siano stati oggetto di attività di fracking e trivellazioni "misteriose", spesso nascoste dai media sotto un candido lenzuolo e che alcuni fenomeni riscontrati, fontanazzi, liquefazione a livello del terreno, innalzamento dello stesso e apertura di lunghe e profonde fenditure, sicuramente risulterà chiaro che esiste materiale in abbondanza per procedere ad un'analisi approfondita e professionale delle troppe anomalie riscontrate. Ciò nonostante tanto il governo quanto i tecnici al suo servizio hanno preferito glissare sull'argomento, appena sfiorato dai media mainstrem, spesso al solo scopo di metterlo in ridicolo etichetandolo come "teorie complottiste", fingendo si tratti di un normale terremoto, una calamità naturale come quelle del passato e nulla più. Il problema è dunque esclusivamente di ordine economico, perché se è vero che lo stato non sarà più tenuto a ricostruire le case distrutte dalle catastrofi naturali, è altrettanto vero che un aiuto nell'immediato per far sopravvivere gli sfollati, magari di malavoglia ma dovrà continuare a darlo. Una cospicua parte dell'opinione pubblica ha fatto pressing su Giorgio Napolitano, perché procedesse a sospendere la silata militare del 2 giugno, devolvendo la spesa necessaria per mobilitare aerei, carri armati e diavolerie assortite, alle popolazioni terremotate. Ma l'imbolsito presidente (lui sa di cosa) i carri armati li ama in maniera viscerale fin dai tempi di Budapest ed ha risposto di NO. Le macchine da guerra sfileranno lo stesso, ma lo faranno in onore dei terremotati che certo non mancheranno di apprezzare il nobile gesto, magari su qualche schermo piazzato nelle tendopoli. A procurarsi il denaro per l'emergenza ci penserà l'usuraio di stato e siccome le visite della finanza nei bar assiepati di terremotati, non hanno finora portato grandi introiti, basterà introdurre una nuova accisa sulla benzina. Due centesimi al litro, cosa volete che sia, ed il gioco è fatto. Ecco perchè è importante avere al governo banchieri e tecnici, anche se nessuno li ha votati. Loro sanno sempre cosa fare, magari non si tratta di soluzioni originali ma raggiungono sempre lo scopo, senza privare gli italiani neppure della sfilata militare, delle scie colorate e dei mezzi da guerra comprati di recente, spendendendo decine di miliardi di euro per ordine di Washington. di Marco Cedolin

01 giugno 2012

Governo Monti: tecnici o dilettanti allo sbaraglio?

