31 marzo 2008

Il vaticano e, il papa nero


L'ex vescovo Gerard Bouffard del Guatemala ha affermato che il Vaticano è “il reale controllore spirituale” degli Illuminati e del Nuovo Ordine Mondiale, mentre i Gesuiti, tramite il Papa Nero, il generale padre Peter Hans Kolvenbach, controllano in modo effettivo la gerarchia vaticana e la Chiesa Cattolica Romana.

Il vescovo Bouffard, che ha lasciato la Chiesa ed ora è un Cristiano Rinato che vive in Canada, ha fondato la sua conclusione dopo aver lavorato sei anni come sacerdote in Vaticano, incaricato del compito di trasmettere la corrispondenza giornaliera e riservata tra il Papa ed i dirigenti dell'Ordine dei Gesuiti, che risiede in Borgo Santo Spirito n° 5, nei pressi della piazza di San Pietro.

“Si, l'uomo conosciuto come il Papa Nero controlla tutte le più importanti decisioni prese dal Papa e questi a sua volta controlla gli Illuminati,” ha dichiarato il vescovo Bouffard la settimana scorsa nel corso dello spettacolo svolto alla radio di Greg Szymanski, denominato “Il giornale investigativo”, presso , ove gli archivi delle sorprendenti dichiarazioni possono essere ascoltati nella loro interezza.

“So che questo è vero, dal momento che ho lavorato per anni in Vaticano ed ho viaggiato con Papa Giovanni Paolo II. Il Papa prende i suoi ordini di marcia dal Papa Nero, mentre i Gesuiti sono anche i leader del Nuovo Ordine Mondiale, con il compito di infiltrare le altre religioni ed i governi del mondo, allo scopo di realizzare un governo mondiale unico fascista ed una religione mondiale unica, basata su Satanismo e Lucifero.”

“Le persone non possono immaginare quanto male e quanta distruzione i Gesuiti hanno causato e causeranno, mentre contemporaneamente usano la perfetta copertura di nascondersi dietro tuniche nere e di professare di essere uomini di Dio.”

La conoscenza di prima mano da parte del vescovo Bouffard del male che aleggia all'interno della gerarchia del Vaticano e particolarmente entro l'Ordine dei Gesuiti conferma la testimonianza di altri ricercatori, compreso Bill Hughes, autore degli sconvolgenti libri “Il nemico non mascherato” ed “I terroristi segreti”, come pure il preminente ricercatore sull'Ordine dei Gesuiti Eric Jon Phelps, autore di “Assassini vaticani”.

Oltre a dipingere un cupo ritratto del Papa Nero in Roma, il vescovo Bouffard rivela che il potere malefico dei Gesuiti si estende da un capo all'altro del mondo, inclusa una solida infiltrazione del governo Usa, del Consiglio delle Relazioni Estere (CFR) e delle maggiori organizzazioni religiose.

Il vescovo Buffard proclama che i Gesuiti agiscono come perfetti camaleonti, assumendo l'identità' di Protestanti, Mormoni, Battisti e Giudei, con l'intenzione di causare il tracollo degli Usa così come di portare la nazione sotto una religione mondiale unica, fondata in Gerusalemme e sotto il controllo del loro leader, Lucifero.

“Io so di prima mano che il Vaticano controlla e monitora ogni cosa in Israele, con l'intenzione di distruggere i Giudei,” ha affermato il vescovo Bouffard, aggiungendo che l'autentico proposito dell'Ordine dei Gesuiti è quello di orchestrare e controllare tutti i leader del mondo, allo scopo di provocare un più importante conflitto esteso al mondo intero, che alla fine distruggerà gli Usa, il Medio Oriente ed Israele. “Essi distruggono ogni cosa dall'interno e vogliono provocare la distruzione pure della stessa Chiesa Cattolica, allo scopo di inaugurare una religione mondiale unica basata sul Satanismo. Ciò si vede anche nel modo in cui i sacerdoti svolgono i servizi religiosi nella Messa, in effetti venerando i morti (1). Inoltre segni di Satanismo si riscontrano in molti simboli esteriori, consuetudini e paramenti esibiti dalla Chiesa.”

Dopo aver prestato servizio in Roma, il vescovo Bouffard fu impiegato in Africa ed in Guatemala, salendo ad una posizione di potere all'interno della Chiesa. Comunque, insieme a questo potere religioso, sopravvenne l'affiliazione e la registrazione come Frammassone, e divenne membro massonico del 37.mo grado, un qualcosa che si suppone disapprovato nella Chiesa Cattolica Romana, dal momento che, secondo il Diritto canonico, l'appartenenza ad una Loggia massonica comporta l'immediata scomunica.

Secondo il vescovo Bouffard la Frammassoneria viene usata dalla Chiesa per realizzare i suoi piani segreti, perché molti altri sacerdoti di alto livello, ossia vescovi, cardinali e persino papi, si sono iscritti a società' segrete insieme ad altri in posizioni di potere in altre religioni e governi, la maggioranza di loro lavorando insieme per favorire la malefica agenda degli Illuminati.

E le sue dichiarazioni sostengono i rapporti che affiorarono sui giornali italiani e francesi nei primi anni '80, che recavano notizia di più di 150 sacerdoti di alto rango iscritti alla Frammassoneria, compresa la Loggia massonica P2, e ad altre società segrete.

“Alla fine rinacqui come cristiano e denunciai la Chiesa Cattolica,” ha affermato il vescovo Bouffard, che ora è un Cristiano praticante e segue la parola di Dio tramite la Bibbia. “Dobbiamo sempre pregare per i nostri dirigenti, denunciando apertamente il male e smascherando i Gesuiti per quello che realmente sono.”

Dopo aver lasciato la Chiesa, il vescovo Bouffard fece anche ammenda e chiese perdono all'ex sacerdote gesuita, padre Alberto Rivera. Padre Rivera fu uno dei pochi sacerdoti gesuiti con il coraggio di smascherare i malefici scopi della Società di Gesù, facendo un passo avanti per proclamare in che modo lavorasse, essendo uno degli infiltrati dell'Ordine dei Gesuiti in Usa, con il compito di penetrare nelle chiese Protestanti e Battiste, con l'intento di distruggerle dall'interno.

“Quando ero vescovo ed ancora fedele alla Chiesa, una volta scrissi una lettera, denunciando padre Rivera e proponendo la sua morte,” ha dichiarato il vescovo Bouffard. “Quando compresi la verità', cercai padre Rivera e chiesi il suo perdono. Diventammo buoni amici ed io so che diceva la verità. Era un uomo onesto, che, per giunta, trovò Dio.”

“Io so che i Gesuiti hanno cercato di alterare la verità, affermando che egli non era mai stato sacerdote e distruggendo ogni documentazione che lo attestasse. Hanno cercato di fare lo stesso a me, ma padre Rivera proclamava la verità senza dubbi. Conosco queste vicende come testimone e sono anche stato con lui molte settimane prima della sua morte. Soffriva terribilmente dopo essere stato avvelenato con acido. Come ho già detto, non potete immaginare la sofferenza e la distruzione che sono state causate e saranno causate dai Gesuiti.”

In un articolo intitolato “Alberto: il grande trambusto”, uno scrittore sconosciuto, che seguiva la carriera del vescovo Bouffard e la sua connessione con padre Rivera, scrisse quanto segue, compresa la difficoltà da parte del Vaticano nel cercare di censurare le accuse sia di Rivera che di Bouffard:

“A quel punto subentra la avvalorante testimonianza fornita da padre Gerard Bouffard. Egli era un vescovo di alto rango nato nel Quebec, Canada. Salì dai più bassi livelli del suo ordine sino a diventare assistente per molti anni di Papi quali Paolo VI e Giovanni Paolo II. Si convertì al protestantesimo e proclama di essere stato l'uomo che ricevette l'ordine di eliminare Rivera. In un documentario denominato “Svelare il mistero posto dietro i simboli cattolici”, Bouffard mostra una lussuosa penna placcata in oro 18 carati, che contiene uno speciale inchiostro che scompare, con cui le autorità del Sacro Uffizio firmano i documenti al massimo livello di segretezza. Bouffard proclama: “Con questa penna che ho in mano ho firmato l'ordine di uccidere il Dr. Rivera”. Considerevole e drammatica storia di cappa e spada ! La sua precedente posizione di alto profilo lo renderebbe facile bersaglio di discredito... Tuttavia il silenzio è assordante.”

“Il Vaticano ha anche i suoi propri problemi di credibilità con cui lottare. Da un contesto storico la proclamazione di Alberto di essere stato un gesuita che lavorava in segreto per distruggere le chiese protestanti non e' tanto inverosimile quanto potrebbe sembrare. I Gesuiti furono creati nel 1541 da Ignazio De Loyola per quel preciso proposito (sebbene, naturalmente, alcuni Gesuiti neghino ciò). Essi si sono impegnati in innumerevoli sporchi imbrogli, assassinii e congiure traditrici durante il periodo del loro maggiore successo e potere.”

L'Ufficio della Inquisizione fu un risultato della loro missione, che portò alla tortura e/o uccisione di milioni di persone innocenti per “eresia”. Quel dipartimento da allora è stato rinominato “Il Santo Uffizio”, ma i Gesuiti non si sono mai preoccupati per un cambio di nome. Quanto i loro obiettivi siano cambiati con il passare del tempo è anche incerto. Né l'organizzazione è molto trasparente e neanche serve gli interessi del Papa. Le cattive reputazioni non vengono facilmente dimenticate.

“Se la storia di Alberto fosse solo una montatura, sarebbe tuttavia un brillante brano di narrativa, con sbalorditiva coerenza. Esistono certamente altre cospirazioni che siano state escogitate, che sono egualmente vivide ed intricate. La congiura per l'assassinio di JFK e quella degli UFO / Majestic 12 (2) vengono per prime alla mente. Ma queste cospirazioni furono ideate e perfezionate da centinaia di persone nell'arco di un lungo periodo di tempo, quindi assemblate e rifinite, fino al punto in cui formassero una narrazione plausibile. Dopo circa venti anni di “apporti pubblici” e revisioni, viene adottata una versione semi “ufficiale”. Se qualche specifica parte di essa viene dimostrata falsa, la versione si modifica in una forma leggermente differente, privata delle parti confutate.”

Alberto non aveva nessuna di queste risorse. La sua storia personale provenne da lui solamente. Essa non fu revisionata e rifinita per decenni dalla commissione, prima che Chick la pubblicasse. Al contrario essa fu pubblicata nella sua interezza e solo allora arricchita con volumi addizionali (cinque più i fumetti), aggiungendo nomi e date, ma senza ritrattazioni. Se in effetti “avesse inventato tutto ciò”, allora egli certamente meriterebbe un premio per genio letterario. Specialmente quanto più i suoi personali intrecci biografici sono connessi (sorvolare, Barone von Munchausen ?).

Dopo venti anni di indagini tutte le risorse del Papa non sono riuscite a “provare” che la denuncia di Alberto fosse un falso. Naturalmente neanche Alberto riuscì a “provare” le sue accuse contro il Vaticano. Così, al meglio, la contesa è ancora un pareggio. Forse futuri sviluppi frutteranno qualche evento drammatico. Ma non fateci affidamento. Probabilmente non sapremo mai se Alberto fosse realmente quel personaggio che proclamava di essere, a meno che il Papa faccia un passo chiaro e netto, e lo confessi. (E ciò presenta circa le stesse probabilità di avvenire quanto quelle che un disco volante atterri sul prato della Casa Bianca). Esso, comunque, è precisamente delizioso nutrimento per la meditazione, e molto più terrificante di ogni trailer trasmesso riguardante X-files.

Nel corso della storia l'Ordine dei Gesuiti è stato collegato a guerra e genocidio, venendo formalmente bandito da molte nazioni, comprese Francia ed Inghilterra. Mentre i ricercatori proclamano che i Gesuiti sono i concreti controllori spirituali del Nuovo Ordine Mondiale, lo scrittore Phelps ha anche reclamato il bando dell'Ordine da questa nazione.

Comunque, con più di 28 università maggiori da costa a costa, l'Ordine ha costituito qui una forte base di appoggio politico e finanziario, compreso il controllo segreto del CFR ed il controllo di molte banche, come la “Bank of America” ed il “Federal Reserve banking system”, rendendo l'appello di Phelps per il bando una impresa difficile, se non addirittura proibitiva.
Greg Szymanski

Una invenzione chiamata “il popolo ebraico”


Gli antisionisti lo hanno sempre sostenuto. Gli ebrei non sono un popolo ma una religione. Gli ebrei che sono 'tornati' in Israele non discendono dagli ebrei di Palestina ma dai Kazari. I palestinesi discendono dagli ebrei di Palestina. Ora anche un libro dello storico ebraico Shlomo Zand sostiene e documento queste posizioni. La recensione è di un altro storico ebraico .


La Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che il popolo ebraico proviene dalla Terra di Israele e che fu esiliato dalla sua patria. Ad ogni scolaro israeliano si insegna che ciò accadde durante il dominio romano, nell’anno 70 d.C.

La nazione rimase fedele alla sua terra, alla quale iniziò a tornare dopo 2 millenni di esilio. Tutto sbagliato, dice lo storico Shlomo Zand, in uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati qui (in Israele) da molto tempo a questa parte. Non c’è mai stato un popolo ebraico, solo una religione ebraica, e l’esilio non è mai avvenuto – per cui non si è trattato di un ritorno. Zand rigetta la maggior parte dei racconti biblici riguardanti la formazione di una identità nazionale, incluso il racconto dell’esodo dall’Egitto e, in modo molto convincente, i racconti degli orrori della conquista da parte di Giosué. È tutta invenzione e mito che è servita come scusa per la fondazione dello Stato di Israele, egli assicura.

Secondo Zand, i romani, che di solito non esiliavano intere nazioni, permisero alla maggior parte degli ebrei di restare nel paese. Il numero degli esiliati ammontava al massimo a qualche decina di migliaia. Quando il paese fu conquistato dagli arabi, molti ebrei si convertirono all’Islam e si assimilarono con i conquistatori. Ne consegue che i progenitori degli arabi palestinesi erano ebrei. Zand non ha inventato questa tesi; 30 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, essa fu sostenuta da David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Zvi ed altri.

Se la maggioranza degli ebrei non fu esiliata, come è successo allora che tanti di loro si insediarono in quasi ogni paese della terra? Zand afferma che essi emigrarono di propria volontà o, se erano tra gli esiliati di Babilonia, rimasero colà per loro scelta. Contrariamente a quanto si pensa, la religione ebraica ha cercato di indurre persone di altre fedi a convertirsi al giudaismo, il che spiega come è successo che ci siano milioni di ebrei nel mondo. Nel Libro di Ester, per esempio, è scritto: “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei, perché il timore dei Giudei era piombato su di loro”[1].

Zand cita molti precedenti studi, alcuni dei quali scritti in Israele ma tenuti fuori dal dibattito pubblico dominante. Egli descrive anche, e a lungo, il regno ebraico di Himyar nella penisola arabica meridionale e gli ebrei berberi del Nord Africa. La comunità degli ebrei di Spagna derivava da arabi convertiti al giudaismo che giunsero con le forze che tolsero la Spagna ai cristiani, e da individui di origine europea che si erano convertiti anch’essi al giudaismo.

I primi ebrei di Ashkenaz (Germania) non provenivano dalla Terra di Israele e non giunsero in Europa orientale dalla Germania, ma erano ebrei che si erano convertiti nel regno dei Kazari nel Caucaso. Zand spiega l’origine della cultura Yiddish: non si tratta di un’importazione ebraica dalla Germania, ma del risultato dell’incontro tra i discendenti dei Kazari e i tedeschi che si muovevano verso oriente, alcuni dei quali in veste di mercanti.

Scopriamo così che elementi di vari popoli e razze, dai capelli biondi o scuri, di pelle scura o gialla, divennero ebrei in gran numero. Secondo Zand, i sionisti per la necessità che hanno di inventarsi una eticità comune e una continuità storica, hanno prodotto una lunga serie di invenzioni e finzioni, ricorrendo anche a tesi razziste. Alcune di queste furono elaborate espressamente dalle menti di coloro che promossero il movimento sionista, mentre altre furono presentate come i risultati di studi genetici svolti in Israele.

Il Prof. Zand insegna all’Università di Tel Aviv. Il suo libro, ‘When and How Was the Jewish People Invented’, (Quando è come fu inventato il popolo ebraico), pubblicato in ebraico dalla casa editrice Resling, vuole promuovere l’idea di un Israele come “stato di tutti i suoi cittadini” – ebrei, arabi ed altri – in contrasto con l’attuale dichiarata identità di stato “ ebraico e democratico”. Il racconto di avvenimenti personali, una prolungata discussione teoretica e abbondanti battute sarcastiche non rendono scorrevole il libro, ma i capitoli storici sono ben scritti e riportano numerosi fatti e idee perspicaci che molti israeliani resteranno sorpresi di leggere per la prima volta.
Tom Segev
Tradotto dall’inglese da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete dei traduttori per la diversità linguistica.

29 marzo 2008

Brogli a Palermo:il Diavolo scopre i coperchi?


“Gli arresti di oggi rappresentano solo l’inizio. Ho presentato alla Digos e alla magistratura documenti che testimoniano diverse violazioni nel corso delle elezioni per le amministrative a Palermo l’anno scorso. Il 4 aprile attendiamo il pronunciamento del Tar sugli aspetti amministrativi. Esistono tutte le premesse per annullarle”. Abbiamo raggiunto Leo Luca Orlando dopo la notizia dell’arresto dei due presidenti di seggi elettorali a Palermo per i presunti brogli che l’ex sindaco della primavera palermitana aveva denunciato prima in conferenza stampa poi con una serie di dettagliati esposti. Messi insieme, dimostrerebbero che nelle urne il vincitore sarebbe stato lui. Le manipolazioni, secondo valutazioni dei tecnici di Orlando, avrebbero invece cambiato destinatario a ben 40 mila voti. Dietro tutto questo per Leo Luca Orlando ci sarebbe anche la mafia.
"Il voto amministrativo di Palermo dello scorso autunno è stato prima controllato, poi comprato e infine, visto che era a tutti evidente che avrei comunque vinto al primo turno, è stato manipolato: gli arresti di oggi sono una piccola conferma alle tante e circostanziate denunce che con centinaia di cittadini, anche candidati, presentammo nei giorni successivi al voto." Insiste Leoluca Orlando. “Perché la mafia non si accontenta più di contrattare o comprare i voti. Non si accontenta di certi piccoli regali. Abbiamo dimostrato che in pochi giorni sono stati comprati novemila telefonini tutti dello stesso tipo. Trova meno costoso, più redditizio e più sicuro manipolare il voto. Con cento euro compri un voto. Con un presidente infedele ne sposti trecento. Molto meno rischioso e con maggiori probabilità di risultato di quelli che ottieni blandendo o minacciando trecento persone”.

Ci sono delle responsabilità in tutto questo?
“Ho denunciato con nome e cognome il responsabile della macchina elettorale. Mi auguro che in attesa che si concludano le indagini questa persona non torni a dirigire la macchina elettorale di Palermo. Come ci si può fidare di una persona che convoca i presidenti di seggio e affida loro le schede in assenza di scrutatori e rappresentanti di lista? Alcuni sono stati trovati a timbrare le schede in tutta solitudine. Ricordiamo i verbali sbianchettati, i voti scomparsi nel nulla e, soprattutto, il caos scientificamente organizzato a Palazzo delle Aquile per la ricezione dei plichi elettorali di cui nessuno accertava l'autenticità e la provenienza. Ci sono immagini televisive di plichi lanciati all’ingresso da ragazzi in motorino".

Insomma, non è a ischio solo il voto di chi per necessità è pronto a mercificarlo ma anche il mio, il suo, quelli di chiunque che possono essere contraffatti con un colpo di penna.
“Sì. E tutto questo potrebbe ripetersi tra due settimane”

Segnali di solidarietà politica?
“Pochi. Talvolta ho sentito di combattere questa battaglia quasi da solo. Per fortuna sono intervenute alcune autorevoli voci a condannare certi rumorosi silenzi. Perché è una battaglia che non riguarda solo la mia elezione. E’ una battaglia per il diritto disatteso di ogni singolo elettore. Abbiamo dimostrato che sono state manipolate 40 mila schede. Più che sufficienti a cambiare il corso delle elezioni. 15 mila sarebbero valse ad andare al ballottaggio. 40 mila significavano la vittoria al primo turno. Ne ho parlato con il ministro dell’Interno. Perché così come hanno cambiato il corso delle elezioni comunali simili sviste, errori, caos pianificato, possono incidere anche sulla composizione del Parlamento. Chiediamo garanzie, per gli elelettori”.
di Pino Finocchiaro

Lo STATO-MAFIA si presenta



«Torniamo alla P2 finanziaria a cui ha fatto cenno. Che cosa significa?»
(Dall'intervista di Antonio Di Pietro ad Angelo Notarnicola pubblicata il 16.12.2005)

Che legalità vi aspettate da uno stato, se la mafia, la criminalità organizzata, controlla un quarto, forse un terzo del suo territorio, quindi dei collegi elettorali, quindi presumibilmente dei suoi parlamentari?
Avrete letto le trascrizioni delle telefonate che si scambiavano, in tutta tranquillità, anzi giocosamente, agenti e funzionari di polizia al G8 di Genova 2001, per organizzare pestaggi criminali di innocenti e per poi calunniarli e incastrarli piazzando nella Scuola Diaz bombe Molotov e coltelli portati da loro stessi, nel mentre che lasciavano i veri facinorosi devastare indisturbati la città?

Ebbene, non si tratta di eccezioni, ma della norma: questa, non un’altra, è la mentalità di illegalità e complicità, la prassi dominante di abuso e approfittamento, non solo nelle forze dell’ordine, ma anche nella “giustizia”, in tutto lo stato-mafia, in tutta la sua pubblica amministrazione, dagli appalti di opere pubbliche ai tribunali, dalle operazioni umanitarie alla guerra. Quelli che al processo hanno coperto le colpe dei loro superiori, stanno facendo una brillantissima carriera, sebbene per legge, essendo indagati, non possano essere promossi. Ma il sistema premia i suoi figli come umilia chi fa osservare la legge. Nessuna legalità, solo finzione e fanfare. Certo, esistono funzionari leali e corretti, ma non sono la maggioranza e non incidono sul comportamento dell’insieme.

Le indagini su numerosi giudici corrotti o deviati o direttamente collaboratori di mafia (come nel caso Campagna) o votati alla pronta e sistematica liberazione dei delinquenti, lo spettacolo di grandi processi penali costruiti sul nulla a scopo politico e che hanno gravemente condizionato la vita nazionale, hanno portato ai nostri occhi realtà identiche: l’abuso interessato dei poteri dello Stato è ambientale e accettato dal sistema del potere affettivo. Con tutte le occasioni di controlli incrociati a cui è esposto in un tribunale o in una questura, un magistrato o un funzionario di polizia corrotto verrebbe individuato e bloccato subito dai suoi colleghi, se l’ambiente stesso di questo stato non accettasse culturalmente e strutturalmente l’abuso.

Dovunque si intercetti, dovunque si riesca a sbirciare dietro le quinte, è questo che, troppo spesso, si trova, dagli ospedali ai tribunali, dalle caserme alle università – per non parlare dei ministeri. E si trova anche riscontro a una legge sociale ben nota: tra colleghi ci si copre, lupo non mangia lupo – con alcune eccezioni che confermano la regola.
Si definisce stato-mafia l’apparato di potere, basato su trame illecite per la legge ufficiale, che infiltra, invade e sostituisce lo Stato legale, rilevandone le istituzioni e i poteri, e piegandoli ad ogni abuso per fare i propri interessi. Si discute se lo Stato italiano sia uno stato-mafia oppure no. Secondo alcuni non lo sarebbe ancora, perché sarebbe piuttosto uno stato che deve patteggiare con la mafia, da essa infiltrato e sempre più soppiantato. Io ritengo che lo Stato italiano sia oggi compiutamente uno stato-mafia, specificamente in base a due sue precise caratteristiche: in esso, i collegi elettorali controllati dalla criminalità organizzata sono determinanti per la formazione e la sopravvivenza delle maggioranze parlamentari e dei governi; in esso, il consenso elettorale, finanziario e istituzionale si ottiene attraverso la promessa di partecipazione ai benefici di attività illecite o illegittime organizzate dalle forze politiche, sindacali, economiche - ancor più dopo la riforma-porcata della legge elettorale che ha dato alle segreterie dei partiti il potere di decidere chi può essere eletto e chi no; e ancor più se è vera la Pax Mastelliana tra politica e vertici sindacali dei magistrati, di cui presto dirò, e che avrebbe il fine di consociare i vertici sindacali dei magistrati nel sistema dell’affarismo politico. Ma già una conferma di una profonda anomalia è il fatto che la casta politica ha calpestato, in parallelo, la volontà popolare espressa coi due referendum che toccavano proprio privilegi dei politici e dei magistrati: l’abolizione del finanziamento pubblico ai primi e l’abolizione dell’irresponsabilità dei secondi.

L’affermazione che l’Italia sia uno stato-mafia si può superare, peraltro, rilevando che essa, ancor più che uno stato-mafia, come spiegherò, è uno stato massonico, formato dalla Massoneria straniera, già nel cosiddetto Risorgimento, gestito attraverso il sistema bancario, dal quale – tra l’altro – dipendono funzionalmente quasi tutte le imprese economiche, le pubbliche amministrazioni, persino le principali forze politiche. E dipendono, per il finanziamento, tutti i progetti, pubblici e privati, leciti e illeciti – solo un’associazione segreta, non un parlamento, può gestire i rapporti con parti essenziali e determinanti dell’economia reale, quali il mercato della droga. Questo sistema dicesi “capitalismo assoluto”.

Preciso che so che esiste un’altra e più autentica Massoneria, una Massoneria promotrice di progresso e dei lumi, e ad essa non voglio far torto; ma in questo libro tratto di quella finanziaria e politica.
Da ciò sorgono questioni di carattere etico e giuridico insieme; ad esse si risponderà gradualmente:
Quale obbedienza e quali tributi sono moralmente e giuridicamente esigibili da uno stato-mafia, e in generale a uno Stato che, nella sua realtà, è contrario e illegittimo rispetto alle sue stesse leggi e alla sua stessa costituzione? E, pragmaticamente, che cosa possiamo fare, dopo aver accertato quanto sopra?

Mafia e stato-mafia sono le due facce con cui si presenta ed agisce un medesimo potere economico. Sono mutuamente utili, perché la mafia usa lo stato-mafia per imporre i suoi interessi e le sue politiche alla nazione attraverso una facciata di legalità formale; e lo stato-mafia usa la mafia per dire alla gente: “Quella è la mafia, l’anti-Stato, la criminalità organizzata; io sono lo stato, la difesa della legge e dei cittadini, sostenetemi, abbiate fiducia, pagatemi le tasse”. In questo modo, con questa finta contrapposizione, mafia e stato-mafia, soprattutto nel Meridione, si deresponsabilizzano a vicenda: la mafia esercita il potere senza assumersene la responsabilità politica, che lascia allo Stato; lo Stato, scaricando la colpa sulla mafia, riesce a farsi accettare, a farsi votare, a farsi pagare le tasse, anche se amministra male, dà pessimi servizi, non assicura l’ordine pubblico.
Se il Meridione fosse indipendente, la mafia sarebbe costretta ad andare al potere, nelle istituzioni, ufficialmente, ad assumere le responsabilità politiche da cui oggi si esime, scaricandole sullo Stato. Si dovrebbe trasformare per prendersi cura della società, e probabilmente amministrerebbe il Meridione molto meglio di quanto lo amministra ora attraverso lo stato centralista unitario.

Lo stato-mafia rispetta le leggi solo quel tanto che serve a nascondere la loro sistematica violazione e il fatto che il suo potere, l’affarismo politico, la produzione del consenso elettorale, si basano su quella sistematica violazione e hanno come scopo la sua perpetuazione a profitto dei suoi detentori e a spese della collettività. Le ideologie e i colori politici sono solo maschere per raccogliere consenso e per nascondere il business comune a tutti i politicanti.
Ma l'inosservanza, quindi l’inefficacia, delle regole porta anche al malfunzionamento e alla disorganizzazione del sistema-paese: al suo fallimento.
Ridacchiando, la sera del 27 Novembre 2007 a Radio 2, l’arguto e simpaticissimo senatore omosessuale di maggioranza Franco Grillini (o uno che lo imitava molto bene) disse di aspirare a fare il ministro della difesa perché «le caserme sono piene di ben di Dio» e graziosamente informò gli ascoltatori che Prodi non può cadere anche se il governo stramazza ogni due giorni, anche la maggioranza non c’è più in parlamento, e due terzi del Paese le sono contro: le Camere non possono essere sciolte fino all’autunno, perché i 400 parlamentari di prima nomina matureranno il diritto alla pensione il 28 ottobre 2008.
Quando un parlamento non funziona ma non può esser sciolto solo perché gli “onorevoli” non hanno ancora maturato la pensione, allora la fogna dello stato-mafia è colma, anzi rigurgita. Dalla mefitica cloaca emerge chiaro che i partiti (e gli eletti, come insieme) sono l’anti-popolo, altroché i suoi rappresentanti! Sono i suoi parassiti. Il telegiornale di Rai News 24 del 3 ottobre 2007 riferiva che si è formato il Partito dei 400 – cioè dei 400 neoparlamentari di questo parlamento, i quali hanno bisogno di far durare la legislatura due anni e sei mesi per maturare il vitalizio, quindi, cascasse il mondo, non faranno mancare il loro voto alla maggioranza – quale che sia.

Priva di ogni etica e decoro, pur di mantenere i suoi privilegi pagati dalle tasse e dall’impoverimento della gente, pur di continuare a vivere in una torre d’avorio che la protegge dai problemi della gente, la Casta, a richiesta delle segreterie dei rispettivi partiti, dalle quali feudalmente dipendono le ricandidature, è pronta a votare qualsiasi porcata, persino una legge che, a sfacciato vantaggio della grande distribuzione alimentare, depenalizza la vendita di alimentari nocivi e punisce penalmente la diffusione di informazioni su tali alimenti, perché causa danno ai supermercati che devono venderli alla popolazione ignara…
Appunto il celebre libro di Stella e Rizzo, La Casta, ci fa capire a che cosa servono tante tasse: a mantenere i privilegi e le ruberie di Lorsignori politicanti e le loro clientele elettorali e degli sponsors. Una casta che, essendo di cultura mafiosa, ha logicamente un modo mafioso per imporre le tasse e uno altrettanto mafioso e terroristico (fino all’uso dei grigi e ignari militari col mitra spianato sui lavoratori inermi) per riscuoterle.
Lorsignori, coprendosi coi giornali e telegiornali che sono di loro proprietà, trattano l’attività politica come un mezzo non per servire il popolo, per amministrare bene la cosa pubblica, ma per arricchirsi e per assicurarsi rendite. Le rendite sono quei redditi che ti entrano anche se non fai nulla in cambio per gli altri, ossia anche se non fatichi, se non ti rendi utile, se non vali una cicca. In sostanza, sono redditi parassitari. Una volta eletti a qualche carica che comporti un reddito, non la mollano più. Tra di loro, si riconoscono reciprocamente questo diritto alla non-precarietà del reddito politico. Esigono la rendita fissa e garantita. Non accettano di poterla perdere. Se non sono rieletti, la Casta riconosce loro il diritto a qualche sistemazione alternativa, parassitaria, nei consigli di amministrazione o alla direzione di qualche ente pubblico più o meno inutile. Tutto da pagarsi con le tasse della gente.

In questo, è una casta perfettamente bipartisan, trasversale: solidale all’interno, inscena contrapposizioni ideologiche unicamente per ingannare gli elettori, per farli credere che ci sia dialettica, diversità, alternativa. Ai politicanti oggettivamente conviene, nel senso che rende molto di più e dà molta più sicurezza, essere tra loro solidali in contrapposizione al soggetto che vogliono sfruttare, ossia al popolo, e contrapporsi realmente, per dare l’illusione di una pluralità dialettica, anziché competere e contrapporsi realmente.
Ecco il bipolarismo vero: rappresentanti del popolo contro popolo elettore!
Sia pure con non poche, pregevolissime eccezioni – insufficienti però a modificare l’insieme – abbiamo una Casta governante scandalosamente ladra, che impone tasse scandalosamente alte per mantenere i suoi scandalosi sprechi e furti, ovviamente grida allo scandalo se qualcuno osa parlare di disobbedienza fiscale o secessione o paragonare quelle tasse al pizzo della camorra.

Prontamente, si mobilitano i soccorsi contro l’‘antipolitica” e il “qualunquismo”: il Capo dello Stato (eletto direttamente dalla casta dei parlamentari a comandare uno dei più dispendiosi palazzi del regime, il cui bilancio è tenuto segreto ai cittadini, e costa molto più di quello della Regina Elisabetta, circa 250 milioni l’anno), il Capo di Confindustria e della Fiat (la quale è sempre vissuta coi soldi dei contribuenti, privatizzando gli utili e socializzando i costi) e il Capo della Chiesa (la quale da sempre si nutre di denari pubblici e che gode annualmente di decine di miliardi di esenzioni fiscali) levano le loro autorevoli voci (la così detta “moral suasion”) per zittire la protesta degli sfruttati: vergogna! Contestare le tasse-pizzo dello “Stato” è barbaro neoqualunquismo, un crimine contro la società, un peccato contro Dio!
Lo Stato italiano nelle grinfie di un’oligarchia di mafia. Questo concetto verrà sviluppato attraverso tutto il libro.
“Oligarchia” è parola greca che significa governo (archìa) di pochi (olìgoi). Alexis de Toqueville, citato da Stella e Rizzo che definisce l’oligarchia un sistema centralizzato, con corpi intermedi indeboliti, e dove i vertici del potere istituzionale, anziché essere separati in una reciproca relazione di checks and balances (controlli e bilanciamenti), sono fittamente intrecciati e complici tra loro, mentre ciascuno degli oligarchi ha una sua riserva, un suo ambito di potere, che gli altri riconoscono e tutelano. Ciò «non implica che il popolo non possa votare, ma che i meccanismi elettorali sono costruiti in modo da confermare invariabilmente l’oligarchia».

La mafia comune (non quella politica) è la prima industria nazionale, con 90 miliardi l’anno di introiti. Ma è notorio che in intere regioni di certi lontani paesi extraeuropei, centro-asiatici, siti oltre il Volga e il Deserto dei Tartari, fare impresa, investire produttivamente, essere assunti e far carriera soprattutto nella pubblica amministrazione, è pressoché impossibile se non si passa attraverso, diciamo il locale Partito Dominocratico, che, longa manus del sistema bancario, dirige una potente rete aziendale di pseudo-cooperative (in realtà vere imprese commerciali), quasi tutte le amministrazioni locali, dicesi abbia rapporti speciali con la “giustizia” e, quale partito-azienda-piovra, riesce a boicottare e ad escludere dal mercato gli imprenditori indipendenti e che non si sottomettono alla sua legge e ai suoi oneri e che non si allineano. Ma narrasi pure che questo congegno è una piovra, una piovra non mafiosa, una piovra benigna, dal volto umano, dalle ventose umane, dai tentacoli umani, dall’intelligenza umana – una piovra che, nel più grande di quei Paesi centroasiatici, supera ampiamente i 90 miliardi della mafia nostrana, e che si è già accaparrata la maggioranza delle risorse territoriali di quelle regioni, intestandole a società patrimoniali di suoi adepti e a una gigantesca rete di società pseudo-cooperative, che hanno licenza di fare ogni sorta di speculazione, ricevendo ogni sorta di sovvenzione ed esenzione. Pseudo-cooperative, e in realtà imprese commerciali, perché le vere cooperative, quelle italiane, hanno una democrazia diretta dei soci, si gestiscono dal proprio interno, e dal proprio interno nominano i propri amministratori; mentre quelle centro-asiatiche hanno molti soci solo nominali, ricevono i propri amministratori e piani industriali direttamente dalla segreteria del Partito, e in cambio…
Intanto, nella nostra Italia, in 5 anni, 25% di aumento ai magistrati, 21 agli accademici, 20 ai dirigenti pubblici, 11 al resto degli statali.

Nel chiaro disegno di complicizzarli, o perlomeno tenerli fedeli, quali partecipi di un privilegio.
Gli alti dirigenti dello Stato hanno ricevuto subito dopo il passaggio all’euro, aumenti di circa il 100%: ora prendono in migliaia di Euro quanto prima prendevano in milioni di Lire. Ciò dimostra che ben sapevano, Lorsignori, che l’Euro aveva dimezzato il potere di acquisto dei redditi fissi. Però gli statali hanno ricevuto, da allora, aumenti quintupli rispetto ai lavoratori del settore privato: lo “stato” si tiene buoni i suoi pretoriani.
Mentre innumerevoli macchine blu solcano gli asfalti del Belpaese, più di quante ne hanno gli USA, al costo di miliardi l’anno, e lunghi convogli ferroviari deportano in Germania la monnezza campana, che i furbi amministratori Campani preferiscono far bruciare là, a spese dei Lombardi e dei Veneti, dopo che da questi sono già stati presi due volte i soldi sufficienti per smaltire i rifiuti dei Campani, e gli amministratori Campani li hanno usati per assumere personale che non lavora, ma vota (anzi, ha già votato) loro e i loro partiti, e per le altre, solite cose che rinforzano le loro poltrone. Già: certi leaders campani della sinistra hanno usato i soldi pubblici (cioè delle tasse dei Lombardi e dei Veneti) per assumere netturbini in un rapporto di 25 a 1 rispetto a quelli di Milano. Ma li hanno assunti per lavorare o per votare? Il risultato è che il malgoverno rimane in sella e che ora quelle stesse forze politiche fanno pagare, di nuovo, a Veneti e Lombardi il costo dell’asporto e dello smaltimento in Germania di quei rifiuti – le falsamente dette ecoballe, che non sono ‘eco’ perché i rifiuti che contengono non sono stati smistati dai netturbini-elettori, quindi non possono essere bruciate. E sempre quelle forze politiche, anziché rendere conto di come hanno usato i soldi per la costruzione degli inceneritori, richiedono ulteriori sacrifici e solidarietà al resto d’Italia per fare ciò che esse non hanno fatto. E per giustificare il loro non fare, il loro spendere senza fare, da un lato c’è un ministro della loro coalizione, che ha posto il veto un po’ su tutte: dalle discariche agli inceneritori ai rigassificatori; e dall’altro lato c’è il fatto che le locali procure della repubblica non hanno, a quanto si sa, aperto alcuna indagine, alcuna “Rifiutopoli”. Vallettopoli sì, Rifiutopoli no.

I Napoletani che oggi si scontrano con polizia e carabinieri per impedire la riapertura delle discariche chiuse, dimostrano di avere temperamento che i settentrionali non hanno. E anche senso dell’opportunità, o dell’opportunismo, perché quando i loro pessimi amministratori facevano ciò che han fatto coi soldi pubblici – assunzioni clientelari e spese inutili – i Campani non protestavano, ma li votavano, perché gli andava bene come spendevano i soldi, e perché confidavano che, poi, i risultati del malgoverno, grazie alle solite forze politiche, sarebbero stati pagati da Veneti e Lombardi. Oramai hanno imparato i vantaggi dell’unità d’Italia. Ora devono però imparare qualcosa di biologia: è vero che i loro politici, anziché fare gli inceneritori, hanno speso soldi per creare tanti meravigliosi posti di lavoro dove non si lavora (netturbini); ma è anche vero che questa succulenta polpetta alla napoletana è avvelenata: piena di diossina, di tumori, di morte, prodotti dai rifiuti trattati impropriamente. E, ora che l’Italia e il mondo sanno di questo e delle oltre quattrocento discariche clandestine di rifiuti tossici in Campania, l’agricoltura di quella regione pagherà il fio.
Perché gli amministratori delle altre regioni, ora, non subordinano la loro “solidarietà” al licenziamento delle persone assunte inutilmente, dei finti lavoratori? E alle dimissioni dei responsabili del malgoverno? Per non far saltare le trattative per il nuovo governo, o perché paventano che si incendi tutto l’enorme immondezzaio della politica italiana?
Lo Stato di cui ci occupiamo è lo strumento per rubare tutto e su tutto: il costo medio di un’ora di volo degli aerei blu è € 4.723, contro i 3.442 dell’ora di volo del più grosso aereo blu britannico, e i 1.304 del più piccolo. Altri costosi privilegi sono riservati ad altri magistrati, sempre a spese del contribuente, sempre per mantenere la struttura mafiosa che sfrutta il contribuente: 44 di autista e autoblù all’ex giudice costituzionale dopo meno di 10 anni di servizio, etc. etc. Perché i politicanti non aboliscono questi odiosi privilegi dei magistrati? Perché “sentono” di aver bisogno della complicità della Casta dei magistrati e perché gli emolumenti dei parlamentari sono collegati a quelli dei magistrati di grado più elevato: ecco il legame pericoloso tra le due Caste!

Mangioni a sbafo, gli “onorevoli”: ad educarli al compito che il sistema assegna loro concorre anche la gastronomia, che a loro viene spudoratamente semidonata: 84 cent i ravioli al ragù, 5 Euro e 20 un dentice al vapore… tutto a spese dei cittadini… e a favore non solo di molti onorevoli, ma anche di dipendenti parlamentari che già si pappano mediamente 115.419 Euro l’anno. Con 50 camerieri a oltre 112.000 l’anno per servirli, di cui 10 non lavoranti. Quanto vale, simile gente? È giusto pagare le tasse a loro? Certo, perché gli onorevoli possano andare in pensione presto, sempre più presto, sempre più giovani, per dedicarsi ad altri e più lucrosi traffici pagati dai cittadini troppo pecore per disfarsi di loro. Di loro, che si sono costruiti, a spese degli elettori un sistema previdenziale di rivoltante privilegio, che dona loro una rendita moltiplicata di 5 volte rispetto all’Inps. Avete capito? Si considerano ben 5 volte superiori ai lavoratori, ai comuni mortali! A loro spese, naturalmente! E poi fanno loro lo scherzetto nel tfr e gli limano i coefficienti di rivalutazione previdenziali! San Toni Negri, eletto grazie ai Radicali che lo volevano fuori di galera, fece nove sedute in Parlamento – ambiente che definì “repellente”; ma per quel suo nobile sforzo di resistere allo schifo ben nove sedute, percepisce, da quando ha sessant’anni, un vitalizio di, ora, 3.108 Euro al mese. Forse lo accetta per dimostrare che non è più estremista.

E i vertici della Lega Nord che si mettono a dirigere la banca CrediEuronord? Apprendisti stregoni, nel libro di Stella – ma non solo: si ritrovano con gestori che, con quattro o cinque affidamenti pseudo-garantiti, si mangiano tutto il capitale, portano la banca al dissesto, la fanno salvare da Fiorani, mettendo la pellaccia al riparo delle conseguenze penali di un fallimento. Sarà possibile per la Lega, ora, una vera autonomia critica e propositiva dove si tocchino gli interessi del sistema bancario? Fortunatamente, pare proprio di sì, a giudicare dall’attenzione e dal sostegno che la Lega, con alcune altre forze politiche, dà alle iniziative per una riforma monetaria e creditizia di attuazione della sovranità popolare e del lavoro come fondamento della Repubblica.
E la Casta di Stato (che sia benedetta) dona circa 75 miliardi di euro l’anno agli azionisti privati della Banca d’Italia in cambio di impulsi elettronici e di pezzi di carta stampati senza alcuna copertura, detti “banconote”. Gli studi di settore introdotti da Visco stroncano migliaia di piccole imprese, mentre il giro d’affari dei venditori abusivi, tollerati dalla pubblica autorità, si sottrae al fisco per oltre 100 miliardi l’anno di imponibile – pari a quello del pizzo raccolto dalla criminalità organizzata.

Eh sì, se lo “Stato” e la sua classe dirigente si reggono, nonostante la loro inefficienza e corruttela, è perché mantengono il Meridione nel sottosviluppo, e in tale sporco modo, col pretesto della solidarietà, ogni anno spremono dai Lombardi e dai Veneti 100 miliardi di Euro (altri 10 miliardi dalle restanti regioni settentrionali) che usano (oltre che per arricchirsi direttamente) per comperarsi sostegni e voti, in una redistribuzione clientelare a favore della burocrazia parassitaria, statale, romana; nonché della Campania, della Sicilia, della Calabria.
Oltre la scala familiare, nessuna solidarietà funziona, perché chi ne maneggia i soldi, pensa a come mangiarli. Da qui il grande e insostituibile valore pratico della famiglia, la quale è purtroppo ormai in liquidazione. Il punto centrale è semplice: non hanno bisogno di gestire bene, di modernizzarsi, di essere intelligenti e colti (in effetti, anche se non pochi di loro sono intelligenti e preparati, essi sono in larga maggioranza stupidi e ignoranti – basta ascoltare i loro discorsi in Parlamento o nei loro comizi) per restare al potere e rubare – per restare in sella, gli basta essere inefficienti, sabotare il Sud e inasprire il fisco. Quindi, devono impedire, e di fatto impediscono, che il Sud decolli economicamente. Al potere li mantiene, con un debole ricircolo interno, la grande finanza, sempre più straniera, sempre più rapace.

Sanno fare solo questo, in fondo – quasi tutti. Non sapendo fare altro, non possono che continuare a fare quello. Quindi non smetteranno mai, se non verranno cacciati con la forza. Si sono procurati rendite, posti fissi (e, per farlo, hanno clientelarmente dispensato milioni di altri posti fissi, parassitari, di rendita).
Gli imprenditori (veri) e i lavoratori autonomi devono ingegnarsi e innovarsi e imparare incessantemente, per sopravvivere nella concorrenza, mentre gli uomini della Casta non hanno concorrenza, la impediscono attraverso le leggi che si fanno in casa, ossia in parlamento, come la legge elettorale detta “porcata” (una condizione per certi versi analoga, di carriera automatica senza rischi e competizione, l’hanno creata per una categoria professionale di cui hanno molto bisogno: i magistrati). E dall’alto di questa posizione di rendita parassitaria essi fanno la morale agli imprenditori dicendo che devono competere e rischiare e pagare le tasse.
Il carattere tumorale, maligno, di questa Casta, è il seguente: quanto più Lorsignori sono inefficienti, ladri, mafiosi, sputtanati, e perdono perciostesso quote di consenso sano, tanto più alzano le tasse per procacciarsi i soldi con cui comperarsi consenso e supporto clientelare in sostituzione di quello sano, di quello della gente onesta, laboriosa, produttiva.

Questo è il meccanismo che ha prodotto e perpetua la Casta dei politicanti, dei burocrati, sindacalisti, dei pubblici amministratori, dei boiardi di stato a carriera assicurata, delle legioni di privilegiati a spese della collettività, il cui numero è sempre andato gonfiandosi, come un tumore maligno, proprio per la necessità di produrre questo tipo di consenso e di sostegno patologici in sostituzione di quelli sani. Un meccanismo che si reggeva, nell’era aurea della prima repubblica democristiana e poi del centro-sinistra, su precisi fattori:
a. la crescita demografica ed economica, che consentiva di finanziare a deficit la spesa presente;
b. la ricorrente svalutazione competitiva della Lira, che consentiva di recuperare i mercati stranieri.

Entrando nell’Euro con grandi sacrifici per il sistema paese, gli accorti e incorruttibili governanti dello “Stato” hanno reso impossibile sia la spesa a deficit che la svalutazione competitiva, e ciò proprio quando l’industria nazionale, prevalentemente a basso contenuto tecnologico (tessile, calzature, arredamento) veniva attaccata da paesi ultracompetitivi a lavoro schiavistico come la Cina. Inoltre, l’Euro, con la sua altissima valutazione sul Dollaro, strangola le esportazioni.
Intanto, le maggiori tasse raccolte dal Governo Prodi bis con la legge finanziaria per il 2007, sono assorbite e superate dall’aumento della spesa corrente e del deficit di bilancio. Ossia dalle spese clientelari e per l’acquisto di voti (60.000 precari della scuola messi a ruolo senza concorso). Queste sono le due priorità assolute dello “Stato”, a cui esso sacrifica ogni logica economica e ogni risanamento (ma che risanamento potrebbe esserci, se non iniziasse con l’eliminazione della Casta?).
Questa operazione clientelare è la prova del nove: l’Italia è spacciata.

Marco Della Luna
Estratto da “BASTA CON QUESTA ITALIA! Rivoluzione, secessione o emigrazione? - Il fallimento dello Stato mafio-massonico”

28 marzo 2008

Se l'europa è piena di poveri è perchè è ricca!


Viviamo nelle contraddizioni, ragioniamo sempre dimenticandole. Loro, sono dentro di noi, ma usarle solo con occhiali a tinte positive non è facile.
Se vi dicessi che c'è in Europa un Paese dove non esiste la disoccupazione, non esiste il lavoro precario, non esiste il problema dei pendolari, non esiste l'inflazione, dove le tasse sono al 10%, dove ognuno possiede una casa e quanto basta per vivere e quindi non ci sono poveri, mi prendereste per matto. E avreste ragione. Perchè questo è il Paese che non c'è. Ma è esistito. E' esistito un mondo fatto così. E si chiama Medioevo Europeo.

La disoccupazione appare, come fenomeno sociale, con la Rivoluzione industriale. Prima, con una popolazione formata al 90/95% da agricoltori e artigiani, ognuno, o quasi, viveva sul suo e del suo, aveva, nelle forme della proprietà o del possesso perpetuo, una casa e un terreno da coltivare. E anche i famigerati 'servi della gleba' (i servi casati), comunque una realtà marginale, se è vero che non possono lasciare la terra del padrone non ne possono essere nemmeno cacciati. Non esisteva il precariato perchè il contadino lavora tutta la vita sulla sua terra e l'artigiano nella sua bottega che è anche la sua casa (per questo non esiste nemmeno il pendolarismo). Il giovane apprendista non percepisce un salario, ma il Maestro ha il dovere, oltre che di insegnargli il mestiere, di fornirgli alloggio, vitto e vestiti (due, uno per la festa, l'altro per i giorni lavorativi; ma, in fondo, abbiamo davvero bisogno di più di due vestiti?).

Dopo i sette anni di apprendistato il giovane o rimarrà in bottega, pagato, o ne aprirà una propria. Senza difficoltà perchè c'è posto per tutti. Gli statuti artigiani infatti proibiscono ogni forma di concorrenza e quindi, di fatto, la formazione di posizioni oligopoliste. Per tutelare però l'acquirente (oggi diremo 'il consumatore') gli statuti stabiliscono regole rigidissime per garantire la qualità del prodotto.

Nelle campagne il fenomeno del bracciantato si creò quasi a ridosso della Rivoluzione industriale quando i grandi proprietari terrieri cominciarono a recintare i loro campi (enclosure) rompendo così il regime delle 'terre aperte' (open fields) e delle servitù comunitarie (ad uso di tutti) su cui si era retto per secoli lo straordinario ma delicato equilibrio del mondo agricolo. Per molti contadini, non avendo più il supporto delle servitù, la propria terra non era più sufficiente a sostentarli. Ma fu un fenomeno tardo. Perchè la concezione di quel mondo, contadino o artigiano, era che ogni nucleo familiare doveva avere il proprio spazio vitale. Scrive lo storico Giuseppe Felloni: "Le terre sono divise con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficenza economica".

Le imposte, comprendendovi quelle statali, quelle dovute al feudatario, nella forma di prelievo sul raccolto e di corvèes personali, la 'decima' alla Chiesa, non superarono mai il 10%. E' vero che anche i servizi erano minimi, ma per molti aspetti di quello che noi oggi chiamiamo 'welfare' sovveniva la Chiesa, naturalmente nei modi consentiti dai tempi.

Non esisteva l'inflazione. I prezzi rimanevano stabili per decenni. Una delle rare eccezioni fu la Spagna degli inizi del XVII secolo a causa dell'oro e dell'argento rapinati agli indios d'America. E nel suo 'Memorial' Gonzales de Collerigo scrisse con sarcastica lucidità: "Se la Spagna è povera è perchè è ricca". Che è poi la paradossale condizione in cui si trovano molti Paesi industrializzati di oggi.

In quel mondo, per quanto a noi appaia incredibile, non esistevano i poveri. Il termine 'pauperismo' nasce nell'opulenta Inghilterra degli anni '30 dell'Ottocento. Fu Alexis de Tocqueville, uno dei padri del mondo moderno, ad accorgersi per primo dello sconcertante fatto che nel Paese del massimo sforzo produttivo e industriale c'era un povero ogni sei abitanti mentre in Spagna e Portogallo, dove il processo era appena agli inizi, la proporzione era di 1 a 25 e che nei Paesi e nelle regioni non ancora toccate dalla Rivoluzione industriale non c'erano poveri. Perchè è la ricchezza dei molti, alzando il costo della vita, a rendere poveri tutti gli altri. Che è quanto sta accadendo oggi in Russia, in Cina, in Albania, in Afghanistan e persino in Italia.

Su tutto questo, credo, dovrebbero riflettere coloro che fra un mese saranno chiamati a governarci.

Massimo Fini

27 marzo 2008

La “scala mobile” ? Un effetto dell’inflazione.



La “scala mobile” era un effetto dell’inflazione, non una causa.

Una storia di qualche anno fa, quando la politica decise di far pagare gli errori ai più deboli e più numerosi. Una storia che torna attuale mentre Draghi dice che i salari sono troppo bassi e Trichet che: “guai ad alzarli! Rispunterebbe l’inflazione”

Dice la BCE : “… le variazioni dell’aggregato monetario ampio (M3), in circostanze normali, anticipano gli andamenti dei prezzi al consumo nel medio termine”.E ancora, nelle conclusioni: “C’è un ampio consenso sul fatto che, nel periodo medio-lungo, la dinamica dei prezzi abbia origini monetarie. Di conseguenza, il Consiglio direttivo della BCE ha deciso di assegnare alla moneta un ruolo di rilievo nella strategia di politica monetaria dell’Eurosistema. Tale ruolo è stato indicato dall’annuncio, da parte del Consiglio Direttivo nel dicembre 1998, di un valore di riferimento per il tasso di crescita dell’aggregato monetario ampio M3 del 4½ per cento annuo. L’individuazione di questo tasso incorpora la definizione della stabilità dei prezzi fornita dall’Eurosistema e si basa su ipotesi riguardo alla dinamica del PIL reale e della velocità di circolazione di M3 nel medio termine. Per raggiungere l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, è importante per l’Eurosistema analizzare attentamente l’andamento di questo aggregato monetario in relazione al valore di riferimento e tenere sotto osservazione gli altri aggregati.”

A pagina 62 della relazione annuale della Banca d’Italia per l’anno 2006 troviamo: “Nel 2006 l’andamento degli aggregati monetari e creditizi ha continuato a segnalare condizioni di liquidità espansive. La crescita della moneta M3 è stata molto sostenuta; alla fi ne dell’anno l’aumento sui dodici mesi è stato pari al 9,8 per cento, il valore più alto dall’avvio della politica monetaria unica”.

Repubblica del 28 gennaio 2008 dice: “Bce: Crescita M3 rallenta a +11,2% a dicembre da +12,3% - La crescita della massa monetaria M3 nell’Eurozona rallenta a dicembre e cresce dell’11,5% annuale, meno del previsto +12,2%, contro un rialzo del 12,3% a novembre. Nella media degli ultimi tre mesi (ottobre-dicembre) l’aggregato monetario è cresciuto del 12,1% contro il +12% dei precedenti tre mesi. I prestiti verso il settore privato sono aumentati a dicembre dell’11,1%, invariati rispetto a novembre.”

È ovvio a questo punto prevedere il futuro: i prezzi cresceranno in maniera assai sostenuta, indipendentemente dai “controlli” e dalle “strategie” di Mister Prezzi. Quest’ultimo potrà al massimo far fare più sacrifici ad alcuni piuttosto che ad altri. È inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Non mi stupirei se venissero attuate pressioni selettive nei confronti dei beni e dei servizi presenti nel paniere con pesi maggiori, così, magistralmente, si farebbe apparire il successo dell’intervento senza in realtà aver combinato nulla. Da una persona nominata da Prodi c’è da aspettarsi di tutto. Se il governo voleva veramente fare qualcosa contro l’inflazione doveva chiedere, assai prima, ragione alla BCE della sua opera.

Faccio notare che la suddetta lievitazione di M3 avviene SENZA meccanismi automatici per la dinamica salariale tipo la “scala mobile”.

È fin troppo facile individuare le cause (2): l’irresponsabilità della BCE nella gestione della Politica Monetaria e nella NON regolamentazione degli strumenti finanziari, tutta tesa com’è a tutelare i suoi proprietari, il sistema bancario e quello speculativo.

Una volta fatta la frittata bisogna decidere fra una delle seguenti opzioni:

1. rimettere in sesto il sistema su nuove basi monetarie e regolamentari;
2. perseverare nell’errore e farlo pagare ai più deboli.

Ovviamente la scelta, in assenza di Politici, con quelli con la p minuscola tutti intenti a cercare il punto G ed a riconoscere il Kosovo, cade sulla seconda opzione.
Mentre Draghi dice che i salari degli italiani sono troppo bassi, Trichet dice: “guai ad alzarli! Rispunterebbe l’inflazione”. Come se lasciandoli bassi non ci fosse.

Trichet sbaglia e vuol far pagare i suoi errori ai più deboli, come da copione del perfetto gerarca.

Accadde la stessa cosa all’inizio degli anni ’80. Allora il capro espiatorio fu individuato furbescamente nella “scala mobile”, uno strumento automatico che adeguava parzialmente i salari all’aumento dei prezzi. Per chi ha buona memoria è facile ricordare le piazzate del Governatore della Banca d’Italia contro quello strumento. È la scala mobile che provoca l’inflazione! Tuonava.

Era vero il contrario. È la crescita dell’inflazione che fa crescere il peso della scala mobile (è stata creata proprio per questo). Le cause dell’inflazione erano in parte esogene, come l’aumento di alcune materie prime, ed in parte endogene, come ad esempio l’inadeguatezza della rete distributiva o qualche monopolio più o meno occulto/telefonico; infatti gli eccessi di domanda rispetto all’offerta provocano sempre aumenti dei prezzi ed i monopoli li aumentano a piacimento. C’era inoltre una pessima redistribuzione delle risorse; oggi è un po’ migliorata la situazione ma è ancora insufficiente. Se non chiedo i soldi a chi dovrei li devo chiedere a qualcun altro; ma se li chiedo a chi dovrei non aumenta la moneta, ma se li chiedo alla BdI, si. Con la beffa che lo Stato finanziava gli evasori che acquistavano con l’evaso i titoli del debito pubblico a tassi superiori a 20% .

È vero però che tagliando la scala mobile l’inflazione è calata! Per forza! La politica ha deciso che gli errori li dovevano pagare i più deboli, e più numerosi, e così è stato fatto. In aggiunta quando l’operazione è andata in porto ci siamo sentiti dire: “avete visto che l’inflazione è calata tagliando la scala mobile?”

È ovvio che tagliando la scala mobile la domanda di moneta è calata, ma questo non significa che era quella la causa. Ho 15 panini per un gruppo di 15 bambini “normali”; ne introduco 5 voraci, che mangiano per 3, aumentando proporzionalmente la dotazione di viveri, arrivando a 30 panini complessivi. Cosa succederà? I bambini normali mangeranno un panino e quelli voraci, cadauno, il triplo degli altri, ovvero 3. Se per risparmiare drasticamente tolgo mezzo panino ad ogni bambino cosa succederà? Quelli “normali” si dovranno accontentare di mezzo panino mentre gli altri di 2,5.
Potrò dire di essere stato bravo per aver risparmiato 10 panini? Si!
Potrò dire di essere stato equo? No!
Potrò dire che la colpa dell’eccessivo consumo di panini è dei 15 bambini “normali”? No!

Invece per la scala mobile è successo proprio questo. Si è fatto pagare il conto ai più deboli e poi si è inneggiato al fatto che qualcuno ha pagato il conto. Solo la politica può riuscire in questi virtuosismi. Questo è stato l’unico errore importante di Bettino Craxi, non so fino a che punto ingannato dal dottor sottile.

Il bello in questa faccenda è che i poveri hanno votato al referendum affinché il conto fosse portato a loro. Se questo non è un miracolo ditemi Voi cos’è.

Lino Rossi

I Magistrati vittime di poteri occulti?


Dottor Ingroia, cosa rappresenta, per lei, il caso De Magistris?
«Il caso in cui, nella maniera più emblematica, si sono evidenziati i guasti della riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario».

Si riferisce alla richiesta di trasferimento?
«Non solo. Ha contribuito a incrementare un clima “pesante” attorno all’azione della magistratura, creando condizioni ostili all’autonomia e indipendenza della magistratura. Il provvedimento di avocazione, che ha tolto l’indagine al collega De Magistris, è un provvedimento che in altri tempi avrebbe incontrato ben altre resistenze e critiche. Evidentemente, i tempi sono cambiati».

Qual è la sua analisi in merito?
«Definirei il caso De Magistris come una vicenda emblematica di quel che accade quando un magistrato si ritrova, isolato e sovraesposto, a gestire un’indagine estremamente complessa e delicata su un grumo di intrecci, di interessi leciti e illeciti, riferibili a soggetti e ambienti diversificati, sul crinale dove s’incontrano i versanti criminali con i versanti politici e istituzionali. Come spesso accade nei territori dove operano sistemi criminali integrati. E mi riferisco, ovviamente, ai sistemi criminali riferibili alla mafia in Sicilia e alla ‘ndrangheta in Calabria».

Come giudica la posizione dell’A.N.M. rispetto al caso De Magistris?
«Timida e inadeguata. In generale, soprattutto preoccupata di far apparire il governo Prodi meno ostile nei confronti dell’autonomia e indipendenza della magistratura del governo Berlusconi».

Che mi dice dei “poteri occulti”? Influenzano la nostra democrazia?
«Purtroppo sì. Il connubio tra poteri occulti e mafia è il famoso “gioco grande” sul quale stava lavorando Giovanni Falcone. E sul quale probabilmente è morto: e i veri mandanti della strage di Capaci, in fondo, non sono mai stati trovati».

Può spiegarmi meglio cosa intende per poteri occulti?
«Intendo – genericamente – quell’intreccio fra poteri criminali, come il potere delle grandi organizzazioni criminali mafiose, e altri poteri. Intreccio che molte indagini degli anni passati, in Sicilia ma anche in Calabria, hanno messo in luce, per esempio, tra le mafie e spezzoni della massoneria, così come con settori della destra eversiva o di ambienti politico-istituzionali, compresi appartenenti ad apparati dello Stato deviati».

Quanto incidono nella magistratura?
«Non è facile rispondere. In passato, ai tempi di Falcone e Borsellino, la magistratura, soprattutto i suoi vertici, era spesso fortemente condizionata dai poteri occulti. Negli ultimi anni si sono fatti grossi passi avanti anche per la maggiore autonomia e indipendenza che la magistratura ha conquistato. Ecco perché è importante difendere lo status di autonomia e indipendenza della magistratura. Se si fanno passi indietro su questo fronte, rischiamo di ripiombare nel passato più buio della nostra democrazia (...)».

Su questi argomenti, che paiono in qualche modo pressanti, è stata mai aperta una discussione all’interno dell’A.N.M.?
«L’A.N.M. attraversa una grave crisi di rappresentanza, che è poi la stessa crisi della politica, la stessa sensazione di scollamento fra rappresentati e rappresentanti. Il dibattito interno all’A.N.M. su questo punto è aperto e la parte più sensibile a questo problema lo ha avviato con interventi interni e pubblici. Ma l’A.N.M. è ancora ben lontana dall’avere superato questa crisi».

Quanto è credibile l’ipotesi che i “poteri occulti”, secondo lei, abbiano agito, indirizzando la vicenda De Magistris?
«L’indagine di De Magistris, per quanto abbiamo potuto apprendere, andava ben al di là di ciò che è divenuto più noto. Ben oltre quindi le intercettazioni di Mastella o l’iscrizione di Prodi nel registro degli indagati. Penso che il cuore dell’indagine fosse proprio l’intreccio tra poteri criminali e altri poteri sul territorio. Credo che il suo caso non possa essere affrontato se non si tiene conto della realtà in cui De Magistris, spesso in solitudine istituzionale, ha operato. (...) E’ certo, però, che De Magistris s’è messo contro certi poteri, ed è altrettanto certo che la reazione nei suoi confronti è stata forte ...».

Una delle accuse, per De Magistris, è stata quella di aver parlato in tv. Lei che ne pensa? Purché non entrino nel merito delle indagini, i magistrati possono parlare?
«Prendiamo, per esempio, il rapporto tra Paolo Borsellino e la stampa: appartiene alla storia del nostro Paese. (...) Ricordo un’intervista storica: volle lanciare l’allarme sul calo di tensione nella lotta alla mafia. (...) Sono passati tanti anni. E credo sia stato conquistato il diritto, da parte della magistratura, d’intervenire. Fermo restando il riserbo sul contenuto delle indagini».

Parliamo dell’avocazione di Why Not a De Magistris.
«De Magistris la definisce illegittima, io la definisco impensabile. (...) La mia sensazione è che noi ci siamo trovati in una situazione in cui l’autonomia e l’indipendenza, interna ed esterna, è arrivata a un punto di rottura. Davvero siamo in un momento di crisi dello Stato di diritto».
Antonio Massari

26 marzo 2008

Per chi vota la mafia


La mafia esiste e sta diventando sempre più protagonista della politica e delle campagne elettorali. Complici i media, complici ignari di collegamenti e amicizie la politica si fa con la mafia. Quanto la politica è attendibile per questo?

L'amico del killer che uccise Falcone, i notabili sotto processo o assolti per cavilli, i parenti stretti dei padrini. Tutti i nomi nelle liste di Udc, Pdl e Pd. Ecco il peso dei boss nelle elezioni

Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata.

Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi.

Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici)
o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare".

Il palazzo di giustizia di Palermo
Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali.

Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina,sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui.

Auto rubate e distrutte
sul lungomare di Palermo
Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.

Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro.

Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica.

Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione).

Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4,(vedi i commenti), ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco.

Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005.

Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato.

Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.

Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.


Peter Gomez

25 marzo 2008

Perchè la mafia ha vinto?


Se Mediaset ha sempre sponsorizzato la mafia, a modo suo, Caselli ha sempre parlato di mafia e antimafia. Ma quanto potere mediatico ha Mediaset rispetto a Caselli e perchè?
Più di un secolo fa, nel suo saggio “Che cosa è la mafia” Gaetano Mosca scriveva: “È strano notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia […] raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla mafia vogliono indicare». Un vecchio vizio, tutto italiano, che per fortuna contempla vistose ed importanti eccezioni. Tra queste – indubbiamente – le ricerche e gli studi di Nicola Tranfaglia, ormai patrimonio consolidato per tutti coloro che di mafia vogliano sapere qualcosa di più serio rispetto alle…fiction televisive di moda. L’ultima fatica di Nicola Tranfaglia (preziosa come le precedenti) si intitola “Perchè la mafia ha vinto”. In realtà si tratta di una storia della mafia che ci aiuta a capire meglio che cos’è la mafia oggi, nel terzo millennio, a quindici anni dalle tremende stragi palermitane del ’92.

L’Autore sa bene che sempre più si deve parlare di «mafie», anziché di «mafia», perché accanto alle mafie “tradizionali” ( Cosa nostra siciliana , ‘Ndrangheta calabrese , Camorra napoletana e Sacra corona unita pugliese) il nostro Paese, aduso ad «esportare» anche il crimine organizzato, si trova nell’inedita situazione di dover ospitare nuove mafie d’importazione (russa, albanese, cinese, nigeriana, ecc.), che in questi ultimi anni si sono insediate nel territorio e che talora interagiscono con le più antiche organizzazioni mafiose nazionali. Mentre il processo di globalizzazione finanziaria ha inevitabilmente influito sulle più recenti forme di manifestazione dell’economia criminale, imponendo una più spiccata interazione fra le varie organizzazioni mafiose del mondo, i cui interessi e capitali illeciti si incontrano nel mercato globale del grande riciclaggio internazionale, con evidenti intrecci fra la macrocriminalità del riciclaggio e parte consistente di quel potere finanziario – più o meno “grigio” - che ormai opera, spesso senza adeguati controlli, nell’intero ambito planetario.

Oggi, pertanto, la base di partenza di qualunque ragionamento sulle mafie è che esse , pur nella radicale continuità con se stesse, pur mantenendo ( in molti casi) un evidente radicamento localistico, sono ormai in grado di condurre attività illecite in una dimensione globale e reticolare. Così da costituire una vera e propria impresa multinazionale, che produce ricchezza attraverso mille traffici e affari illeciti, cui si affiancano imprese legali di copertura o riciclaggio.

Ma non volendo – né potendo - scrivere un’enciclopedia sterminata, Tranfaglia ha giustamente scelto di limitarsi a seguire un “filo centrale”, incentrandolo su “Cosa nostra” ed in particolare sui suoi rapporti con le classi dirigenti del Paese. Constatando innanzitutto come questa organizzazione criminale sia oggi capace – forse più che nel passato– di mimetizzarsi e scomparire. La mafia siciliana, infatti, dopo avere attuato ed esibito con le stragi del 1992 una violenta e spietata strategia d’attacco frontale allo Stato, ha dovuto subire un’efficace reazione (latitanti arrestati come mai in precedenza, per numero e caratura criminale, tra cui gli autori materiali di quelle stragi; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi requisiti). E ha subìto anche la stagione dei processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con pesantissime condanne. Ed ecco che la mafia, duramente colpita, sceglie di attuare una sorta di «strategia della tregua» finalizzata, fra l’altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Niente più stragi, niente più omicidi eclatanti; regna lo spirito di mediazione anziché la logica dello scontro aperto. Bernardo Provenzano, regista di questa nuova stagione, adotta la tecnica del «cono d’ombra», con l’obiettivo, appunto, di rendere invisibile l’organizzazione, di inabissarla. Si fa ricorso alle armi soltanto come extrema ratio e si riduce, di conseguenza, il numero dei regolamenti di conti interni. Quando si elimina qualcuno, il suo cadavere viene fatto sparire (le cosiddette «lupare bianche»), così da rendere più difficile la percezione dell’entità della violenza omicida messa in atto. La mafia di Provenzano è sempre più una mafia degli affari: l’intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo serve a presentarsi come volano di un’economia che altrimenti – si vuol far credere – resterebbe inerte e improduttiva. In questo modo Cosa Nostra cerca di dissimulare il suo volto più feroce, per recuperare e sviluppare spazi di intervento e per rafforzare i meccanismi di accumulazione di capitale illecito. Con una peculiarità che complica le cose perché, secondo tradizione, essa tende anche a proporsi come soggetto politico-sociale capace di controllare l’economia e di esercitare una funzione di (apparente) sviluppo, anche sostituendo o integrando le competenze pubbliche.

La strategia con la quale la mafia ha affrontato il nuovo millennio è quindi meno sanguinaria, ma più insidiosa, perché favorisce l’affievolirsi dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo «statistico» dei fatti di sangue conosciuti. Ma è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-sociale e di intrecciare nuove relazioni anche sul versante dell’intermediazione fra popolazione meridionale e luoghi decisionali della cosa pubblica. E’ allora che essa amplia la propria sfera di intervento, mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici (a partire da quelli elettorali) nelle zone sottoposte al suo controllo.

E’ a partire da questi dati che Tranfaglia arriva alla conclusione che “la mafia ha vinto”. Mi sembra importante, però, elencare anche i cambiamenti in positivo che l’antimafia ha registrato nel corso degli anni ( soprattutto gli ultimi 15), per verificare come la celebre riflessione di Giovanni Falcone - con la quale lo stesso Tranfaglia apre il suo libro – secondo cui “la mafia è un fenomeno umano, e come ha avuto un inizio così avrà una fine” non fosse una frase fatta, buona solo per esorcizzare il problema. Indicava un percorso possibile, lungo il quale ci sono compiuti passi anche significativi. La strada è certo ancora lunga ed impervia. Il cammino compiuto fino ad oggi è insufficiente per molti profili. E tuttavia ci sono stati momenti positivi, dei quali innanzitutto vorrei parlare.

