31 marzo 2011

Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare


Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.

L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.

Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.

Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?

C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.

Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.

Ma le cose stanno ben altrimenti.

La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.

Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.

E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.

Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.

Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.

Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.

Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.

Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.

È un problema dell’essere, non dell’amore.

Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.

Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.

Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.

A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.

Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.

È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».

Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.

Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.

Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.

A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.

Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.

In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.

Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.

Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.

È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.

Che fare, dunque?

Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.

Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.

A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.

Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.

Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.

Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.

Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.

di F. Lamendola

30 marzo 2011

Euro 2: la vendetta

http://www.euro.lt/documents/Euro%20brezinys_EC1.JPG

Ritorno ancora su un argomento che mi sta particolarmente a cuore visto che sono stato uno dei primi a parlarne in anticipo in tempi non sospetti, era infatti il 2008 quando spiegavo il Club Med e a che cosa ci avrebbe portato. La scorsa estate ho scritto il saggio economico intitolato “L’Europa sé rotta” ma pare che ancora adesso la maggior parte dei piccoli risparmiatori ed investitori italiani non si renda conto di che rischi gravino sui loro portafogli e sullo scenario macroeconomico europeo. Nello specifico il cosiddetto rischio di spaccatura monetaria all’interno dell’area valutaria dell’Unione Europea. Sostanzialmente tutto questo è rappresentato dalla Teoria di Euro 2 ovvero l’emersione o la creazione di una seconda divisa in Europa che venga adottata dai paesi periferici.


La crisi dei PIGS (ho scoperto che ci sono persone che ancora non sanno che cosa sono) è in realtà la crisi dell’euro ovvero di una moneta imposta dall’alto a 17 economie che tra di loro hanno ben poco in comune. La moneta per ogni paese è una potente arma di difesa in momenti di turbolenza o difficoltà finanziaria, rappresenta una sorta di valvola a pressione per raffreddare l’economia o per rilanciarla in momenti di profonda contrazione. Nello specifico aver obbligato paesi come il nostro ad usare una divisa troppo forte per un economia troppo debole è stato una follia. Se ne stanno rendendo conto troppo tardi adesso le autorità istituzionali, nonostante i recenti moniti di prestigiose personalità dello stesso mondo accademico, vedi Roubini, Stiglitz, Fitoussi, Attali e Zingales.


Per chi non lo sapesse vi sono centinaia di operatori istituzionali che stanno covando in silenzio operazioni di speculazione finanziaria sul default dell’euro o sulla sua dipartita: persino Warren Buffet ha sentenziato la fine prossima della moneta unica a fronte delle continue e ripetute difficoltà di Spagna e Portogallo. La crisi dei PIGS ha fatto emergere una insostenibile architettura finanziaria tra i paesi virtuosi dell’Europa del Nord e quelli in quarantena finanziaria dell’Europa Periferica: in poche parole il debito dei paesi deboli è in mano per la maggior parte ai paesi sani e forti (si fa per dire, infatti anche la Germania molto presto si troverà a dover aiutare altri partner europei per evitare di perdere la leadership politica in Europa).Il Giappone, con quello che ha recentemente subito, non preoccupa nessuno (almeno dal punto di vista economico) in quanto il 95% del suo debito pubblico è in mano agli stessi giapponesi, mentre Francia, Germania ed Inghilterra detengono percentuali rilevanti del debito pubblico spagnolo, greco, irlandese, italiano e cosi via. Pertanto le sorti del debitore sono nelle mani del creditore: il peggior scenario ! Ponete pertanto la massima attenzione: quello che un tempo poteva essere un investimentio risk free come un titolo di stato europeo oggi potrebbe essere uno dei primi investimenti a prendere un bagno di sangue. Lo stesso Cameron, incalzato successivamente dalla Merkel, ha più volte ribadito che non è possibile continuare a far pagare ai soli contribuenti questa bomba con la miccia accesa, in più occasioni qualcuno ha paventato l’idea del default parziale.

Con questo termine si intende il rimborso non integrale dei titoli di stato alla loro naturale scadenza. Recentemente la Banca J.P. Morgan ha ipotizzato per il breve periodo la possibilità di default parziale dal 5% al 25%, a seconda dello scenario, per i paesi PIGS (mettendoci dentro anche l’Irlanda e l’Inghilterra). Evitate pertanto di massificare il vostro portafoglio con solo titoli di stato aerea euro, specie se a tasso fisso e con scadenze molto lunghe, preferite piuttosto le emissioni con tasso ancorato all’inflazione. Se poi si volesse scegliere il titolo di stato più sicuro al mondo in questo momento allora si dovrebbe puntare su quelli norvegesi: strana fatalità, infatti la Norvegia è un paese che di entrare in Europa proprio non ne vuol sentire.
di Eugenio Benetazzo

29 marzo 2011

PIU’ NIENTE DA RUBARE




Michael Betancourt è un intellettuale: usa parole come semiosi e, di fatto, sa esattamente che cosa significano. Parlando del Rapporto Keiser, ha fatto alcune rilevazioni interessanti sulla pila di effimeri digitali in cui si è trasformato il sistema finanziario globale e gran parte dell'economia. A partire dal punto 20:52 in poi, Michael dice questo sulle iniziative in corso nei mercati finanziari di tutto il mondo:

Non vorrei necessariamente dire "rubare" ... semplicemente non mi pare che "rubare" sia necessariamente il verbo giusto per definirlo. E`qualcosa di diverso. Rubare [implica] che vi sia una sorta di bene materiale che è stato rubato ... che la moneta sia stata svalutata implica che, se non avessimo fatto questo, la valuta sarebbe solvente, e tutto il problema qui è che la stessa moneta è scollegata da qualsiasi tipo di valore fisico.

Esiste come un debito nei confronti della produzione futura, piuttosto che una riserva di valore. E tutto ciò si riduce alle basi immateriali in cui stiamo ora vivendo. Quindi, sì, in un certo senso si potrebbe dire che stanno rubando, [ma] in un altro senso si potrebbe dire che non lo stanno facendo perché non c'è niente da rubare ... La realtà è che si tratta di un sistema insostenibile, e che l'inevitabilità del suo crollo è stata lì fin dal principio, poiché l'intero sistema è basato su una valuta che a sua volta non si basa su niente - esiste solo in relazione alle altre valute. ..


Sui manifestanti in Wisconsin e altrove:

Ciò che rende il tutto ancora più perverso è che ciò per cui stanno lottando è il proseguimento della loro trappola ... I poteri che sono attualmente in azione e che causano queste rivolte, proteste, ribellioni ... stanno lottando per la propria sopravvivenza, e il cambiamento che sta avvenendo è perverso perché ci stiamo dirigendo verso un collasso, ed è quasi inevitabile che avremo questo crollo, ancora una volta, ad un certo punto. In un certo senso credo che sia già iniziato con il congelamento del credito nel 2009. Il tentativo di stampare la nostra via di fuga non provocherà necessariamente l'iperinflazione (anche se ci sono persone che stanno dicendo che lo farà) così tanto che il risultato sarà una rivalutazione completa del sistema, attraverso la quale arriveremo a qualche altro, nuovo equilibrio. Parte del problema nell' arrivarci è che ci sono forze che combattono su chi ha il maggior numero di questi oggetti essenzialmente immateriali, questa moneta immateriale. Quello che accadrà è che a un certo punto ne avranno la maggior parte (e ci stiamo già arrivando, se si guarda ad una qualsiasi delle cifre su chi ha la ricchezza e chi no). Ciò che succederà quando si avrà una consistente concentrazione è che l'intero sistema si bloccherà come ha fatto nel 2009. Questo perché l'equilibrio e il mantenimento e la sopravvivenza di questo sistema dipendono dalla circolazione di questi beni immateriali. Non appena inizieranno ad essere accumulati, o non appena le persone che li hanno inizieranno a reinvestirli in qualche sorta di bene materiale, entrambe queste azioni possono innescare un crollo immediato, non necessariamente nel senso di una corsa in banca o di panico, ma nel senso che il sistema non può più fattivamente mantenere il proprio equilibrio ... va verso uno squilibrio sempre più grande, perché questo è lo stato fondamentale per questo tipo di situazione, dove vi è una grande produzione immateriale rispetto a quella materiale limitata.

Sarei tendenzialmente d'accordo. Il valore delle attività finanziarie si fonda sulla promessa di una futura produzione industriale, che non riuscirà a concretizzarsi per la carenza di molteplici risorse chiave. Nell'edizione aggiornata del Reinventing Collapse (che è prevista in stampa la prossima settimana), cerco di arrivare alla stessa conclusione di Michael, sforzandomi di evitare paroloni come "squilibrio":

La misura in cui diamo valore ai soldi dipende dal nostro grado di fiducia nell'economia. In un primo momento, mentre l'economia comincia a crollare, cominciamo ad accumulare soldi, per fare in modo di non rimanere senza. Poi, mentre l'economia continua a deperire, interruzioni di fornitura e impennate dei prezzi portano alcuni di noi a capire improvvisamente che potremmo non essere in grado di accedere alle cose di cui abbiamo bisogno, per molto più a lungo, per non parlare del costo, e che essere a corto di denaro non è fatale come certamente lo è essere a corto di cibo, carburante e altri beni. E allora iniziamo a convertire il nostro patrimonio cartaceo in beni materiali che riteniamo potrebbero essere più utili. Poco dopo tutti si rendono conto che i gettoni che possiedono non valgono più granché. È questa consapevolezza, più di ogni altra cosa, che rende il gettone istantaneamente senza valore. [RC 2.0 p. 54-55]

Negli ultimi mesi ho avuto molte occasioni di passeggiare nel quartiere finanziario di Boston e osservare tutti i topi da laboratorio in giacca e cravatta il cui compito è quello di spingere i pulsanti per cercare di stimolare il centro del piacere cerebrale di qualche benestante. La stragrande maggioranza di ciò che commerciano deriva dal debito garantito da una produzione futura che non esiste. A che punto il piacere del loro patrono varcherà la soglia del dolore? Vedremo gli über-ricchi immolarsi sui roghi dei loro soldi ormai senza valore, solo per sfuggire all'angoscia di essere espropriati dei loro possedimenti fantasma? Auguro a tutti di sopravvivere con la loro precaria sanità mentale intatta, ma non posso fare a meno di auspicarmi un falò delle vanità che lasci alle nostre spalle questo lungo episodio di auto-digitazione finanziaria senza respiro.

Fonte: http://cluborlov.blogspot.com

27 marzo 2011

La Ue prigioniera delle Banche


Il vertice europeo sul Fondo Salva Stati e sul patto di stabilità si chiude con un rinvio che lascia tutto com’è. E intanto l’annunciatissimo crollo a catena dei Piigs prosegue come da copione: dopo la Grecia l’Irlanda, e dopo l’Irlanda il Portogallo


Passata di fatto in secondo piano per le cronache concentrate sulla ennesima guerra di aggressione alla Libia, mascherata naturalmente da intervento umanitario, la situazione economica dell'Europa, e in particolare di alcuni Paesi che ne fanno parte, sta attraversando una fase di conferme di quanto andiamo scrivendo da mesi, anzi da anni.

I fatti recenti, come ampiamente previsto da pochi (e tenuto nascosto da tutti gli altri) stanno purtroppo confermando ciò che anche un ragazzino di prima media avrebbe potuto capire: è impossibile risolvere una situazione economica debitoria accendendo un ulteriore debito, peraltro con interessi superiori a quelli della situazione partenza, per non parlare del fatto che non si rimuove la causa principale dei debiti crescenti.

Bastino tre sole notizie delle ultime ore prima di fare qualche, semplice, riflessione.

La prima è la parabola discendente dello stato economico del Portogallo, terza vittima sacrificale, dopo Irlanda e Grecia, nel copione già scritto in merito ai paesi Piigs della nostra Europa. Le dimissioni del premier Socrates, dopo la bocciatura subita nel parlamento portoghese in seguito alla presentazione dell'ennesimo piano di austerità - il quarto, solo nell'ultimo anno - riflette il fatto che la situazione è veramente molto grave. Film già visto, purtroppo: il popolo giustamente non ne vuole sapere di pagare per una crisi causata da altri, per giunta speculatori, scende in piazza a manifestare contro il piano di tagli previsto, e l'opposizione al governo di Lisbona cavalca l'onda della protesta per bloccare di fatto l'operato del governo in carica. Naturalmente senza avere in tasca lo straccio di una soluzione alternativa per rispondere ad attacchi finanziari e speculativi che piovono da altre parti del mondo sull'Europa intera. Il Portogallo deve essere costretto ad accettare gli aiuti imposti dall'Fmi ai tassi usurai di cui Grecia e Irlanda sono già consci. Non ci sono altre strade - così vogliono far credere - per uscire dalla crisi...

Altra notizia: oltre alla situazione in Grecia – dove aumenta la povertà e si tagliano servizi giorno per giorno, e malgrado questo salgono i rendimenti dei titoli pubblici, la popolazione è in collera costante e montante – oggi scopriamo che anche l'Irlanda (ne ha scritto ieri Stasi proprio qui) ha nuova e ulteriore necessità di chiedere eaccettare altri prestiti. Quelli ricevuti non bastano. Non sono bastati...

Terza notizia: il vertice recente di Bruxelles, che avrebbe dovuto decidere sul fondo salva stati e sul patto di stabilità, ha semplicemente rimandato la decisione. Naturalmente i problemi relativi alla situazione in Libia hanno pesato sull’incontro europeo, ma come chiamare, se non guerra, anche ciò che sta succedendo a livello economico nel vecchio continente? Eppure, a questo proposito, per ora c’è il silenzio. Mentre un numero sempre maggiore di popoli d’Europa inizia a urlare sempre di più.

Ergo? Tre cose in rapida successione. La prima: inesorabile, la crisi continua a montare, dunque gli opinionisti, i politici e gli analisti embedded stanno prendendo per i fondelli la popolazione di tutta Europa. Non solo non stiamo uscendo dalla crisi, non solo ci siamo ancora dentro, ma passo passo si sta procedendo ulteriormente verso il baratro. La seconda: gli aiuti imposti ai vari paesi non solo non sono risolutivi delle situazioni debitorie degli stessi, ma addirittura aggravano la situazione, tanto che, come nel più classico e perverso sistema dei debiti sempre crescenti, i paesi già aiutati hanno ulteriore bisogno di aiuto. La terza: in Europa non si ha idea di come cercare di risolvere la situazione. Si è alla mercé della finanza internazionale e non si ha lo straccio di una strategia, economica, politica, ideologica, filosofica, per sottrarsi al terribile gioco a perdere che questo modello impone a tutti i popoli che continuano a farne parte.

I popoli d'Europa, per quel che ci riguarda da vicino, brancolano nel buio, guidati da una classe dirigente inutile, incapace, colpevolmente prona alle Banche e all’Fmi.

di Valerio Lo Monaco

26 marzo 2011

La baia di Minamata: un disastro ambientale dimenticato

Quello che sta succedendo in Giappone in questi giorni riporta alla mente fatti lontani che hanno segnato la memoria del Paese. Nel 1956 gli sversamenti di acque reflue contaminate al mercurio dell’industria chimica Chisso Corporation hanno prodotto uno dei peggiori disastri ambientali che la storia ricordi. Un disastro con un nome ben preciso: sindrome di Minamata.








baia minamata

Era il 1956 quando nella baia di Minamata fu scoperta per la prima volta quella che è passata alla storia proprio come la malattia di Minamata

I fatti che stanno sconvolgendo il Giappone ripropongono più e più volte, tante quante sono le immagini che ci scorrono quotidianamente sotto gli occhi, interrogativi agghiaccianti e riflessioni profonde. L’insensatezza del progresso sfrenato, l’accecata ossessione per la crescita, il culto dell’atomo, lo sviluppo a tutti i costi hanno contropartite tremende e ricadute fatali.

Il Giappone è uno dei paesi che più degli altri ha fatto dello sviluppo economico, industriale e tecnologico una testa d’ariete per sfondare i mercati internazionali, per crescere esponenzialmente, per sedere al tavolo dei grandi della terra. Le conseguenze però non sempre hanno i colori sfavillanti delle ultime macchinette digitali, la bellezza e la sicurezza dell’ultima automobile piazzata sul mercato.

Non sempre, anzi, quasi mai perché il retroterra dannato del progresso è un deserto, una fanghiglia marcescente che fagocita terre ed uomini e sputa cadaveri e carcasse ed è tanto più ritroso quanto più schifose sono le attività da insabbiare, tanti quanti sono i morti di cui dimenticarsi.

Era il 1956 quando nella baia di Minamata, cittadina di pescatori nella Prefettura di Kumamoto, fu scoperta per la prima volta quella che è passata alla storia proprio come la malattia di Minamata.

Si tratta di una sindrome neurologica causata da avvelenamento da mercurio che provoca atassia (progressiva perdita del coordinamento muscolare); parestesia (alterazione della sensibilità degli arti, i particolare la perdita del senso del tatto a livello topico); indebolimento del campo visivo, perdita dell’udito, difficoltà ad articolare le parole, disordine mentale. Paresi. Morte.

chisso minamata
La Chisso Corporation, un’industria chimica installata nella zona, sversava le acque reflue contaminate da metilmercurio proprio nella baia

Era successo che la Chisso Corporation, un’industria chimica installata nella zona, sversasse le acque reflue contaminate da metilmercurio proprio nella baia, nel mare di Shiranui. Uno sversamento costante, durato ininterrottamente dal 1932 al 1968. Il metilmercurio si è depositato nei fanghi, sul fondo del mare, di cui si nutrono numerosi microrganismi alla base della catena alimentare.

La sostanza è stata quindi assorbita anche da crostacei e molluschi risalendo la catena alimentare fino alla tavola degli abitanti del luogo, la cui dieta è principalmente a base di pesce. I primi ad avvertire i sintomi della malattia furono proprio i pescatori che lavoravano nella baia. Da allora, i casi di avvelenamento ed i conseguenti decessi si susseguirono a ritmo incalzante per più di trent’anni, includendo uomini e animali.

Né la Chisso, né il Governo hanno fatto nulla per evitare il disastro. Dopo i primi casi eclatanti, il morbo di Minamata fu ufficialmente riconosciuto, ma di anni, da quel 1956, ne passarono almeno dodici prima di stabilire il legame fra l’inquinamento prodotto dalla Chisso e la malattia. Durante questi anni non solo l’industria chimica negò la propria responsabilità per la sindrome, ma addirittura l’utilizzo del mercurio nei propri impianti.

sindrome minamata
La sindrome di Minamata è una sindrome neurologica causata da avvelenamento da mercurio che può causare persino la morte

Da allora, fu necessario aspettare il 1968 affinché la Chisso smettesse di sversare acque contaminate nella baia, ma il danno era ormai irreversibilmente compiuto. Oltre alle persone contaminate perché si cibavano del pesce carico di mercurio, già da tempo si registravano anche nascite di bambini malati, sintomo inequivocabile che il morbo si trasmetteva anche al feto.

Il Governo di Tokyo, tuttavia, aveva deciso che la diffusione della malattia si era conclusa con l’interruzione degli scarichi, nel 1968, e nessuno che fosse nato dopo quell’anno poteva essere avvelenato. Questo nonostante la comunità scientifica sostenesse che il veleno non era stato smaltito dal mare.

Il Governo si dimostrò fermo nella sua decisione e nel 1991 il Consiglio Centrale pubblicò una relazione nella quale si dimostrava il calo sensibile dei livelli di metilmercurio nel mare di Shiranui rispetto al 1968. Come conseguenza di questo atteggiamento, tutti i malati nati dal 1969 non godono dei benefici del programma pubblico sanitario per il morbo, nonostante ne mostrino chiaramente i sintomi.

Nel 1997, dopo la dichiarazione del governatore della Prefettura di Kumamoto in merito alla sicurezza sul consumo di pesci e molluschi della baia, furono rimosse le reti che per trenta anni avevano impedito al pesce contaminato di disperdersi in mare aperto. Un atto simbolico che significava anche mettersi alle spalle quel disastro ambientale.

proteste minamata
Da quando il morbo fu ufficialmente riconosciuto gruppi di malati o di parenti di persone decedute a causa della malattia intentarono numerosi procedimenti civili contro il Governo

Un disastro che però non è rimasto circoscritto a Minamata. Tra le 30.000 persone che nel 2009 chiedevano di entrare nel programma sanitario, molte provenivano da altre parti del Giappone e nate da genitori residenti lungo le coste del mare Shiranui.

Nello stesso 2009 il Governo nipponico ha approvato una nuova legge per dare assistenza ai pazienti affetti dal morbo, ampliando la gamma di sintomi necessari per entrare a far parte del programma. A tutti coloro che ricevono gli aiuti governativi, però, è stata chiesta come contropartita di ritirare qualsiasi causa intentata a proposito contro il Governo e la Chisso.

Da quando il morbo fu ufficialmente riconosciuto, infatti, gruppi di malati o di parenti di persone decedute a causa della malattia intentarono numerosi procedimenti civili contro il Governo, considerato il responsabile di norme troppo restrittive nel riconoscimento della sindrome e nell’esenzione dalle spese mediche. Solo nell’ottobre del 2004 la Corte Suprema ha dichiarato enti locali e Governo responsabili del disastro ecologico, intimando il pagamento di risarcimenti alle parti lese.

Nonostante questo, numerosi sono ancora i casi che cadono fuori dalla copertura del programma, mentre i danni prodotti dagli sversamenti non sono stati del tutto smaltiti.

25 marzo 2011

Tagliare le dipendenze


L’attuale sistema economico e politico è fondato sull’accentramento di potere. Da un’unica fonte si genera il flusso che va verso la moltitudine delle persone.

Si pensi ai partiti fino ad arrivare allo Stato. Attualmente vige il meccanismo della delega di potere. Ci sono “libere” elezioni, ma molti su questo hanno dei dubbi legittimi, e chi viene eletto ha una delega in bianco da parte dell’elettorato per fare sostanzialmente quello che vuole, specialmente se può disporre del minculpop dell’apparato informativo, piuttosto rigidamente irreggimentato e basato anch’esso su poche fonti di diffusione delle notizie: oggi tutti i telegiornali e le agenzie si approvvigionano da 4 o 5 fonti internazionali che hanno il monopolio dell’informazione. In pratica la politica dispone di una cambiale firmata in bianco dall’elettorato su un generico programma che a dirla tutta oggi non offre molti spunti di diversità fra le varie parti.

Questo schema che sintetizzando si può definire “da uno a molti” è anche usato nell’economia dove una megasocietà eroga servizi a volte anche a quasi la totalità delle persone, pensate al sistema monetario e finanziario, alle telecomunicazioni, alla distribuzione delle merci, all’informazione, all’energia, alle autostrade ecc.

Tutt’al più si può arrivare a sistemi di distribuzione decentrati dove si replica per motivi pratici il sistema “da uno a tutti” in scale ridotte territorialmente per permettere la capillarità di diffusione ed è lo schema seguito dalle regioni e dalle province.

In questo sistema “da uno a tutti” o al massimo “decentralizzato” si privilegia la delega di potere e non si è partecipi delle scelte e delle decisioni, queste si possono solo subire senza poter essere parte attiva. Un altro aspetto è che in questo modo si permette a qualcuno di arrivare a posizioni di potere e benessere a svantaggio di molti alimentando così gli enormi squilibri di cui oggi siamo circondati.

Il sogno americano si basa proprio su questo dicendo in pratica: uno su mille ce la fa, focalizzandosi su quell’uno che riesce, ma dimenticandosi degli altri 999 poveracci che invece continueranno a non farcela.

Questo alimenta dei processi di alienazione, dove chi non ce la fa subisce un’onta e cade in depressione, dove la competizione e la lotta hanno il sopravvento sulla natura umana che invece propende per la collaborazione.

L’atteggiamento che abbiamo appena visto viene esasperato dall’uso di un mezzo di scambio che si basa sul debito come abbiamo esaminato anche in altri articoli. La scarsità apparente si manifesta e la solitudine e la disperazione hanno il sopravvento.

Avremmo un sistema molto più efficiente, meno appetibile per coloro che tentano di prevalere sulle moltitudini e dove le persone non delegano, ma si supportano reciprocamente. Certo questa impostazione richiede una consapevolezza da parte di tutti molto maggiore dell’attuale, una presa di coscienza che l’azione di ognuno è funzionale al benessere e alla circolazione della ricchezza e della libertà in tutto il sistema.

Prendiamo ad esempio l’energia. L’attuale sistema si basa sull’assurdità che l’energia, anche quella da fonti rinnovabili, prodotta ad es. in Puglia venga consumata a Milano con dispendio di risorse e perdite di energia notevoli durante il tragitto. L’efficienza della rete sarebbe quella di consumare sul posto l’energia prodotta con evidenti risparmi su tutti i fronti. Perché non si adotta? Semplicemente perché verrebbero meno tutti i possibili interessi che nascono dalla distribuzione accentrata.

La stessa cosa avviene con la rete di internet dove ci sono monopolisti che erogano il servizio e anche la liberalizzazione dell’ultimo miglio non ha spostato le forze in gioco e tutto questo a svantaggio della circolazione delle informazioni. Esiste invece un sistema diffuso di reti a maglia (mesh) che permetterebbero alla comunità di avere enormi vantaggi sia in termini di costo del servizio che di efficienza della rete che essendo composta da nodi sia riceventi che trasmittenti sarebbero immuni ad esempio da interruzioni dovute a catastrofi naturali, ad esempio terremoto, oppure da colpi di mano tese a bloccare il flusso delle informazioni.

L’unione, se disinteressata e tesa al benessere diffuso, fa veramente la forza e questo da sempre l’uomo lo sa perché si raggruppa sempre in comunità e più questa unione era compatta più il suo benessere era maggiore. Oggi invece abbiamo enormi comunità di singoli che non colloquiano, si guardano con sospetto e soprattutto non collaborano fra di loro e questo non può che provocare depressione, senso di abbandono e sofferenza oltreché alimentare il divario fra ricchi e poveri, divario che invece di essere combattuto con maggiore cultura, con investimenti in istruzione e nel sociale a volte viene scientemente alimentato affinché il sistema “da uno a molti” possa seguire a mietere vittime innocenti.

