29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi