26 gennaio 2009
Yehoshua: un insulto a 6 milioni di martiri
Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l 'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.
A.B.Y. "Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare."
Arafat riconobbe Israele nel 1993, agì fermamente per reprimere Hamas (come testimoniò Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti Shab'ak israeliani, nel 1998) e cosa ottenne? Barak, Clinton e poi Sharon lo distrussero. Hamas ha dichiarato ufficialmente nel luglio del 2006 con una lettera al Washington Post di riconoscere il diritto degli ebrei all'esistenza in Palestina fianco a fianco dei palestinesi. Nessun media italiano o europeo ha ripreso la notizia. Nessuno.
A.B.Y. "... I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco..."
Respinto l'occupazione? Sono in una gabbia che li affama, che li fa morire ai posti di blocco, che gli nega l'essenziale per vivere. Di nuovo Dugard: "A tutti gli effetti, a seguito del ritiro israeliano, Gaza è divenuta un territorio chiuso, imprigionato e ancora occupato".
A.B.Y. "Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi seguaci (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile..."
Questo è il razzismo di questi assassini vestiti da colombe. Vogliono 'educare' gli 'untermenschen' arabi a frustate, "fargli capire", come usava ‘far capire' nei campi di cotone della Louisiana 200 anni fa o nel ghetto di Varsavia, pochi decenni fa. 'Fargli capire' le cose ammazzando i loro bambini? Le loro donne? Questo si chiama massacro, è un crimine contro l'umanità che viola le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga. Questo Abrham B. Yehoshua è un mostro, e lui e i suoi colleghi non hanno appreso alcunché dal nazismo, anzi, hanno solo appreso come replicarlo.
"Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio."
Su una porzione del suo territorio... Non c'è limite all'abominio intellettuale di questo scrittore. Gli 'untermenschen' arabi devono essere grati di poter fare la fame su un fazzoletto di terra privo di ogni sbocco economico/commerciale e che è una frazione di quel 22% delle loro terre che gli è rimasto dopo che Israele gli ha rubato il 78% a forza di massacri e pulizia etnica.
"Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni..."
Come aver detto agli etiopi nel 1984: "Se imparaste a coltivare la terra invece che chiedere l'elemosina all'ONU...".
Questo Abrham B. Yehoshua è, lo ribadisco e me ne assumo la responsabilità, un mostro. Lo è in forma più disgustosa di Sharon, di Olmert, della Livni, poiché traveste la sua perfidia disumana da 'colomba'.
L'ipocrisia della tragedia israelo-palestinese è arrivata a livelli biblici di disgusto. E ricordo, per tornare in Italia, la posizione dei nostri intellettuali di sinistra, ‘colombe’ anch’essi, come esplicitata sul sito http://www.sinistraperisraele.it/home.asp?idtesto=185&idkunta=185, dove campeggia una commemorazione di Uri Grossman, figlio dell’altra ‘colomba’ israeliana di chiara fama, David Grossman, ucciso durante l’invasione israeliana del Libano del 2006. La morte di un figlio è sempre una tragedia immane, e quella morte lo è nel suo aspetto privato. Non oserei profferire parola su questo.
Ma vi è un aspetto pubblico di essa, che stride e che fa ribollire la coscienza: Uri Grossman era un soldato di un esercito invasore, criminale di guerra, oppressore da 60 anni di un intero popolo, e che in Libano ha massacrato oltre 1000 esseri umani innocenti, dopo averne massacrati 19.000 in identiche circostanze nel 1982 e molti altri nel 1978. Uri Grossman era una pedina di una impresa criminale, ma venne commemorato su tutti i media italiani, e ancora lo è sul sito dei nostri ‘intellettuali colombe’.
Dove sono le commemorazioni della montagna di Abdel, Baher, Fuad, Adnan, la cui vita spezzata a due anni, a tredici anni, a trent’anni, e senza aver mai indossato la divisa di un esercito criminale di guerra, ha lasciato il medesimo strazio e il medesimo buio di vivere di “papà, mamma, Yonatan e Ruti” Grossman? Dove sono? Dove?
"Far capire"... "malauguratamente è l'unico modo". Queste parole, Abrham B. Yehoshua, questi 'intellettuali' traditori, la difesa del sionismo e delle condotte militari di Israele dal 1948, sono un insulto a sei milioni di martiri ebrei dell'Olocausto nazista. Lo scrivo, lo dico e mi chiamo Paolo Barnard.
Paolo Barnard
22 gennaio 2009
Il disastro della finanza
Quale sarà la durata della recessione innescata dalla crisi bancaria globale? Quante persone saranno licenziate? Torneremo agli anni Trenta, quando la recessione degenerò nella Grande Depressione? Fin dove si spingerà la mano pubblica nel turare le falle della finanza privata già colpita dal suo primo suicidio eccellente, quello del miliardario tedesco Adolf Merckle che, travolto dalle speculazioni fallite, si è gettato sotto un treno? Come ne usciremo, alla fine? Nell’ottobre scorso, la Banca d’Inghilterra aveva stimato un impegno di 7 mila miliardi di dollari a carico dei Tesori nazionali per impedire il tracollo dei sistemi bancari. A novembre, soltanto gli Usa hanno aggiunto nuovi programmi d’acquisto di mutui tossici e obbligazioni illiquide per 800 miliardi da eseguire quest’anno. Il 13 gennaio, intervenendo alla London School of Economics, il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha avvertito che i costi dei salvataggi bancari in giro per il mondo sono destinati a crescere ancora. Nell’Occidente avanzato, produzione, commerci e servizi regrediscono intrecciando in una spirale perversa gli effetti della crisi finanziaria a quelli, ancor più drammatici, della crisi dell’economia reale. La Merrill Lynch si aspetta un arretramento dell’economia americana del 2,3% quest’anno e una parvenza di ripresa, non più dello 0,5%, nel 2010, mentre vede Eurolandia a meno 0,6% nel 2009 e a più 1,1% l’anno prossimo. Ma quando i credit default swaps sulle obbligazioni del Tesoro della Corona britannica, il massimo della sicurezza, tripla A per le agenzie di rating, pagano 108 punti base e McDonald’s, una sola A, paga 57 punti base, ogni previsione è un numero al lotto. Le domande sul futuro, pur naturali e diffuse, sono destinate a restare senza risposte attendibili, almeno per un po’. Al contrario, le esperienze fatte, se indagate, possono offrire interessanti suggestioni. Per cominciare, bisogna chiedersi com’è la finanza globale che è andata spavaldamente incontro al disastro, convinta che la rappresentazione dei risultati del lavoro contenuta nei suoi complicatissimi titoli fosse reale e consistente e non, invece, virtuale e drogata. Secondo il McKinsey Global Institute, nel 2007 la ricchezza finanziaria globale (azioni, obbligazioni private e pubbliche e depositi bancari) valeva 196 mila miliardi di dollari, 3,6 volte il prodotto interno lordo del pianeta. Pur scontando la svalutazione della moneta Usa, nell’ultimo anno «buono » tale ricchezza in larga misura cartacea era aumentata del 12% contro un incremento medio annuale che, a partire dal 1990, si aggirava sul 9%. A trainare questa espansione sempre più marcata dei valori, in un mondo dove il denaro, equivalente universale, circolava sempre più liberamente, sono stati il settore privato e le economie emergenti. Nel 1990, le obbligazioni statali rappresentavano il 18,6% delle attività finanziarie del mondo; diciotto anni dopo erano scese al 14,3%. Nel 2000 erano 11 i Paesi con attività finanziarie pari a 3,5 volte il prodotto interno lordo; nel 2007 gli 11 erano diventati 25, comprendendo nel novero anche giganti come Cina e Brasile. Gli ormai frenetici flussi finanziari tra un Paese e l’altro sono arrivati a 11.200 miliardi di dollari, con un incremento del 19% rispetto al 2006, e tra questi flussi la parte del leone la fanno i depositi e i prestiti sull’onda dell’internazionalizzazione di banche, assicurazioni, hedge funds e private equity. Privatizzazioni e globalizzazione hanno dunque favorito la finanziarizzazione dell’economia alimentata dal debito: un debito cross-border che, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, era per il 65% con scadenza inferiore ai 12 mesi, e dunque fragile perché facilmente revocabile. Particolare interessante, la dinamica del debito èmolto forte nei paesi più avanzati, con l’eccezione della Germania, mentre la crescita delle attività finanziarie delle economie emergenti dipende per lo più dal collocamento in Borsa delle loro grandi aziende più o meno a partecipazione statale. Negli Stati Uniti, epicentro di tutto, la bolla finanziaria è stata gonfiata della crescita prolungata dei prezzi delle azioni e delle case nonché dall’aumento del deficit della bilancia commerciale che rappresenta la faccia imperiale dell’aumento del prodotto interno lordo pro capite (noi consumiamo e voi pagate). Due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, hanno constatato come queste tendenze si siano sempre manifestate nell’incubazione delle principali crisi bancarie degli ultimi trent’anni: Spagna (1977), Norvegia (1987), Finlandia e Svezia (1991), Giappone (1992). Negli Stati Uniti, semmai, non si è registrata l’impennata del debito pubblico prima della crisi, ma questo potrebbe spiegarsi con l’accortezza di nasconderne una parte sotto etichette formalmente private come Fannie Mae e Freddie Mac a dimostrazione che il gioco delle tre carte non si fa soltanto a Napoli. Se dunque l’incubazione è stata simile, quali sono le costanti negli esiti delle crisi? Partiamo dal valore delle case, che da confortevole rifugio sono diventate una trappola mortale. Nelle 22 crisi esaminate da Reinhart e Rogoff, la caduta dei prezzi degli immobili dai massimi ai minimi al netto dell’inflazione èmediamente del 35,5% al netto dell’inflazione e il declino dura 6 anni. Più pronunciato ma meno persistente è il crollo reale delle quotazioni azionarie: mediamente è del 55,9% e si prolunga per 3,4 anni. Il tasso di disoccupazione aumenta di 7 punti percentuali e il declino va avanti per 4,8 anni. Queste tendenze parziali si riflettono in un andamento del Pil, che arretra di 9,3 punti e torna a crescere dopo un anno e nove mesi. Nel suo ultimo World Economic Outlook, il Fondo monetario internazionale ha addirittura comparato 113 episodi di crisi finanziaria in 17 paesi svi luppati, sempre negli ultimi trent’anni. E’ emerso che solo 31 volte le crisi hanno generato recessioni vere e proprie e solo in un numero ancor minore di casi, 17 volte per la precisione, le recessioni sono state preparate da una crisi bancaria. In questi ultimi casi la durata e la profondità delle crisi sono state più che doppie rispetto alle recessioni normali (7,6 trimestri di durata media contro 3,1 trimestri; perdita cumulata di Pil del 19,8% rispetto a un 5,4% se non c’è crisi bancaria). Nessuna di queste crisi, tuttavia, ha avuto l’estensione geografica di quella in corso. Negli Stati Uniti, in 18 mesi di crisi finanziaria, l’indice Dow Jones ha bruciato il 40%, i prezzi delle abitazioni il 28% e nel 2008, anno nel quale complessivamente il Pil è aumentato di circa un punto, oltre 2,5 milioni di persone hanno perso il lavoro. Quali saranno le nuove percentuali a metà 2010 quando, a dar retta a Merrill Lynch piuttosto che al Fondo monetario internazionale l’andamento del Pil dovrebbe invertire la tendenza? La reazione di Barack Obama si fonda su un aumento della spesa, che si aggiunge al costo delle manovre dell’ultimo Bush. Stiamo parlando di 800 miliardi di dollari di stimolo all’economia oltre la cifra analoga che la Federal Reserve è già impegnata a spendere a sostegno delle banche. Il presidente eletto eredita un Paese che ha un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di prodotto interno lordo di 14.412. Un debito pari al 359,7% della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2009 la componente pubblica di questo debito è destinata a aumentare allo scopo, se non altro, di contenere quella privata consentendo a famiglie e imprese di sopravvivere. E già oggi, a seconda di come si effettua il conteggio, il debito pubblico americano avvicina o addirittura supera il prodotto interno lordo. Come segnalano Reinhart e Rogoff, del resto, nei tre anni successivi alle crisi bancarie passate il debito pubblico è aumentato dell’ 86%, perché non è con le pur necessarie manovre sui tassi, effettuate dalle banche centrali, che si superano queste crisi così gravi, ma con la spesa pubblica fatalmente finanziata con il debito pubblico. Se però si guarda all’esperienza degli Stati Uniti della Grande Depressione si dovrà andare oltre le rilevazioni dei due economisti. Perché quando, nel 1941, il prodotto interno lordo espresso in moneta corrente tornò finalmente ai livelli pre-crisi del 1929, il debito totale americano si era dimezzato. E tutti sanno che esistono solo quattro modi per tagliare drasticamente un debito: l’insolvenza, la bancarotta, l’inflazione e la cancellazione del debito mediante un Giubileo di biblicamemoria come ironicamente ricorda Niall Ferguson sul Financial Times o attraverso la conversione dei debiti in azioni, come suggeriva Guido Carli all’Italia degli anni Settanta. di Massimo Mucchetti - 20/01/2009 |
Israele è riuscito a perdere di nuovo?
Il quotidiano Haaretz ha riferito oggi che gli alti ufficiali della IDF “credono che Israele dovrebbe sforzarsi di raggiungere un immediato cessate il fuoco con Hamas e non estendere la propria offensiva contro i gruppi islamici palestinesi di Gaza”. Ciò non dovrebbe essere per noi una grossa sorpresa. Per quanto Israele abbia dimostrato oltre ogni dubbio di essere capace di compiere un genocidio su larga scala, ha anche dimostrato che le sue forze militari non sono in grado di dare una risposta alla resistenza islamica. I capi militari israeliani hanno anche ammesso che “Israele ha già ottenuto diversi giorni fa tutto ciò che poteva ottenere a Gaza”. La IDF, a quanto sembra, ha esaurito il suo compito a Gaza. Ha trasformato i suoi quartieri in mucchi di macerie. Ha anche massacrato, senza sosta, la sua popolazione civile alla luce del sole per mezzo di attacchi aerei e dalle navi da guerra. Le immagini dei proiettili al fosforo bianco che cadono su scuole e ospedali fanno ora parte della nostra memoria collettiva. I carri armati che sparano contro scuole piene di rifugiati in fuga dal bombardamento delle loro case rappresentano adesso l’immagine associata al soldato israeliano; eppure, nonostante questo, Israele non è riuscito a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi. Devo ammettere che ci vuole un talento speciale per fare il generale israeliano. Per quanto bravi essi siano nel compiere crimini di guerra, in qualche modo riescono a fallire in ogni altra cosa. All’inizio i politici israeliani avevano giurato di distruggere Hamas, ma poi avevano abbassato le aspettative, promettendo soltanto di distruggere la capacità di Hamas di lanciare razzi e rassicurando i loro eccitati elettori israeliani che questa volta lo Stato ebraico avrebbe combattuto fino alla fine. A quanto pare le loro promesse sono state ancora una volta tradite. Hamas è ancora lì; il sostegno di cui gode nelle strade palestinesi è più forte che mai. E non solo nelle strade palestinesi. Il messaggio di sfida di Hamas si sta diffondendo in tutto il mondo musulmano e oltre. La scorsa settimana sono stato ad una manifestazione a Londra insieme ad altri 100.000 partecipanti. Il sostegno a favore di Hamas era dappertutto. Era su cartelli, bandiere, striscioni e altoparlanti. Non solo Hamas è ben lungi dall’essere sconfitta, ma la sua capacità di lanciare razzi appare immutata. Giorno dopo giorno i combattenti di Hamas riescono a ricordare agli israeliani di Ashdod, Ashkelon e Sderot che in questo momento stanno vivendo su terra palestinese trafugata. Date ad Hamas il tempo necessario e il suo messaggio balistico sarà portato in ogni angolo della Palestina rubata. Israele è alla disperata ricerca di una exit strategy. Oggi ho saputo che il Ministro della Difesa Barak ha chiesto un cessate il fuoco di una settimana per ragioni umanitarie. Vi prego, non restate a bocca aperta, il noto sterminatore di massa non ha cambiato pelle tutto d’un tratto. Essendo un generale veterano, Barak capisce molto bene che i suoi soldati a terra hanno bisogno di una pausa e ne hanno bisogno adesso. Essendo radunati tutti insieme in poche zone devastate e senza riparo, sono adesso esposti ai cecchini e al fuoco dei mortai di Hamas. Negli ultimi giorni tra le forze israeliane si è registrato un numero crescente di perdite. Il tentativo di portare la battaglia nei quartieri di Gaza si è scontrato con una resistenza durissima. L’esercito israeliano si è impantanato ancora una volta. Se questo non bastasse, tra pochi giorni Obama si insedierà alla Casa Bianca e gli israeliani non sono del tutto convinti che il nuovo presidente americano continuerà a sostenere ciecamente la loro strategia omicida. Il Ministro della Difesa Barak capisce che la sua finestra di opportunità potrebbe essere sul punto di chiudersi. Capisce che i soldati della IDF potrebbero doversi spingere dentro le periferie di Gaza senza raggiungere nessuno degli obiettivi militari della guerra. Barak ha bisogno di qualche giorno di cessate il fuoco per creare una nuova realtà sul terreno. Ovviamente preferisce nascondersi dietro il pretesto umanitario. E’ molto più semplice che ammettere che la IDF, ancora una volta, è stata colta impreparata. Gli aiutanti di Olmert, comunque, sono stati abbastanza stupidi da ammettere la menzogna. Pare che uno di loro stamattina abbia attaccato Barak dicendo che “Hamas osserva la scena e ascolta le voci, questi commenti sono un colpo in canna per Hamas e i suoi leader”. Per come stanno le cose, i soldati della IDF sono ora allo sbando dentro Gaza. Non fraintendetemi, sono ancora in grado di spargere morte e compiere carneficine, ma non possono vincere questa guerra. Le Forze Aeree Israeliane hanno esaurito i bersagli “militari” una settimana fa e l’artiglieria si trova probabilmente di fronte alla stessa situazione. Dalle notizie che arrivano risulta evidente che non appena i soldati israeliani escono dai veicoli corazzati e dai carri armati Merkava si ritrovano alla mercè di Hamas. Ho letto oggi su Ynet che alcuni soldati della IDF hanno dichiarato: “Non riusciamo a vedere il nemico”, “veniamo colpiti senza sapere da chi e come”. Per come stanno le cose, Hamas sta diventando un simbolo dell’ostinazione eroica. I suoi combattenti a terra lottano quasi a mani nude contro la più micidiale tecnologia americana. Allo stesso modo, la leadership politica di Hamas è riuscita a proporsi come chiave di ogni possibile soluzione dell’attuale conflitto. La speranza che Hamas sarebbe stato rovesciato o che ne sarebbe uscito screditato si è rivelata essere solo l’ennesimo sogno orgasmico degli ebrei. Hamas sta diventando ora un’entità politica largamente accettata dalla comunità internazionale. E’ visto come l’ingrediente primario di ogni possibile risoluzione. Israele, dall’altro lato, è ora visto per ciò che è realmente, uno Stato assassino e criminale dedito a crimini di genocidio della peggior specie. Tuttavia c’è un’altra realtà che dobbiamo tenere in mente. La devastazione che Israele si sta lasciando dietro a Gaza è orribile. Ha raso al suolo interi quartieri, ha colpito col fosforo bianco zone densamente popolate. Come se non bastasse, le tonnellate di bombe bunker buster che Israele ha continuato a usare notte e giorno hanno danneggiato le fondamenta di ogni edificio di Gaza e viene da chiedersi se le case di Gaza rimaste in piedi saranno ancora sicure per viverci. I rappresentanti dell’Unione Europea hanno sollevato oggi la questione, chiedendosi chi pagherà per la ricostruzione delle città, dei campi e dei villaggi che sono andati distrutti. In un mondo ispirato a principi etici ideali, Israele dovrebbe lasciare che gli abitanti di Gaza tornassero alla loro terra. Ma Israele e l’etica sono come rette parallele. In qualche modo non s’incontrano mai. Per quanto sia chiaro che i palestinesi torneranno alla loro terra, non sarà Israele a dare il benvenuto all’inevitabile ritorno dei palestinesi. Qualcuno dovrà ricostruire Gaza e l’unico nome che viene in mente è quello di Hamas, partito democraticamente eletto. Un così grande progetto, se gestito da Hamas, sarà la giusta risposta alla guerra criminale di Israele e ai suoi obiettivi di sterminio. di Gilad Atzmon - |
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26 gennaio 2009
Yehoshua: un insulto a 6 milioni di martiri
Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l 'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.
A.B.Y. "Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare."
Arafat riconobbe Israele nel 1993, agì fermamente per reprimere Hamas (come testimoniò Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti Shab'ak israeliani, nel 1998) e cosa ottenne? Barak, Clinton e poi Sharon lo distrussero. Hamas ha dichiarato ufficialmente nel luglio del 2006 con una lettera al Washington Post di riconoscere il diritto degli ebrei all'esistenza in Palestina fianco a fianco dei palestinesi. Nessun media italiano o europeo ha ripreso la notizia. Nessuno.
A.B.Y. "... I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco..."
Respinto l'occupazione? Sono in una gabbia che li affama, che li fa morire ai posti di blocco, che gli nega l'essenziale per vivere. Di nuovo Dugard: "A tutti gli effetti, a seguito del ritiro israeliano, Gaza è divenuta un territorio chiuso, imprigionato e ancora occupato".
A.B.Y. "Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi seguaci (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile..."
Questo è il razzismo di questi assassini vestiti da colombe. Vogliono 'educare' gli 'untermenschen' arabi a frustate, "fargli capire", come usava ‘far capire' nei campi di cotone della Louisiana 200 anni fa o nel ghetto di Varsavia, pochi decenni fa. 'Fargli capire' le cose ammazzando i loro bambini? Le loro donne? Questo si chiama massacro, è un crimine contro l'umanità che viola le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga. Questo Abrham B. Yehoshua è un mostro, e lui e i suoi colleghi non hanno appreso alcunché dal nazismo, anzi, hanno solo appreso come replicarlo.
"Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio."
Su una porzione del suo territorio... Non c'è limite all'abominio intellettuale di questo scrittore. Gli 'untermenschen' arabi devono essere grati di poter fare la fame su un fazzoletto di terra privo di ogni sbocco economico/commerciale e che è una frazione di quel 22% delle loro terre che gli è rimasto dopo che Israele gli ha rubato il 78% a forza di massacri e pulizia etnica.
"Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni..."
Come aver detto agli etiopi nel 1984: "Se imparaste a coltivare la terra invece che chiedere l'elemosina all'ONU...".
Questo Abrham B. Yehoshua è, lo ribadisco e me ne assumo la responsabilità, un mostro. Lo è in forma più disgustosa di Sharon, di Olmert, della Livni, poiché traveste la sua perfidia disumana da 'colomba'.
L'ipocrisia della tragedia israelo-palestinese è arrivata a livelli biblici di disgusto. E ricordo, per tornare in Italia, la posizione dei nostri intellettuali di sinistra, ‘colombe’ anch’essi, come esplicitata sul sito http://www.sinistraperisraele.it/home.asp?idtesto=185&idkunta=185, dove campeggia una commemorazione di Uri Grossman, figlio dell’altra ‘colomba’ israeliana di chiara fama, David Grossman, ucciso durante l’invasione israeliana del Libano del 2006. La morte di un figlio è sempre una tragedia immane, e quella morte lo è nel suo aspetto privato. Non oserei profferire parola su questo.
Ma vi è un aspetto pubblico di essa, che stride e che fa ribollire la coscienza: Uri Grossman era un soldato di un esercito invasore, criminale di guerra, oppressore da 60 anni di un intero popolo, e che in Libano ha massacrato oltre 1000 esseri umani innocenti, dopo averne massacrati 19.000 in identiche circostanze nel 1982 e molti altri nel 1978. Uri Grossman era una pedina di una impresa criminale, ma venne commemorato su tutti i media italiani, e ancora lo è sul sito dei nostri ‘intellettuali colombe’.
Dove sono le commemorazioni della montagna di Abdel, Baher, Fuad, Adnan, la cui vita spezzata a due anni, a tredici anni, a trent’anni, e senza aver mai indossato la divisa di un esercito criminale di guerra, ha lasciato il medesimo strazio e il medesimo buio di vivere di “papà, mamma, Yonatan e Ruti” Grossman? Dove sono? Dove?
"Far capire"... "malauguratamente è l'unico modo". Queste parole, Abrham B. Yehoshua, questi 'intellettuali' traditori, la difesa del sionismo e delle condotte militari di Israele dal 1948, sono un insulto a sei milioni di martiri ebrei dell'Olocausto nazista. Lo scrivo, lo dico e mi chiamo Paolo Barnard.
Paolo Barnard
22 gennaio 2009
Il disastro della finanza
Quale sarà la durata della recessione innescata dalla crisi bancaria globale? Quante persone saranno licenziate? Torneremo agli anni Trenta, quando la recessione degenerò nella Grande Depressione? Fin dove si spingerà la mano pubblica nel turare le falle della finanza privata già colpita dal suo primo suicidio eccellente, quello del miliardario tedesco Adolf Merckle che, travolto dalle speculazioni fallite, si è gettato sotto un treno? Come ne usciremo, alla fine? Nell’ottobre scorso, la Banca d’Inghilterra aveva stimato un impegno di 7 mila miliardi di dollari a carico dei Tesori nazionali per impedire il tracollo dei sistemi bancari. A novembre, soltanto gli Usa hanno aggiunto nuovi programmi d’acquisto di mutui tossici e obbligazioni illiquide per 800 miliardi da eseguire quest’anno. Il 13 gennaio, intervenendo alla London School of Economics, il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha avvertito che i costi dei salvataggi bancari in giro per il mondo sono destinati a crescere ancora. Nell’Occidente avanzato, produzione, commerci e servizi regrediscono intrecciando in una spirale perversa gli effetti della crisi finanziaria a quelli, ancor più drammatici, della crisi dell’economia reale. La Merrill Lynch si aspetta un arretramento dell’economia americana del 2,3% quest’anno e una parvenza di ripresa, non più dello 0,5%, nel 2010, mentre vede Eurolandia a meno 0,6% nel 2009 e a più 1,1% l’anno prossimo. Ma quando i credit default swaps sulle obbligazioni del Tesoro della Corona britannica, il massimo della sicurezza, tripla A per le agenzie di rating, pagano 108 punti base e McDonald’s, una sola A, paga 57 punti base, ogni previsione è un numero al lotto. Le domande sul futuro, pur naturali e diffuse, sono destinate a restare senza risposte attendibili, almeno per un po’. Al contrario, le esperienze fatte, se indagate, possono offrire interessanti suggestioni. Per cominciare, bisogna chiedersi com’è la finanza globale che è andata spavaldamente incontro al disastro, convinta che la rappresentazione dei risultati del lavoro contenuta nei suoi complicatissimi titoli fosse reale e consistente e non, invece, virtuale e drogata. Secondo il McKinsey Global Institute, nel 2007 la ricchezza finanziaria globale (azioni, obbligazioni private e pubbliche e depositi bancari) valeva 196 mila miliardi di dollari, 3,6 volte il prodotto interno lordo del pianeta. Pur scontando la svalutazione della moneta Usa, nell’ultimo anno «buono » tale ricchezza in larga misura cartacea era aumentata del 12% contro un incremento medio annuale che, a partire dal 1990, si aggirava sul 9%. A trainare questa espansione sempre più marcata dei valori, in un mondo dove il denaro, equivalente universale, circolava sempre più liberamente, sono stati il settore privato e le economie emergenti. Nel 1990, le obbligazioni statali rappresentavano il 18,6% delle attività finanziarie del mondo; diciotto anni dopo erano scese al 14,3%. Nel 2000 erano 11 i Paesi con attività finanziarie pari a 3,5 volte il prodotto interno lordo; nel 2007 gli 11 erano diventati 25, comprendendo nel novero anche giganti come Cina e Brasile. Gli ormai frenetici flussi finanziari tra un Paese e l’altro sono arrivati a 11.200 miliardi di dollari, con un incremento del 19% rispetto al 2006, e tra questi flussi la parte del leone la fanno i depositi e i prestiti sull’onda dell’internazionalizzazione di banche, assicurazioni, hedge funds e private equity. Privatizzazioni e globalizzazione hanno dunque favorito la finanziarizzazione dell’economia alimentata dal debito: un debito cross-border che, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, era per il 65% con scadenza inferiore ai 12 mesi, e dunque fragile perché facilmente revocabile. Particolare interessante, la dinamica del debito èmolto forte nei paesi più avanzati, con l’eccezione della Germania, mentre la crescita delle attività finanziarie delle economie emergenti dipende per lo più dal collocamento in Borsa delle loro grandi aziende più o meno a partecipazione statale. Negli Stati Uniti, epicentro di tutto, la bolla finanziaria è stata gonfiata della crescita prolungata dei prezzi delle azioni e delle case nonché dall’aumento del deficit della bilancia commerciale che rappresenta la faccia imperiale dell’aumento del prodotto interno lordo pro capite (noi consumiamo e voi pagate). Due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, hanno constatato come queste tendenze si siano sempre manifestate nell’incubazione delle principali crisi bancarie degli ultimi trent’anni: Spagna (1977), Norvegia (1987), Finlandia e Svezia (1991), Giappone (1992). Negli Stati Uniti, semmai, non si è registrata l’impennata del debito pubblico prima della crisi, ma questo potrebbe spiegarsi con l’accortezza di nasconderne una parte sotto etichette formalmente private come Fannie Mae e Freddie Mac a dimostrazione che il gioco delle tre carte non si fa soltanto a Napoli. Se dunque l’incubazione è stata simile, quali sono le costanti negli esiti delle crisi? Partiamo dal valore delle case, che da confortevole rifugio sono diventate una trappola mortale. Nelle 22 crisi esaminate da Reinhart e Rogoff, la caduta dei prezzi degli immobili dai massimi ai minimi al netto dell’inflazione èmediamente del 35,5% al netto dell’inflazione e il declino dura 6 anni. Più pronunciato ma meno persistente è il crollo reale delle quotazioni azionarie: mediamente è del 55,9% e si prolunga per 3,4 anni. Il tasso di disoccupazione aumenta di 7 punti percentuali e il declino va avanti per 4,8 anni. Queste tendenze parziali si riflettono in un andamento del Pil, che arretra di 9,3 punti e torna a crescere dopo un anno e nove mesi. Nel suo ultimo World Economic Outlook, il Fondo monetario internazionale ha addirittura comparato 113 episodi di crisi finanziaria in 17 paesi svi luppati, sempre negli ultimi trent’anni. E’ emerso che solo 31 volte le crisi hanno generato recessioni vere e proprie e solo in un numero ancor minore di casi, 17 volte per la precisione, le recessioni sono state preparate da una crisi bancaria. In questi ultimi casi la durata e la profondità delle crisi sono state più che doppie rispetto alle recessioni normali (7,6 trimestri di durata media contro 3,1 trimestri; perdita cumulata di Pil del 19,8% rispetto a un 5,4% se non c’è crisi bancaria). Nessuna di queste crisi, tuttavia, ha avuto l’estensione geografica di quella in corso. Negli Stati Uniti, in 18 mesi di crisi finanziaria, l’indice Dow Jones ha bruciato il 40%, i prezzi delle abitazioni il 28% e nel 2008, anno nel quale complessivamente il Pil è aumentato di circa un punto, oltre 2,5 milioni di persone hanno perso il lavoro. Quali saranno le nuove percentuali a metà 2010 quando, a dar retta a Merrill Lynch piuttosto che al Fondo monetario internazionale l’andamento del Pil dovrebbe invertire la tendenza? La reazione di Barack Obama si fonda su un aumento della spesa, che si aggiunge al costo delle manovre dell’ultimo Bush. Stiamo parlando di 800 miliardi di dollari di stimolo all’economia oltre la cifra analoga che la Federal Reserve è già impegnata a spendere a sostegno delle banche. Il presidente eletto eredita un Paese che ha un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di prodotto interno lordo di 14.412. Un debito pari al 359,7% della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2009 la componente pubblica di questo debito è destinata a aumentare allo scopo, se non altro, di contenere quella privata consentendo a famiglie e imprese di sopravvivere. E già oggi, a seconda di come si effettua il conteggio, il debito pubblico americano avvicina o addirittura supera il prodotto interno lordo. Come segnalano Reinhart e Rogoff, del resto, nei tre anni successivi alle crisi bancarie passate il debito pubblico è aumentato dell’ 86%, perché non è con le pur necessarie manovre sui tassi, effettuate dalle banche centrali, che si superano queste crisi così gravi, ma con la spesa pubblica fatalmente finanziata con il debito pubblico. Se però si guarda all’esperienza degli Stati Uniti della Grande Depressione si dovrà andare oltre le rilevazioni dei due economisti. Perché quando, nel 1941, il prodotto interno lordo espresso in moneta corrente tornò finalmente ai livelli pre-crisi del 1929, il debito totale americano si era dimezzato. E tutti sanno che esistono solo quattro modi per tagliare drasticamente un debito: l’insolvenza, la bancarotta, l’inflazione e la cancellazione del debito mediante un Giubileo di biblicamemoria come ironicamente ricorda Niall Ferguson sul Financial Times o attraverso la conversione dei debiti in azioni, come suggeriva Guido Carli all’Italia degli anni Settanta. di Massimo Mucchetti - 20/01/2009 |
Israele è riuscito a perdere di nuovo?
Il quotidiano Haaretz ha riferito oggi che gli alti ufficiali della IDF “credono che Israele dovrebbe sforzarsi di raggiungere un immediato cessate il fuoco con Hamas e non estendere la propria offensiva contro i gruppi islamici palestinesi di Gaza”. Ciò non dovrebbe essere per noi una grossa sorpresa. Per quanto Israele abbia dimostrato oltre ogni dubbio di essere capace di compiere un genocidio su larga scala, ha anche dimostrato che le sue forze militari non sono in grado di dare una risposta alla resistenza islamica. I capi militari israeliani hanno anche ammesso che “Israele ha già ottenuto diversi giorni fa tutto ciò che poteva ottenere a Gaza”. La IDF, a quanto sembra, ha esaurito il suo compito a Gaza. Ha trasformato i suoi quartieri in mucchi di macerie. Ha anche massacrato, senza sosta, la sua popolazione civile alla luce del sole per mezzo di attacchi aerei e dalle navi da guerra. Le immagini dei proiettili al fosforo bianco che cadono su scuole e ospedali fanno ora parte della nostra memoria collettiva. I carri armati che sparano contro scuole piene di rifugiati in fuga dal bombardamento delle loro case rappresentano adesso l’immagine associata al soldato israeliano; eppure, nonostante questo, Israele non è riuscito a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi. Devo ammettere che ci vuole un talento speciale per fare il generale israeliano. Per quanto bravi essi siano nel compiere crimini di guerra, in qualche modo riescono a fallire in ogni altra cosa. All’inizio i politici israeliani avevano giurato di distruggere Hamas, ma poi avevano abbassato le aspettative, promettendo soltanto di distruggere la capacità di Hamas di lanciare razzi e rassicurando i loro eccitati elettori israeliani che questa volta lo Stato ebraico avrebbe combattuto fino alla fine. A quanto pare le loro promesse sono state ancora una volta tradite. Hamas è ancora lì; il sostegno di cui gode nelle strade palestinesi è più forte che mai. E non solo nelle strade palestinesi. Il messaggio di sfida di Hamas si sta diffondendo in tutto il mondo musulmano e oltre. La scorsa settimana sono stato ad una manifestazione a Londra insieme ad altri 100.000 partecipanti. Il sostegno a favore di Hamas era dappertutto. Era su cartelli, bandiere, striscioni e altoparlanti. Non solo Hamas è ben lungi dall’essere sconfitta, ma la sua capacità di lanciare razzi appare immutata. Giorno dopo giorno i combattenti di Hamas riescono a ricordare agli israeliani di Ashdod, Ashkelon e Sderot che in questo momento stanno vivendo su terra palestinese trafugata. Date ad Hamas il tempo necessario e il suo messaggio balistico sarà portato in ogni angolo della Palestina rubata. Israele è alla disperata ricerca di una exit strategy. Oggi ho saputo che il Ministro della Difesa Barak ha chiesto un cessate il fuoco di una settimana per ragioni umanitarie. Vi prego, non restate a bocca aperta, il noto sterminatore di massa non ha cambiato pelle tutto d’un tratto. Essendo un generale veterano, Barak capisce molto bene che i suoi soldati a terra hanno bisogno di una pausa e ne hanno bisogno adesso. Essendo radunati tutti insieme in poche zone devastate e senza riparo, sono adesso esposti ai cecchini e al fuoco dei mortai di Hamas. Negli ultimi giorni tra le forze israeliane si è registrato un numero crescente di perdite. Il tentativo di portare la battaglia nei quartieri di Gaza si è scontrato con una resistenza durissima. L’esercito israeliano si è impantanato ancora una volta. Se questo non bastasse, tra pochi giorni Obama si insedierà alla Casa Bianca e gli israeliani non sono del tutto convinti che il nuovo presidente americano continuerà a sostenere ciecamente la loro strategia omicida. Il Ministro della Difesa Barak capisce che la sua finestra di opportunità potrebbe essere sul punto di chiudersi. Capisce che i soldati della IDF potrebbero doversi spingere dentro le periferie di Gaza senza raggiungere nessuno degli obiettivi militari della guerra. Barak ha bisogno di qualche giorno di cessate il fuoco per creare una nuova realtà sul terreno. Ovviamente preferisce nascondersi dietro il pretesto umanitario. E’ molto più semplice che ammettere che la IDF, ancora una volta, è stata colta impreparata. Gli aiutanti di Olmert, comunque, sono stati abbastanza stupidi da ammettere la menzogna. Pare che uno di loro stamattina abbia attaccato Barak dicendo che “Hamas osserva la scena e ascolta le voci, questi commenti sono un colpo in canna per Hamas e i suoi leader”. Per come stanno le cose, i soldati della IDF sono ora allo sbando dentro Gaza. Non fraintendetemi, sono ancora in grado di spargere morte e compiere carneficine, ma non possono vincere questa guerra. Le Forze Aeree Israeliane hanno esaurito i bersagli “militari” una settimana fa e l’artiglieria si trova probabilmente di fronte alla stessa situazione. Dalle notizie che arrivano risulta evidente che non appena i soldati israeliani escono dai veicoli corazzati e dai carri armati Merkava si ritrovano alla mercè di Hamas. Ho letto oggi su Ynet che alcuni soldati della IDF hanno dichiarato: “Non riusciamo a vedere il nemico”, “veniamo colpiti senza sapere da chi e come”. Per come stanno le cose, Hamas sta diventando un simbolo dell’ostinazione eroica. I suoi combattenti a terra lottano quasi a mani nude contro la più micidiale tecnologia americana. Allo stesso modo, la leadership politica di Hamas è riuscita a proporsi come chiave di ogni possibile soluzione dell’attuale conflitto. La speranza che Hamas sarebbe stato rovesciato o che ne sarebbe uscito screditato si è rivelata essere solo l’ennesimo sogno orgasmico degli ebrei. Hamas sta diventando ora un’entità politica largamente accettata dalla comunità internazionale. E’ visto come l’ingrediente primario di ogni possibile risoluzione. Israele, dall’altro lato, è ora visto per ciò che è realmente, uno Stato assassino e criminale dedito a crimini di genocidio della peggior specie. Tuttavia c’è un’altra realtà che dobbiamo tenere in mente. La devastazione che Israele si sta lasciando dietro a Gaza è orribile. Ha raso al suolo interi quartieri, ha colpito col fosforo bianco zone densamente popolate. Come se non bastasse, le tonnellate di bombe bunker buster che Israele ha continuato a usare notte e giorno hanno danneggiato le fondamenta di ogni edificio di Gaza e viene da chiedersi se le case di Gaza rimaste in piedi saranno ancora sicure per viverci. I rappresentanti dell’Unione Europea hanno sollevato oggi la questione, chiedendosi chi pagherà per la ricostruzione delle città, dei campi e dei villaggi che sono andati distrutti. In un mondo ispirato a principi etici ideali, Israele dovrebbe lasciare che gli abitanti di Gaza tornassero alla loro terra. Ma Israele e l’etica sono come rette parallele. In qualche modo non s’incontrano mai. Per quanto sia chiaro che i palestinesi torneranno alla loro terra, non sarà Israele a dare il benvenuto all’inevitabile ritorno dei palestinesi. Qualcuno dovrà ricostruire Gaza e l’unico nome che viene in mente è quello di Hamas, partito democraticamente eletto. Un così grande progetto, se gestito da Hamas, sarà la giusta risposta alla guerra criminale di Israele e ai suoi obiettivi di sterminio. di Gilad Atzmon - |
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