La stessa cosa che avvenne per l’unità d’Italia che spinse i piemontesi a invadere il ricco sud e lo portò a depredarlo di un tesoro che Pino Aprile nel suo libro Terroni ha attualizzato in 1.500 miliardi di euro, il PIL odierno dell’Italia e un milione di morti su 9 che abitavano il sud all’epoca. Senza contare stupri di massa e orrori indicibili di ogni tipo e la distruzione negli anni successivi di ogni risorsa, infrastruttura, attività, portando quello splendido paese e quelle persone a essere preda di delinquenti, massonerie, mafie anche in doppio petto.

Il potere poi copre, nasconde e tacita ogni voce, costruisce sulla menzogna e cancella ogni traccia, ma non per sempre perché immancabilmente arriva il momento della verità.

La spinta innata ad unirsi viene manipolata e sfruttata egoisticamente anche per ciò che riguarda l’unione fra stati. L’unione europea ad esempio non è nata per aumentare il benessere all’interno del vecchio continente, ma per motivi di supremazia economica, per creare un solo grande mercato e accentrare ancora di più il potere in mano a pochi.

Basandosi su questi presupposti questa unione, come tutto quello che si basa su queste intenzioni, non potrà che fallire.

Capito questo concetto è facile tracciare la strada per la liberazione:

di Paoletti Pierluigi

24 marzo 2011

Come finirà l'era del petrolio?

COLLASSO DEL VECCHIO ORDINE PETROLIFERO


Qualunque sia l’esito delle proteste, sommosse e ribellioni che stanno ora spazzando il Medio Oriente, una cosa è certa: il mondo del petrolio sarà trasformato in maniera definitiva. Dobbiamo considerare tutto ciò che sta accadendo come solo il primo tremore di un terremoto del petrolio, che scuoterà il nostro mondo fin nelle sue parti più profonde.

Per un secolo dalla scoperta del petrolio nel sud-ovest della Persia prima della prima Guerra Mondiale, le potenze occidentali sono ripetutamente intervenute in Medio Oriente per assicurare la sopravvivenza dei governi autoritari dediti alla produzione di petrolio. Senza tali interventi l’espansione delle economie occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’attuale ricchezza delle società industrializzate sarebbe inconcepibile.

Qui, in ogni caso, sono riportate notizie che dovrebbero essere in prima pagina in qualsiasi giornale nel mondo: il vecchio assetto del petrolio sta morendo e con esso vedremo la fine del petrolio accessibile e a buon mercato – per sempre.

La fine dell’età del petrolio

Proviamo a misurare cosa è effettivamente a rischio nel tumulto corrente. Per iniziare, non c’è praticamente alcun modo di rendere piena giustizia al ruolo cruciale svolto dal petrolio del Medio Oriente nell’equazione energetica mondiale. Sebbene l’economico carbone abbia alimentato l’iniziale Rivoluzione Industriale, con le ferrovie, le navi a vapore, le industrie, il petrolio a buon mercato ha reso possibile l’automobile, l’industria aeronautica, i sobborghi, l’agricoltura meccanizzata e l’esplosione della globalizzazione economica. E mentre un pugno delle maggiori aree produttrici di petrolio ha lanciato l’Era del Petrolio – USA, Messico, Venezuela, Romania, l’area attorno a Baku (in ciò che un tempo era l’impero russo zarista) e le Indie orientali olandesi – è stato il Medio Oriente che ha spento la sete mondiale per il petrolio fin dalla Seconda Guerra Mondiale.

Nel 2009, l’anno più recente per cui sono disponibili tali dati, BP ha riferito che i produttori nel Medio Oriente e nel Nord Africa insieme hanno prodotto 29 milioni di barili al giorno, cioè il 36% della fornitura totale mondiale – e persino questo non dà l’idea dell’importanza di tali regioni nell’economia del petrolio. Più di ogni altra zona, il Medio Oriente ha incanalato la sua produzione nei mercati di esportazione per soddisfare le voglie energetiche di potenze importatrici di petrolio come Stati Uniti, Cina, Giappone e l’Unione Europea. Stiamo parlando di 20 milioni di barili esportati ogni giorno. Confrontiamoli ai 7 milioni di barili esportati della Russia, il maggiore singolo produttore mondiale, ai 6 milioni del continente africano e al misero milione del Sud America.

Come succede, i produttori mediorientali saranno persino più importanti nei prossimi anni perché possiedono, secondo stime, i due terzi delle restanti riserve di petrolio non ancora sfruttate. Secondo le recenti proiezioni del Dipartimento di Energia USA, il Medio Oriente e il Nordafrica forniranno insieme approssimativamente il 43% dell’approvvigionamento di petrolio greggio entro il 2035 (rispetto al 37% del 2007) e produrranno persino una quota ancora maggiore del petrolio esportabile mondiale.

Per porre la questione senza mezzi termini: l’economia mondiale richiede un aumento dell’offerta di petrolio a prezzi accessibili. Il Medio Oriente da solo può provvedere a tale fabbisogno. Ecco perché i governi occidentali hanno a lungo appoggiato regimi autoritari “stabili”nella regione, occupando ed addestrando le proprie forze di sicurezza. Ora questo invalidante ordine pietrificato, il cui successo più grande è stato produrre petrolio per l’economia mondiale, si sta disintegrando. Non contate su alcun nuovo ordine (o disordine) per fornire abbastanza petrolio a buon mercato per preservare l’Età del Petrolio.

Per capire perché questo sarà così, è necessaria una piccola lezione di storia.

Il colpo di stato iraniano

Dopo che la Anglo-Persian Oil Company (APOC) scoprì il petrolio in Iran (allora conosciuta come Persia) nel 1908, il governo britannico ha cercato di esercitare un controllo imperialista sullo stato Persiano. A capo di tale impulso c’era il Primo Lord della Marina Winston Churchill. Dopo aver ordinato la conversione dal carbone al petrolio delle navi da guerra britanniche prima della Prima Guerra Mondiale e aver deciso di porre una significativa fonte di petrolio sotto il controllo di Londra, Churchill orchestrò la nazionalizzazione dell’APOC nel 1914. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, l’allora Primo Ministro Churchill curò l’allontanamento dello Shah vicino alla Germania Reza Pahlavi e l’ascesa di suo figlio, il 21enne Mohammed Reza Pahlavi.

Sebbene incline ad esaltare i suoi (mitici) legami con il passato impero Persiano, Mohammed Reza Pahlavi fu un docile strumento degli inglesi. I suoi sudditi, tuttavia, risultarono sempre meno disposti a tollerare l’asservimento ai feudatari imperiali di Londra. Nel 1951, il Primo Ministro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto, si guadagnò il sostegno del parlamento in merito alla nazionalizzazione dell’APOC, che fu ribattezzata Anglo-Iranian Oil Company (AIOC). L’iniziativa fu molto popolare in Iran ma causò panico a Londra. Nel 1953, per salvaguardare il loro gioiello, i leaders britannici cospirarono in modo infame con l’amministrazione del presidente americano Dwight Eisenhower e con la CIA per progettare un colpo di stato per deporre Mossadeq e riportare in Iran lo Shah Pahlavi dal suo esilio a Roma, una storia raccontata recentemente con grande sfarzo da Stephen Kinzer nel suo “All the Shah’s Men” (“Tutti gli uomini dello Shah)”.

Fino alla sua deposizione nel 1979, lo Shah esercitò una dittatura spietata sulla società iraniana, in parte grazie al cospicuo aiuto dell’esercito Usa e della polizia. All’inizio schiacciò la sinistra laica, alleata di Mossadeq, quindi l’opposizione religiosa, guidata dall’esilio dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. A causa della loro brutale esposizione al carcere e ai proiettili della polizia, forniti dagli Stati Uniti, gli oppositori dello Shah iniziarono a detestare la sua monarchia e Washington in egual misura. Nel 1979, naturalmente, il popolo iraniano scese per le strade, lo Shah fu deposto e l’Ayatollah Khomeini prese il potere.

Molto può essere imparato da questi eventi, che hanno portato all’attuale stallo nelle relazioni tra USA ed Iran. Il punto chiave da capire, però, è che la produzione di petrolio iraniana non si riprese mai dalla rivoluzione del 1979-1980.

Tra il 1973 e il 1979 l’Iran aveva raggiunto una produzione vicina ai sei milioni di barili di petrolio al giorno, una delle maggiori al mondo. Dopo la rivoluzione, l’AIOC (ribattezzata British Petroleum o più tardi semplicemente BP) fu nazionalizzata e di nuovo i manager iraniani si fecero carico della gestione della compagnia. Per punire i nuovi leader iraniani, Washington impose pesanti sanzioni economiche, ostacolando gli sforzi della compagnia per ottenere tecnologia ed assistenza straniere. La produzione di petrolio crollò a due milioni di barili al giorno e, persino tre decenni più tardi, si aggirava solo intorno a poco più di quattro milioni di barili al giorno, anche se il paese possiede la seconda più grande riserva mondiale di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

I sogni dell’invasore

L’Iraq ha seguito un percorso simile. Sotto Saddam Hussein, la compagnia petrolifera di stato Iraq Petroleum Company (IPC) produceva fino a 2,8 milioni di barili al giorno fino al 1991, quando la Prima Guerra del Golfo contro gli USA e le seguenti sanzioni fecero scendere la produzione a mezzo milione al giorno. Anche se dal 2001 la produzione è di nuovo risalita a circa 2,5 milioni di barili al giorno, non ha mai raggiunto i picchi precedenti. Mentre il Pentagono preparava un’invasione all’Iraq alla fine del 2002, comunque, insiders dell’amministrazione ed esuli iracheni ben inseriti, parlavano sognanti di una età dell’oro che sarebbe arrivata, in cui le compagnie petrolifere straniere sarebbero state invitate a tornare nel paese, la compagnia statale petrolifera sarebbe stata privatizzata e la produzione avrebbe raggiunto livelli mai visti prima.

Chi può dimenticare lo sforzo che l’amministrazione Bush e i suoi funzionari a Bagdad hanno messo in atto per avverare il loro sogno? Dopo tutto, i primi soldati americani che avevano raggiunto la capitale irachena avevano assicurato l’incolumità del palazzo del Ministero del Petrolio, anche se avevano permesso ai saccheggiatori iracheni di regnare sovrani nel resto della città. Il Ten. Paul Bremer III, il proconsole poi scelto da Bush per supervisionare la creazione di un nuovo Iraq, portò sul posto un team di dirigenti petroliferi americani per supervisionare la privatizzazione dell’industria petrolifera del paese, mentre il Dipartimento per l’Energia degli USA previde fiduciosamente nel maggio 2003 che la produzione irachena sarebbe cresciuta a 3,4 milioni di barili al giorno nel 2005, 4,1 milioni entro il 2010 e 5,6 milioni entro il 2020.

Nulla di tutto ciò è naturalmente accaduto. Per molti iracheni, la decisione degli USA di mettersi immediatamente a capo del Ministero del Petrolio è stata un punto di svolta istantaneo che ha trasformato il possibile sostegno per il rovesciamento di un regime tirannico in rabbia ed ostilità. La presa di posizione di Bremer per privatizzare la compagnia petrolifera di stato ha similmente prodotto una feroce reazione nazionalista tra gli ingegneri petroliferi iracheni, che hanno sostanzialmente affondato il piano. Abbastanza presto è scoppiata un’insurrezione Sunnita su larga scala. La produzione di petrolio è rapidamente crollata, attestandosi a soli 2 milioni di barili al giorno tra il 2003 e il 2009. Durante il 2010 essa è finalmente tornata a 2,5 milioni di barili – ben lontana da quella sognata di 4,1 milioni di barili.

Non è difficile disegnare una conclusione: gli sforzi da parte di stranieri per controllare l’ordine politico in Medio Oriente per il bene della produzione del petrolio genereranno inevitabilmente pressioni compensative il cui risultato sarà una minore produzione. Gli USA e le altre potenze che guardano le insurrezioni, ribellioni e proteste che si accendono attraverso il Medio Oriente dovrebbero infatti essere cauti: qualunque sia la loro volontà politica o religiosa, le popolazioni locali tirano sempre fuori una feroce, appassionata ostilità verso il predominio straniero e, messe alle strette, sceglieranno l’indipendenza e la possibilità di libertà piuttosto che una maggiore produzione di petrolio.

Le esperienze in Iran e Iraq possono non essere paragonate in modo usuale a quelle in Algeria, Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Libia, Oman, Marocco, Arabia Saudita, Sudan, Tunisia e Yemen. Comunque ognuno di loro (e altri paesi similmente suscettibili di essere coinvolti nei tumulti) mostra alcuni elementi di identico stampo politico autoritario e tutti sono connessi a livello del petrolio. Algeria, Egitto, Iraq, Libia, Oman e Sudan sono produttori di petrolio; Egitto e Giordania difendono oleodotti vitali e, nel caso dell’Egitto, un oleodotto cruciale per il trasporto del petrolio; Bahrein e Yemen come l’Oman occupano punti strategici lungo le maggiori rotte del petrolio. Tutti hanno ricevuto sostantivi aiuti militari dagli USA e/o ospitano importanti basi militari. E, in tutti questi paesi, lo slogan è sempre lo stesso: “Il popolo vuole che il regime cada”.