Non dimentichiamo che c’era una volta in cui la mafia…. neppure esisteva. Anzi peggio: il Procuratore generale della Corte di cassazione Giuseppe Guido Lo schiavo, il più alto magistrato italiano, su una rivista giuridica (negli anni Cinquanta) scriveva testualmente: “si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura, è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura e la giustizia e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione dei fuorilegge e dei banditi ha addirittura affiancato le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini, in seno della consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività”. Se oggi qualcuno, Procuratore generale o no, si esprimesse in questi termini, l’invettiva che Grillo ha fatto diventare di moda sarebbe assolutamente scontata. Oggi sono i mafiosi che devono scendere in piazza per far sapere che la mafia non esiste. Roberto Saviano torna in Campania a Casal di Principe e Nicola Schiavone (padre del boss Francesco, il famigerato Sandokan) in piazza deve gridare - feroce, minaccioso, ma in una certa misura anche patetico - che la camorra non esiste e se l’è inventata Saviano per vendere più copie del suo libro…

Altri cambiamenti si registrano sul piano degli strumenti di contrasto investigativo-giudiziario. Una volta c’era soltanto il 416 bis, l’associazione a delinquere semplice, ed era – di nuovo parole di Falcone – “come dover combattere contro un carro armato, la mafia, con una cerbottana”. Si perdeva. Adesso invece , sia pure con grave ritardo e soltanto dopo la morte di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, abbiamo il 416 bis: uno strumento mirato, calibrato sulla realtà specifica delle associazioni mafiose. Abbiamo la Procura nazionale Antimafia con la sua banca dati, uno strumento davvero importantissimo, un patrimonio inestimabile di conoscenze formato acquisendo tutti i dati significativi ovunque disponibili. Abbiamo la DIA (direzione investigativa antimafia). Abbiamo un uso massiccio ormai della tecnologia: in particolare le intercettazioni telefoniche e ambientali, che consentono il monitoraggio continuo dei punti “sensibili”, anche per la ricerca dei latitanti: che conseguentemente non possono non vivere costantemente sotto tensione, braccati di continuo come sono, mentre una volta non venivano neppure cercati. E dopo le stragi del 1992, abbiamo avuto la legge sui “pentiti” e la legge sul trattamento carcerario di giusto rigore dei mafiosi detenuti: strumenti che sono stati decisivi per risalire la china quando il terrorismo stragista dei mafiosi sembrava incontenibile. Quando nel nostro Paese si era verificato qualcosa di simile all’11 settembre di New York: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come le Torri Gemelle, simboli abbattuti da una violenza politica totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite. Quest’immagine ( che è di Andrea Camilleri) esprime bene il gravissimo pericolo che si abbatté sull’Italia: il pericolo di diventare uno stato-mafia, un narco-stato di tipo colombiano, dominato da un’organizzazione criminale stragista. Per fortuna, con il concorso di tutti (istituzioni, società civile, forze dell’ordine e magistratura), invece di precipitare in un abisso senza fondo, siamo riusciti a resistere.

Per certi profili, sul piano investigativo-giudiziario facciamo persino scuola. E non è un caso che la nuova convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità trans-nazionale firmata a Palermo, nel dicembre 2000, preveda tutta una serie di misure pensate con riferimento alla realtà specifica delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza di contrasto maturata sul campo soprattutto nel nostro Paese. Ecco allora, in questa convenzione ONU, la previsione come reato della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, la confisca dei beni dell’associazione, la protezione dei testimoni, l’assistenza delle vittime, l’incentivazione dei “pentimenti”. Noi oggi, condizionati da una certa black propaganda, quando parliamo di “pentiti” ci tappiamo il naso, o peggio. In questa convezione ONU c’è invece scritto che i “pentimenti” devono essere incentivati mediante sconti di pena, fino all’immunità per quegli ordinamenti che l’immunità prevedano. Piuttosto va detto ( e lo vedremo meglio in seguito) che mentre facciamo da modello, esportando le nostre esperienze, poi tendiamo incredibilmente ad arretrare per quanto riguarda noi stessi.

Altre novità positive si possono riscontrare sul piano della lotta all’estorsione, un punto di forza delle mafie ( come si sa), sia per l’accumulazione di profitti illeciti, sia per il controllo del territorio. Ricordiamo tutti la vicenda di Libero Grassi, che aveva denunciato il racket, aveva pubblicamente dichiarato che non avrebbe pagato. E però Grassi fu a sua volta denunciato dal presidente degli industriali di Palermo, che gli intimò di smetterla perchè: “i panni sporchi si lavano in casa”. Così Grassi restò isolato e venne ucciso. Ancora recentemente, non più di due anni fa, una inchiesta del Censis ha accertato che il 42,5 % degli imprenditori del sud interpellati riteneva che senza mafia avrebbe potuto fortemente incrementare il proprio fatturato. Ma è con amarezza che il Censis rilevava come gli imprenditori siciliani detenessero un singolare primato con i colleghi calabresi: quello di avvertire di meno o addirittura di negare il problema della mafia. Evidentemente pensavano che i padrini garantissero più sicurezza delle forze dell’ordine e che se c’era da pagare una tassa era (come dire) un costo di gestione da accettare senza fare troppe storie.

Oggi dei cambiamenti (pochi, fragili e precari fin che si vuole: ma pur sempre significativi) ci sono. La positiva esperienza antiracket di Tano Grasso che va estendendosi dalla Sicilia in altre parti del Paese; la Confindustria siciliana che espelle chi paga il pizzo, con l’ appoggio della Confindustria nazionale; altri importanti segnali di recupero in Calabria. Finalmente, anche se con fatica, qualcosa si muove.

Poi ci sono novità sul piano dell’aggressione ai patrimoni dei mafiosi. Ieri (lo testimoniano i diari del Consigliere Chinnici) la situazione era questa: quando nell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, diretto appunto da Chinnici, si affaccia un giovanissimo magistrato a quei tempi assolutamente sconosciuto, di nome Giovanni Falcone, Chinnici (che ne intuisce subito le grandi capacità) gli affida alcune inchieste di mafia. Ora, è scritto nei diari di Chinnici che immediatamente un altissimo magistrato palermitano si precipita nel suo ufficio e in sostanza gli dice: “Ma che combini? Perché affidi a questo Falcone processi di mafia? Caricalo di processi bagatellari, di processi da niente, che non abbia il tempo di occuparsi di mafia: perché altrimenti rovina l’economia siciliana”. Chinnici chiaramente non ci sta, continua ad investire su Falcone e anche per questo suo coraggio la mafia lo uccide. Ma se indagare sulla mafia equivaleva a …. rovinare l’economia, conseguentemente non c’era – non poteva esserci - nessuna legge che aiutasse ad operare sul versante dell’aggressione dei patrimoni mafiosi. Oggi invece abbiamo la legge La Torre, che ha escogitato questo grimaldello formidabile che è imporre ai mafiosi l’onere di provare la provenienza legittima dei loro beni, perché altrimenti si presumono di provenienza illecita e quindi vengono sequestrati e confiscati. Successivamente abbiamo avuto (grazie anche al milione di firme raccolto da “Libera”, l’efficacissima forma di organizzazione della società civile guidata da Luigi Ciotti e agli inizi anche da Rita Borsellino) la legge 199/1996 per l’impiego a fini socialmente utili dei beni confiscati. Importanti novità, oggi da affinare e potenziare e tuttavia ormai in campo, concretamente operanti. Ettari ed ettari di terre confiscate ai mafiosi sono oggi lavorati da Cooperative di giovani coordinate da “Libera”, che ha saputo costruire un’imponente rete di collegamento sull’intero territorio nazionale, un ponte tra Sud e Nord formato da oltre 1500 gruppi, uniti dal comune interesse sui temi della legalità e della giustizia. La pasta, l’olio, il vino prodotti sui terreni confiscati alla mafia in varie regioni italiane sono la materializzazione della legalità come restituzione del “maltolto”, cioè di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante un sistematico drenaggio delle risorse e la “vampirizzazione” del tessuto economico legale ( a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti etc.). I prodotti di “Libera”, in altre parole, sono la dimostrazione che l’antimafia è recupero di legalità che “paga” anche in termini di nuove opportunità di lavoro e di nuove occasioni di iniziative imprenditoriali. Sono un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi, sintesi di dignità ed indipendenza conquistate col lavoro: il modo più efficace per coinvolgere la società civile in un effettivo impegno antimafia, senza più deleghe esclusive alle forze dell’ordine e alla magistratura, inevitabilmente indebolite se lasciate sole. Per cui è proprio su questo versante – del coinvolgimento e dell’impegno della società civile, che si possono registrare i segnali più rilevanti, comprendendovi anche i ragazzi di Locri e i ragazzi “no pizzo” di Palermo. Segnali che si stagliano in un quadro ancora molto cupo, e tuttavia importanti.

Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. E qui il pessimismo di Tranfaglia ( “Perché la mafia ha vinto”) può pescare a piene mani.

Va premesso che il contrasto di “Cosa nostra” per quanto concerne l’ala cosiddetta militare dell’organizzazione ormai registra una forte e rassicurante continuità: dall’arresto di Riina e soci fino agli arresti di Provenzano e dei Lo Piccolo e alla mega-inchiesta “Old bridge” del febbraio 2008 in cooperazione fra Italia e Usa, ecco tutta una serie di importanti interventi che dimostrano come l’apparato investigativo-giudiziario antimafia si sia stabilmente assestato su livelli di assoluta eccellenza. Non altrettanta continuità, però, è dato di registrare sul versante del contrasto alle cosiddette “relazioni esterne”, vale a dire le complicità, coperture e collusioni con pezzi del mondo legale (politica, affari, imprenditoria, istituzioni….) che rappresentano la spina dorsale, il nerbo del potere mafioso. Se tali coperture non sono aggredite con forza e appunto continuità, senza sconti o scaltrezze, “Cosa nostra” non è certo onnipotente, ma continuerà a trovare sostegni preziosi se non decisivi anche nei momenti più difficili. Se persiste il malvezzo di applaudire quando si arrestano capimafia e gregari, per gridare al teorema o al complotto quando si cerca di far luce più in profondità, allora avrà ancora una volta ragione chi sostiene che si possono anche arrestare boss su boss, ma l’alt ad andare oltre, in forma anche esplicita e non solo sottintesa, rimane: e pesa come un macigno.

Persino il pool di Falcone e Borsellino dovette piegarsi a questa “regola”. Con il maxi-processo, il pool aveva posto fine ( nel rispetto rigoroso delle regole, delle prove, delle procedure) al mito dell’invulnerabilità di Cosa Nostra. La mafia poteva essere finalmente sconfitta, e invece si dovette registrare un fatto che rappresenta una colossale vergogna della nostra storia nazionale. Il pool, invece di essere sostenuto nella sua azione, venne letteralmente spazzato via. Siamo 4-5 anni prima delle stragi, ed una tempesta di polemiche tanto violente quanto ingiuste si scatena sul pool: professionisti dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, uso della giustizia a fini politici di parte, pool trasformato in centro di potere. Per effetto di queste aggressioni, alla fine il pool di fatto scompare e il suo metodo di lavoro - vincente - viene cancellato. E ciò proprio nel momento in cui il pool comincia ad occuparsi non solo di mafiosi di “strada”, ma anche dei cugini Salvo, di Ciancimino, dei Cavalieri del lavoro di Catania(vale a dire dei rapporti della mafia con pezzi della politica, delle istituzioni, del mondo degli affari…). E’ allora che il pool non va più bene. Perché sta traducendo in cifra operativa quel che aveva sostenuto nella ordinanza-sentenza conclusiva del primo maxi-processo del 1985, quando denunziava “una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. E’ nel momento in cui il pool comincia a “voltare pagina” che si moltiplicano - furibondi - gli attacchi che ne causano la delegittimazione e poi la scomparsa, con azzeramento del suo metodo di lavoro.

La tecnica è semplice: ripetere ossessivamente (a forza di ripeterle, anche le menzogne diventano credibili) che le indagini riguardanti i rapporti tra mafia e politica sono invenzioni di magistrati politicizzati, asserviti a strategie eterodirette. Ovviamente è un’assurdità, comprensibile soltanto se a propagandarla è Cosa nostra, che difatti la sostenne contro il pool di Falcone, quando Antonino Salvo, uomo “d’onore” riservato della famiglia di Salemi, per difendersi dalle accuse del pool proclamava di essere “sotto il mirino dei politici e, in particolare, anzi, soltanto del Partito Comunista italiano”. Una falsità che sarà poi ripresa pari pari da Salvatore Riina, pronto ad inveire pubblicamente (24 Maggio ’94, Corte di Assise di Reggio Calabria) contro i “comunisti” che complottano ai suoi danni anche nella Procura della Repubblica di Palermo. Ma quel che interessa sottolineare è che Salvo e Riina non parlavano e non parlano a caso, ma lanciano trasparenti messaggi, magari rivolgendosi a settori che immaginano, sperano, disposti a riceverli.

Interessa sottolineare, inoltre, che la storia (almeno in parte) si ripete, nel senso che anche dopo le stragi del ‘92 le cose vanno bene , per il pool dei magistrati inquirenti della Procura di Palermo, finchè ci si occupa soltanto di Riina e soci. Ma quando - non in base a teoremi politico-sociologici ma a fatti ed emergenze probatorie - si aprono e si sviluppano anche procedimenti a carico di imputati "eccellenti" appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre hanno un ruolo centrale nella storia della mafia), ecco che - pur di scongiurare il salto qualitativo nell'azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra - sono molti coloro che accettano di perdere una guerra che si sarebbe potuta vincere. Le tappe di questa strategia rinunciataria sono note e già sperimentate contro il pool di Falcone: la definizione della ricerca della verità come inaccettabile «cultura del sospetto»; l'insinuazione di uno scorretto rapporto tra “pentiti” e inquirenti; la conseguente delegittimazione pregiudiziale dei “pentiti” (cosa – inutile dirlo – tutt'affatto diversa dalla doverosa prudenza nella valutazione delle dichiarazioni degli stessi); l'accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire teoremi per ragioni politiche o, più brutalmente, di «essere comunisti o amici dei comunisti». Risultato? Proprio mentre l’incalzare dell’azione della Procura stava disgregando l’organizzazione criminale, proprio quando l’isolamento di Cosa nostra (grazie anche alle indagini sui collusi) andava profilandosi come ormai irreversibile, ecco inscenarsi un “processo” alla stagione giudiziaria che ha seguito le stragi del '92. E se le persone da mettere sotto accusa sono i magistrati, ad avvantaggiarsene – obiettivamente – è la criminalità. Cosa nostra fa meno fatica a risorgere, ha più tempo e più spazio per ricostruire le fortificazioni sbrecciate. Sembrava fatta, Cosa nostra ed i suoi complici stretti in un angolo, sotto una gragnola di colpi portati con rigoroso rispetto delle regole e delle garanzie, e invece….. Certo, l’azione degli inquirenti non viene bruscamente interrotta come ai tempi del pool di Falcone, ma la strada si fa più in salita. Continuano i “successi” sul versante militare dell’organizzazione, ma l’indispensabile lotta alle collusioni rallenta e si inceppa. Ed è proprio qui che si può registrare quanto sopra anticipato: molte cose sono cambiate in positivo nell’impegno antimafia; quel che invece non cambia mai – o cambia troppo poco – è la politica, perlomeno certa politica.

Vorrei ancora fissare alcuni punti:

1. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l’orticaria. Non si identifica con l’Italia delle regole quanto piuttosto con l’Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti.

2. In democrazia, il primato della politica è un assioma. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell’interesse - si spera - di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storiella del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché non può esservi dubbio alcuno su questo primato, la politica deve viverlo ed interpretarlo nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal ’90 ad oggi. Si avverte invece una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica, a farne la base per pretendere una sorta di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che si incrociano determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di intervento.

3. Usa dire che l’antimafia e l’anticorruzione non portano voti. Chissà…. Sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell’agenda politica, quando ci sono, sono in posizioni non primarie. Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996, con vari sussulti successivi di tipo emergenziale: nel senso che soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, con una forte tendenza a dimenticare presto e rimettere la questione mafia ai margini dell’agenda.

Ma se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione per il settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del ‘92 e del ‘93, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali che nazionali. E allora ecco che invece dell’indignazione o della giusta tensione ci sono passività e rassegnazione. Ci si convince che così va il mondo, che c’è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici, favole per i gonzi. E la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità.

L’impressione è che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi poco compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando strade sempre più diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte di una certa politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziarie, certamente politico-morali. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza - magari una sentenza definitiva di cassazione come quella relativa al “caso” Andreotti - elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale), se in quella sentenza si dice - una prova dopo l’altra - che tutto questo è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso sol perché prescritto, questa non è assoluzione! E’ un’altra cosa.

Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con la prescrizione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. E’ anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se si dice che c’è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, questi fatti vengono cancellati, sbianchettati. Ma cancellando questi fatti (come se non fossero mai accaduti, come se fossero invenzioni di giustizialisti, di magistrati politicizzati al servizio di una fazione….), si legittima di fatto un certo modo di fare politica che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica si legittima per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita, perché significa cancellare il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c’è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E intanto la mafia non può non approfittarne, magari per superare momenti difficili e riemergere, fino a dare quella sensazione di vittoria che esprime il titolo del libro di Tranfaglia.

In questo quadro, si capiscono tante cose, a partire dallo scarto ( di cui abbiamo già parlato) fra la continuità ormai acquisita sul versante del contrasto della mafia “militare” e la discontinuità dell’azione che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le relazioni esterne. Su questo versante si riesce a rimanere ad un certo livello - quando lo si raggiunge - per non più di due, tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia – ripetiamolo - sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capiscono la drastica revisione della legislazione antimafia; la minore efficienza del circuito carcerario differenziato per i boss; la nuova disciplina legislativa della collaborazione con la giustizia che ha prodotto effetti tutt’altro che incentivanti; le profonde riforme del processo penale che, seppure introdotte per tutelare sacrosanti diritti di garanzia, hanno finito per inceppare ulteriormente il funzionamento e allungare ancora i tempi del processo penale. Si capisce – in sostanza – come lo strumentario normativo antimafia risulti oggi un’arma meno incisiva se confrontato con quello varato all’indomani delle terribili stragi del ’92. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell’antimafia che è la gestione snella ed efficiente dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo –lentamente ma inesorabilmente - vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l’anagrafe dei conti bancari, una legge del ’93 che non è mai stata attuata. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.

E attenzione: è proprio questo contesto che favorisce scelte disastrose. Una recente ricerca Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell’economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180 mila posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; vale a dire che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in scatole vuote. Perché l’imprenditore mafioso – rispetto a quello onesto – gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto ma la conquista di pezzi di mercato. E infine, se ci sono dei problemi l’imprenditore mafioso, rispetto all’imprenditore normale, ha il vantaggio di poterli risolvere - questi problemi - coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l’intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività.

Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: “legalizzare la mafia sarà la regola del 2000”, non fosse - mentre faceva della intelligente ironia - un profeta.

Di fatto le mafie oggi sono ancora un’enorme questione nazionale, ancorché questo dato di fatto sia da molti - anche a sinistra - negato. La drammatica realtà delle mafie, oggi, è che esse hanno costruito una vera e propria “economia parallela” che pian piano risucchia nel suo gorgo commerci, imprese e forze economiche sane, che spesso trovano difficoltà enormi nel costruire le loro sorti ed il loro futuro sul rispetto delle pratiche legali. Così l’economia illegale inesorabilmente avanza e si espande, come un’onda che si insinua dovunque e cerca di impadronirsi di tutto. Essa si presenta, purtroppo, spesso come vincente, a fronte di uno Stato che troppe volte dà l’impressione di rinunziare a combattere (o di non combattere con sufficiente energia) una battaglia che si potrebbe invece sostenere e vincere, con azioni positive e convincenti da parte di chi dovrebbe – in politica come in economia – offrire il buon esempio.

Di qui la necessità ( che percorre come un filo rosso l’intiero libro di Tranfaglia) di superare qual limite culturale che da sempre inceppa l’azione antimafia: quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste», dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale, oggi sempre più potere economico.

Tutto ciò presuppone decisi interventi soprattutto sul piano della politica, azioni positive e convincenti (sia rispetto all’illegalità in generale sia rispetto al crimine organizzato in particolare). Azioni condotte con energia e solerzia, mentre la storia della mafia registra, oltre a vere e proprie complicità, il prevalere – salvo alcune fasi - di un atteggiamento di sostanziale lassismo (che Gaetano Mosca chiamava «fiaccona»), capace di contribuire non poco al rafforzarsi del potere mafioso.

La “fiaccona” e le complicità sono da sempre i migliori alleati della mafia. Questo in definitiva dimostra il libro di Tranfaglia. E se la “fiaccona” e le complicità persistono, la mafia – appunto - vince.

di Gian Carlo Caselli

31 marzo 2008

Il vaticano e, il papa nero


L'ex vescovo Gerard Bouffard del Guatemala ha affermato che il Vaticano è “il reale controllore spirituale” degli Illuminati e del Nuovo Ordine Mondiale, mentre i Gesuiti, tramite il Papa Nero, il generale padre Peter Hans Kolvenbach, controllano in modo effettivo la gerarchia vaticana e la Chiesa Cattolica Romana.

Il vescovo Bouffard, che ha lasciato la Chiesa ed ora è un Cristiano Rinato che vive in Canada, ha fondato la sua conclusione dopo aver lavorato sei anni come sacerdote in Vaticano, incaricato del compito di trasmettere la corrispondenza giornaliera e riservata tra il Papa ed i dirigenti dell'Ordine dei Gesuiti, che risiede in Borgo Santo Spirito n° 5, nei pressi della piazza di San Pietro.

“Si, l'uomo conosciuto come il Papa Nero controlla tutte le più importanti decisioni prese dal Papa e questi a sua volta controlla gli Illuminati,” ha dichiarato il vescovo Bouffard la settimana scorsa nel corso dello spettacolo svolto alla radio di Greg Szymanski, denominato “Il giornale investigativo”, presso , ove gli archivi delle sorprendenti dichiarazioni possono essere ascoltati nella loro interezza.

“So che questo è vero, dal momento che ho lavorato per anni in Vaticano ed ho viaggiato con Papa Giovanni Paolo II. Il Papa prende i suoi ordini di marcia dal Papa Nero, mentre i Gesuiti sono anche i leader del Nuovo Ordine Mondiale, con il compito di infiltrare le altre religioni ed i governi del mondo, allo scopo di realizzare un governo mondiale unico fascista ed una religione mondiale unica, basata su Satanismo e Lucifero.”

“Le persone non possono immaginare quanto male e quanta distruzione i Gesuiti hanno causato e causeranno, mentre contemporaneamente usano la perfetta copertura di nascondersi dietro tuniche nere e di professare di essere uomini di Dio.”

La conoscenza di prima mano da parte del vescovo Bouffard del male che aleggia all'interno della gerarchia del Vaticano e particolarmente entro l'Ordine dei Gesuiti conferma la testimonianza di altri ricercatori, compreso Bill Hughes, autore degli sconvolgenti libri “Il nemico non mascherato” ed “I terroristi segreti”, come pure il preminente ricercatore sull'Ordine dei Gesuiti Eric Jon Phelps, autore di “Assassini vaticani”.

Oltre a dipingere un cupo ritratto del Papa Nero in Roma, il vescovo Bouffard rivela che il potere malefico dei Gesuiti si estende da un capo all'altro del mondo, inclusa una solida infiltrazione del governo Usa, del Consiglio delle Relazioni Estere (CFR) e delle maggiori organizzazioni religiose.

Il vescovo Buffard proclama che i Gesuiti agiscono come perfetti camaleonti, assumendo l'identità' di Protestanti, Mormoni, Battisti e Giudei, con l'intenzione di causare il tracollo degli Usa così come di portare la nazione sotto una religione mondiale unica, fondata in Gerusalemme e sotto il controllo del loro leader, Lucifero.

“Io so di prima mano che il Vaticano controlla e monitora ogni cosa in Israele, con l'intenzione di distruggere i Giudei,” ha affermato il vescovo Bouffard, aggiungendo che l'autentico proposito dell'Ordine dei Gesuiti è quello di orchestrare e controllare tutti i leader del mondo, allo scopo di provocare un più importante conflitto esteso al mondo intero, che alla fine distruggerà gli Usa, il Medio Oriente ed Israele. “Essi distruggono ogni cosa dall'interno e vogliono provocare la distruzione pure della stessa Chiesa Cattolica, allo scopo di inaugurare una religione mondiale unica basata sul Satanismo. Ciò si vede anche nel modo in cui i sacerdoti svolgono i servizi religiosi nella Messa, in effetti venerando i morti (1). Inoltre segni di Satanismo si riscontrano in molti simboli esteriori, consuetudini e paramenti esibiti dalla Chiesa.”

Dopo aver prestato servizio in Roma, il vescovo Bouffard fu impiegato in Africa ed in Guatemala, salendo ad una posizione di potere all'interno della Chiesa. Comunque, insieme a questo potere religioso, sopravvenne l'affiliazione e la registrazione come Frammassone, e divenne membro massonico del 37.mo grado, un qualcosa che si suppone disapprovato nella Chiesa Cattolica Romana, dal momento che, secondo il Diritto canonico, l'appartenenza ad una Loggia massonica comporta l'immediata scomunica.

Secondo il vescovo Bouffard la Frammassoneria viene usata dalla Chiesa per realizzare i suoi piani segreti, perché molti altri sacerdoti di alto livello, ossia vescovi, cardinali e persino papi, si sono iscritti a società' segrete insieme ad altri in posizioni di potere in altre religioni e governi, la maggioranza di loro lavorando insieme per favorire la malefica agenda degli Illuminati.

E le sue dichiarazioni sostengono i rapporti che affiorarono sui giornali italiani e francesi nei primi anni '80, che recavano notizia di più di 150 sacerdoti di alto rango iscritti alla Frammassoneria, compresa la Loggia massonica P2, e ad altre società segrete.

“Alla fine rinacqui come cristiano e denunciai la Chiesa Cattolica,” ha affermato il vescovo Bouffard, che ora è un Cristiano praticante e segue la parola di Dio tramite la Bibbia. “Dobbiamo sempre pregare per i nostri dirigenti, denunciando apertamente il male e smascherando i Gesuiti per quello che realmente sono.”

Dopo aver lasciato la Chiesa, il vescovo Bouffard fece anche ammenda e chiese perdono all'ex sacerdote gesuita, padre Alberto Rivera. Padre Rivera fu uno dei pochi sacerdoti gesuiti con il coraggio di smascherare i malefici scopi della Società di Gesù, facendo un passo avanti per proclamare in che modo lavorasse, essendo uno degli infiltrati dell'Ordine dei Gesuiti in Usa, con il compito di penetrare nelle chiese Protestanti e Battiste, con l'intento di distruggerle dall'interno.

“Quando ero vescovo ed ancora fedele alla Chiesa, una volta scrissi una lettera, denunciando padre Rivera e proponendo la sua morte,” ha dichiarato il vescovo Bouffard. “Quando compresi la verità', cercai padre Rivera e chiesi il suo perdono. Diventammo buoni amici ed io so che diceva la verità. Era un uomo onesto, che, per giunta, trovò Dio.”

“Io so che i Gesuiti hanno cercato di alterare la verità, affermando che egli non era mai stato sacerdote e distruggendo ogni documentazione che lo attestasse. Hanno cercato di fare lo stesso a me, ma padre Rivera proclamava la verità senza dubbi. Conosco queste vicende come testimone e sono anche stato con lui molte settimane prima della sua morte. Soffriva terribilmente dopo essere stato avvelenato con acido. Come ho già detto, non potete immaginare la sofferenza e la distruzione che sono state causate e saranno causate dai Gesuiti.”

In un articolo intitolato “Alberto: il grande trambusto”, uno scrittore sconosciuto, che seguiva la carriera del vescovo Bouffard e la sua connessione con padre Rivera, scrisse quanto segue, compresa la difficoltà da parte del Vaticano nel cercare di censurare le accuse sia di Rivera che di Bouffard:

“A quel punto subentra la avvalorante testimonianza fornita da padre Gerard Bouffard. Egli era un vescovo di alto rango nato nel Quebec, Canada. Salì dai più bassi livelli del suo ordine sino a diventare assistente per molti anni di Papi quali Paolo VI e Giovanni Paolo II. Si convertì al protestantesimo e proclama di essere stato l'uomo che ricevette l'ordine di eliminare Rivera. In un documentario denominato “Svelare il mistero posto dietro i simboli cattolici”, Bouffard mostra una lussuosa penna placcata in oro 18 carati, che contiene uno speciale inchiostro che scompare, con cui le autorità del Sacro Uffizio firmano i documenti al massimo livello di segretezza. Bouffard proclama: “Con questa penna che ho in mano ho firmato l'ordine di uccidere il Dr. Rivera”. Considerevole e drammatica storia di cappa e spada ! La sua precedente posizione di alto profilo lo renderebbe facile bersaglio di discredito... Tuttavia il silenzio è assordante.”

“Il Vaticano ha anche i suoi propri problemi di credibilità con cui lottare. Da un contesto storico la proclamazione di Alberto di essere stato un gesuita che lavorava in segreto per distruggere le chiese protestanti non e' tanto inverosimile quanto potrebbe sembrare. I Gesuiti furono creati nel 1541 da Ignazio De Loyola per quel preciso proposito (sebbene, naturalmente, alcuni Gesuiti neghino ciò). Essi si sono impegnati in innumerevoli sporchi imbrogli, assassinii e congiure traditrici durante il periodo del loro maggiore successo e potere.”

L'Ufficio della Inquisizione fu un risultato della loro missione, che portò alla tortura e/o uccisione di milioni di persone innocenti per “eresia”. Quel dipartimento da allora è stato rinominato “Il Santo Uffizio”, ma i Gesuiti non si sono mai preoccupati per un cambio di nome. Quanto i loro obiettivi siano cambiati con il passare del tempo è anche incerto. Né l'organizzazione è molto trasparente e neanche serve gli interessi del Papa. Le cattive reputazioni non vengono facilmente dimenticate.

“Se la storia di Alberto fosse solo una montatura, sarebbe tuttavia un brillante brano di narrativa, con sbalorditiva coerenza. Esistono certamente altre cospirazioni che siano state escogitate, che sono egualmente vivide ed intricate. La congiura per l'assassinio di JFK e quella degli UFO / Majestic 12 (2) vengono per prime alla mente. Ma queste cospirazioni furono ideate e perfezionate da centinaia di persone nell'arco di un lungo periodo di tempo, quindi assemblate e rifinite, fino al punto in cui formassero una narrazione plausibile. Dopo circa venti anni di “apporti pubblici” e revisioni, viene adottata una versione semi “ufficiale”. Se qualche specifica parte di essa viene dimostrata falsa, la versione si modifica in una forma leggermente differente, privata delle parti confutate.”

Alberto non aveva nessuna di queste risorse. La sua storia personale provenne da lui solamente. Essa non fu revisionata e rifinita per decenni dalla commissione, prima che Chick la pubblicasse. Al contrario essa fu pubblicata nella sua interezza e solo allora arricchita con volumi addizionali (cinque più i fumetti), aggiungendo nomi e date, ma senza ritrattazioni. Se in effetti “avesse inventato tutto ciò”, allora egli certamente meriterebbe un premio per genio letterario. Specialmente quanto più i suoi personali intrecci biografici sono connessi (sorvolare, Barone von Munchausen ?).

Dopo venti anni di indagini tutte le risorse del Papa non sono riuscite a “provare” che la denuncia di Alberto fosse un falso. Naturalmente neanche Alberto riuscì a “provare” le sue accuse contro il Vaticano. Così, al meglio, la contesa è ancora un pareggio. Forse futuri sviluppi frutteranno qualche evento drammatico. Ma non fateci affidamento. Probabilmente non sapremo mai se Alberto fosse realmente quel personaggio che proclamava di essere, a meno che il Papa faccia un passo chiaro e netto, e lo confessi. (E ciò presenta circa le stesse probabilità di avvenire quanto quelle che un disco volante atterri sul prato della Casa Bianca). Esso, comunque, è precisamente delizioso nutrimento per la meditazione, e molto più terrificante di ogni trailer trasmesso riguardante X-files.

Nel corso della storia l'Ordine dei Gesuiti è stato collegato a guerra e genocidio, venendo formalmente bandito da molte nazioni, comprese Francia ed Inghilterra. Mentre i ricercatori proclamano che i Gesuiti sono i concreti controllori spirituali del Nuovo Ordine Mondiale, lo scrittore Phelps ha anche reclamato il bando dell'Ordine da questa nazione.

Comunque, con più di 28 università maggiori da costa a costa, l'Ordine ha costituito qui una forte base di appoggio politico e finanziario, compreso il controllo segreto del CFR ed il controllo di molte banche, come la “Bank of America” ed il “Federal Reserve banking system”, rendendo l'appello di Phelps per il bando una impresa difficile, se non addirittura proibitiva.
Greg Szymanski

Una invenzione chiamata “il popolo ebraico”


Gli antisionisti lo hanno sempre sostenuto. Gli ebrei non sono un popolo ma una religione. Gli ebrei che sono 'tornati' in Israele non discendono dagli ebrei di Palestina ma dai Kazari. I palestinesi discendono dagli ebrei di Palestina. Ora anche un libro dello storico ebraico Shlomo Zand sostiene e documento queste posizioni. La recensione è di un altro storico ebraico .


La Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che il popolo ebraico proviene dalla Terra di Israele e che fu esiliato dalla sua patria. Ad ogni scolaro israeliano si insegna che ciò accadde durante il dominio romano, nell’anno 70 d.C.

La nazione rimase fedele alla sua terra, alla quale iniziò a tornare dopo 2 millenni di esilio. Tutto sbagliato, dice lo storico Shlomo Zand, in uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati qui (in Israele) da molto tempo a questa parte. Non c’è mai stato un popolo ebraico, solo una religione ebraica, e l’esilio non è mai avvenuto – per cui non si è trattato di un ritorno. Zand rigetta la maggior parte dei racconti biblici riguardanti la formazione di una identità nazionale, incluso il racconto dell’esodo dall’Egitto e, in modo molto convincente, i racconti degli orrori della conquista da parte di Giosué. È tutta invenzione e mito che è servita come scusa per la fondazione dello Stato di Israele, egli assicura.

Secondo Zand, i romani, che di solito non esiliavano intere nazioni, permisero alla maggior parte degli ebrei di restare nel paese. Il numero degli esiliati ammontava al massimo a qualche decina di migliaia. Quando il paese fu conquistato dagli arabi, molti ebrei si convertirono all’Islam e si assimilarono con i conquistatori. Ne consegue che i progenitori degli arabi palestinesi erano ebrei. Zand non ha inventato questa tesi; 30 anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, essa fu sostenuta da David Ben-Gurion, Yitzhak Ben-Zvi ed altri.

Se la maggioranza degli ebrei non fu esiliata, come è successo allora che tanti di loro si insediarono in quasi ogni paese della terra? Zand afferma che essi emigrarono di propria volontà o, se erano tra gli esiliati di Babilonia, rimasero colà per loro scelta. Contrariamente a quanto si pensa, la religione ebraica ha cercato di indurre persone di altre fedi a convertirsi al giudaismo, il che spiega come è successo che ci siano milioni di ebrei nel mondo. Nel Libro di Ester, per esempio, è scritto: “Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei, perché il timore dei Giudei era piombato su di loro”[1].

Zand cita molti precedenti studi, alcuni dei quali scritti in Israele ma tenuti fuori dal dibattito pubblico dominante. Egli descrive anche, e a lungo, il regno ebraico di Himyar nella penisola arabica meridionale e gli ebrei berberi del Nord Africa. La comunità degli ebrei di Spagna derivava da arabi convertiti al giudaismo che giunsero con le forze che tolsero la Spagna ai cristiani, e da individui di origine europea che si erano convertiti anch’essi al giudaismo.

I primi ebrei di Ashkenaz (Germania) non provenivano dalla Terra di Israele e non giunsero in Europa orientale dalla Germania, ma erano ebrei che si erano convertiti nel regno dei Kazari nel Caucaso. Zand spiega l’origine della cultura Yiddish: non si tratta di un’importazione ebraica dalla Germania, ma del risultato dell’incontro tra i discendenti dei Kazari e i tedeschi che si muovevano verso oriente, alcuni dei quali in veste di mercanti.

Scopriamo così che elementi di vari popoli e razze, dai capelli biondi o scuri, di pelle scura o gialla, divennero ebrei in gran numero. Secondo Zand, i sionisti per la necessità che hanno di inventarsi una eticità comune e una continuità storica, hanno prodotto una lunga serie di invenzioni e finzioni, ricorrendo anche a tesi razziste. Alcune di queste furono elaborate espressamente dalle menti di coloro che promossero il movimento sionista, mentre altre furono presentate come i risultati di studi genetici svolti in Israele.

Il Prof. Zand insegna all’Università di Tel Aviv. Il suo libro, ‘When and How Was the Jewish People Invented’, (Quando è come fu inventato il popolo ebraico), pubblicato in ebraico dalla casa editrice Resling, vuole promuovere l’idea di un Israele come “stato di tutti i suoi cittadini” – ebrei, arabi ed altri – in contrasto con l’attuale dichiarata identità di stato “ ebraico e democratico”. Il racconto di avvenimenti personali, una prolungata discussione teoretica e abbondanti battute sarcastiche non rendono scorrevole il libro, ma i capitoli storici sono ben scritti e riportano numerosi fatti e idee perspicaci che molti israeliani resteranno sorpresi di leggere per la prima volta.
Tom Segev
Tradotto dall’inglese da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete dei traduttori per la diversità linguistica.

29 marzo 2008

Brogli a Palermo:il Diavolo scopre i coperchi?


“Gli arresti di oggi rappresentano solo l’inizio. Ho presentato alla Digos e alla magistratura documenti che testimoniano diverse violazioni nel corso delle elezioni per le amministrative a Palermo l’anno scorso. Il 4 aprile attendiamo il pronunciamento del Tar sugli aspetti amministrativi. Esistono tutte le premesse per annullarle”. Abbiamo raggiunto Leo Luca Orlando dopo la notizia dell’arresto dei due presidenti di seggi elettorali a Palermo per i presunti brogli che l’ex sindaco della primavera palermitana aveva denunciato prima in conferenza stampa poi con una serie di dettagliati esposti. Messi insieme, dimostrerebbero che nelle urne il vincitore sarebbe stato lui. Le manipolazioni, secondo valutazioni dei tecnici di Orlando, avrebbero invece cambiato destinatario a ben 40 mila voti. Dietro tutto questo per Leo Luca Orlando ci sarebbe anche la mafia.
"Il voto amministrativo di Palermo dello scorso autunno è stato prima controllato, poi comprato e infine, visto che era a tutti evidente che avrei comunque vinto al primo turno, è stato manipolato: gli arresti di oggi sono una piccola conferma alle tante e circostanziate denunce che con centinaia di cittadini, anche candidati, presentammo nei giorni successivi al voto." Insiste Leoluca Orlando. “Perché la mafia non si accontenta più di contrattare o comprare i voti. Non si accontenta di certi piccoli regali. Abbiamo dimostrato che in pochi giorni sono stati comprati novemila telefonini tutti dello stesso tipo. Trova meno costoso, più redditizio e più sicuro manipolare il voto. Con cento euro compri un voto. Con un presidente infedele ne sposti trecento. Molto meno rischioso e con maggiori probabilità di risultato di quelli che ottieni blandendo o minacciando trecento persone”.

Ci sono delle responsabilità in tutto questo?
“Ho denunciato con nome e cognome il responsabile della macchina elettorale. Mi auguro che in attesa che si concludano le indagini questa persona non torni a dirigire la macchina elettorale di Palermo. Come ci si può fidare di una persona che convoca i presidenti di seggio e affida loro le schede in assenza di scrutatori e rappresentanti di lista? Alcuni sono stati trovati a timbrare le schede in tutta solitudine. Ricordiamo i verbali sbianchettati, i voti scomparsi nel nulla e, soprattutto, il caos scientificamente organizzato a Palazzo delle Aquile per la ricezione dei plichi elettorali di cui nessuno accertava l'autenticità e la provenienza. Ci sono immagini televisive di plichi lanciati all’ingresso da ragazzi in motorino".

Insomma, non è a ischio solo il voto di chi per necessità è pronto a mercificarlo ma anche il mio, il suo, quelli di chiunque che possono essere contraffatti con un colpo di penna.
“Sì. E tutto questo potrebbe ripetersi tra due settimane”

Segnali di solidarietà politica?
“Pochi. Talvolta ho sentito di combattere questa battaglia quasi da solo. Per fortuna sono intervenute alcune autorevoli voci a condannare certi rumorosi silenzi. Perché è una battaglia che non riguarda solo la mia elezione. E’ una battaglia per il diritto disatteso di ogni singolo elettore. Abbiamo dimostrato che sono state manipolate 40 mila schede. Più che sufficienti a cambiare il corso delle elezioni. 15 mila sarebbero valse ad andare al ballottaggio. 40 mila significavano la vittoria al primo turno. Ne ho parlato con il ministro dell’Interno. Perché così come hanno cambiato il corso delle elezioni comunali simili sviste, errori, caos pianificato, possono incidere anche sulla composizione del Parlamento. Chiediamo garanzie, per gli elelettori”.
di Pino Finocchiaro

Lo STATO-MAFIA si presenta



«Torniamo alla P2 finanziaria a cui ha fatto cenno. Che cosa significa?»
(Dall'intervista di Antonio Di Pietro ad Angelo Notarnicola pubblicata il 16.12.2005)

Che legalità vi aspettate da uno stato, se la mafia, la criminalità organizzata, controlla un quarto, forse un terzo del suo territorio, quindi dei collegi elettorali, quindi presumibilmente dei suoi parlamentari?
Avrete letto le trascrizioni delle telefonate che si scambiavano, in tutta tranquillità, anzi giocosamente, agenti e funzionari di polizia al G8 di Genova 2001, per organizzare pestaggi criminali di innocenti e per poi calunniarli e incastrarli piazzando nella Scuola Diaz bombe Molotov e coltelli portati da loro stessi, nel mentre che lasciavano i veri facinorosi devastare indisturbati la città?

Ebbene, non si tratta di eccezioni, ma della norma: questa, non un’altra, è la mentalità di illegalità e complicità, la prassi dominante di abuso e approfittamento, non solo nelle forze dell’ordine, ma anche nella “giustizia”, in tutto lo stato-mafia, in tutta la sua pubblica amministrazione, dagli appalti di opere pubbliche ai tribunali, dalle operazioni umanitarie alla guerra. Quelli che al processo hanno coperto le colpe dei loro superiori, stanno facendo una brillantissima carriera, sebbene per legge, essendo indagati, non possano essere promossi. Ma il sistema premia i suoi figli come umilia chi fa osservare la legge. Nessuna legalità, solo finzione e fanfare. Certo, esistono funzionari leali e corretti, ma non sono la maggioranza e non incidono sul comportamento dell’insieme.

Le indagini su numerosi giudici corrotti o deviati o direttamente collaboratori di mafia (come nel caso Campagna) o votati alla pronta e sistematica liberazione dei delinquenti, lo spettacolo di grandi processi penali costruiti sul nulla a scopo politico e che hanno gravemente condizionato la vita nazionale, hanno portato ai nostri occhi realtà identiche: l’abuso interessato dei poteri dello Stato è ambientale e accettato dal sistema del potere affettivo. Con tutte le occasioni di controlli incrociati a cui è esposto in un tribunale o in una questura, un magistrato o un funzionario di polizia corrotto verrebbe individuato e bloccato subito dai suoi colleghi, se l’ambiente stesso di questo stato non accettasse culturalmente e strutturalmente l’abuso.

Dovunque si intercetti, dovunque si riesca a sbirciare dietro le quinte, è questo che, troppo spesso, si trova, dagli ospedali ai tribunali, dalle caserme alle università – per non parlare dei ministeri. E si trova anche riscontro a una legge sociale ben nota: tra colleghi ci si copre, lupo non mangia lupo – con alcune eccezioni che confermano la regola.
Si definisce stato-mafia l’apparato di potere, basato su trame illecite per la legge ufficiale, che infiltra, invade e sostituisce lo Stato legale, rilevandone le istituzioni e i poteri, e piegandoli ad ogni abuso per fare i propri interessi. Si discute se lo Stato italiano sia uno stato-mafia oppure no. Secondo alcuni non lo sarebbe ancora, perché sarebbe piuttosto uno stato che deve patteggiare con la mafia, da essa infiltrato e sempre più soppiantato. Io ritengo che lo Stato italiano sia oggi compiutamente uno stato-mafia, specificamente in base a due sue precise caratteristiche: in esso, i collegi elettorali controllati dalla criminalità organizzata sono determinanti per la formazione e la sopravvivenza delle maggioranze parlamentari e dei governi; in esso, il consenso elettorale, finanziario e istituzionale si ottiene attraverso la promessa di partecipazione ai benefici di attività illecite o illegittime organizzate dalle forze politiche, sindacali, economiche - ancor più dopo la riforma-porcata della legge elettorale che ha dato alle segreterie dei partiti il potere di decidere chi può essere eletto e chi no; e ancor più se è vera la Pax Mastelliana tra politica e vertici sindacali dei magistrati, di cui presto dirò, e che avrebbe il fine di consociare i vertici sindacali dei magistrati nel sistema dell’affarismo politico. Ma già una conferma di una profonda anomalia è il fatto che la casta politica ha calpestato, in parallelo, la volontà popolare espressa coi due referendum che toccavano proprio privilegi dei politici e dei magistrati: l’abolizione del finanziamento pubblico ai primi e l’abolizione dell’irresponsabilità dei secondi.

L’affermazione che l’Italia sia uno stato-mafia si può superare, peraltro, rilevando che essa, ancor più che uno stato-mafia, come spiegherò, è uno stato massonico, formato dalla Massoneria straniera, già nel cosiddetto Risorgimento, gestito attraverso il sistema bancario, dal quale – tra l’altro – dipendono funzionalmente quasi tutte le imprese economiche, le pubbliche amministrazioni, persino le principali forze politiche. E dipendono, per il finanziamento, tutti i progetti, pubblici e privati, leciti e illeciti – solo un’associazione segreta, non un parlamento, può gestire i rapporti con parti essenziali e determinanti dell’economia reale, quali il mercato della droga. Questo sistema dicesi “capitalismo assoluto”.

Preciso che so che esiste un’altra e più autentica Massoneria, una Massoneria promotrice di progresso e dei lumi, e ad essa non voglio far torto; ma in questo libro tratto di quella finanziaria e politica.
Da ciò sorgono questioni di carattere etico e giuridico insieme; ad esse si risponderà gradualmente:
Quale obbedienza e quali tributi sono moralmente e giuridicamente esigibili da uno stato-mafia, e in generale a uno Stato che, nella sua realtà, è contrario e illegittimo rispetto alle sue stesse leggi e alla sua stessa costituzione? E, pragmaticamente, che cosa possiamo fare, dopo aver accertato quanto sopra?

Mafia e stato-mafia sono le due facce con cui si presenta ed agisce un medesimo potere economico. Sono mutuamente utili, perché la mafia usa lo stato-mafia per imporre i suoi interessi e le sue politiche alla nazione attraverso una facciata di legalità formale; e lo stato-mafia usa la mafia per dire alla gente: “Quella è la mafia, l’anti-Stato, la criminalità organizzata; io sono lo stato, la difesa della legge e dei cittadini, sostenetemi, abbiate fiducia, pagatemi le tasse”. In questo modo, con questa finta contrapposizione, mafia e stato-mafia, soprattutto nel Meridione, si deresponsabilizzano a vicenda: la mafia esercita il potere senza assumersene la responsabilità politica, che lascia allo Stato; lo Stato, scaricando la colpa sulla mafia, riesce a farsi accettare, a farsi votare, a farsi pagare le tasse, anche se amministra male, dà pessimi servizi, non assicura l’ordine pubblico.
Se il Meridione fosse indipendente, la mafia sarebbe costretta ad andare al potere, nelle istituzioni, ufficialmente, ad assumere le responsabilità politiche da cui oggi si esime, scaricandole sullo Stato. Si dovrebbe trasformare per prendersi cura della società, e probabilmente amministrerebbe il Meridione molto meglio di quanto lo amministra ora attraverso lo stato centralista unitario.

Lo stato-mafia rispetta le leggi solo quel tanto che serve a nascondere la loro sistematica violazione e il fatto che il suo potere, l’affarismo politico, la produzione del consenso elettorale, si basano su quella sistematica violazione e hanno come scopo la sua perpetuazione a profitto dei suoi detentori e a spese della collettività. Le ideologie e i colori politici sono solo maschere per raccogliere consenso e per nascondere il business comune a tutti i politicanti.
Ma l'inosservanza, quindi l’inefficacia, delle regole porta anche al malfunzionamento e alla disorganizzazione del sistema-paese: al suo fallimento.
Ridacchiando, la sera del 27 Novembre 2007 a Radio 2, l’arguto e simpaticissimo senatore omosessuale di maggioranza Franco Grillini (o uno che lo imitava molto bene) disse di aspirare a fare il ministro della difesa perché «le caserme sono piene di ben di Dio» e graziosamente informò gli ascoltatori che Prodi non può cadere anche se il governo stramazza ogni due giorni, anche la maggioranza non c’è più in parlamento, e due terzi del Paese le sono contro: le Camere non possono essere sciolte fino all’autunno, perché i 400 parlamentari di prima nomina matureranno il diritto alla pensione il 28 ottobre 2008.
Quando un parlamento non funziona ma non può esser sciolto solo perché gli “onorevoli” non hanno ancora maturato la pensione, allora la fogna dello stato-mafia è colma, anzi rigurgita. Dalla mefitica cloaca emerge chiaro che i partiti (e gli eletti, come insieme) sono l’anti-popolo, altroché i suoi rappresentanti! Sono i suoi parassiti. Il telegiornale di Rai News 24 del 3 ottobre 2007 riferiva che si è formato il Partito dei 400 – cioè dei 400 neoparlamentari di questo parlamento, i quali hanno bisogno di far durare la legislatura due anni e sei mesi per maturare il vitalizio, quindi, cascasse il mondo, non faranno mancare il loro voto alla maggioranza – quale che sia.

Priva di ogni etica e decoro, pur di mantenere i suoi privilegi pagati dalle tasse e dall’impoverimento della gente, pur di continuare a vivere in una torre d’avorio che la protegge dai problemi della gente, la Casta, a richiesta delle segreterie dei rispettivi partiti, dalle quali feudalmente dipendono le ricandidature, è pronta a votare qualsiasi porcata, persino una legge che, a sfacciato vantaggio della grande distribuzione alimentare, depenalizza la vendita di alimentari nocivi e punisce penalmente la diffusione di informazioni su tali alimenti, perché causa danno ai supermercati che devono venderli alla popolazione ignara…
Appunto il celebre libro di Stella e Rizzo, La Casta, ci fa capire a che cosa servono tante tasse: a mantenere i privilegi e le ruberie di Lorsignori politicanti e le loro clientele elettorali e degli sponsors. Una casta che, essendo di cultura mafiosa, ha logicamente un modo mafioso per imporre le tasse e uno altrettanto mafioso e terroristico (fino all’uso dei grigi e ignari militari col mitra spianato sui lavoratori inermi) per riscuoterle.
Lorsignori, coprendosi coi giornali e telegiornali che sono di loro proprietà, trattano l’attività politica come un mezzo non per servire il popolo, per amministrare bene la cosa pubblica, ma per arricchirsi e per assicurarsi rendite. Le rendite sono quei redditi che ti entrano anche se non fai nulla in cambio per gli altri, ossia anche se non fatichi, se non ti rendi utile, se non vali una cicca. In sostanza, sono redditi parassitari. Una volta eletti a qualche carica che comporti un reddito, non la mollano più. Tra di loro, si riconoscono reciprocamente questo diritto alla non-precarietà del reddito politico. Esigono la rendita fissa e garantita. Non accettano di poterla perdere. Se non sono rieletti, la Casta riconosce loro il diritto a qualche sistemazione alternativa, parassitaria, nei consigli di amministrazione o alla direzione di qualche ente pubblico più o meno inutile. Tutto da pagarsi con le tasse della gente.

In questo, è una casta perfettamente bipartisan, trasversale: solidale all’interno, inscena contrapposizioni ideologiche unicamente per ingannare gli elettori, per farli credere che ci sia dialettica, diversità, alternativa. Ai politicanti oggettivamente conviene, nel senso che rende molto di più e dà molta più sicurezza, essere tra loro solidali in contrapposizione al soggetto che vogliono sfruttare, ossia al popolo, e contrapporsi realmente, per dare l’illusione di una pluralità dialettica, anziché competere e contrapporsi realmente.
Ecco il bipolarismo vero: rappresentanti del popolo contro popolo elettore!
Sia pure con non poche, pregevolissime eccezioni – insufficienti però a modificare l’insieme – abbiamo una Casta governante scandalosamente ladra, che impone tasse scandalosamente alte per mantenere i suoi scandalosi sprechi e furti, ovviamente grida allo scandalo se qualcuno osa parlare di disobbedienza fiscale o secessione o paragonare quelle tasse al pizzo della camorra.

Prontamente, si mobilitano i soccorsi contro l’‘antipolitica” e il “qualunquismo”: il Capo dello Stato (eletto direttamente dalla casta dei parlamentari a comandare uno dei più dispendiosi palazzi del regime, il cui bilancio è tenuto segreto ai cittadini, e costa molto più di quello della Regina Elisabetta, circa 250 milioni l’anno), il Capo di Confindustria e della Fiat (la quale è sempre vissuta coi soldi dei contribuenti, privatizzando gli utili e socializzando i costi) e il Capo della Chiesa (la quale da sempre si nutre di denari pubblici e che gode annualmente di decine di miliardi di esenzioni fiscali) levano le loro autorevoli voci (la così detta “moral suasion”) per zittire la protesta degli sfruttati: vergogna! Contestare le tasse-pizzo dello “Stato” è barbaro neoqualunquismo, un crimine contro la società, un peccato contro Dio!
Lo Stato italiano nelle grinfie di un’oligarchia di mafia. Questo concetto verrà sviluppato attraverso tutto il libro.
“Oligarchia” è parola greca che significa governo (archìa) di pochi (olìgoi). Alexis de Toqueville, citato da Stella e Rizzo che definisce l’oligarchia un sistema centralizzato, con corpi intermedi indeboliti, e dove i vertici del potere istituzionale, anziché essere separati in una reciproca relazione di checks and balances (controlli e bilanciamenti), sono fittamente intrecciati e complici tra loro, mentre ciascuno degli oligarchi ha una sua riserva, un suo ambito di potere, che gli altri riconoscono e tutelano. Ciò «non implica che il popolo non possa votare, ma che i meccanismi elettorali sono costruiti in modo da confermare invariabilmente l’oligarchia».

La mafia comune (non quella politica) è la prima industria nazionale, con 90 miliardi l’anno di introiti. Ma è notorio che in intere regioni di certi lontani paesi extraeuropei, centro-asiatici, siti oltre il Volga e il Deserto dei Tartari, fare impresa, investire produttivamente, essere assunti e far carriera soprattutto nella pubblica amministrazione, è pressoché impossibile se non si passa attraverso, diciamo il locale Partito Dominocratico, che, longa manus del sistema bancario, dirige una potente rete aziendale di pseudo-cooperative (in realtà vere imprese commerciali), quasi tutte le amministrazioni locali, dicesi abbia rapporti speciali con la “giustizia” e, quale partito-azienda-piovra, riesce a boicottare e ad escludere dal mercato gli imprenditori indipendenti e che non si sottomettono alla sua legge e ai suoi oneri e che non si allineano. Ma narrasi pure che questo congegno è una piovra, una piovra non mafiosa, una piovra benigna, dal volto umano, dalle ventose umane, dai tentacoli umani, dall’intelligenza umana – una piovra che, nel più grande di quei Paesi centroasiatici, supera ampiamente i 90 miliardi della mafia nostrana, e che si è già accaparrata la maggioranza delle risorse territoriali di quelle regioni, intestandole a società patrimoniali di suoi adepti e a una gigantesca rete di società pseudo-cooperative, che hanno licenza di fare ogni sorta di speculazione, ricevendo ogni sorta di sovvenzione ed esenzione. Pseudo-cooperative, e in realtà imprese commerciali, perché le vere cooperative, quelle italiane, hanno una democrazia diretta dei soci, si gestiscono dal proprio interno, e dal proprio interno nominano i propri amministratori; mentre quelle centro-asiatiche hanno molti soci solo nominali, ricevono i propri amministratori e piani industriali direttamente dalla segreteria del Partito, e in cambio…
Intanto, nella nostra Italia, in 5 anni, 25% di aumento ai magistrati, 21 agli accademici, 20 ai dirigenti pubblici, 11 al resto degli statali.

Nel chiaro disegno di complicizzarli, o perlomeno tenerli fedeli, quali partecipi di un privilegio.
Gli alti dirigenti dello Stato hanno ricevuto subito dopo il passaggio all’euro, aumenti di circa il 100%: ora prendono in migliaia di Euro quanto prima prendevano in milioni di Lire. Ciò dimostra che ben sapevano, Lorsignori, che l’Euro aveva dimezzato il potere di acquisto dei redditi fissi. Però gli statali hanno ricevuto, da allora, aumenti quintupli rispetto ai lavoratori del settore privato: lo “stato” si tiene buoni i suoi pretoriani.
Mentre innumerevoli macchine blu solcano gli asfalti del Belpaese, più di quante ne hanno gli USA, al costo di miliardi l’anno, e lunghi convogli ferroviari deportano in Germania la monnezza campana, che i furbi amministratori Campani preferiscono far bruciare là, a spese dei Lombardi e dei Veneti, dopo che da questi sono già stati presi due volte i soldi sufficienti per smaltire i rifiuti dei Campani, e gli amministratori Campani li hanno usati per assumere personale che non lavora, ma vota (anzi, ha già votato) loro e i loro partiti, e per le altre, solite cose che rinforzano le loro poltrone. Già: certi leaders campani della sinistra hanno usato i soldi pubblici (cioè delle tasse dei Lombardi e dei Veneti) per assumere netturbini in un rapporto di 25 a 1 rispetto a quelli di Milano. Ma li hanno assunti per lavorare o per votare? Il risultato è che il malgoverno rimane in sella e che ora quelle stesse forze politiche fanno pagare, di nuovo, a Veneti e Lombardi il costo dell’asporto e dello smaltimento in Germania di quei rifiuti – le falsamente dette ecoballe, che non sono ‘eco’ perché i rifiuti che contengono non sono stati smistati dai netturbini-elettori, quindi non possono essere bruciate. E sempre quelle forze politiche, anziché rendere conto di come hanno usato i soldi per la costruzione degli inceneritori, richiedono ulteriori sacrifici e solidarietà al resto d’Italia per fare ciò che esse non hanno fatto. E per giustificare il loro non fare, il loro spendere senza fare, da un lato c’è un ministro della loro coalizione, che ha posto il veto un po’ su tutte: dalle discariche agli inceneritori ai rigassificatori; e dall’altro lato c’è il fatto che le locali procure della repubblica non hanno, a quanto si sa, aperto alcuna indagine, alcuna “Rifiutopoli”. Vallettopoli sì, Rifiutopoli no.

I Napoletani che oggi si scontrano con polizia e carabinieri per impedire la riapertura delle discariche chiuse, dimostrano di avere temperamento che i settentrionali non hanno. E anche senso dell’opportunità, o dell’opportunismo, perché quando i loro pessimi amministratori facevano ciò che han fatto coi soldi pubblici – assunzioni clientelari e spese inutili – i Campani non protestavano, ma li votavano, perché gli andava bene come spendevano i soldi, e perché confidavano che, poi, i risultati del malgoverno, grazie alle solite forze politiche, sarebbero stati pagati da Veneti e Lombardi. Oramai hanno imparato i vantaggi dell’unità d’Italia. Ora devono però imparare qualcosa di biologia: è vero che i loro politici, anziché fare gli inceneritori, hanno speso soldi per creare tanti meravigliosi posti di lavoro dove non si lavora (netturbini); ma è anche vero che questa succulenta polpetta alla napoletana è avvelenata: piena di diossina, di tumori, di morte, prodotti dai rifiuti trattati impropriamente. E, ora che l’Italia e il mondo sanno di questo e delle oltre quattrocento discariche clandestine di rifiuti tossici in Campania, l’agricoltura di quella regione pagherà il fio.
Perché gli amministratori delle altre regioni, ora, non subordinano la loro “solidarietà” al licenziamento delle persone assunte inutilmente, dei finti lavoratori? E alle dimissioni dei responsabili del malgoverno? Per non far saltare le trattative per il nuovo governo, o perché paventano che si incendi tutto l’enorme immondezzaio della politica italiana?
Lo Stato di cui ci occupiamo è lo strumento per rubare tutto e su tutto: il costo medio di un’ora di volo degli aerei blu è € 4.723, contro i 3.442 dell’ora di volo del più grosso aereo blu britannico, e i 1.304 del più piccolo. Altri costosi privilegi sono riservati ad altri magistrati, sempre a spese del contribuente, sempre per mantenere la struttura mafiosa che sfrutta il contribuente: 44 di autista e autoblù all’ex giudice costituzionale dopo meno di 10 anni di servizio, etc. etc. Perché i politicanti non aboliscono questi odiosi privilegi dei magistrati? Perché “sentono” di aver bisogno della complicità della Casta dei magistrati e perché gli emolumenti dei parlamentari sono collegati a quelli dei magistrati di grado più elevato: ecco il legame pericoloso tra le due Caste!

Mangioni a sbafo, gli “onorevoli”: ad educarli al compito che il sistema assegna loro concorre anche la gastronomia, che a loro viene spudoratamente semidonata: 84 cent i ravioli al ragù, 5 Euro e 20 un dentice al vapore… tutto a spese dei cittadini… e a favore non solo di molti onorevoli, ma anche di dipendenti parlamentari che già si pappano mediamente 115.419 Euro l’anno. Con 50 camerieri a oltre 112.000 l’anno per servirli, di cui 10 non lavoranti. Quanto vale, simile gente? È giusto pagare le tasse a loro? Certo, perché gli onorevoli possano andare in pensione presto, sempre più presto, sempre più giovani, per dedicarsi ad altri e più lucrosi traffici pagati dai cittadini troppo pecore per disfarsi di loro. Di loro, che si sono costruiti, a spese degli elettori un sistema previdenziale di rivoltante privilegio, che dona loro una rendita moltiplicata di 5 volte rispetto all’Inps. Avete capito? Si considerano ben 5 volte superiori ai lavoratori, ai comuni mortali! A loro spese, naturalmente! E poi fanno loro lo scherzetto nel tfr e gli limano i coefficienti di rivalutazione previdenziali! San Toni Negri, eletto grazie ai Radicali che lo volevano fuori di galera, fece nove sedute in Parlamento – ambiente che definì “repellente”; ma per quel suo nobile sforzo di resistere allo schifo ben nove sedute, percepisce, da quando ha sessant’anni, un vitalizio di, ora, 3.108 Euro al mese. Forse lo accetta per dimostrare che non è più estremista.

E i vertici della Lega Nord che si mettono a dirigere la banca CrediEuronord? Apprendisti stregoni, nel libro di Stella – ma non solo: si ritrovano con gestori che, con quattro o cinque affidamenti pseudo-garantiti, si mangiano tutto il capitale, portano la banca al dissesto, la fanno salvare da Fiorani, mettendo la pellaccia al riparo delle conseguenze penali di un fallimento. Sarà possibile per la Lega, ora, una vera autonomia critica e propositiva dove si tocchino gli interessi del sistema bancario? Fortunatamente, pare proprio di sì, a giudicare dall’attenzione e dal sostegno che la Lega, con alcune altre forze politiche, dà alle iniziative per una riforma monetaria e creditizia di attuazione della sovranità popolare e del lavoro come fondamento della Repubblica.
E la Casta di Stato (che sia benedetta) dona circa 75 miliardi di euro l’anno agli azionisti privati della Banca d’Italia in cambio di impulsi elettronici e di pezzi di carta stampati senza alcuna copertura, detti “banconote”. Gli studi di settore introdotti da Visco stroncano migliaia di piccole imprese, mentre il giro d’affari dei venditori abusivi, tollerati dalla pubblica autorità, si sottrae al fisco per oltre 100 miliardi l’anno di imponibile – pari a quello del pizzo raccolto dalla criminalità organizzata.

Eh sì, se lo “Stato” e la sua classe dirigente si reggono, nonostante la loro inefficienza e corruttela, è perché mantengono il Meridione nel sottosviluppo, e in tale sporco modo, col pretesto della solidarietà, ogni anno spremono dai Lombardi e dai Veneti 100 miliardi di Euro (altri 10 miliardi dalle restanti regioni settentrionali) che usano (oltre che per arricchirsi direttamente) per comperarsi sostegni e voti, in una redistribuzione clientelare a favore della burocrazia parassitaria, statale, romana; nonché della Campania, della Sicilia, della Calabria.
Oltre la scala familiare, nessuna solidarietà funziona, perché chi ne maneggia i soldi, pensa a come mangiarli. Da qui il grande e insostituibile valore pratico della famiglia, la quale è purtroppo ormai in liquidazione. Il punto centrale è semplice: non hanno bisogno di gestire bene, di modernizzarsi, di essere intelligenti e colti (in effetti, anche se non pochi di loro sono intelligenti e preparati, essi sono in larga maggioranza stupidi e ignoranti – basta ascoltare i loro discorsi in Parlamento o nei loro comizi) per restare al potere e rubare – per restare in sella, gli basta essere inefficienti, sabotare il Sud e inasprire il fisco. Quindi, devono impedire, e di fatto impediscono, che il Sud decolli economicamente. Al potere li mantiene, con un debole ricircolo interno, la grande finanza, sempre più straniera, sempre più rapace.

Sanno fare solo questo, in fondo – quasi tutti. Non sapendo fare altro, non possono che continuare a fare quello. Quindi non smetteranno mai, se non verranno cacciati con la forza. Si sono procurati rendite, posti fissi (e, per farlo, hanno clientelarmente dispensato milioni di altri posti fissi, parassitari, di rendita).
Gli imprenditori (veri) e i lavoratori autonomi devono ingegnarsi e innovarsi e imparare incessantemente, per sopravvivere nella concorrenza, mentre gli uomini della Casta non hanno concorrenza, la impediscono attraverso le leggi che si fanno in casa, ossia in parlamento, come la legge elettorale detta “porcata” (una condizione per certi versi analoga, di carriera automatica senza rischi e competizione, l’hanno creata per una categoria professionale di cui hanno molto bisogno: i magistrati). E dall’alto di questa posizione di rendita parassitaria essi fanno la morale agli imprenditori dicendo che devono competere e rischiare e pagare le tasse.
Il carattere tumorale, maligno, di questa Casta, è il seguente: quanto più Lorsignori sono inefficienti, ladri, mafiosi, sputtanati, e perdono perciostesso quote di consenso sano, tanto più alzano le tasse per procacciarsi i soldi con cui comperarsi consenso e supporto clientelare in sostituzione di quello sano, di quello della gente onesta, laboriosa, produttiva.

Questo è il meccanismo che ha prodotto e perpetua la Casta dei politicanti, dei burocrati, sindacalisti, dei pubblici amministratori, dei boiardi di stato a carriera assicurata, delle legioni di privilegiati a spese della collettività, il cui numero è sempre andato gonfiandosi, come un tumore maligno, proprio per la necessità di produrre questo tipo di consenso e di sostegno patologici in sostituzione di quelli sani. Un meccanismo che si reggeva, nell’era aurea della prima repubblica democristiana e poi del centro-sinistra, su precisi fattori:
a. la crescita demografica ed economica, che consentiva di finanziare a deficit la spesa presente;
b. la ricorrente svalutazione competitiva della Lira, che consentiva di recuperare i mercati stranieri.

Entrando nell’Euro con grandi sacrifici per il sistema paese, gli accorti e incorruttibili governanti dello “Stato” hanno reso impossibile sia la spesa a deficit che la svalutazione competitiva, e ciò proprio quando l’industria nazionale, prevalentemente a basso contenuto tecnologico (tessile, calzature, arredamento) veniva attaccata da paesi ultracompetitivi a lavoro schiavistico come la Cina. Inoltre, l’Euro, con la sua altissima valutazione sul Dollaro, strangola le esportazioni.
Intanto, le maggiori tasse raccolte dal Governo Prodi bis con la legge finanziaria per il 2007, sono assorbite e superate dall’aumento della spesa corrente e del deficit di bilancio. Ossia dalle spese clientelari e per l’acquisto di voti (60.000 precari della scuola messi a ruolo senza concorso). Queste sono le due priorità assolute dello “Stato”, a cui esso sacrifica ogni logica economica e ogni risanamento (ma che risanamento potrebbe esserci, se non iniziasse con l’eliminazione della Casta?).
Questa operazione clientelare è la prova del nove: l’Italia è spacciata.

Marco Della Luna
Estratto da “BASTA CON QUESTA ITALIA! Rivoluzione, secessione o emigrazione? - Il fallimento dello Stato mafio-massonico”

28 marzo 2008

Se l'europa è piena di poveri è perchè è ricca!


Viviamo nelle contraddizioni, ragioniamo sempre dimenticandole. Loro, sono dentro di noi, ma usarle solo con occhiali a tinte positive non è facile.
Se vi dicessi che c'è in Europa un Paese dove non esiste la disoccupazione, non esiste il lavoro precario, non esiste il problema dei pendolari, non esiste l'inflazione, dove le tasse sono al 10%, dove ognuno possiede una casa e quanto basta per vivere e quindi non ci sono poveri, mi prendereste per matto. E avreste ragione. Perchè questo è il Paese che non c'è. Ma è esistito. E' esistito un mondo fatto così. E si chiama Medioevo Europeo.

La disoccupazione appare, come fenomeno sociale, con la Rivoluzione industriale. Prima, con una popolazione formata al 90/95% da agricoltori e artigiani, ognuno, o quasi, viveva sul suo e del suo, aveva, nelle forme della proprietà o del possesso perpetuo, una casa e un terreno da coltivare. E anche i famigerati 'servi della gleba' (i servi casati), comunque una realtà marginale, se è vero che non possono lasciare la terra del padrone non ne possono essere nemmeno cacciati. Non esisteva il precariato perchè il contadino lavora tutta la vita sulla sua terra e l'artigiano nella sua bottega che è anche la sua casa (per questo non esiste nemmeno il pendolarismo). Il giovane apprendista non percepisce un salario, ma il Maestro ha il dovere, oltre che di insegnargli il mestiere, di fornirgli alloggio, vitto e vestiti (due, uno per la festa, l'altro per i giorni lavorativi; ma, in fondo, abbiamo davvero bisogno di più di due vestiti?).

Dopo i sette anni di apprendistato il giovane o rimarrà in bottega, pagato, o ne aprirà una propria. Senza difficoltà perchè c'è posto per tutti. Gli statuti artigiani infatti proibiscono ogni forma di concorrenza e quindi, di fatto, la formazione di posizioni oligopoliste. Per tutelare però l'acquirente (oggi diremo 'il consumatore') gli statuti stabiliscono regole rigidissime per garantire la qualità del prodotto.

Nelle campagne il fenomeno del bracciantato si creò quasi a ridosso della Rivoluzione industriale quando i grandi proprietari terrieri cominciarono a recintare i loro campi (enclosure) rompendo così il regime delle 'terre aperte' (open fields) e delle servitù comunitarie (ad uso di tutti) su cui si era retto per secoli lo straordinario ma delicato equilibrio del mondo agricolo. Per molti contadini, non avendo più il supporto delle servitù, la propria terra non era più sufficiente a sostentarli. Ma fu un fenomeno tardo. Perchè la concezione di quel mondo, contadino o artigiano, era che ogni nucleo familiare doveva avere il proprio spazio vitale. Scrive lo storico Giuseppe Felloni: "Le terre sono divise con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficenza economica".

Le imposte, comprendendovi quelle statali, quelle dovute al feudatario, nella forma di prelievo sul raccolto e di corvèes personali, la 'decima' alla Chiesa, non superarono mai il 10%. E' vero che anche i servizi erano minimi, ma per molti aspetti di quello che noi oggi chiamiamo 'welfare' sovveniva la Chiesa, naturalmente nei modi consentiti dai tempi.

Non esisteva l'inflazione. I prezzi rimanevano stabili per decenni. Una delle rare eccezioni fu la Spagna degli inizi del XVII secolo a causa dell'oro e dell'argento rapinati agli indios d'America. E nel suo 'Memorial' Gonzales de Collerigo scrisse con sarcastica lucidità: "Se la Spagna è povera è perchè è ricca". Che è poi la paradossale condizione in cui si trovano molti Paesi industrializzati di oggi.

In quel mondo, per quanto a noi appaia incredibile, non esistevano i poveri. Il termine 'pauperismo' nasce nell'opulenta Inghilterra degli anni '30 dell'Ottocento. Fu Alexis de Tocqueville, uno dei padri del mondo moderno, ad accorgersi per primo dello sconcertante fatto che nel Paese del massimo sforzo produttivo e industriale c'era un povero ogni sei abitanti mentre in Spagna e Portogallo, dove il processo era appena agli inizi, la proporzione era di 1 a 25 e che nei Paesi e nelle regioni non ancora toccate dalla Rivoluzione industriale non c'erano poveri. Perchè è la ricchezza dei molti, alzando il costo della vita, a rendere poveri tutti gli altri. Che è quanto sta accadendo oggi in Russia, in Cina, in Albania, in Afghanistan e persino in Italia.

Su tutto questo, credo, dovrebbero riflettere coloro che fra un mese saranno chiamati a governarci.

Massimo Fini

27 marzo 2008

La “scala mobile” ? Un effetto dell’inflazione.



La “scala mobile” era un effetto dell’inflazione, non una causa.

Una storia di qualche anno fa, quando la politica decise di far pagare gli errori ai più deboli e più numerosi. Una storia che torna attuale mentre Draghi dice che i salari sono troppo bassi e Trichet che: “guai ad alzarli! Rispunterebbe l’inflazione”

Dice la BCE : “… le variazioni dell’aggregato monetario ampio (M3), in circostanze normali, anticipano gli andamenti dei prezzi al consumo nel medio termine”.E ancora, nelle conclusioni: “C’è un ampio consenso sul fatto che, nel periodo medio-lungo, la dinamica dei prezzi abbia origini monetarie. Di conseguenza, il Consiglio direttivo della BCE ha deciso di assegnare alla moneta un ruolo di rilievo nella strategia di politica monetaria dell’Eurosistema. Tale ruolo è stato indicato dall’annuncio, da parte del Consiglio Direttivo nel dicembre 1998, di un valore di riferimento per il tasso di crescita dell’aggregato monetario ampio M3 del 4½ per cento annuo. L’individuazione di questo tasso incorpora la definizione della stabilità dei prezzi fornita dall’Eurosistema e si basa su ipotesi riguardo alla dinamica del PIL reale e della velocità di circolazione di M3 nel medio termine. Per raggiungere l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, è importante per l’Eurosistema analizzare attentamente l’andamento di questo aggregato monetario in relazione al valore di riferimento e tenere sotto osservazione gli altri aggregati.”

A pagina 62 della relazione annuale della Banca d’Italia per l’anno 2006 troviamo: “Nel 2006 l’andamento degli aggregati monetari e creditizi ha continuato a segnalare condizioni di liquidità espansive. La crescita della moneta M3 è stata molto sostenuta; alla fi ne dell’anno l’aumento sui dodici mesi è stato pari al 9,8 per cento, il valore più alto dall’avvio della politica monetaria unica”.

Repubblica del 28 gennaio 2008 dice: “Bce: Crescita M3 rallenta a +11,2% a dicembre da +12,3% - La crescita della massa monetaria M3 nell’Eurozona rallenta a dicembre e cresce dell’11,5% annuale, meno del previsto +12,2%, contro un rialzo del 12,3% a novembre. Nella media degli ultimi tre mesi (ottobre-dicembre) l’aggregato monetario è cresciuto del 12,1% contro il +12% dei precedenti tre mesi. I prestiti verso il settore privato sono aumentati a dicembre dell’11,1%, invariati rispetto a novembre.”

È ovvio a questo punto prevedere il futuro: i prezzi cresceranno in maniera assai sostenuta, indipendentemente dai “controlli” e dalle “strategie” di Mister Prezzi. Quest’ultimo potrà al massimo far fare più sacrifici ad alcuni piuttosto che ad altri. È inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Non mi stupirei se venissero attuate pressioni selettive nei confronti dei beni e dei servizi presenti nel paniere con pesi maggiori, così, magistralmente, si farebbe apparire il successo dell’intervento senza in realtà aver combinato nulla. Da una persona nominata da Prodi c’è da aspettarsi di tutto. Se il governo voleva veramente fare qualcosa contro l’inflazione doveva chiedere, assai prima, ragione alla BCE della sua opera.

Faccio notare che la suddetta lievitazione di M3 avviene SENZA meccanismi automatici per la dinamica salariale tipo la “scala mobile”.

È fin troppo facile individuare le cause (2): l’irresponsabilità della BCE nella gestione della Politica Monetaria e nella NON regolamentazione degli strumenti finanziari, tutta tesa com’è a tutelare i suoi proprietari, il sistema bancario e quello speculativo.

Una volta fatta la frittata bisogna decidere fra una delle seguenti opzioni:

1. rimettere in sesto il sistema su nuove basi monetarie e regolamentari;
2. perseverare nell’errore e farlo pagare ai più deboli.

Ovviamente la scelta, in assenza di Politici, con quelli con la p minuscola tutti intenti a cercare il punto G ed a riconoscere il Kosovo, cade sulla seconda opzione.
Mentre Draghi dice che i salari degli italiani sono troppo bassi, Trichet dice: “guai ad alzarli! Rispunterebbe l’inflazione”. Come se lasciandoli bassi non ci fosse.

Trichet sbaglia e vuol far pagare i suoi errori ai più deboli, come da copione del perfetto gerarca.

Accadde la stessa cosa all’inizio degli anni ’80. Allora il capro espiatorio fu individuato furbescamente nella “scala mobile”, uno strumento automatico che adeguava parzialmente i salari all’aumento dei prezzi. Per chi ha buona memoria è facile ricordare le piazzate del Governatore della Banca d’Italia contro quello strumento. È la scala mobile che provoca l’inflazione! Tuonava.

Era vero il contrario. È la crescita dell’inflazione che fa crescere il peso della scala mobile (è stata creata proprio per questo). Le cause dell’inflazione erano in parte esogene, come l’aumento di alcune materie prime, ed in parte endogene, come ad esempio l’inadeguatezza della rete distributiva o qualche monopolio più o meno occulto/telefonico; infatti gli eccessi di domanda rispetto all’offerta provocano sempre aumenti dei prezzi ed i monopoli li aumentano a piacimento. C’era inoltre una pessima redistribuzione delle risorse; oggi è un po’ migliorata la situazione ma è ancora insufficiente. Se non chiedo i soldi a chi dovrei li devo chiedere a qualcun altro; ma se li chiedo a chi dovrei non aumenta la moneta, ma se li chiedo alla BdI, si. Con la beffa che lo Stato finanziava gli evasori che acquistavano con l’evaso i titoli del debito pubblico a tassi superiori a 20% .

È vero però che tagliando la scala mobile l’inflazione è calata! Per forza! La politica ha deciso che gli errori li dovevano pagare i più deboli, e più numerosi, e così è stato fatto. In aggiunta quando l’operazione è andata in porto ci siamo sentiti dire: “avete visto che l’inflazione è calata tagliando la scala mobile?”

È ovvio che tagliando la scala mobile la domanda di moneta è calata, ma questo non significa che era quella la causa. Ho 15 panini per un gruppo di 15 bambini “normali”; ne introduco 5 voraci, che mangiano per 3, aumentando proporzionalmente la dotazione di viveri, arrivando a 30 panini complessivi. Cosa succederà? I bambini normali mangeranno un panino e quelli voraci, cadauno, il triplo degli altri, ovvero 3. Se per risparmiare drasticamente tolgo mezzo panino ad ogni bambino cosa succederà? Quelli “normali” si dovranno accontentare di mezzo panino mentre gli altri di 2,5.
Potrò dire di essere stato bravo per aver risparmiato 10 panini? Si!
Potrò dire di essere stato equo? No!
Potrò dire che la colpa dell’eccessivo consumo di panini è dei 15 bambini “normali”? No!

Invece per la scala mobile è successo proprio questo. Si è fatto pagare il conto ai più deboli e poi si è inneggiato al fatto che qualcuno ha pagato il conto. Solo la politica può riuscire in questi virtuosismi. Questo è stato l’unico errore importante di Bettino Craxi, non so fino a che punto ingannato dal dottor sottile.

Il bello in questa faccenda è che i poveri hanno votato al referendum affinché il conto fosse portato a loro. Se questo non è un miracolo ditemi Voi cos’è.

Lino Rossi

I Magistrati vittime di poteri occulti?


Dottor Ingroia, cosa rappresenta, per lei, il caso De Magistris?
«Il caso in cui, nella maniera più emblematica, si sono evidenziati i guasti della riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario».

Si riferisce alla richiesta di trasferimento?
«Non solo. Ha contribuito a incrementare un clima “pesante” attorno all’azione della magistratura, creando condizioni ostili all’autonomia e indipendenza della magistratura. Il provvedimento di avocazione, che ha tolto l’indagine al collega De Magistris, è un provvedimento che in altri tempi avrebbe incontrato ben altre resistenze e critiche. Evidentemente, i tempi sono cambiati».

Qual è la sua analisi in merito?
«Definirei il caso De Magistris come una vicenda emblematica di quel che accade quando un magistrato si ritrova, isolato e sovraesposto, a gestire un’indagine estremamente complessa e delicata su un grumo di intrecci, di interessi leciti e illeciti, riferibili a soggetti e ambienti diversificati, sul crinale dove s’incontrano i versanti criminali con i versanti politici e istituzionali. Come spesso accade nei territori dove operano sistemi criminali integrati. E mi riferisco, ovviamente, ai sistemi criminali riferibili alla mafia in Sicilia e alla ‘ndrangheta in Calabria».

Come giudica la posizione dell’A.N.M. rispetto al caso De Magistris?
«Timida e inadeguata. In generale, soprattutto preoccupata di far apparire il governo Prodi meno ostile nei confronti dell’autonomia e indipendenza della magistratura del governo Berlusconi».

Che mi dice dei “poteri occulti”? Influenzano la nostra democrazia?
«Purtroppo sì. Il connubio tra poteri occulti e mafia è il famoso “gioco grande” sul quale stava lavorando Giovanni Falcone. E sul quale probabilmente è morto: e i veri mandanti della strage di Capaci, in fondo, non sono mai stati trovati».

Può spiegarmi meglio cosa intende per poteri occulti?
«Intendo – genericamente – quell’intreccio fra poteri criminali, come il potere delle grandi organizzazioni criminali mafiose, e altri poteri. Intreccio che molte indagini degli anni passati, in Sicilia ma anche in Calabria, hanno messo in luce, per esempio, tra le mafie e spezzoni della massoneria, così come con settori della destra eversiva o di ambienti politico-istituzionali, compresi appartenenti ad apparati dello Stato deviati».

Quanto incidono nella magistratura?
«Non è facile rispondere. In passato, ai tempi di Falcone e Borsellino, la magistratura, soprattutto i suoi vertici, era spesso fortemente condizionata dai poteri occulti. Negli ultimi anni si sono fatti grossi passi avanti anche per la maggiore autonomia e indipendenza che la magistratura ha conquistato. Ecco perché è importante difendere lo status di autonomia e indipendenza della magistratura. Se si fanno passi indietro su questo fronte, rischiamo di ripiombare nel passato più buio della nostra democrazia (...)».

Su questi argomenti, che paiono in qualche modo pressanti, è stata mai aperta una discussione all’interno dell’A.N.M.?
«L’A.N.M. attraversa una grave crisi di rappresentanza, che è poi la stessa crisi della politica, la stessa sensazione di scollamento fra rappresentati e rappresentanti. Il dibattito interno all’A.N.M. su questo punto è aperto e la parte più sensibile a questo problema lo ha avviato con interventi interni e pubblici. Ma l’A.N.M. è ancora ben lontana dall’avere superato questa crisi».

Quanto è credibile l’ipotesi che i “poteri occulti”, secondo lei, abbiano agito, indirizzando la vicenda De Magistris?
«L’indagine di De Magistris, per quanto abbiamo potuto apprendere, andava ben al di là di ciò che è divenuto più noto. Ben oltre quindi le intercettazioni di Mastella o l’iscrizione di Prodi nel registro degli indagati. Penso che il cuore dell’indagine fosse proprio l’intreccio tra poteri criminali e altri poteri sul territorio. Credo che il suo caso non possa essere affrontato se non si tiene conto della realtà in cui De Magistris, spesso in solitudine istituzionale, ha operato. (...) E’ certo, però, che De Magistris s’è messo contro certi poteri, ed è altrettanto certo che la reazione nei suoi confronti è stata forte ...».

Una delle accuse, per De Magistris, è stata quella di aver parlato in tv. Lei che ne pensa? Purché non entrino nel merito delle indagini, i magistrati possono parlare?
«Prendiamo, per esempio, il rapporto tra Paolo Borsellino e la stampa: appartiene alla storia del nostro Paese. (...) Ricordo un’intervista storica: volle lanciare l’allarme sul calo di tensione nella lotta alla mafia. (...) Sono passati tanti anni. E credo sia stato conquistato il diritto, da parte della magistratura, d’intervenire. Fermo restando il riserbo sul contenuto delle indagini».

Parliamo dell’avocazione di Why Not a De Magistris.
«De Magistris la definisce illegittima, io la definisco impensabile. (...) La mia sensazione è che noi ci siamo trovati in una situazione in cui l’autonomia e l’indipendenza, interna ed esterna, è arrivata a un punto di rottura. Davvero siamo in un momento di crisi dello Stato di diritto».
Antonio Massari

26 marzo 2008

Per chi vota la mafia


La mafia esiste e sta diventando sempre più protagonista della politica e delle campagne elettorali. Complici i media, complici ignari di collegamenti e amicizie la politica si fa con la mafia. Quanto la politica è attendibile per questo?

L'amico del killer che uccise Falcone, i notabili sotto processo o assolti per cavilli, i parenti stretti dei padrini. Tutti i nomi nelle liste di Udc, Pdl e Pd. Ecco il peso dei boss nelle elezioni

Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata.

Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi.

Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici)
o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare".

Il palazzo di giustizia di Palermo
Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali.

Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina,sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui.

Auto rubate e distrutte
sul lungomare di Palermo
Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.

Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro.

Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica.

Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione).

Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4,(vedi i commenti), ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco.

Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005.

Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato.

Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.

Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.


Peter Gomez

25 marzo 2008

Perchè la mafia ha vinto?


Se Mediaset ha sempre sponsorizzato la mafia, a modo suo, Caselli ha sempre parlato di mafia e antimafia. Ma quanto potere mediatico ha Mediaset rispetto a Caselli e perchè?
Più di un secolo fa, nel suo saggio “Che cosa è la mafia” Gaetano Mosca scriveva: “È strano notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia […] raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla mafia vogliono indicare». Un vecchio vizio, tutto italiano, che per fortuna contempla vistose ed importanti eccezioni. Tra queste – indubbiamente – le ricerche e gli studi di Nicola Tranfaglia, ormai patrimonio consolidato per tutti coloro che di mafia vogliano sapere qualcosa di più serio rispetto alle…fiction televisive di moda. L’ultima fatica di Nicola Tranfaglia (preziosa come le precedenti) si intitola “Perchè la mafia ha vinto”. In realtà si tratta di una storia della mafia che ci aiuta a capire meglio che cos’è la mafia oggi, nel terzo millennio, a quindici anni dalle tremende stragi palermitane del ’92.

L’Autore sa bene che sempre più si deve parlare di «mafie», anziché di «mafia», perché accanto alle mafie “tradizionali” ( Cosa nostra siciliana , ‘Ndrangheta calabrese , Camorra napoletana e Sacra corona unita pugliese) il nostro Paese, aduso ad «esportare» anche il crimine organizzato, si trova nell’inedita situazione di dover ospitare nuove mafie d’importazione (russa, albanese, cinese, nigeriana, ecc.), che in questi ultimi anni si sono insediate nel territorio e che talora interagiscono con le più antiche organizzazioni mafiose nazionali. Mentre il processo di globalizzazione finanziaria ha inevitabilmente influito sulle più recenti forme di manifestazione dell’economia criminale, imponendo una più spiccata interazione fra le varie organizzazioni mafiose del mondo, i cui interessi e capitali illeciti si incontrano nel mercato globale del grande riciclaggio internazionale, con evidenti intrecci fra la macrocriminalità del riciclaggio e parte consistente di quel potere finanziario – più o meno “grigio” - che ormai opera, spesso senza adeguati controlli, nell’intero ambito planetario.

Oggi, pertanto, la base di partenza di qualunque ragionamento sulle mafie è che esse , pur nella radicale continuità con se stesse, pur mantenendo ( in molti casi) un evidente radicamento localistico, sono ormai in grado di condurre attività illecite in una dimensione globale e reticolare. Così da costituire una vera e propria impresa multinazionale, che produce ricchezza attraverso mille traffici e affari illeciti, cui si affiancano imprese legali di copertura o riciclaggio.

Ma non volendo – né potendo - scrivere un’enciclopedia sterminata, Tranfaglia ha giustamente scelto di limitarsi a seguire un “filo centrale”, incentrandolo su “Cosa nostra” ed in particolare sui suoi rapporti con le classi dirigenti del Paese. Constatando innanzitutto come questa organizzazione criminale sia oggi capace – forse più che nel passato– di mimetizzarsi e scomparire. La mafia siciliana, infatti, dopo avere attuato ed esibito con le stragi del 1992 una violenta e spietata strategia d’attacco frontale allo Stato, ha dovuto subire un’efficace reazione (latitanti arrestati come mai in precedenza, per numero e caratura criminale, tra cui gli autori materiali di quelle stragi; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi requisiti). E ha subìto anche la stagione dei processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con pesantissime condanne. Ed ecco che la mafia, duramente colpita, sceglie di attuare una sorta di «strategia della tregua» finalizzata, fra l’altro, a far dimenticare la sua tremenda pericolosità. Niente più stragi, niente più omicidi eclatanti; regna lo spirito di mediazione anziché la logica dello scontro aperto. Bernardo Provenzano, regista di questa nuova stagione, adotta la tecnica del «cono d’ombra», con l’obiettivo, appunto, di rendere invisibile l’organizzazione, di inabissarla. Si fa ricorso alle armi soltanto come extrema ratio e si riduce, di conseguenza, il numero dei regolamenti di conti interni. Quando si elimina qualcuno, il suo cadavere viene fatto sparire (le cosiddette «lupare bianche»), così da rendere più difficile la percezione dell’entità della violenza omicida messa in atto. La mafia di Provenzano è sempre più una mafia degli affari: l’intromissione di Cosa Nostra in tutti gli appalti di un certo rilievo serve a presentarsi come volano di un’economia che altrimenti – si vuol far credere – resterebbe inerte e improduttiva. In questo modo Cosa Nostra cerca di dissimulare il suo volto più feroce, per recuperare e sviluppare spazi di intervento e per rafforzare i meccanismi di accumulazione di capitale illecito. Con una peculiarità che complica le cose perché, secondo tradizione, essa tende anche a proporsi come soggetto politico-sociale capace di controllare l’economia e di esercitare una funzione di (apparente) sviluppo, anche sostituendo o integrando le competenze pubbliche.

La strategia con la quale la mafia ha affrontato il nuovo millennio è quindi meno sanguinaria, ma più insidiosa, perché favorisce l’affievolirsi dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo «statistico» dei fatti di sangue conosciuti. Ma è proprio nei periodi di pax mafiosa che Cosa Nostra dimostra maggiore forza, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-sociale e di intrecciare nuove relazioni anche sul versante dell’intermediazione fra popolazione meridionale e luoghi decisionali della cosa pubblica. E’ allora che essa amplia la propria sfera di intervento, mirando ad influenzare anche gli orientamenti politici (a partire da quelli elettorali) nelle zone sottoposte al suo controllo.

E’ a partire da questi dati che Tranfaglia arriva alla conclusione che “la mafia ha vinto”. Mi sembra importante, però, elencare anche i cambiamenti in positivo che l’antimafia ha registrato nel corso degli anni ( soprattutto gli ultimi 15), per verificare come la celebre riflessione di Giovanni Falcone - con la quale lo stesso Tranfaglia apre il suo libro – secondo cui “la mafia è un fenomeno umano, e come ha avuto un inizio così avrà una fine” non fosse una frase fatta, buona solo per esorcizzare il problema. Indicava un percorso possibile, lungo il quale ci sono compiuti passi anche significativi. La strada è certo ancora lunga ed impervia. Il cammino compiuto fino ad oggi è insufficiente per molti profili. E tuttavia ci sono stati momenti positivi, dei quali innanzitutto vorrei parlare.

Non dimentichiamo che c’era una volta in cui la mafia…. neppure esisteva. Anzi peggio: il Procuratore generale della Corte di cassazione Giuseppe Guido Lo schiavo, il più alto magistrato italiano, su una rivista giuridica (negli anni Cinquanta) scriveva testualmente: “si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura, è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura e la giustizia e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione dei fuorilegge e dei banditi ha addirittura affiancato le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini, in seno della consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività”. Se oggi qualcuno, Procuratore generale o no, si esprimesse in questi termini, l’invettiva che Grillo ha fatto diventare di moda sarebbe assolutamente scontata. Oggi sono i mafiosi che devono scendere in piazza per far sapere che la mafia non esiste. Roberto Saviano torna in Campania a Casal di Principe e Nicola Schiavone (padre del boss Francesco, il famigerato Sandokan) in piazza deve gridare - feroce, minaccioso, ma in una certa misura anche patetico - che la camorra non esiste e se l’è inventata Saviano per vendere più copie del suo libro…

Altri cambiamenti si registrano sul piano degli strumenti di contrasto investigativo-giudiziario. Una volta c’era soltanto il 416 bis, l’associazione a delinquere semplice, ed era – di nuovo parole di Falcone – “come dover combattere contro un carro armato, la mafia, con una cerbottana”. Si perdeva. Adesso invece , sia pure con grave ritardo e soltanto dopo la morte di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, abbiamo il 416 bis: uno strumento mirato, calibrato sulla realtà specifica delle associazioni mafiose. Abbiamo la Procura nazionale Antimafia con la sua banca dati, uno strumento davvero importantissimo, un patrimonio inestimabile di conoscenze formato acquisendo tutti i dati significativi ovunque disponibili. Abbiamo la DIA (direzione investigativa antimafia). Abbiamo un uso massiccio ormai della tecnologia: in particolare le intercettazioni telefoniche e ambientali, che consentono il monitoraggio continuo dei punti “sensibili”, anche per la ricerca dei latitanti: che conseguentemente non possono non vivere costantemente sotto tensione, braccati di continuo come sono, mentre una volta non venivano neppure cercati. E dopo le stragi del 1992, abbiamo avuto la legge sui “pentiti” e la legge sul trattamento carcerario di giusto rigore dei mafiosi detenuti: strumenti che sono stati decisivi per risalire la china quando il terrorismo stragista dei mafiosi sembrava incontenibile. Quando nel nostro Paese si era verificato qualcosa di simile all’11 settembre di New York: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come le Torri Gemelle, simboli abbattuti da una violenza politica totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite. Quest’immagine ( che è di Andrea Camilleri) esprime bene il gravissimo pericolo che si abbatté sull’Italia: il pericolo di diventare uno stato-mafia, un narco-stato di tipo colombiano, dominato da un’organizzazione criminale stragista. Per fortuna, con il concorso di tutti (istituzioni, società civile, forze dell’ordine e magistratura), invece di precipitare in un abisso senza fondo, siamo riusciti a resistere.

Per certi profili, sul piano investigativo-giudiziario facciamo persino scuola. E non è un caso che la nuova convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità trans-nazionale firmata a Palermo, nel dicembre 2000, preveda tutta una serie di misure pensate con riferimento alla realtà specifica delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza di contrasto maturata sul campo soprattutto nel nostro Paese. Ecco allora, in questa convenzione ONU, la previsione come reato della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, la confisca dei beni dell’associazione, la protezione dei testimoni, l’assistenza delle vittime, l’incentivazione dei “pentimenti”. Noi oggi, condizionati da una certa black propaganda, quando parliamo di “pentiti” ci tappiamo il naso, o peggio. In questa convezione ONU c’è invece scritto che i “pentimenti” devono essere incentivati mediante sconti di pena, fino all’immunità per quegli ordinamenti che l’immunità prevedano. Piuttosto va detto ( e lo vedremo meglio in seguito) che mentre facciamo da modello, esportando le nostre esperienze, poi tendiamo incredibilmente ad arretrare per quanto riguarda noi stessi.

Altre novità positive si possono riscontrare sul piano della lotta all’estorsione, un punto di forza delle mafie ( come si sa), sia per l’accumulazione di profitti illeciti, sia per il controllo del territorio. Ricordiamo tutti la vicenda di Libero Grassi, che aveva denunciato il racket, aveva pubblicamente dichiarato che non avrebbe pagato. E però Grassi fu a sua volta denunciato dal presidente degli industriali di Palermo, che gli intimò di smetterla perchè: “i panni sporchi si lavano in casa”. Così Grassi restò isolato e venne ucciso. Ancora recentemente, non più di due anni fa, una inchiesta del Censis ha accertato che il 42,5 % degli imprenditori del sud interpellati riteneva che senza mafia avrebbe potuto fortemente incrementare il proprio fatturato. Ma è con amarezza che il Censis rilevava come gli imprenditori siciliani detenessero un singolare primato con i colleghi calabresi: quello di avvertire di meno o addirittura di negare il problema della mafia. Evidentemente pensavano che i padrini garantissero più sicurezza delle forze dell’ordine e che se c’era da pagare una tassa era (come dire) un costo di gestione da accettare senza fare troppe storie.

Oggi dei cambiamenti (pochi, fragili e precari fin che si vuole: ma pur sempre significativi) ci sono. La positiva esperienza antiracket di Tano Grasso che va estendendosi dalla Sicilia in altre parti del Paese; la Confindustria siciliana che espelle chi paga il pizzo, con l’ appoggio della Confindustria nazionale; altri importanti segnali di recupero in Calabria. Finalmente, anche se con fatica, qualcosa si muove.

Poi ci sono novità sul piano dell’aggressione ai patrimoni dei mafiosi. Ieri (lo testimoniano i diari del Consigliere Chinnici) la situazione era questa: quando nell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, diretto appunto da Chinnici, si affaccia un giovanissimo magistrato a quei tempi assolutamente sconosciuto, di nome Giovanni Falcone, Chinnici (che ne intuisce subito le grandi capacità) gli affida alcune inchieste di mafia. Ora, è scritto nei diari di Chinnici che immediatamente un altissimo magistrato palermitano si precipita nel suo ufficio e in sostanza gli dice: “Ma che combini? Perché affidi a questo Falcone processi di mafia? Caricalo di processi bagatellari, di processi da niente, che non abbia il tempo di occuparsi di mafia: perché altrimenti rovina l’economia siciliana”. Chinnici chiaramente non ci sta, continua ad investire su Falcone e anche per questo suo coraggio la mafia lo uccide. Ma se indagare sulla mafia equivaleva a …. rovinare l’economia, conseguentemente non c’era – non poteva esserci - nessuna legge che aiutasse ad operare sul versante dell’aggressione dei patrimoni mafiosi. Oggi invece abbiamo la legge La Torre, che ha escogitato questo grimaldello formidabile che è imporre ai mafiosi l’onere di provare la provenienza legittima dei loro beni, perché altrimenti si presumono di provenienza illecita e quindi vengono sequestrati e confiscati. Successivamente abbiamo avuto (grazie anche al milione di firme raccolto da “Libera”, l’efficacissima forma di organizzazione della società civile guidata da Luigi Ciotti e agli inizi anche da Rita Borsellino) la legge 199/1996 per l’impiego a fini socialmente utili dei beni confiscati. Importanti novità, oggi da affinare e potenziare e tuttavia ormai in campo, concretamente operanti. Ettari ed ettari di terre confiscate ai mafiosi sono oggi lavorati da Cooperative di giovani coordinate da “Libera”, che ha saputo costruire un’imponente rete di collegamento sull’intero territorio nazionale, un ponte tra Sud e Nord formato da oltre 1500 gruppi, uniti dal comune interesse sui temi della legalità e della giustizia. La pasta, l’olio, il vino prodotti sui terreni confiscati alla mafia in varie regioni italiane sono la materializzazione della legalità come restituzione del “maltolto”, cioè di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante un sistematico drenaggio delle risorse e la “vampirizzazione” del tessuto economico legale ( a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti etc.). I prodotti di “Libera”, in altre parole, sono la dimostrazione che l’antimafia è recupero di legalità che “paga” anche in termini di nuove opportunità di lavoro e di nuove occasioni di iniziative imprenditoriali. Sono un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi, sintesi di dignità ed indipendenza conquistate col lavoro: il modo più efficace per coinvolgere la società civile in un effettivo impegno antimafia, senza più deleghe esclusive alle forze dell’ordine e alla magistratura, inevitabilmente indebolite se lasciate sole. Per cui è proprio su questo versante – del coinvolgimento e dell’impegno della società civile, che si possono registrare i segnali più rilevanti, comprendendovi anche i ragazzi di Locri e i ragazzi “no pizzo” di Palermo. Segnali che si stagliano in un quadro ancora molto cupo, e tuttavia importanti.

Quel che non cambia o che cambia troppo poco è la politica, o perlomeno certa politica. E qui il pessimismo di Tranfaglia ( “Perché la mafia ha vinto”) può pescare a piene mani.

Va premesso che il contrasto di “Cosa nostra” per quanto concerne l’ala cosiddetta militare dell’organizzazione ormai registra una forte e rassicurante continuità: dall’arresto di Riina e soci fino agli arresti di Provenzano e dei Lo Piccolo e alla mega-inchiesta “Old bridge” del febbraio 2008 in cooperazione fra Italia e Usa, ecco tutta una serie di importanti interventi che dimostrano come l’apparato investigativo-giudiziario antimafia si sia stabilmente assestato su livelli di assoluta eccellenza. Non altrettanta continuità, però, è dato di registrare sul versante del contrasto alle cosiddette “relazioni esterne”, vale a dire le complicità, coperture e collusioni con pezzi del mondo legale (politica, affari, imprenditoria, istituzioni….) che rappresentano la spina dorsale, il nerbo del potere mafioso. Se tali coperture non sono aggredite con forza e appunto continuità, senza sconti o scaltrezze, “Cosa nostra” non è certo onnipotente, ma continuerà a trovare sostegni preziosi se non decisivi anche nei momenti più difficili. Se persiste il malvezzo di applaudire quando si arrestano capimafia e gregari, per gridare al teorema o al complotto quando si cerca di far luce più in profondità, allora avrà ancora una volta ragione chi sostiene che si possono anche arrestare boss su boss, ma l’alt ad andare oltre, in forma anche esplicita e non solo sottintesa, rimane: e pesa come un macigno.

Persino il pool di Falcone e Borsellino dovette piegarsi a questa “regola”. Con il maxi-processo, il pool aveva posto fine ( nel rispetto rigoroso delle regole, delle prove, delle procedure) al mito dell’invulnerabilità di Cosa Nostra. La mafia poteva essere finalmente sconfitta, e invece si dovette registrare un fatto che rappresenta una colossale vergogna della nostra storia nazionale. Il pool, invece di essere sostenuto nella sua azione, venne letteralmente spazzato via. Siamo 4-5 anni prima delle stragi, ed una tempesta di polemiche tanto violente quanto ingiuste si scatena sul pool: professionisti dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, uso della giustizia a fini politici di parte, pool trasformato in centro di potere. Per effetto di queste aggressioni, alla fine il pool di fatto scompare e il suo metodo di lavoro - vincente - viene cancellato. E ciò proprio nel momento in cui il pool comincia ad occuparsi non solo di mafiosi di “strada”, ma anche dei cugini Salvo, di Ciancimino, dei Cavalieri del lavoro di Catania(vale a dire dei rapporti della mafia con pezzi della politica, delle istituzioni, del mondo degli affari…). E’ allora che il pool non va più bene. Perché sta traducendo in cifra operativa quel che aveva sostenuto nella ordinanza-sentenza conclusiva del primo maxi-processo del 1985, quando denunziava “una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. E’ nel momento in cui il pool comincia a “voltare pagina” che si moltiplicano - furibondi - gli attacchi che ne causano la delegittimazione e poi la scomparsa, con azzeramento del suo metodo di lavoro.

La tecnica è semplice: ripetere ossessivamente (a forza di ripeterle, anche le menzogne diventano credibili) che le indagini riguardanti i rapporti tra mafia e politica sono invenzioni di magistrati politicizzati, asserviti a strategie eterodirette. Ovviamente è un’assurdità, comprensibile soltanto se a propagandarla è Cosa nostra, che difatti la sostenne contro il pool di Falcone, quando Antonino Salvo, uomo “d’onore” riservato della famiglia di Salemi, per difendersi dalle accuse del pool proclamava di essere “sotto il mirino dei politici e, in particolare, anzi, soltanto del Partito Comunista italiano”. Una falsità che sarà poi ripresa pari pari da Salvatore Riina, pronto ad inveire pubblicamente (24 Maggio ’94, Corte di Assise di Reggio Calabria) contro i “comunisti” che complottano ai suoi danni anche nella Procura della Repubblica di Palermo. Ma quel che interessa sottolineare è che Salvo e Riina non parlavano e non parlano a caso, ma lanciano trasparenti messaggi, magari rivolgendosi a settori che immaginano, sperano, disposti a riceverli.

Interessa sottolineare, inoltre, che la storia (almeno in parte) si ripete, nel senso che anche dopo le stragi del ‘92 le cose vanno bene , per il pool dei magistrati inquirenti della Procura di Palermo, finchè ci si occupa soltanto di Riina e soci. Ma quando - non in base a teoremi politico-sociologici ma a fatti ed emergenze probatorie - si aprono e si sviluppano anche procedimenti a carico di imputati "eccellenti" appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre hanno un ruolo centrale nella storia della mafia), ecco che - pur di scongiurare il salto qualitativo nell'azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra - sono molti coloro che accettano di perdere una guerra che si sarebbe potuta vincere. Le tappe di questa strategia rinunciataria sono note e già sperimentate contro il pool di Falcone: la definizione della ricerca della verità come inaccettabile «cultura del sospetto»; l'insinuazione di uno scorretto rapporto tra “pentiti” e inquirenti; la conseguente delegittimazione pregiudiziale dei “pentiti” (cosa – inutile dirlo – tutt'affatto diversa dalla doverosa prudenza nella valutazione delle dichiarazioni degli stessi); l'accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire teoremi per ragioni politiche o, più brutalmente, di «essere comunisti o amici dei comunisti». Risultato? Proprio mentre l’incalzare dell’azione della Procura stava disgregando l’organizzazione criminale, proprio quando l’isolamento di Cosa nostra (grazie anche alle indagini sui collusi) andava profilandosi come ormai irreversibile, ecco inscenarsi un “processo” alla stagione giudiziaria che ha seguito le stragi del '92. E se le persone da mettere sotto accusa sono i magistrati, ad avvantaggiarsene – obiettivamente – è la criminalità. Cosa nostra fa meno fatica a risorgere, ha più tempo e più spazio per ricostruire le fortificazioni sbrecciate. Sembrava fatta, Cosa nostra ed i suoi complici stretti in un angolo, sotto una gragnola di colpi portati con rigoroso rispetto delle regole e delle garanzie, e invece….. Certo, l’azione degli inquirenti non viene bruscamente interrotta come ai tempi del pool di Falcone, ma la strada si fa più in salita. Continuano i “successi” sul versante militare dell’organizzazione, ma l’indispensabile lotta alle collusioni rallenta e si inceppa. Ed è proprio qui che si può registrare quanto sopra anticipato: molte cose sono cambiate in positivo nell’impegno antimafia; quel che invece non cambia mai – o cambia troppo poco – è la politica, perlomeno certa politica.

Vorrei ancora fissare alcuni punti:

1. Larga parte della politica oggi (anche trasversalmente) considera troppa giustizia e troppa legalità come un fastidio. Gli viene l’orticaria. Non si identifica con l’Italia delle regole quanto piuttosto con l’Italia dei furbi, degli affaristi o degli impuniti.

2. In democrazia, il primato della politica è un assioma. Spetta alla politica, soltanto alla politica, operare le scelte di governo nell’interesse - si spera - di tutti. Non spetta a nessun altro, meno che mai ai giudici (la storiella del governo dei giudici è bieca propaganda). Ma proprio perché non può esservi dubbio alcuno su questo primato, la politica deve viverlo ed interpretarlo nella consapevolezza della sua importanza effettiva, non con attenzione alla sola facciata. Allora, se ci sono delle inchieste giudiziarie che rivelano fatti dando indicazioni preziose in tema di corruzione e collusione fra mafia e politica, ecco che la politica dovrebbe esercitare il suo primato intervenendo con nuove leggi, con controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal ’90 ad oggi. Si avverte invece una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica, a farne la base per pretendere una sorta di sottrazione dei politici ai controlli, alla legge che dovrebbe essere uguale per tutti. Ecco allora che la giustizia nel nostro paese non funziona, ma invece di chiedere più giustizia si chiede meno giustizia, tutte le volte che si incrociano determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti e le possibilità di intervento.

3. Usa dire che l’antimafia e l’anticorruzione non portano voti. Chissà…. Sta di fatto che antimafia e anticorruzione nell’agenda politica, quando ci sono, sono in posizioni non primarie. Per quanto riguarda la mafia ciò accade a partire dal 1996, con vari sussulti successivi di tipo emergenziale: nel senso che soltanto dopo un fatto clamoroso che ci sveglia, con una forte tendenza a dimenticare presto e rimettere la questione mafia ai margini dell’agenda.

Ma se questo è lo scenario di fondo, non stupisce che tanti uomini politici, amministratori, imprenditori, operatori economici, professionisti (con frequente predilezione per il settore della sanità), non stupisce che tanti, troppi soggetti ancora oggi intrattengano rapporti di affari o di scambio con mafiosi o paramafiosi. Ancora oggi, dopo le terribili stragi del ‘92 e del ‘93, ancora oggi ci sono personaggi che vivono e operano nel mondo legale, talora con responsabilità istituzionali di altissimo rilievo, che sono disposti a trescare, a trattare con mafiosi o paramafiosi come se nulla fosse, come se fosse cosa assolutamente normale. Questa è una totale vergogna, che dovrebbe fare drizzare i capelli in testa a tutti. Invece quelli che si indignano sono sempre di meno. E chi viene colto con le mani nel sacco può sempre contare sulla solidarietà dei propri capi cordata, sia locali che nazionali. E allora ecco che invece dell’indignazione o della giusta tensione ci sono passività e rassegnazione. Ci si convince che così va il mondo, che c’è poco o nulla da fare. La questione morale e la responsabilità politica diventano reperti archeologici, favole per i gonzi. E la mafia obiettivamente e inesorabilmente cresce. Mentre è sempre più difficile agganciare i giovani con discorsi credibili in termini di impegno per la legalità.

L’impressione è che la buona politica sia stata soppiantata o rischi di essere sempre più soppiantata da una politica che va facendosi poco compatibile con la verità. Politica e verità stanno imboccando strade sempre più diverse. Una certa politica (oltre ad essere autoreferenziale, oltre a trasformare il confronto in perenne rissa ideologica) costruisce verità virtuali per conservare e consolidare il suo potere. Nasce anche di qui la perenne autoassoluzione di se medesima da parte di una certa politica, anche quando sono evidenti ed indiscutibili clamorose responsabilità, se non giudiziarie, certamente politico-morali. La strada maestra ormai è confondere deliberatamente assoluzione con prescrizione. Non sono la stessa cosa, anche se confonderle ormai è la regola. Se una sentenza - magari una sentenza definitiva di cassazione come quella relativa al “caso” Andreotti - elenca come provati e commessi fatti gravissimi (scambi di favori con mafiosi; incontri con boss per discutere di fatti criminali, compresi omicidi; senza mai denunziare niente di niente; contribuendo in questo modo ad un sostanziale rafforzamento della organizzazione criminale), se in quella sentenza si dice - una prova dopo l’altra - che tutto questo è stato commesso fino a una certa data e che costituisce reato, non punibile ancorché commesso sol perché prescritto, questa non è assoluzione! E’ un’altra cosa.

Confondere la prescrizione di un reato provato come effettivamente commesso con la prescrizione è prima di tutto un errore tecnico. Ma non solo. E’ anche, è soprattutto un grave errore politico. Perché se si dice che c’è stata assoluzione, a fronte di fatti gravissimi accertati in una sentenza, questi fatti vengono cancellati, sbianchettati. Ma cancellando questi fatti (come se non fossero mai accaduti, come se fossero invenzioni di giustizialisti, di magistrati politicizzati al servizio di una fazione….), si legittima di fatto un certo modo di fare politica che contempla anche rapporti organici con la mafia. E questo modo di fare politica si legittima per il passato, per il presente e anche per il futuro. Tutto ciò è di una gravità inaudita, perché significa cancellare il confine tra lecito ed illecito, tra morale ed immorale. Ma se cade questo confine, non c’è convivenza civile al mondo che possa reggere più di tanto. Prima o poi si va a sbattere. Tutti. E tutti ci si può ritrovare sotto un bel cumulo di macerie. Oppure si va alla deriva e si finisce chissà dove. E intanto la mafia non può non approfittarne, magari per superare momenti difficili e riemergere, fino a dare quella sensazione di vittoria che esprime il titolo del libro di Tranfaglia.

In questo quadro, si capiscono tante cose, a partire dallo scarto ( di cui abbiamo già parlato) fra la continuità ormai acquisita sul versante del contrasto della mafia “militare” e la discontinuità dell’azione che voglia colpire la spina dorsale del potere mafioso, le relazioni esterne. Su questo versante si riesce a rimanere ad un certo livello - quando lo si raggiunge - per non più di due, tre anni. Poi stop. Allora si capisce come la nostra antimafia – ripetiamolo - sia quella del giorno dopo: se non succede qualcosa che ci costringe ad intervenire e finalmente ci sveglia dal nostro torpore, non ce ne occupiamo. Allora si capiscono la drastica revisione della legislazione antimafia; la minore efficienza del circuito carcerario differenziato per i boss; la nuova disciplina legislativa della collaborazione con la giustizia che ha prodotto effetti tutt’altro che incentivanti; le profonde riforme del processo penale che, seppure introdotte per tutelare sacrosanti diritti di garanzia, hanno finito per inceppare ulteriormente il funzionamento e allungare ancora i tempi del processo penale. Si capisce – in sostanza – come lo strumentario normativo antimafia risulti oggi un’arma meno incisiva se confrontato con quello varato all’indomani delle terribili stragi del ’92. Allora si capisce perché quel punto nevralgico dell’antimafia che è la gestione snella ed efficiente dei beni confiscati ai mafiosi stia subendo –lentamente ma inesorabilmente - vischiosità ed inceppamenti che rischiano di svuotare e rendere sempre meno credibile una delle conquiste più importanti dei nostri tempi. Allora si capiscono le amnesie: per esempio l’anagrafe dei conti bancari, una legge del ’93 che non è mai stata attuata. Allora si capiscono le gaffes di chi dice che con la mafia bisogna convivere. E magari dice cose che tanti altri pensano anche se lo negano, ma poi le praticano.

E attenzione: è proprio questo contesto che favorisce scelte disastrose. Una recente ricerca Svimez, e prima ancora una ricerca del Censis, dimostrano lo zavorramento dell’economia delle aree meridionali ad opera delle mafie. Zavorramento che significa 180 mila posti di lavoro perduti ogni anno; zavorramento che significa produzione di ricchezza in meno pari a 7,5 miliardi di euro ogni anno; vale a dire che senza le mafie il PIL pro-capite del mezzogiorno sostanzialmente sarebbe identico a quello del centro-nord. Ma non basta. Il Censis ha anche denunciato che il potere criminale è sempre più potere economico, al punto che sta trasformando radicalmente il mercato e la concorrenza in scatole vuote. Perché l’imprenditore mafioso – rispetto a quello onesto – gode di vantaggi enormi: capitali a costo zero (il mafioso è ricco di suo, grazie al denaro illecito che continuamente riempie le sue tasche); possibilità, proprio perché già immensamente ricco di suo, di offrire prezzi molto più bassi, non avendo come obiettivo immediato quello del profitto ma la conquista di pezzi di mercato. E infine, se ci sono dei problemi l’imprenditore mafioso, rispetto all’imprenditore normale, ha il vantaggio di poterli risolvere - questi problemi - coi sistemi che sono nel suo DNA di mafioso: la corruzione, la suggestione, l’intimidazione e la violenza. Vantaggi che spiazzano ogni concorrente pulito, ne comprimono gli affari o lo espellono dal mercato. Oppure lo spolpano fino a svuotarlo, consentendo ai mafiosi o ai prestanome dei mafiosi di impadronirsi di quelle attività.

Così, il libero mercato e la legale competizione economica diventano scatole sempre più vuote e la situazione è tale che bisogna soltanto sperare che Francesco De Gregori, quando cantava: “legalizzare la mafia sarà la regola del 2000”, non fosse - mentre faceva della intelligente ironia - un profeta.

Di fatto le mafie oggi sono ancora un’enorme questione nazionale, ancorché questo dato di fatto sia da molti - anche a sinistra - negato. La drammatica realtà delle mafie, oggi, è che esse hanno costruito una vera e propria “economia parallela” che pian piano risucchia nel suo gorgo commerci, imprese e forze economiche sane, che spesso trovano difficoltà enormi nel costruire le loro sorti ed il loro futuro sul rispetto delle pratiche legali. Così l’economia illegale inesorabilmente avanza e si espande, come un’onda che si insinua dovunque e cerca di impadronirsi di tutto. Essa si presenta, purtroppo, spesso come vincente, a fronte di uno Stato che troppe volte dà l’impressione di rinunziare a combattere (o di non combattere con sufficiente energia) una battaglia che si potrebbe invece sostenere e vincere, con azioni positive e convincenti da parte di chi dovrebbe – in politica come in economia – offrire il buon esempio.

Di qui la necessità ( che percorre come un filo rosso l’intiero libro di Tranfaglia) di superare qual limite culturale che da sempre inceppa l’azione antimafia: quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste», dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale, oggi sempre più potere economico.

Tutto ciò presuppone decisi interventi soprattutto sul piano della politica, azioni positive e convincenti (sia rispetto all’illegalità in generale sia rispetto al crimine organizzato in particolare). Azioni condotte con energia e solerzia, mentre la storia della mafia registra, oltre a vere e proprie complicità, il prevalere – salvo alcune fasi - di un atteggiamento di sostanziale lassismo (che Gaetano Mosca chiamava «fiaccona»), capace di contribuire non poco al rafforzarsi del potere mafioso.

La “fiaccona” e le complicità sono da sempre i migliori alleati della mafia. Questo in definitiva dimostra il libro di Tranfaglia. E se la “fiaccona” e le complicità persistono, la mafia – appunto - vince.

di Gian Carlo Caselli