23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

22 settembre 2013

Mala tempora currunt








Tutti coloro fortemente convinti del fatto che l'Italia avesse toccato il fondo durante lo scorso autunno, quando il governo golpista di Mario Monti, dopo avere dissanguato il paese, si apprestava ad esalare l'ultimo respiro, devono avere ormai compreso come in realtà al peggio non ci sia mai fine ed esista sempre un buco più profondo nel quale sprofondare.
L'accanimento terapeutico con il quale il circo mediatico tenta di mantenere in vita il fantasma di Berlusconi, unitamente alle migliaia di pagine dedicate alle diatribe, in perfetto stile mafioso, che intercorrono all'interno del PD ed alla spettacolarizzazione di qualsiasi litigio da bar dello sport che abbia fra i protagonisti qualche esponente del bestiario politico nostrano, dimostrano inequivocabilmente come l'ordine impartito alla scuderia del mainstream sia in fondo uno solo. Nascondere la spazzatura sotto il tappeto ed inebetire il cervello (o quel che ne resta) degli italiani con un chiacchiericcio petulante, commisto ad alte dosi di disinformazione urlata, fino ad ottenere l'effetto cacofonico voluto....


Gli italiani devono continuare a vivere nel proprio mondo di fantasia, all'interno del quale scannarsi (metaforicamente) nell'attaccare o difendere il salapuzio di Arcore, quasi ne andasse della loro vita. Devono continuare a sentirsi di destra o di sinistra, attori di un mondo dicotomo dove gli altri sono sempre i "cattivi" e loro i "buoni". Devono vivere nel profondo convincimento che Enrico Letta guidi realmente il paese ed abbia titolo per decidere del loro futuro, per abbassare o alzare le tasse e prendere le decisioni economiche. Devono restare convinti del fatto che la loro crocetta conti veramente qualcosa, che il progetto europeo sia stato imbastito per il bene dei popoli, che a regolare le loro vite ci sia una carta chiamata Costituzione e che prima o poi sarà possibile scorgere una luce in fondo a quel tunnel che la TV chiama crisi.

Non esiste alcuno spazio per la realtà e agli italiani deve essere impedito con ogni mezzo di alzare il tappeto per guardare cosa c'è sotto. Potrebbero trovarci il progetto della nuova società globalizzata e mondialista, dove i governi servono a tavola una portata unica ed uguale per tutti, cucinata a Bruxelles ed a Washington. Potrebbero scoprire che Berlusconi, Letta, Renzi, Monti e qualsiasi altro mestierante della politica, non sono altro che marionette prive di qualsiasi potere che prescinda dal recitare il loro copione e rimpinguare il proprio conto in banca. Potrebbero realizzare che dopo l'esproprio coatto della sovranità nazionale, inizieranno gli espropri altrettanto coatti dei beni famigliari, perché nel mondo che verrà ( e sta arrivando a grandi falcate) ci sarà posto per due sole categorie: gli schiavi e coloro che usano la frusta, con pochissime fruste ed una moltitudine di schiene sanguinanti.

Molto meglio il mondo di fantasia, vissuto all'insegna dei facili convincimenti e con gli occhi fissi allo specchietto retrovisore. Ci sarà tempo per guardare avanti, quando le catene saranno strette per bene e non sarà più possibile alcun movimento.
 

di Marco Cedolin 

21 settembre 2013

L'Islanda non vuole più l'Europa, chiusi i negoziati con l'Ue





Il governo islandese sospende a tempo indeterminato le trattative per l'ingresso del paese nell'Unione europea. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee sono state il cavallo di battaglia della coalizione vincitrice durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori e' stata mantenuta.

Islanda no Ue
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato
L’Islanda e l’Europa si allontanano. Non geograficamente, s’intende: l’isoletta spersa nel mare del Nord resta sempre lì, a circa 1500 chilometri dalla Gran Bretagna. Ma politicamente, quello sì. Dall’interno dell’Althingi, il parlamento islandese, Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri della coalizione di centro-destra al governo da aprile, ha messo un freno alla procedura di adesione dell’Isola all’Unione europea.
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee erano stato il cavallo di battaglia dei vincitori durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori è stata mantenuta.
I negoziati non erano mai stati facili: c'erano alcune questioni spinose sulle quali l'isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles. L’Europa chiedeva all’Islanda di aderire alle normative europee relativamente a 30 punti, fra cui figuravano la libera circolazione di capitali, la politica economica e monetaria, le politiche di pesca e di sviluppo agricolo e rurale. Tutti punti su cui gli islandesi non sono più disposti a negoziare. Non dopo la crisi e le rivolte.
E poi c’era la denuncia pendente alla Corte di giustizia Ue per la bancarotta del 2008. E la questione del debito Icesave, per la quale l’Ue si era schierata a spada tratta a fianco di Inghilterra ed Olanda nel pretendere che il debito contratto dalla Landsbanki, banca privata ripubblicizzata in seguito alla crisi, venisse socializzato e gravasse sulle spalle dell’intera popolazione isolana.
La vittoria della coalizione di centro-destra alle ultime elezioni è passata anche, soprattutto, per la diffidenza degli islandesi nei confronti dell’Unione. Quella sovranità popolare che gli isolani si sono ripresi di fatto dopo la crisi, con le proteste prolungate che hanno portato alla caduta del governo nel 2009 ed il rifiuto di socializzare un debito ingiusto contratto da banche private, non verrà certo ceduta di nuovo in favore di Bruxelles.
Certo, è strano che a prendere questo genere di decisioni siano gli stessi partiti – e in parte gli stessi soggetti – che condussero il paese sull’orlo del baratro nel 2008. Ed il rischio che la questione europea venga strumentalizzata c’è. Ad esempio rischia di passare inosservato il fatto che, a distanza di quasi un anno, la nuova costituzione partecipata, simbolo stesso della “nuova Islanda”, approvata con un referendum dal popolo islandese nell’ottobre 2012, non abbia ancora passato il vaglio dell’Althingi. “Quale sarà il suo destino?”, si chiedono in molti; riuscirà mai ad entrare in vigore?

Tuttavia la decisione di sospendere i negoziati per entrare a far parte dell’Unione non può non essere condivisa. Nell’ottica degli islandesi, entrare in Europa rappresenterebbe una nuova fuga del potere e della sovranitàverso l’alto, verso luoghi distanti chilometri e chilometri di oceano. Una fuga che gli islandesi non vogliono permettere.
di Andrea Degl'Innocenti 

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

22 settembre 2013

Mala tempora currunt








Tutti coloro fortemente convinti del fatto che l'Italia avesse toccato il fondo durante lo scorso autunno, quando il governo golpista di Mario Monti, dopo avere dissanguato il paese, si apprestava ad esalare l'ultimo respiro, devono avere ormai compreso come in realtà al peggio non ci sia mai fine ed esista sempre un buco più profondo nel quale sprofondare.
L'accanimento terapeutico con il quale il circo mediatico tenta di mantenere in vita il fantasma di Berlusconi, unitamente alle migliaia di pagine dedicate alle diatribe, in perfetto stile mafioso, che intercorrono all'interno del PD ed alla spettacolarizzazione di qualsiasi litigio da bar dello sport che abbia fra i protagonisti qualche esponente del bestiario politico nostrano, dimostrano inequivocabilmente come l'ordine impartito alla scuderia del mainstream sia in fondo uno solo. Nascondere la spazzatura sotto il tappeto ed inebetire il cervello (o quel che ne resta) degli italiani con un chiacchiericcio petulante, commisto ad alte dosi di disinformazione urlata, fino ad ottenere l'effetto cacofonico voluto....


Gli italiani devono continuare a vivere nel proprio mondo di fantasia, all'interno del quale scannarsi (metaforicamente) nell'attaccare o difendere il salapuzio di Arcore, quasi ne andasse della loro vita. Devono continuare a sentirsi di destra o di sinistra, attori di un mondo dicotomo dove gli altri sono sempre i "cattivi" e loro i "buoni". Devono vivere nel profondo convincimento che Enrico Letta guidi realmente il paese ed abbia titolo per decidere del loro futuro, per abbassare o alzare le tasse e prendere le decisioni economiche. Devono restare convinti del fatto che la loro crocetta conti veramente qualcosa, che il progetto europeo sia stato imbastito per il bene dei popoli, che a regolare le loro vite ci sia una carta chiamata Costituzione e che prima o poi sarà possibile scorgere una luce in fondo a quel tunnel che la TV chiama crisi.

Non esiste alcuno spazio per la realtà e agli italiani deve essere impedito con ogni mezzo di alzare il tappeto per guardare cosa c'è sotto. Potrebbero trovarci il progetto della nuova società globalizzata e mondialista, dove i governi servono a tavola una portata unica ed uguale per tutti, cucinata a Bruxelles ed a Washington. Potrebbero scoprire che Berlusconi, Letta, Renzi, Monti e qualsiasi altro mestierante della politica, non sono altro che marionette prive di qualsiasi potere che prescinda dal recitare il loro copione e rimpinguare il proprio conto in banca. Potrebbero realizzare che dopo l'esproprio coatto della sovranità nazionale, inizieranno gli espropri altrettanto coatti dei beni famigliari, perché nel mondo che verrà ( e sta arrivando a grandi falcate) ci sarà posto per due sole categorie: gli schiavi e coloro che usano la frusta, con pochissime fruste ed una moltitudine di schiene sanguinanti.

Molto meglio il mondo di fantasia, vissuto all'insegna dei facili convincimenti e con gli occhi fissi allo specchietto retrovisore. Ci sarà tempo per guardare avanti, quando le catene saranno strette per bene e non sarà più possibile alcun movimento.
 

di Marco Cedolin 

21 settembre 2013

L'Islanda non vuole più l'Europa, chiusi i negoziati con l'Ue





Il governo islandese sospende a tempo indeterminato le trattative per l'ingresso del paese nell'Unione europea. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee sono state il cavallo di battaglia della coalizione vincitrice durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori e' stata mantenuta.

Islanda no Ue
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato
L’Islanda e l’Europa si allontanano. Non geograficamente, s’intende: l’isoletta spersa nel mare del Nord resta sempre lì, a circa 1500 chilometri dalla Gran Bretagna. Ma politicamente, quello sì. Dall’interno dell’Althingi, il parlamento islandese, Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri della coalizione di centro-destra al governo da aprile, ha messo un freno alla procedura di adesione dell’Isola all’Unione europea.
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee erano stato il cavallo di battaglia dei vincitori durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori è stata mantenuta.
I negoziati non erano mai stati facili: c'erano alcune questioni spinose sulle quali l'isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles. L’Europa chiedeva all’Islanda di aderire alle normative europee relativamente a 30 punti, fra cui figuravano la libera circolazione di capitali, la politica economica e monetaria, le politiche di pesca e di sviluppo agricolo e rurale. Tutti punti su cui gli islandesi non sono più disposti a negoziare. Non dopo la crisi e le rivolte.
E poi c’era la denuncia pendente alla Corte di giustizia Ue per la bancarotta del 2008. E la questione del debito Icesave, per la quale l’Ue si era schierata a spada tratta a fianco di Inghilterra ed Olanda nel pretendere che il debito contratto dalla Landsbanki, banca privata ripubblicizzata in seguito alla crisi, venisse socializzato e gravasse sulle spalle dell’intera popolazione isolana.
La vittoria della coalizione di centro-destra alle ultime elezioni è passata anche, soprattutto, per la diffidenza degli islandesi nei confronti dell’Unione. Quella sovranità popolare che gli isolani si sono ripresi di fatto dopo la crisi, con le proteste prolungate che hanno portato alla caduta del governo nel 2009 ed il rifiuto di socializzare un debito ingiusto contratto da banche private, non verrà certo ceduta di nuovo in favore di Bruxelles.
Certo, è strano che a prendere questo genere di decisioni siano gli stessi partiti – e in parte gli stessi soggetti – che condussero il paese sull’orlo del baratro nel 2008. Ed il rischio che la questione europea venga strumentalizzata c’è. Ad esempio rischia di passare inosservato il fatto che, a distanza di quasi un anno, la nuova costituzione partecipata, simbolo stesso della “nuova Islanda”, approvata con un referendum dal popolo islandese nell’ottobre 2012, non abbia ancora passato il vaglio dell’Althingi. “Quale sarà il suo destino?”, si chiedono in molti; riuscirà mai ad entrare in vigore?

Tuttavia la decisione di sospendere i negoziati per entrare a far parte dell’Unione non può non essere condivisa. Nell’ottica degli islandesi, entrare in Europa rappresenterebbe una nuova fuga del potere e della sovranitàverso l’alto, verso luoghi distanti chilometri e chilometri di oceano. Una fuga che gli islandesi non vogliono permettere.
di Andrea Degl'Innocenti