Ho scritto –e non lo ritiro- che il tentativo di Monti va preso sul serio, perché po’ provocare mutamenti durevoli del sistema politico e non certo di segno progressista o democratico. Ma questo, più che alla personale abilità del Presidente del Consiglio (che, di suo, non è esattamente un genio), è dovuto alla forza delle cose che sta piegando la democrazia europea alle ragioni della finanza. Il suo governo, in quanto tale, si sta rivelando una compagine raccogliticcia di figure di mezza tacca. Si immagina che “tecnico” voglia dire competente nel ramo in cui esplica la sua attività e le note trionfalistiche che accompagnarono l’insediamento del governo Monti ci narravano che questi erano i più bravi fra i tecnici, la “creme del la creme”, il meglio della nostra intellighentzja economica, amministrativa, militare ecc. E si comprese subito che in tutto questo c’era sia una buona dose di piaggeria, sia il bisogno di dare coraggio ad una opinione pubblica sgomentata dal rischio di un vicino default (“arrivano i nostri!”). E tutto questo ci può stare, ma, fatta pure la tara, si poteva comunque sperare che comunque fossimo in presenza di un governo fatto da personalità con competenze professionali di livello superiore alla media. Dopo sei mesi di governo dobbiamo prendere atto di aver a che fare con personaggi men che mediocri e di imbarazzante incompetenza. Lasciamo da parte le questioni economiche sulle quali abbiamo già detto e diremo ancora, e scegliamo altri esempi: Ministero degli Esteri, quello dell’Interno, quello della Giustizia e quello della Pubblica istruzione-Università. Di fatto la Farnesina è in sede vacante: il suo titolare formale (di cui facciamo fatica a ricordare nome, ci pare tal Giulio Terzi di Sant’Agata) è un Ambasciatore che tale è rimasto, ignorando che un Ministro non è un super Ambasciatore, ma qualcosa di qualitativamente diverso. Si pensi alla vicenda dei marò arrestati in India. Come connazionale posso anche fare il tifo per loro e sperare che riescano a dimostrare convincentemente che il loro errore è stato una tragica fatalità, ma non c’è dubbio che a stabilire il grado di responsabilità penale deve essere una regolare corte penale. Ci sono ottimi argomenti di diritto internazionale per sostenere che la competenza è della giurisdizione italiana. Il fatto è che qui non si parla di questo ma di “riportare a casa i nostri soldati”, come se fossero stati sequestrati da una banda di pirati o di terroristi e non arrestati dalla polizia di uno stato sovrano. E’ del 28 maggio una lettera delirante di un caporal maggiore reduce dell’Afghanistan che vorrebbe andare “personalmente a liberare” i suoi colleghi (Corriere della Sera ), come se potessimo risolvere la cosa con una azione di commando (ed il “Corriere” gliela pubblica e pure senza nemmeno un commento). Il sindaco di Roma (con decenza parlando) guida fiaccolate con lo stesso obiettivo, in tutte le città compaiono manifesti con slogan incendiari: siamo usciti tutti matti? Vogliamo metterci in testa che l’India è un paese di primo piano e non un aggregato tribale semi-selvaggio? L’arresto è stato eseguito nel rispetto delle norme di procedura penale di uno stato di diritto, dopo possiamo anche discutere se processarli spetti all’Italia o all’India, ma la cosa va risolta per via diplomatica, ricordando che gli Indiani sono la parte lesa, non una banda di malfattori. Che facciamo, gli mandiamo le cannoniere con non abbiamo più? Qui la figura dei selvaggi la stiamo facendo noi, inclusa la sinistra che non dice niente, come se la cosa non la riguardasse. E’ ovvio che, se gli Indiani percepiscono che l’Italia non vuole processare i suoi soldati, ma solo sottrarli ad ogni processo (o, magari, allestire un processo farsa) non mollano e procedono con i propri tribunali. E fanno benissimo, anche se mi duole molto scriverlo. Ora, un ministro degli Esteri che ha una gestione così debole, di un caso del genere, da non riuscire a farsi capire nel suo paese, volete che sia preso sul serio ad di fuori? E infatti, pensate alla sciagurata azione degli inglesi per liberare gli ostaggi in Nigeria ed a come è stata trattata l’Italia e traetene le conseguenze. Della Cancellieri abbiamo detto e non ci ripetiamo. Veniamo alla Giustizia: lasciamo perdere la debolezza delle proposte balbettate dalla signora Paola Severino in questi mesi, ma dove mai avete visto che un sottosegretario della Presidenza del Consiglio tira fuori una proposta di riforma della commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (per di più, come emendamento all’interno di un disegno di legge che parla di tutt’altro) ed il ministro Guardasigilli non ne sa nulla? E veniamo all’Università che finalmente ha un ministro-rettore, uno dell’ambiente che finalmente capisce di cosa si sta parlando! A parte qualche infortunio su doppie cariche ed incompatibilità su cui passiamo la mano leggera, tutto quello che ha fatto sono state essenzialmente due cose: indire un referendum on line sul valore legale della laurea (che ha clamorosamente perso con il 73% di contrari all’abolizione) e fatto campagna a favore di quella solenne bestialità che sono le lezioni universitarie in Inglese (ma di questo diremo). Per il resto si limita a far andare l’università alla deriva lungo i dettami della sciagurata riforma Gelmini, nella quale nessuno si raccapezza e per la cui applicazione dilaga un catastrofico “fai da te” al termine del quale non capiremo come deve funzionare il tutto. E questi sarebbero i tecnici? AIUTO!!!! di Aldo Giannuli