Due di questi regimi sono già caduti, tre sono traballanti e gli altri sono a rischio. L’impatto sui prezzi mondiali del petrolio è stato rapido e spietato: il 24 di febbraio, il prezzo per il greggio North Brent, un punto di riferimento del settore, ha sfiorato i 115 dollari al barile, il prezzo più alto dalla crisi economica dell’ottobre del 2008. Un altro greggio di riferimento, il West Texas Intermediate, ha varcato, per poco e sinistramente, la soglia dei 100 dollari.

Perché i Sauditi sono la chiave

Finora il maggiore produttore mediorientale di petrolio, l’Arabia Saudita, non ha mostrato palesi segni di vulnerabilità, o i prezzi sarebbero saliti persino di più. Tuttavia, la casa reale del vicino Bahrain è attualmente in guai seri; decine di migliaia di manifestanti – oltre il 20% del suo milione e mezzo di persone – sono scesi più volte per le strade, nonostante le minacce di aprire il fuoco, in un movimento per l’abolizione del governo autocratico del re Hamad ibn Isa al-Khalifa e la sua sostituzione con un governo autenticamente democratico.

Questi sviluppi sono particolarmente preoccupanti per la leadership Saudita perché il cambiamento in Bahrain è guidato dalla popolazione Sciita, a lungo abusata, contro una radicata élite Sunnita al potere. Anche l’Arabia Saudita ha al suo interno – sebbene non come in Bahrain – una popolazione a maggioranza Sciita che ha sofferto la discriminazione dai governanti Sunniti. C’è la preoccupazione a Riyadh che le manifestazioni esplose in Bahrain possano diffondersi nell’adiacente e ricca provincia dell’Arabia Saudita – l’unica area dove gli Sciiti formano la maggioranza -, diventando una grossa minaccia per il regime. In parte per prevenire ogni ribellione da parte dei giovani, il vecchio re 87enne Abdullah ha appena promesso 10 miliardi di dollari, che sono parte di un pacchetto di 36 miliardi di sovvenzioni per aiutare i giovani cittadini sauditi a sposarsi ed ottenere case ed appartamenti.

Anche se la ribellione non arriverà in Arabia Saudita, il vecchio ordine del petrolio del Medio Oriente non potrà essere ricostruito. Il risultato è sicuramente un declino di lungo termine nelle disponibilità future di petrolio esportabile.

Tre quarti dei 1,7 milioni di barili di petrolio che la Libia produce al giorno sono stati rapidamente ritirati dal mercato non appena le agitazioni sono iniziate. Gran parte di esso può rimanere fuori dal mercato per un tempo indefinito. Egitto e Tunisia si attende che ripristino presto la produzione, modesta in entrambi i paesi, ai livelli precedenti alle manifestazioni, ma è improbabile che abbraccino l’idea delle grandi joint-ventures con imprese straniere che potrebbero aumentare la produzione, indebolendo il controllo locale. L’Iraq, la cui maggiore raffineria è stata gravemente danneggiata dai ribelli la scorsa settimana, e l’Iran non mostrano segni di poter incrementare significativamente la produzione nei prossimi anni.

Il giocatore cruciale è l’Arabia Saudita, che ha appena aumentato la produzione per compensare le perdite libiche sul mercato globale. Ma non aspettiamoci che questo duri per sempre. Supponendo che la famiglia reale sopravviva all’attuale ciclo di sconvolgimenti, dovrà deviare la maggior parte della sua produzione giornaliera per soddisfare il crescente consumo interno e di carburante per le locali industrie petrolchimiche che potrebbero soddisfare una popolazione in rapida crescita, inquieta con impieghi meglio retribuiti.

Dal 2005 al 2009 i sauditi hanno consumato circa 2,3 milioni di barili al giorno, lasciandone 8,3 milioni per l’esportazione. Solo se l’Arabia Saudita continuerà a fornire almeno tale quantità ai mercati internazionali, il mondo potrebbe persino soddisfare i suoi bisogni previsti di petrolio a buon prezzo. Questo non è probabile che si verifichi. I reali Sauditi hanno espresso riluttanza per aumentare la produzione molto al di sopra dei 10 milioni di barili al giorno, temendo danni ai loro settori rimanenti e quindi un calo nei profitti futuri per la loro numerosa stirpe. Allo stesso tempo, l’aumento della richiesta interna si prevede che consumerà una sempre crescente quota della produzione netta del paese. Nell’aprile 2010 l’amministratore delegato della compagnia di stato Aramco, Khalid al-Fahlil aveva previsto che il consumo interno potrebbe raggiungere l’incredibile cifra di 8,3 milioni di barili al giorno entro il 2028, lasciando soltanto pochi milioni di barili per l’esportazione, con la garanzia che, se il pianeta non rivolgerà l’attenzione ad altre fonti energetiche, ci sarà fame di petrolio.

In altre parole, se si traccia una traiettoria ragionevole dagli sviluppi attuali nel Medio Oriente, essa è già con le spalle al muro. Dato che nessuna area è capace di rimpiazzare il Medio Oriente come primo produttore mondiale di petrolio, l’economia stessa del petrolio deperirà – e con essa l’economia mondiale nel suo complesso.

Dobbiamo considerare il recente aumento dei prezzi del petrolio come solo un lieve tremore che annuncia un terremoto petrolifero prossimo a venire. Il petrolio non sparirà dai mercati internazionali, ma nei prossimi decenni non raggiungerà mai i volumi necessari a soddisfare la domanda mondiale prevista e ciò significa che, più presto che tardi, la scarsità sarà la condizione dominante dei mercati. Solo il rapido sviluppo di fonti energetiche alternative e una drammatica riduzione nel consumo di petrolio potrebbe risparmiare al mondo le più gravi ripercussioni economiche.

di Michael T. Klare


Michael T. Klare è docente di studi sulla pace e sulla sicurezza all’Hampshire College, un regolare TomDispatch e l’autore del recente “Rising Powers, Shrinking Planet”. Un film-documentario del suo precedente libro, “Blood and Oil” è disponibile presso la Media Education Foundation. Per ascoltare l’ultima intervista TomCast di Timothy MacBain in cui Klare spiega come la scarsità delle risorse è il motore delle proteste e molto altro sul nostro pianeta, cliccate qui o scaricatela sul vostro iPod qui.

Titolo originale: "The Collapse of the Old Oil Order "

23 marzo 2011

La crisi libica rivela l'incompetenza della politica europea

Per quanto possa suonare paradossale, il significato strategico della crisi libica è di importanza secondaria rispetto al tema decisivo posto dal pericolo proveniente dalla "Cintura di fuoco" del Pacifico e dalla svolta politica globale dettata dalla mobilitazione economica/scientifica richiesta per fronteggiare quel pericolo.

Per cominciare, la politica dei bombardamenti decisa per iniziativa dell'alleanza anglo-francese finirà con l'aumentare il tasso di caos nella regione. Il Presidente francese Nicolas Sarkozy potrà credersi un piccolo Napoleone, intento a raccogliere i frutti del suo bullismo alle prossime elezioni, ma egli è poco più di una marionetta nel neocoloniale gioco alla "Sykes-Picot" gestito dai britannici. Il gioco britannico mira a "provocare il maggior danno possibile" alla regione, ha commentato LaRouche. Il ruolo USA, sotto l'impulso del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton piuttosto che della Casa Bianca di Obama, è apparentemente diverso. Purtuttavia, il modo in cui è stata stilata la risoluzione dell'ONU ed è stato eseguito il confuso mandato alcune ore dopo conferma i timori di LaRouche.

"Il fatto è che non esiste un governo europeo, a questo punto, che abbia una politica competente sull'Africa", ha affermato lo statista americano.

Il caso italiano è esemplare: siamo il principale partner commerciale e acquistiamo un terzo del petrolio e una gran parte del nostro gas naturale dalla Libia. Inizialmente, il governo italiano si è opposto ai bombardamenti, suggerendo un semplice blocco navale. Ma una volta inaugurata la "Coalizione dei volenterosi" al vertice di Parigi, siamo saliti sul tram e abbiamo mandato i Tornado a bombardare il bunker di Gheddafi. E dopo aver perso un terzo delle forniture di petrolio, decidiamo pure di sospendere il piano nucleare. Certo che la follia non ha limiti.

Nell'assenza di una vera politica, che deve includere una prospettiva di sviluppo, il rischio vero è che la Libia diventi una seconda Somalia.

La Germania ha preso una decisione saggia non entrando nella "Coalizione dei volenterosi". In un'intervista al The LaRouche Show, Helga Zepp-LaRouche ha appoggiato la decisione della Merkel, e ha ammonito contro l'aumento di instabilità a seguito dell'intervento militare. Riferendosi al ripreso flusso di migranti verso Lampedusa, Malta e la Grecia, la signora Zepp-LaRouche ha anche appoggiato l'idea di un Piano Marshall per l'Africa proposto da Frattini e Maroni. I britannici sono terrorizzati dal processo di sciopero di massa scatenatosi nelle regioni mediterranea e transatlantica, ha detto, e stanno tentando il loro gioco. Ma invece di giocare sul terreno scelto da loro, dovremmo aggirarli sui fianchi. Il modo per farlo è lanciare un cambiamento della politica globale, e sostituire il sistema monetario con un sistema creditizio per finanziare la ricostruzione economica mondiale.
by Movisol

Miraggi nel deserto

I Francesi sono diventati dei galli da combattimento, gli italiani si comportano come galline disorientate e starnazzanti , le volpi inglesi guaiolano nel deserto ma si adattano all’ambiente, i serpenti americani strisciano lentamente sotto la sabbia, i salmoni norvegesi nuotano controcorrente per tornarsene ai propri fiumi, l’orso russo comincia a bramire dopo i gorgheggi del suo Presidente usignolo. Sul deserto africano piovono razzi ma a disintegrarsi è l’Europa, avanti in ordine sparso in un conflitto che sta diventando un regolamento di conti tra potenze del Vecchio Continente. Sarkozy, va à la guerre per tornare protagonista nel mediterraneo e per fare il macho con Carlà. Difatti, l’anno prossimo ci sono le elezioni e con quel grugno che si ritrova dovesse perderle insieme alla livrea presidenziale verrebbe a cascargli pure il fascino del potere e poi addio mogliettina prelibata. La Francia ha tutto da guadagnare dalla situazione e comunque non aveva nulla da perdere sin dall’inizio. Se il gran colpo dovesse riuscirle gli insorti libici dimostreranno la loro riconoscenza, come già si può percepire dai drapeaux tricolori che sventolano a Bengasi. Gli inglesi sono ugualmente soddisfatti, eccetto per l’eccessivo protagonismo di Parigi, e da un mese, con le loro forze speciali, stanno armando ed addestrando i ribelli per decapitare il dittatore della Sirte. Il nuovo Governo anche con loro sarebbe riconoscente. Gli americani non hanno bisogno di ottenere nulla perché loro la riconoscenza la incutono, sono ancora l’iperpotenza mondiale. A noi italiani invece non ci riconoscerà nessuno, nemmeno se andassimo in giro con una pizza sulla testa e gli spaghetti intorno al collo. Avevamo qualcosa da tutelare in Libia ma appena cesserà il fuoco rimarremo con un pugno di cenere in mano. Comunque vada a finire questa guerra noi italiani siamo fottuti dopo aver intrattenuto relazioni privilegiate ed esclusive in quel paese. Come scrive Davide Giacalone sul suo sito è questo lo scenario che tra breve potrà profilarsi: “…in Tripolitania resta la famiglia del colonnello; in Cirenaica vanno al governo quelli che i francesi hanno già riconosciuto, e di cui noi sappiamo poco e nulla; mentre nel Fezzan resta la sabbia e le tribù. Il che significa: dalla Tripolitania non becchiamo più nulla, piuttosto vendono tutto ai cinesi; dalla Cirenaica smezziamo con gli altri vincitori, vedendo crescere i francesi, consolidarsi gli inglesi e dimagrire gli italiani; dal Fezzan proviamo a prendere i datteri”. Stiamo facendo la figura dei cretini ma i nostri politici si sentono dei paladini della giustizia e della libertà. Se il problema reale era quello di tutelare i diritti umani in quel Paese costoro avrebbero dovuto chiedersi come mai all’Onu finora nessuno si fosse accorto di nulla. Anzi, questo organismo internazionale aveva descritto la Libia come una poesia e Gheddafi come un sovrano illuminato. Ecco cosa diceva un rapporto ufficiale dell'Onu del gennaio 2011: “In Libia la protezione dei diritti umani è generalmente garantita...ed include non solo i diritti politici ma anche quelli economici sociali e culturali...all'avanguardia nel campo del diritto alla salute e nella legislazione sul lavoro...la Libia ha abolito tutte le leggi discriminatorie...”. E così la frittata è fatta. C’era da aspettarselo, la nostra classe dirigente ha le traveggole quando sta a Roma figurarsi cosa poteva capitarle nel deserto. I miraggi si sono centuplicati ed ha perso ogni cognizione della realtà.
di Gianni Petrosillo

22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

giovani
"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini

31 marzo 2011

Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare


Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.

L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.

Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.

Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?

C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.

Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.

Ma le cose stanno ben altrimenti.

La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.

Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.

E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.

Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.

Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.

Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.

Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.

Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.

È un problema dell’essere, non dell’amore.

Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.

Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.

Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.

A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.

Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.

È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».

Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.

Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.

Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.

A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.

Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.

In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.

Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.

Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.

È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.

Che fare, dunque?

Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.

Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.

A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.

Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.

Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.

Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.

Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.

di F. Lamendola

30 marzo 2011

Euro 2: la vendetta

http://www.euro.lt/documents/Euro%20brezinys_EC1.JPG

Ritorno ancora su un argomento che mi sta particolarmente a cuore visto che sono stato uno dei primi a parlarne in anticipo in tempi non sospetti, era infatti il 2008 quando spiegavo il Club Med e a che cosa ci avrebbe portato. La scorsa estate ho scritto il saggio economico intitolato “L’Europa sé rotta” ma pare che ancora adesso la maggior parte dei piccoli risparmiatori ed investitori italiani non si renda conto di che rischi gravino sui loro portafogli e sullo scenario macroeconomico europeo. Nello specifico il cosiddetto rischio di spaccatura monetaria all’interno dell’area valutaria dell’Unione Europea. Sostanzialmente tutto questo è rappresentato dalla Teoria di Euro 2 ovvero l’emersione o la creazione di una seconda divisa in Europa che venga adottata dai paesi periferici.


La crisi dei PIGS (ho scoperto che ci sono persone che ancora non sanno che cosa sono) è in realtà la crisi dell’euro ovvero di una moneta imposta dall’alto a 17 economie che tra di loro hanno ben poco in comune. La moneta per ogni paese è una potente arma di difesa in momenti di turbolenza o difficoltà finanziaria, rappresenta una sorta di valvola a pressione per raffreddare l’economia o per rilanciarla in momenti di profonda contrazione. Nello specifico aver obbligato paesi come il nostro ad usare una divisa troppo forte per un economia troppo debole è stato una follia. Se ne stanno rendendo conto troppo tardi adesso le autorità istituzionali, nonostante i recenti moniti di prestigiose personalità dello stesso mondo accademico, vedi Roubini, Stiglitz, Fitoussi, Attali e Zingales.


Per chi non lo sapesse vi sono centinaia di operatori istituzionali che stanno covando in silenzio operazioni di speculazione finanziaria sul default dell’euro o sulla sua dipartita: persino Warren Buffet ha sentenziato la fine prossima della moneta unica a fronte delle continue e ripetute difficoltà di Spagna e Portogallo. La crisi dei PIGS ha fatto emergere una insostenibile architettura finanziaria tra i paesi virtuosi dell’Europa del Nord e quelli in quarantena finanziaria dell’Europa Periferica: in poche parole il debito dei paesi deboli è in mano per la maggior parte ai paesi sani e forti (si fa per dire, infatti anche la Germania molto presto si troverà a dover aiutare altri partner europei per evitare di perdere la leadership politica in Europa).Il Giappone, con quello che ha recentemente subito, non preoccupa nessuno (almeno dal punto di vista economico) in quanto il 95% del suo debito pubblico è in mano agli stessi giapponesi, mentre Francia, Germania ed Inghilterra detengono percentuali rilevanti del debito pubblico spagnolo, greco, irlandese, italiano e cosi via. Pertanto le sorti del debitore sono nelle mani del creditore: il peggior scenario ! Ponete pertanto la massima attenzione: quello che un tempo poteva essere un investimentio risk free come un titolo di stato europeo oggi potrebbe essere uno dei primi investimenti a prendere un bagno di sangue. Lo stesso Cameron, incalzato successivamente dalla Merkel, ha più volte ribadito che non è possibile continuare a far pagare ai soli contribuenti questa bomba con la miccia accesa, in più occasioni qualcuno ha paventato l’idea del default parziale.

Con questo termine si intende il rimborso non integrale dei titoli di stato alla loro naturale scadenza. Recentemente la Banca J.P. Morgan ha ipotizzato per il breve periodo la possibilità di default parziale dal 5% al 25%, a seconda dello scenario, per i paesi PIGS (mettendoci dentro anche l’Irlanda e l’Inghilterra). Evitate pertanto di massificare il vostro portafoglio con solo titoli di stato aerea euro, specie se a tasso fisso e con scadenze molto lunghe, preferite piuttosto le emissioni con tasso ancorato all’inflazione. Se poi si volesse scegliere il titolo di stato più sicuro al mondo in questo momento allora si dovrebbe puntare su quelli norvegesi: strana fatalità, infatti la Norvegia è un paese che di entrare in Europa proprio non ne vuol sentire.
di Eugenio Benetazzo

29 marzo 2011

PIU’ NIENTE DA RUBARE




Michael Betancourt è un intellettuale: usa parole come semiosi e, di fatto, sa esattamente che cosa significano. Parlando del Rapporto Keiser, ha fatto alcune rilevazioni interessanti sulla pila di effimeri digitali in cui si è trasformato il sistema finanziario globale e gran parte dell'economia. A partire dal punto 20:52 in poi, Michael dice questo sulle iniziative in corso nei mercati finanziari di tutto il mondo:

Non vorrei necessariamente dire "rubare" ... semplicemente non mi pare che "rubare" sia necessariamente il verbo giusto per definirlo. E`qualcosa di diverso. Rubare [implica] che vi sia una sorta di bene materiale che è stato rubato ... che la moneta sia stata svalutata implica che, se non avessimo fatto questo, la valuta sarebbe solvente, e tutto il problema qui è che la stessa moneta è scollegata da qualsiasi tipo di valore fisico.

Esiste come un debito nei confronti della produzione futura, piuttosto che una riserva di valore. E tutto ciò si riduce alle basi immateriali in cui stiamo ora vivendo. Quindi, sì, in un certo senso si potrebbe dire che stanno rubando, [ma] in un altro senso si potrebbe dire che non lo stanno facendo perché non c'è niente da rubare ... La realtà è che si tratta di un sistema insostenibile, e che l'inevitabilità del suo crollo è stata lì fin dal principio, poiché l'intero sistema è basato su una valuta che a sua volta non si basa su niente - esiste solo in relazione alle altre valute. ..


Sui manifestanti in Wisconsin e altrove:

Ciò che rende il tutto ancora più perverso è che ciò per cui stanno lottando è il proseguimento della loro trappola ... I poteri che sono attualmente in azione e che causano queste rivolte, proteste, ribellioni ... stanno lottando per la propria sopravvivenza, e il cambiamento che sta avvenendo è perverso perché ci stiamo dirigendo verso un collasso, ed è quasi inevitabile che avremo questo crollo, ancora una volta, ad un certo punto. In un certo senso credo che sia già iniziato con il congelamento del credito nel 2009. Il tentativo di stampare la nostra via di fuga non provocherà necessariamente l'iperinflazione (anche se ci sono persone che stanno dicendo che lo farà) così tanto che il risultato sarà una rivalutazione completa del sistema, attraverso la quale arriveremo a qualche altro, nuovo equilibrio. Parte del problema nell' arrivarci è che ci sono forze che combattono su chi ha il maggior numero di questi oggetti essenzialmente immateriali, questa moneta immateriale. Quello che accadrà è che a un certo punto ne avranno la maggior parte (e ci stiamo già arrivando, se si guarda ad una qualsiasi delle cifre su chi ha la ricchezza e chi no). Ciò che succederà quando si avrà una consistente concentrazione è che l'intero sistema si bloccherà come ha fatto nel 2009. Questo perché l'equilibrio e il mantenimento e la sopravvivenza di questo sistema dipendono dalla circolazione di questi beni immateriali. Non appena inizieranno ad essere accumulati, o non appena le persone che li hanno inizieranno a reinvestirli in qualche sorta di bene materiale, entrambe queste azioni possono innescare un crollo immediato, non necessariamente nel senso di una corsa in banca o di panico, ma nel senso che il sistema non può più fattivamente mantenere il proprio equilibrio ... va verso uno squilibrio sempre più grande, perché questo è lo stato fondamentale per questo tipo di situazione, dove vi è una grande produzione immateriale rispetto a quella materiale limitata.

Sarei tendenzialmente d'accordo. Il valore delle attività finanziarie si fonda sulla promessa di una futura produzione industriale, che non riuscirà a concretizzarsi per la carenza di molteplici risorse chiave. Nell'edizione aggiornata del Reinventing Collapse (che è prevista in stampa la prossima settimana), cerco di arrivare alla stessa conclusione di Michael, sforzandomi di evitare paroloni come "squilibrio":

La misura in cui diamo valore ai soldi dipende dal nostro grado di fiducia nell'economia. In un primo momento, mentre l'economia comincia a crollare, cominciamo ad accumulare soldi, per fare in modo di non rimanere senza. Poi, mentre l'economia continua a deperire, interruzioni di fornitura e impennate dei prezzi portano alcuni di noi a capire improvvisamente che potremmo non essere in grado di accedere alle cose di cui abbiamo bisogno, per molto più a lungo, per non parlare del costo, e che essere a corto di denaro non è fatale come certamente lo è essere a corto di cibo, carburante e altri beni. E allora iniziamo a convertire il nostro patrimonio cartaceo in beni materiali che riteniamo potrebbero essere più utili. Poco dopo tutti si rendono conto che i gettoni che possiedono non valgono più granché. È questa consapevolezza, più di ogni altra cosa, che rende il gettone istantaneamente senza valore. [RC 2.0 p. 54-55]

Negli ultimi mesi ho avuto molte occasioni di passeggiare nel quartiere finanziario di Boston e osservare tutti i topi da laboratorio in giacca e cravatta il cui compito è quello di spingere i pulsanti per cercare di stimolare il centro del piacere cerebrale di qualche benestante. La stragrande maggioranza di ciò che commerciano deriva dal debito garantito da una produzione futura che non esiste. A che punto il piacere del loro patrono varcherà la soglia del dolore? Vedremo gli über-ricchi immolarsi sui roghi dei loro soldi ormai senza valore, solo per sfuggire all'angoscia di essere espropriati dei loro possedimenti fantasma? Auguro a tutti di sopravvivere con la loro precaria sanità mentale intatta, ma non posso fare a meno di auspicarmi un falò delle vanità che lasci alle nostre spalle questo lungo episodio di auto-digitazione finanziaria senza respiro.

Fonte: http://cluborlov.blogspot.com

27 marzo 2011

La Ue prigioniera delle Banche


Il vertice europeo sul Fondo Salva Stati e sul patto di stabilità si chiude con un rinvio che lascia tutto com’è. E intanto l’annunciatissimo crollo a catena dei Piigs prosegue come da copione: dopo la Grecia l’Irlanda, e dopo l’Irlanda il Portogallo


Passata di fatto in secondo piano per le cronache concentrate sulla ennesima guerra di aggressione alla Libia, mascherata naturalmente da intervento umanitario, la situazione economica dell'Europa, e in particolare di alcuni Paesi che ne fanno parte, sta attraversando una fase di conferme di quanto andiamo scrivendo da mesi, anzi da anni.

I fatti recenti, come ampiamente previsto da pochi (e tenuto nascosto da tutti gli altri) stanno purtroppo confermando ciò che anche un ragazzino di prima media avrebbe potuto capire: è impossibile risolvere una situazione economica debitoria accendendo un ulteriore debito, peraltro con interessi superiori a quelli della situazione partenza, per non parlare del fatto che non si rimuove la causa principale dei debiti crescenti.

Bastino tre sole notizie delle ultime ore prima di fare qualche, semplice, riflessione.

La prima è la parabola discendente dello stato economico del Portogallo, terza vittima sacrificale, dopo Irlanda e Grecia, nel copione già scritto in merito ai paesi Piigs della nostra Europa. Le dimissioni del premier Socrates, dopo la bocciatura subita nel parlamento portoghese in seguito alla presentazione dell'ennesimo piano di austerità - il quarto, solo nell'ultimo anno - riflette il fatto che la situazione è veramente molto grave. Film già visto, purtroppo: il popolo giustamente non ne vuole sapere di pagare per una crisi causata da altri, per giunta speculatori, scende in piazza a manifestare contro il piano di tagli previsto, e l'opposizione al governo di Lisbona cavalca l'onda della protesta per bloccare di fatto l'operato del governo in carica. Naturalmente senza avere in tasca lo straccio di una soluzione alternativa per rispondere ad attacchi finanziari e speculativi che piovono da altre parti del mondo sull'Europa intera. Il Portogallo deve essere costretto ad accettare gli aiuti imposti dall'Fmi ai tassi usurai di cui Grecia e Irlanda sono già consci. Non ci sono altre strade - così vogliono far credere - per uscire dalla crisi...

Altra notizia: oltre alla situazione in Grecia – dove aumenta la povertà e si tagliano servizi giorno per giorno, e malgrado questo salgono i rendimenti dei titoli pubblici, la popolazione è in collera costante e montante – oggi scopriamo che anche l'Irlanda (ne ha scritto ieri Stasi proprio qui) ha nuova e ulteriore necessità di chiedere eaccettare altri prestiti. Quelli ricevuti non bastano. Non sono bastati...

Terza notizia: il vertice recente di Bruxelles, che avrebbe dovuto decidere sul fondo salva stati e sul patto di stabilità, ha semplicemente rimandato la decisione. Naturalmente i problemi relativi alla situazione in Libia hanno pesato sull’incontro europeo, ma come chiamare, se non guerra, anche ciò che sta succedendo a livello economico nel vecchio continente? Eppure, a questo proposito, per ora c’è il silenzio. Mentre un numero sempre maggiore di popoli d’Europa inizia a urlare sempre di più.

Ergo? Tre cose in rapida successione. La prima: inesorabile, la crisi continua a montare, dunque gli opinionisti, i politici e gli analisti embedded stanno prendendo per i fondelli la popolazione di tutta Europa. Non solo non stiamo uscendo dalla crisi, non solo ci siamo ancora dentro, ma passo passo si sta procedendo ulteriormente verso il baratro. La seconda: gli aiuti imposti ai vari paesi non solo non sono risolutivi delle situazioni debitorie degli stessi, ma addirittura aggravano la situazione, tanto che, come nel più classico e perverso sistema dei debiti sempre crescenti, i paesi già aiutati hanno ulteriore bisogno di aiuto. La terza: in Europa non si ha idea di come cercare di risolvere la situazione. Si è alla mercé della finanza internazionale e non si ha lo straccio di una strategia, economica, politica, ideologica, filosofica, per sottrarsi al terribile gioco a perdere che questo modello impone a tutti i popoli che continuano a farne parte.

I popoli d'Europa, per quel che ci riguarda da vicino, brancolano nel buio, guidati da una classe dirigente inutile, incapace, colpevolmente prona alle Banche e all’Fmi.

di Valerio Lo Monaco

26 marzo 2011

La baia di Minamata: un disastro ambientale dimenticato

Quello che sta succedendo in Giappone in questi giorni riporta alla mente fatti lontani che hanno segnato la memoria del Paese. Nel 1956 gli sversamenti di acque reflue contaminate al mercurio dell’industria chimica Chisso Corporation hanno prodotto uno dei peggiori disastri ambientali che la storia ricordi. Un disastro con un nome ben preciso: sindrome di Minamata.








baia minamata

Era il 1956 quando nella baia di Minamata fu scoperta per la prima volta quella che è passata alla storia proprio come la malattia di Minamata

I fatti che stanno sconvolgendo il Giappone ripropongono più e più volte, tante quante sono le immagini che ci scorrono quotidianamente sotto gli occhi, interrogativi agghiaccianti e riflessioni profonde. L’insensatezza del progresso sfrenato, l’accecata ossessione per la crescita, il culto dell’atomo, lo sviluppo a tutti i costi hanno contropartite tremende e ricadute fatali.

Il Giappone è uno dei paesi che più degli altri ha fatto dello sviluppo economico, industriale e tecnologico una testa d’ariete per sfondare i mercati internazionali, per crescere esponenzialmente, per sedere al tavolo dei grandi della terra. Le conseguenze però non sempre hanno i colori sfavillanti delle ultime macchinette digitali, la bellezza e la sicurezza dell’ultima automobile piazzata sul mercato.

Non sempre, anzi, quasi mai perché il retroterra dannato del progresso è un deserto, una fanghiglia marcescente che fagocita terre ed uomini e sputa cadaveri e carcasse ed è tanto più ritroso quanto più schifose sono le attività da insabbiare, tanti quanti sono i morti di cui dimenticarsi.

Era il 1956 quando nella baia di Minamata, cittadina di pescatori nella Prefettura di Kumamoto, fu scoperta per la prima volta quella che è passata alla storia proprio come la malattia di Minamata.

Si tratta di una sindrome neurologica causata da avvelenamento da mercurio che provoca atassia (progressiva perdita del coordinamento muscolare); parestesia (alterazione della sensibilità degli arti, i particolare la perdita del senso del tatto a livello topico); indebolimento del campo visivo, perdita dell’udito, difficoltà ad articolare le parole, disordine mentale. Paresi. Morte.

chisso minamata
La Chisso Corporation, un’industria chimica installata nella zona, sversava le acque reflue contaminate da metilmercurio proprio nella baia

Era successo che la Chisso Corporation, un’industria chimica installata nella zona, sversasse le acque reflue contaminate da metilmercurio proprio nella baia, nel mare di Shiranui. Uno sversamento costante, durato ininterrottamente dal 1932 al 1968. Il metilmercurio si è depositato nei fanghi, sul fondo del mare, di cui si nutrono numerosi microrganismi alla base della catena alimentare.

La sostanza è stata quindi assorbita anche da crostacei e molluschi risalendo la catena alimentare fino alla tavola degli abitanti del luogo, la cui dieta è principalmente a base di pesce. I primi ad avvertire i sintomi della malattia furono proprio i pescatori che lavoravano nella baia. Da allora, i casi di avvelenamento ed i conseguenti decessi si susseguirono a ritmo incalzante per più di trent’anni, includendo uomini e animali.

Né la Chisso, né il Governo hanno fatto nulla per evitare il disastro. Dopo i primi casi eclatanti, il morbo di Minamata fu ufficialmente riconosciuto, ma di anni, da quel 1956, ne passarono almeno dodici prima di stabilire il legame fra l’inquinamento prodotto dalla Chisso e la malattia. Durante questi anni non solo l’industria chimica negò la propria responsabilità per la sindrome, ma addirittura l’utilizzo del mercurio nei propri impianti.

sindrome minamata
La sindrome di Minamata è una sindrome neurologica causata da avvelenamento da mercurio che può causare persino la morte

Da allora, fu necessario aspettare il 1968 affinché la Chisso smettesse di sversare acque contaminate nella baia, ma il danno era ormai irreversibilmente compiuto. Oltre alle persone contaminate perché si cibavano del pesce carico di mercurio, già da tempo si registravano anche nascite di bambini malati, sintomo inequivocabile che il morbo si trasmetteva anche al feto.

Il Governo di Tokyo, tuttavia, aveva deciso che la diffusione della malattia si era conclusa con l’interruzione degli scarichi, nel 1968, e nessuno che fosse nato dopo quell’anno poteva essere avvelenato. Questo nonostante la comunità scientifica sostenesse che il veleno non era stato smaltito dal mare.

Il Governo si dimostrò fermo nella sua decisione e nel 1991 il Consiglio Centrale pubblicò una relazione nella quale si dimostrava il calo sensibile dei livelli di metilmercurio nel mare di Shiranui rispetto al 1968. Come conseguenza di questo atteggiamento, tutti i malati nati dal 1969 non godono dei benefici del programma pubblico sanitario per il morbo, nonostante ne mostrino chiaramente i sintomi.

Nel 1997, dopo la dichiarazione del governatore della Prefettura di Kumamoto in merito alla sicurezza sul consumo di pesci e molluschi della baia, furono rimosse le reti che per trenta anni avevano impedito al pesce contaminato di disperdersi in mare aperto. Un atto simbolico che significava anche mettersi alle spalle quel disastro ambientale.

proteste minamata
Da quando il morbo fu ufficialmente riconosciuto gruppi di malati o di parenti di persone decedute a causa della malattia intentarono numerosi procedimenti civili contro il Governo

Un disastro che però non è rimasto circoscritto a Minamata. Tra le 30.000 persone che nel 2009 chiedevano di entrare nel programma sanitario, molte provenivano da altre parti del Giappone e nate da genitori residenti lungo le coste del mare Shiranui.

Nello stesso 2009 il Governo nipponico ha approvato una nuova legge per dare assistenza ai pazienti affetti dal morbo, ampliando la gamma di sintomi necessari per entrare a far parte del programma. A tutti coloro che ricevono gli aiuti governativi, però, è stata chiesta come contropartita di ritirare qualsiasi causa intentata a proposito contro il Governo e la Chisso.

Da quando il morbo fu ufficialmente riconosciuto, infatti, gruppi di malati o di parenti di persone decedute a causa della malattia intentarono numerosi procedimenti civili contro il Governo, considerato il responsabile di norme troppo restrittive nel riconoscimento della sindrome e nell’esenzione dalle spese mediche. Solo nell’ottobre del 2004 la Corte Suprema ha dichiarato enti locali e Governo responsabili del disastro ecologico, intimando il pagamento di risarcimenti alle parti lese.

Nonostante questo, numerosi sono ancora i casi che cadono fuori dalla copertura del programma, mentre i danni prodotti dagli sversamenti non sono stati del tutto smaltiti.

25 marzo 2011

Tagliare le dipendenze


L’attuale sistema economico e politico è fondato sull’accentramento di potere. Da un’unica fonte si genera il flusso che va verso la moltitudine delle persone.

Si pensi ai partiti fino ad arrivare allo Stato. Attualmente vige il meccanismo della delega di potere. Ci sono “libere” elezioni, ma molti su questo hanno dei dubbi legittimi, e chi viene eletto ha una delega in bianco da parte dell’elettorato per fare sostanzialmente quello che vuole, specialmente se può disporre del minculpop dell’apparato informativo, piuttosto rigidamente irreggimentato e basato anch’esso su poche fonti di diffusione delle notizie: oggi tutti i telegiornali e le agenzie si approvvigionano da 4 o 5 fonti internazionali che hanno il monopolio dell’informazione. In pratica la politica dispone di una cambiale firmata in bianco dall’elettorato su un generico programma che a dirla tutta oggi non offre molti spunti di diversità fra le varie parti.

Questo schema che sintetizzando si può definire “da uno a molti” è anche usato nell’economia dove una megasocietà eroga servizi a volte anche a quasi la totalità delle persone, pensate al sistema monetario e finanziario, alle telecomunicazioni, alla distribuzione delle merci, all’informazione, all’energia, alle autostrade ecc.

Tutt’al più si può arrivare a sistemi di distribuzione decentrati dove si replica per motivi pratici il sistema “da uno a tutti” in scale ridotte territorialmente per permettere la capillarità di diffusione ed è lo schema seguito dalle regioni e dalle province.

In questo sistema “da uno a tutti” o al massimo “decentralizzato” si privilegia la delega di potere e non si è partecipi delle scelte e delle decisioni, queste si possono solo subire senza poter essere parte attiva. Un altro aspetto è che in questo modo si permette a qualcuno di arrivare a posizioni di potere e benessere a svantaggio di molti alimentando così gli enormi squilibri di cui oggi siamo circondati.

Il sogno americano si basa proprio su questo dicendo in pratica: uno su mille ce la fa, focalizzandosi su quell’uno che riesce, ma dimenticandosi degli altri 999 poveracci che invece continueranno a non farcela.

Questo alimenta dei processi di alienazione, dove chi non ce la fa subisce un’onta e cade in depressione, dove la competizione e la lotta hanno il sopravvento sulla natura umana che invece propende per la collaborazione.

L’atteggiamento che abbiamo appena visto viene esasperato dall’uso di un mezzo di scambio che si basa sul debito come abbiamo esaminato anche in altri articoli. La scarsità apparente si manifesta e la solitudine e la disperazione hanno il sopravvento.

Avremmo un sistema molto più efficiente, meno appetibile per coloro che tentano di prevalere sulle moltitudini e dove le persone non delegano, ma si supportano reciprocamente. Certo questa impostazione richiede una consapevolezza da parte di tutti molto maggiore dell’attuale, una presa di coscienza che l’azione di ognuno è funzionale al benessere e alla circolazione della ricchezza e della libertà in tutto il sistema.

Prendiamo ad esempio l’energia. L’attuale sistema si basa sull’assurdità che l’energia, anche quella da fonti rinnovabili, prodotta ad es. in Puglia venga consumata a Milano con dispendio di risorse e perdite di energia notevoli durante il tragitto. L’efficienza della rete sarebbe quella di consumare sul posto l’energia prodotta con evidenti risparmi su tutti i fronti. Perché non si adotta? Semplicemente perché verrebbero meno tutti i possibili interessi che nascono dalla distribuzione accentrata.

La stessa cosa avviene con la rete di internet dove ci sono monopolisti che erogano il servizio e anche la liberalizzazione dell’ultimo miglio non ha spostato le forze in gioco e tutto questo a svantaggio della circolazione delle informazioni. Esiste invece un sistema diffuso di reti a maglia (mesh) che permetterebbero alla comunità di avere enormi vantaggi sia in termini di costo del servizio che di efficienza della rete che essendo composta da nodi sia riceventi che trasmittenti sarebbero immuni ad esempio da interruzioni dovute a catastrofi naturali, ad esempio terremoto, oppure da colpi di mano tese a bloccare il flusso delle informazioni.

L’unione, se disinteressata e tesa al benessere diffuso, fa veramente la forza e questo da sempre l’uomo lo sa perché si raggruppa sempre in comunità e più questa unione era compatta più il suo benessere era maggiore. Oggi invece abbiamo enormi comunità di singoli che non colloquiano, si guardano con sospetto e soprattutto non collaborano fra di loro e questo non può che provocare depressione, senso di abbandono e sofferenza oltreché alimentare il divario fra ricchi e poveri, divario che invece di essere combattuto con maggiore cultura, con investimenti in istruzione e nel sociale a volte viene scientemente alimentato affinché il sistema “da uno a molti” possa seguire a mietere vittime innocenti.

La stessa cosa che avvenne per l’unità d’Italia che spinse i piemontesi a invadere il ricco sud e lo portò a depredarlo di un tesoro che Pino Aprile nel suo libro Terroni ha attualizzato in 1.500 miliardi di euro, il PIL odierno dell’Italia e un milione di morti su 9 che abitavano il sud all’epoca. Senza contare stupri di massa e orrori indicibili di ogni tipo e la distruzione negli anni successivi di ogni risorsa, infrastruttura, attività, portando quello splendido paese e quelle persone a essere preda di delinquenti, massonerie, mafie anche in doppio petto.

Il potere poi copre, nasconde e tacita ogni voce, costruisce sulla menzogna e cancella ogni traccia, ma non per sempre perché immancabilmente arriva il momento della verità.

La spinta innata ad unirsi viene manipolata e sfruttata egoisticamente anche per ciò che riguarda l’unione fra stati. L’unione europea ad esempio non è nata per aumentare il benessere all’interno del vecchio continente, ma per motivi di supremazia economica, per creare un solo grande mercato e accentrare ancora di più il potere in mano a pochi.

Basandosi su questi presupposti questa unione, come tutto quello che si basa su queste intenzioni, non potrà che fallire.

Capito questo concetto è facile tracciare la strada per la liberazione:

di Paoletti Pierluigi

24 marzo 2011

Come finirà l'era del petrolio?

COLLASSO DEL VECCHIO ORDINE PETROLIFERO


Qualunque sia l’esito delle proteste, sommosse e ribellioni che stanno ora spazzando il Medio Oriente, una cosa è certa: il mondo del petrolio sarà trasformato in maniera definitiva. Dobbiamo considerare tutto ciò che sta accadendo come solo il primo tremore di un terremoto del petrolio, che scuoterà il nostro mondo fin nelle sue parti più profonde.

Per un secolo dalla scoperta del petrolio nel sud-ovest della Persia prima della prima Guerra Mondiale, le potenze occidentali sono ripetutamente intervenute in Medio Oriente per assicurare la sopravvivenza dei governi autoritari dediti alla produzione di petrolio. Senza tali interventi l’espansione delle economie occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’attuale ricchezza delle società industrializzate sarebbe inconcepibile.

Qui, in ogni caso, sono riportate notizie che dovrebbero essere in prima pagina in qualsiasi giornale nel mondo: il vecchio assetto del petrolio sta morendo e con esso vedremo la fine del petrolio accessibile e a buon mercato – per sempre.

La fine dell’età del petrolio

Proviamo a misurare cosa è effettivamente a rischio nel tumulto corrente. Per iniziare, non c’è praticamente alcun modo di rendere piena giustizia al ruolo cruciale svolto dal petrolio del Medio Oriente nell’equazione energetica mondiale. Sebbene l’economico carbone abbia alimentato l’iniziale Rivoluzione Industriale, con le ferrovie, le navi a vapore, le industrie, il petrolio a buon mercato ha reso possibile l’automobile, l’industria aeronautica, i sobborghi, l’agricoltura meccanizzata e l’esplosione della globalizzazione economica. E mentre un pugno delle maggiori aree produttrici di petrolio ha lanciato l’Era del Petrolio – USA, Messico, Venezuela, Romania, l’area attorno a Baku (in ciò che un tempo era l’impero russo zarista) e le Indie orientali olandesi – è stato il Medio Oriente che ha spento la sete mondiale per il petrolio fin dalla Seconda Guerra Mondiale.

Nel 2009, l’anno più recente per cui sono disponibili tali dati, BP ha riferito che i produttori nel Medio Oriente e nel Nord Africa insieme hanno prodotto 29 milioni di barili al giorno, cioè il 36% della fornitura totale mondiale – e persino questo non dà l’idea dell’importanza di tali regioni nell’economia del petrolio. Più di ogni altra zona, il Medio Oriente ha incanalato la sua produzione nei mercati di esportazione per soddisfare le voglie energetiche di potenze importatrici di petrolio come Stati Uniti, Cina, Giappone e l’Unione Europea. Stiamo parlando di 20 milioni di barili esportati ogni giorno. Confrontiamoli ai 7 milioni di barili esportati della Russia, il maggiore singolo produttore mondiale, ai 6 milioni del continente africano e al misero milione del Sud America.

Come succede, i produttori mediorientali saranno persino più importanti nei prossimi anni perché possiedono, secondo stime, i due terzi delle restanti riserve di petrolio non ancora sfruttate. Secondo le recenti proiezioni del Dipartimento di Energia USA, il Medio Oriente e il Nordafrica forniranno insieme approssimativamente il 43% dell’approvvigionamento di petrolio greggio entro il 2035 (rispetto al 37% del 2007) e produrranno persino una quota ancora maggiore del petrolio esportabile mondiale.

Per porre la questione senza mezzi termini: l’economia mondiale richiede un aumento dell’offerta di petrolio a prezzi accessibili. Il Medio Oriente da solo può provvedere a tale fabbisogno. Ecco perché i governi occidentali hanno a lungo appoggiato regimi autoritari “stabili”nella regione, occupando ed addestrando le proprie forze di sicurezza. Ora questo invalidante ordine pietrificato, il cui successo più grande è stato produrre petrolio per l’economia mondiale, si sta disintegrando. Non contate su alcun nuovo ordine (o disordine) per fornire abbastanza petrolio a buon mercato per preservare l’Età del Petrolio.

Per capire perché questo sarà così, è necessaria una piccola lezione di storia.

Il colpo di stato iraniano

Dopo che la Anglo-Persian Oil Company (APOC) scoprì il petrolio in Iran (allora conosciuta come Persia) nel 1908, il governo britannico ha cercato di esercitare un controllo imperialista sullo stato Persiano. A capo di tale impulso c’era il Primo Lord della Marina Winston Churchill. Dopo aver ordinato la conversione dal carbone al petrolio delle navi da guerra britanniche prima della Prima Guerra Mondiale e aver deciso di porre una significativa fonte di petrolio sotto il controllo di Londra, Churchill orchestrò la nazionalizzazione dell’APOC nel 1914. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, l’allora Primo Ministro Churchill curò l’allontanamento dello Shah vicino alla Germania Reza Pahlavi e l’ascesa di suo figlio, il 21enne Mohammed Reza Pahlavi.

Sebbene incline ad esaltare i suoi (mitici) legami con il passato impero Persiano, Mohammed Reza Pahlavi fu un docile strumento degli inglesi. I suoi sudditi, tuttavia, risultarono sempre meno disposti a tollerare l’asservimento ai feudatari imperiali di Londra. Nel 1951, il Primo Ministro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto, si guadagnò il sostegno del parlamento in merito alla nazionalizzazione dell’APOC, che fu ribattezzata Anglo-Iranian Oil Company (AIOC). L’iniziativa fu molto popolare in Iran ma causò panico a Londra. Nel 1953, per salvaguardare il loro gioiello, i leaders britannici cospirarono in modo infame con l’amministrazione del presidente americano Dwight Eisenhower e con la CIA per progettare un colpo di stato per deporre Mossadeq e riportare in Iran lo Shah Pahlavi dal suo esilio a Roma, una storia raccontata recentemente con grande sfarzo da Stephen Kinzer nel suo “All the Shah’s Men” (“Tutti gli uomini dello Shah)”.

Fino alla sua deposizione nel 1979, lo Shah esercitò una dittatura spietata sulla società iraniana, in parte grazie al cospicuo aiuto dell’esercito Usa e della polizia. All’inizio schiacciò la sinistra laica, alleata di Mossadeq, quindi l’opposizione religiosa, guidata dall’esilio dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. A causa della loro brutale esposizione al carcere e ai proiettili della polizia, forniti dagli Stati Uniti, gli oppositori dello Shah iniziarono a detestare la sua monarchia e Washington in egual misura. Nel 1979, naturalmente, il popolo iraniano scese per le strade, lo Shah fu deposto e l’Ayatollah Khomeini prese il potere.

Molto può essere imparato da questi eventi, che hanno portato all’attuale stallo nelle relazioni tra USA ed Iran. Il punto chiave da capire, però, è che la produzione di petrolio iraniana non si riprese mai dalla rivoluzione del 1979-1980.

Tra il 1973 e il 1979 l’Iran aveva raggiunto una produzione vicina ai sei milioni di barili di petrolio al giorno, una delle maggiori al mondo. Dopo la rivoluzione, l’AIOC (ribattezzata British Petroleum o più tardi semplicemente BP) fu nazionalizzata e di nuovo i manager iraniani si fecero carico della gestione della compagnia. Per punire i nuovi leader iraniani, Washington impose pesanti sanzioni economiche, ostacolando gli sforzi della compagnia per ottenere tecnologia ed assistenza straniere. La produzione di petrolio crollò a due milioni di barili al giorno e, persino tre decenni più tardi, si aggirava solo intorno a poco più di quattro milioni di barili al giorno, anche se il paese possiede la seconda più grande riserva mondiale di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

I sogni dell’invasore

L’Iraq ha seguito un percorso simile. Sotto Saddam Hussein, la compagnia petrolifera di stato Iraq Petroleum Company (IPC) produceva fino a 2,8 milioni di barili al giorno fino al 1991, quando la Prima Guerra del Golfo contro gli USA e le seguenti sanzioni fecero scendere la produzione a mezzo milione al giorno. Anche se dal 2001 la produzione è di nuovo risalita a circa 2,5 milioni di barili al giorno, non ha mai raggiunto i picchi precedenti. Mentre il Pentagono preparava un’invasione all’Iraq alla fine del 2002, comunque, insiders dell’amministrazione ed esuli iracheni ben inseriti, parlavano sognanti di una età dell’oro che sarebbe arrivata, in cui le compagnie petrolifere straniere sarebbero state invitate a tornare nel paese, la compagnia statale petrolifera sarebbe stata privatizzata e la produzione avrebbe raggiunto livelli mai visti prima.

Chi può dimenticare lo sforzo che l’amministrazione Bush e i suoi funzionari a Bagdad hanno messo in atto per avverare il loro sogno? Dopo tutto, i primi soldati americani che avevano raggiunto la capitale irachena avevano assicurato l’incolumità del palazzo del Ministero del Petrolio, anche se avevano permesso ai saccheggiatori iracheni di regnare sovrani nel resto della città. Il Ten. Paul Bremer III, il proconsole poi scelto da Bush per supervisionare la creazione di un nuovo Iraq, portò sul posto un team di dirigenti petroliferi americani per supervisionare la privatizzazione dell’industria petrolifera del paese, mentre il Dipartimento per l’Energia degli USA previde fiduciosamente nel maggio 2003 che la produzione irachena sarebbe cresciuta a 3,4 milioni di barili al giorno nel 2005, 4,1 milioni entro il 2010 e 5,6 milioni entro il 2020.

Nulla di tutto ciò è naturalmente accaduto. Per molti iracheni, la decisione degli USA di mettersi immediatamente a capo del Ministero del Petrolio è stata un punto di svolta istantaneo che ha trasformato il possibile sostegno per il rovesciamento di un regime tirannico in rabbia ed ostilità. La presa di posizione di Bremer per privatizzare la compagnia petrolifera di stato ha similmente prodotto una feroce reazione nazionalista tra gli ingegneri petroliferi iracheni, che hanno sostanzialmente affondato il piano. Abbastanza presto è scoppiata un’insurrezione Sunnita su larga scala. La produzione di petrolio è rapidamente crollata, attestandosi a soli 2 milioni di barili al giorno tra il 2003 e il 2009. Durante il 2010 essa è finalmente tornata a 2,5 milioni di barili – ben lontana da quella sognata di 4,1 milioni di barili.

Non è difficile disegnare una conclusione: gli sforzi da parte di stranieri per controllare l’ordine politico in Medio Oriente per il bene della produzione del petrolio genereranno inevitabilmente pressioni compensative il cui risultato sarà una minore produzione. Gli USA e le altre potenze che guardano le insurrezioni, ribellioni e proteste che si accendono attraverso il Medio Oriente dovrebbero infatti essere cauti: qualunque sia la loro volontà politica o religiosa, le popolazioni locali tirano sempre fuori una feroce, appassionata ostilità verso il predominio straniero e, messe alle strette, sceglieranno l’indipendenza e la possibilità di libertà piuttosto che una maggiore produzione di petrolio.

Le esperienze in Iran e Iraq possono non essere paragonate in modo usuale a quelle in Algeria, Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Libia, Oman, Marocco, Arabia Saudita, Sudan, Tunisia e Yemen. Comunque ognuno di loro (e altri paesi similmente suscettibili di essere coinvolti nei tumulti) mostra alcuni elementi di identico stampo politico autoritario e tutti sono connessi a livello del petrolio. Algeria, Egitto, Iraq, Libia, Oman e Sudan sono produttori di petrolio; Egitto e Giordania difendono oleodotti vitali e, nel caso dell’Egitto, un oleodotto cruciale per il trasporto del petrolio; Bahrein e Yemen come l’Oman occupano punti strategici lungo le maggiori rotte del petrolio. Tutti hanno ricevuto sostantivi aiuti militari dagli USA e/o ospitano importanti basi militari. E, in tutti questi paesi, lo slogan è sempre lo stesso: “Il popolo vuole che il regime cada”.

Due di questi regimi sono già caduti, tre sono traballanti e gli altri sono a rischio. L’impatto sui prezzi mondiali del petrolio è stato rapido e spietato: il 24 di febbraio, il prezzo per il greggio North Brent, un punto di riferimento del settore, ha sfiorato i 115 dollari al barile, il prezzo più alto dalla crisi economica dell’ottobre del 2008. Un altro greggio di riferimento, il West Texas Intermediate, ha varcato, per poco e sinistramente, la soglia dei 100 dollari.

Perché i Sauditi sono la chiave

Finora il maggiore produttore mediorientale di petrolio, l’Arabia Saudita, non ha mostrato palesi segni di vulnerabilità, o i prezzi sarebbero saliti persino di più. Tuttavia, la casa reale del vicino Bahrain è attualmente in guai seri; decine di migliaia di manifestanti – oltre il 20% del suo milione e mezzo di persone – sono scesi più volte per le strade, nonostante le minacce di aprire il fuoco, in un movimento per l’abolizione del governo autocratico del re Hamad ibn Isa al-Khalifa e la sua sostituzione con un governo autenticamente democratico.

Questi sviluppi sono particolarmente preoccupanti per la leadership Saudita perché il cambiamento in Bahrain è guidato dalla popolazione Sciita, a lungo abusata, contro una radicata élite Sunnita al potere. Anche l’Arabia Saudita ha al suo interno – sebbene non come in Bahrain – una popolazione a maggioranza Sciita che ha sofferto la discriminazione dai governanti Sunniti. C’è la preoccupazione a Riyadh che le manifestazioni esplose in Bahrain possano diffondersi nell’adiacente e ricca provincia dell’Arabia Saudita – l’unica area dove gli Sciiti formano la maggioranza -, diventando una grossa minaccia per il regime. In parte per prevenire ogni ribellione da parte dei giovani, il vecchio re 87enne Abdullah ha appena promesso 10 miliardi di dollari, che sono parte di un pacchetto di 36 miliardi di sovvenzioni per aiutare i giovani cittadini sauditi a sposarsi ed ottenere case ed appartamenti.

Anche se la ribellione non arriverà in Arabia Saudita, il vecchio ordine del petrolio del Medio Oriente non potrà essere ricostruito. Il risultato è sicuramente un declino di lungo termine nelle disponibilità future di petrolio esportabile.

Tre quarti dei 1,7 milioni di barili di petrolio che la Libia produce al giorno sono stati rapidamente ritirati dal mercato non appena le agitazioni sono iniziate. Gran parte di esso può rimanere fuori dal mercato per un tempo indefinito. Egitto e Tunisia si attende che ripristino presto la produzione, modesta in entrambi i paesi, ai livelli precedenti alle manifestazioni, ma è improbabile che abbraccino l’idea delle grandi joint-ventures con imprese straniere che potrebbero aumentare la produzione, indebolendo il controllo locale. L’Iraq, la cui maggiore raffineria è stata gravemente danneggiata dai ribelli la scorsa settimana, e l’Iran non mostrano segni di poter incrementare significativamente la produzione nei prossimi anni.

Il giocatore cruciale è l’Arabia Saudita, che ha appena aumentato la produzione per compensare le perdite libiche sul mercato globale. Ma non aspettiamoci che questo duri per sempre. Supponendo che la famiglia reale sopravviva all’attuale ciclo di sconvolgimenti, dovrà deviare la maggior parte della sua produzione giornaliera per soddisfare il crescente consumo interno e di carburante per le locali industrie petrolchimiche che potrebbero soddisfare una popolazione in rapida crescita, inquieta con impieghi meglio retribuiti.

Dal 2005 al 2009 i sauditi hanno consumato circa 2,3 milioni di barili al giorno, lasciandone 8,3 milioni per l’esportazione. Solo se l’Arabia Saudita continuerà a fornire almeno tale quantità ai mercati internazionali, il mondo potrebbe persino soddisfare i suoi bisogni previsti di petrolio a buon prezzo. Questo non è probabile che si verifichi. I reali Sauditi hanno espresso riluttanza per aumentare la produzione molto al di sopra dei 10 milioni di barili al giorno, temendo danni ai loro settori rimanenti e quindi un calo nei profitti futuri per la loro numerosa stirpe. Allo stesso tempo, l’aumento della richiesta interna si prevede che consumerà una sempre crescente quota della produzione netta del paese. Nell’aprile 2010 l’amministratore delegato della compagnia di stato Aramco, Khalid al-Fahlil aveva previsto che il consumo interno potrebbe raggiungere l’incredibile cifra di 8,3 milioni di barili al giorno entro il 2028, lasciando soltanto pochi milioni di barili per l’esportazione, con la garanzia che, se il pianeta non rivolgerà l’attenzione ad altre fonti energetiche, ci sarà fame di petrolio.

In altre parole, se si traccia una traiettoria ragionevole dagli sviluppi attuali nel Medio Oriente, essa è già con le spalle al muro. Dato che nessuna area è capace di rimpiazzare il Medio Oriente come primo produttore mondiale di petrolio, l’economia stessa del petrolio deperirà – e con essa l’economia mondiale nel suo complesso.

Dobbiamo considerare il recente aumento dei prezzi del petrolio come solo un lieve tremore che annuncia un terremoto petrolifero prossimo a venire. Il petrolio non sparirà dai mercati internazionali, ma nei prossimi decenni non raggiungerà mai i volumi necessari a soddisfare la domanda mondiale prevista e ciò significa che, più presto che tardi, la scarsità sarà la condizione dominante dei mercati. Solo il rapido sviluppo di fonti energetiche alternative e una drammatica riduzione nel consumo di petrolio potrebbe risparmiare al mondo le più gravi ripercussioni economiche.

di Michael T. Klare


Michael T. Klare è docente di studi sulla pace e sulla sicurezza all’Hampshire College, un regolare TomDispatch e l’autore del recente “Rising Powers, Shrinking Planet”. Un film-documentario del suo precedente libro, “Blood and Oil” è disponibile presso la Media Education Foundation. Per ascoltare l’ultima intervista TomCast di Timothy MacBain in cui Klare spiega come la scarsità delle risorse è il motore delle proteste e molto altro sul nostro pianeta, cliccate qui o scaricatela sul vostro iPod qui.

Titolo originale: "The Collapse of the Old Oil Order "

23 marzo 2011

La crisi libica rivela l'incompetenza della politica europea

Per quanto possa suonare paradossale, il significato strategico della crisi libica è di importanza secondaria rispetto al tema decisivo posto dal pericolo proveniente dalla "Cintura di fuoco" del Pacifico e dalla svolta politica globale dettata dalla mobilitazione economica/scientifica richiesta per fronteggiare quel pericolo.

Per cominciare, la politica dei bombardamenti decisa per iniziativa dell'alleanza anglo-francese finirà con l'aumentare il tasso di caos nella regione. Il Presidente francese Nicolas Sarkozy potrà credersi un piccolo Napoleone, intento a raccogliere i frutti del suo bullismo alle prossime elezioni, ma egli è poco più di una marionetta nel neocoloniale gioco alla "Sykes-Picot" gestito dai britannici. Il gioco britannico mira a "provocare il maggior danno possibile" alla regione, ha commentato LaRouche. Il ruolo USA, sotto l'impulso del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton piuttosto che della Casa Bianca di Obama, è apparentemente diverso. Purtuttavia, il modo in cui è stata stilata la risoluzione dell'ONU ed è stato eseguito il confuso mandato alcune ore dopo conferma i timori di LaRouche.

"Il fatto è che non esiste un governo europeo, a questo punto, che abbia una politica competente sull'Africa", ha affermato lo statista americano.

Il caso italiano è esemplare: siamo il principale partner commerciale e acquistiamo un terzo del petrolio e una gran parte del nostro gas naturale dalla Libia. Inizialmente, il governo italiano si è opposto ai bombardamenti, suggerendo un semplice blocco navale. Ma una volta inaugurata la "Coalizione dei volenterosi" al vertice di Parigi, siamo saliti sul tram e abbiamo mandato i Tornado a bombardare il bunker di Gheddafi. E dopo aver perso un terzo delle forniture di petrolio, decidiamo pure di sospendere il piano nucleare. Certo che la follia non ha limiti.

Nell'assenza di una vera politica, che deve includere una prospettiva di sviluppo, il rischio vero è che la Libia diventi una seconda Somalia.

La Germania ha preso una decisione saggia non entrando nella "Coalizione dei volenterosi". In un'intervista al The LaRouche Show, Helga Zepp-LaRouche ha appoggiato la decisione della Merkel, e ha ammonito contro l'aumento di instabilità a seguito dell'intervento militare. Riferendosi al ripreso flusso di migranti verso Lampedusa, Malta e la Grecia, la signora Zepp-LaRouche ha anche appoggiato l'idea di un Piano Marshall per l'Africa proposto da Frattini e Maroni. I britannici sono terrorizzati dal processo di sciopero di massa scatenatosi nelle regioni mediterranea e transatlantica, ha detto, e stanno tentando il loro gioco. Ma invece di giocare sul terreno scelto da loro, dovremmo aggirarli sui fianchi. Il modo per farlo è lanciare un cambiamento della politica globale, e sostituire il sistema monetario con un sistema creditizio per finanziare la ricostruzione economica mondiale.
by Movisol

Miraggi nel deserto

I Francesi sono diventati dei galli da combattimento, gli italiani si comportano come galline disorientate e starnazzanti , le volpi inglesi guaiolano nel deserto ma si adattano all’ambiente, i serpenti americani strisciano lentamente sotto la sabbia, i salmoni norvegesi nuotano controcorrente per tornarsene ai propri fiumi, l’orso russo comincia a bramire dopo i gorgheggi del suo Presidente usignolo. Sul deserto africano piovono razzi ma a disintegrarsi è l’Europa, avanti in ordine sparso in un conflitto che sta diventando un regolamento di conti tra potenze del Vecchio Continente. Sarkozy, va à la guerre per tornare protagonista nel mediterraneo e per fare il macho con Carlà. Difatti, l’anno prossimo ci sono le elezioni e con quel grugno che si ritrova dovesse perderle insieme alla livrea presidenziale verrebbe a cascargli pure il fascino del potere e poi addio mogliettina prelibata. La Francia ha tutto da guadagnare dalla situazione e comunque non aveva nulla da perdere sin dall’inizio. Se il gran colpo dovesse riuscirle gli insorti libici dimostreranno la loro riconoscenza, come già si può percepire dai drapeaux tricolori che sventolano a Bengasi. Gli inglesi sono ugualmente soddisfatti, eccetto per l’eccessivo protagonismo di Parigi, e da un mese, con le loro forze speciali, stanno armando ed addestrando i ribelli per decapitare il dittatore della Sirte. Il nuovo Governo anche con loro sarebbe riconoscente. Gli americani non hanno bisogno di ottenere nulla perché loro la riconoscenza la incutono, sono ancora l’iperpotenza mondiale. A noi italiani invece non ci riconoscerà nessuno, nemmeno se andassimo in giro con una pizza sulla testa e gli spaghetti intorno al collo. Avevamo qualcosa da tutelare in Libia ma appena cesserà il fuoco rimarremo con un pugno di cenere in mano. Comunque vada a finire questa guerra noi italiani siamo fottuti dopo aver intrattenuto relazioni privilegiate ed esclusive in quel paese. Come scrive Davide Giacalone sul suo sito è questo lo scenario che tra breve potrà profilarsi: “…in Tripolitania resta la famiglia del colonnello; in Cirenaica vanno al governo quelli che i francesi hanno già riconosciuto, e di cui noi sappiamo poco e nulla; mentre nel Fezzan resta la sabbia e le tribù. Il che significa: dalla Tripolitania non becchiamo più nulla, piuttosto vendono tutto ai cinesi; dalla Cirenaica smezziamo con gli altri vincitori, vedendo crescere i francesi, consolidarsi gli inglesi e dimagrire gli italiani; dal Fezzan proviamo a prendere i datteri”. Stiamo facendo la figura dei cretini ma i nostri politici si sentono dei paladini della giustizia e della libertà. Se il problema reale era quello di tutelare i diritti umani in quel Paese costoro avrebbero dovuto chiedersi come mai all’Onu finora nessuno si fosse accorto di nulla. Anzi, questo organismo internazionale aveva descritto la Libia come una poesia e Gheddafi come un sovrano illuminato. Ecco cosa diceva un rapporto ufficiale dell'Onu del gennaio 2011: “In Libia la protezione dei diritti umani è generalmente garantita...ed include non solo i diritti politici ma anche quelli economici sociali e culturali...all'avanguardia nel campo del diritto alla salute e nella legislazione sul lavoro...la Libia ha abolito tutte le leggi discriminatorie...”. E così la frittata è fatta. C’era da aspettarselo, la nostra classe dirigente ha le traveggole quando sta a Roma figurarsi cosa poteva capitarle nel deserto. I miraggi si sono centuplicati ed ha perso ogni cognizione della realtà.
di Gianni Petrosillo

22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

giovani
"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini