27 marzo 2012

Economista giapponese accusa l'establishment anglo-americano di aver provocato la Nuova Grande Depressione

Daisuke Kotegawa (Canon Institute for Global Studies) 24 marzo 2012 (MoviSol) – Daisuke Kotegawa, ex funzionario ad alto livello del Ministero delle Finanze giapponese e rappresentante nipponico presso il FMI, ha descritto l'abrogazione della legge Glass-Steagall come "la principale causa strutturale della bolla finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dal 2002 al 2007". Scrivendo per il Canon Institute for Global Studies, di cui è ora il direttore della ricerca, Kotegawa ha anche attaccato la risposta fallimentare del gruppo costituito da Paulson, Geithner e Darling a Londra e a New York quando si verificò il collasso finanziario del 2008, una decisione a suo avviso responsabile dell'aggravamento della crisi globale. Ha paragonato la scelta di quel gruppo a come egli personalmente gestì un'analoga crisi del suo Paese, quella del 1999 (allora era direttore del dipartimento titoli del Ministero delle Finanze), in primo luogo imponendo il disbrigo delle transazioni estere delle società fallite, quindi consentendo al Giappone di assorbire i costi della liquidazione, piuttosto che costringere il resto del mondo a pagare per la crisi nipponica, e parallelamente incarcerando numerosi banchieri, azione da lui ripetutamente suggerita agli Stati Uniti e al Regno Unito, i quali hanno finora fatto orecchie da mercante. Riportiamo alcuni estratti delle sue dichiarazioni, con enfasi aggiunta dalla nostra redazione: «Perché la crisi economica mondiale si è avuta dopo il caso sconcertante della banca Lehman Brothers? Si è discusso pochissimo a tal proposito, con la giusta profondità, probabilmente come riflesso del vizio che affligge i media occidentali, quando si occupano di Wall Street. La totale abrogazione del Glass-Steagall Act nel febbraio 1999 fu la principale causa strutturale della bolla finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dal 2002 al 2007. Fu abrogata sotto l’influsso del ministro del Tesoro Lawrence Summers, durante il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari della fine del XX secolo. La legge era stata posta in vigore nel 1933, al fine di separare le banche d’affari dalle banche commerciali, alla luce delle tragiche esperienze della Grande Depressione. La liquidità in surplus creata in un lungo periodo di lassa politica monetaria, durante il primo decennio del XXI secolo, sotto gli auspici del presidente della Federal Reserve di Alan Greenspan, ha alimentato il cosiddetto gioco monetario delle banche d'affari, che è stato inconsistente con le leggi della vera domanda. Una tale politica e un tale amministrazione della Riserva Federale e del Tesoro sono state le cause principali della bolla.» Parlando della sua gestione del collasso finanziario di Yamaichi Securities, ecc. nel 1997: «Lehman Brothers andò in bancarotta, il lunedì 15 settembre 2008, senza sbrigare il suo enorme volume di transazioni transfrontaliere. Ciò ebbe uno stupefacente effetto contagioso sul sistema finanziario mondiale, a cominciare dalla branca londinese di AIG, e scatenò una depressione mondiale paragonabile alla Grande Depressione precedente la Seconda Guerra Mondiale... Liquidare la Lehman Brothers solo dopo il disbrigo delle sue transazioni con l'estero avrebbe impedito la crisi mondiale. In modo sufficientemente comprensibile, se Lehman Brothers fosse stata liquidata solo dopo il disbrigo, il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto impiegare una grande quantità di denaro dei contribuenti per quel salvataggio, per proteggere il sistema finanziario americano, e porre un freno a qualunque effetto contagioso di altri istituti finanziari. Se questo fosse accaduto, il governo avrebbe avuto bisogno di offrire una spiegazione plausibile ai contribuenti dell'uso di una così grande quantità di denaro pubblico. Ciò, molto probabilmente, avrebbe implicato una inchiesta sulle responsabilità della dirigenza e delle autorità di controllo.» «Una simile inchiesta non è mai stata condotta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nei tre anni e mezzo dalla caduta di Lehman Brothers. Al contrario, dieci anni fa in Giappone, la responsabilità dei dirigenti esecutivi degli istituti finanziari falliti, come Yamaichi, LTCB e NCB, furono indagate approfonditamente, mentre la maggioranza degli stessi fu arrestata e perseguita. Da lungo tempo abbiamo indicato alle nostre controparti nei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito la necessità di tali inchieste, ma la nostra voce è rimasta inascoltata».

Che la Goldman sia con te

A cosa servono le idee? Ad affrontare la giornata? No, per questa possono bastare i riflessi condizionati di cui anche l’uomo, come gli animali – Pavlov insegna – risulta dotato. A prendere iniziative per essere felici? A effettuare tentativi – magari non individuali, bensì collettivi – per cambiare la realtà, i suoi rapporti di forza, la sua struttura sociale? Già su questo piano potremmo esserci. Anzi, ci siamo. Ma allora la domanda si sposta. Chi ha idee oggi in Italia? Chi mette in campo le idee che ha perché le cose cambino? La Chiesa cattolica? I partiti? I movimenti? Gli intellettuali? Immagino le risposte dei lettori di Nuova Vicenza. Sono risposte realistiche, corrette. Identificabili al punto che si possono omettere.
Viviamo in un paese dove i rapporti di forza, già delineati da tempo, sono, per intima loro natura e grazia, tali da essere stati concepiti per la loro conservazione sine die. Rapporti di forza economici, industriali, ideali, religiosi. Nulla fa pensare che ci sia una sola forza intellettuale, produttrice di idee, detentrice del diritto a cambiarli, a modificarne l’iter.
In Italia il futuro dei prossimi dieci anni è già segnato. Monti è lo spartiacque iniziale fra il passato e i prossimi dieci (forse venti) anni. Con l’avvento di Monti è terminata la fase del conflitto delle idee. L’ultimo a giustificare il conflitto è stato Berlusconi con il suo contrastato regno. Finito Berlusconi, finito il regno visibile (quello invisibile prosegue la corsa), finiti i conflitti, finite le idee. Come potevamo supporre nel corso di quel regno la sua forza era un limite per sé medesimo (sempre lo stesso vuoto, la solita TV, le stesse figure femminili virtuali, gli stessi conflitti con la giustizia) ma soprattutto per gli oppositori, sfiancati dalla sua resistenza e dalla loro concentrazione su un unico obiettivo. L’anti-berlusconismo era troppo impegnato sul proprio versante bellico per avere tempo e modo (e genio) per altri obiettivi. Finito Berlusconi, finito lo schieramento anti, siamo tutti in un deserto. E i Tartari non arrivano mai.
Questa lunga premessa mi è servita per delineare un primo simbolo dell’insussistenza di idee (che hegelianamente dovrebbero portare a novità su una situazione statica): il fenomeno Mario Monti. Il vero golem nazionale, oggi.
Mario Monti viene dal mondo economico della conservazione, il liberismo estremo dei bocconiani. Al di là degli incarichi pubblici che il “pensiero unico” liberista nato negli anni ’80 e tuttora in auge in occidente gli ha affidato (Commissario Europeo alla Concorrenza, eccetera) il nostro professore è stato (ed è?) un esponente di grido dell’americana Goldman Sachs, la famosa banca d’affari uscita da tutte le crisi (a partire dal ’29) con l’aureola, e sempre capace di riciclarsi. Con uno stile unico: tenere i propri uomini in sospeso, sempre in un pendant magico fra il mondo asettico del profitto finanziario e la politica. In un lessico più corretto questo si chiama conflitto di interessi (e di quelli letali, anche, altro che i berluschini) ma non importa.
Oggi la Goldman è a disagio per qualche buccia di banana su cui recentemente è scivolata. Ma certo, se fossi stato fascista ai tempi della peggiore propaganda non avrei esitato a portare la Goldman come esempio di demoplutocrazia. Oggi sarei un nostalgico. Ma ci sono fatti che non si possono nascondere. La Goldman produce influenza planetaria e profitti altissimi. Dal suo scranno centrale cova le istituzioni democratiche e mette i propri uomini a capo di esse.
Esempi. Henry Paulson esce da Goldman come presidente e diventa ministro del tesoro di George W. Bush. Robert Rubin, alto dirigente Goldman diventa ministro del tesoro con Clinton. William Dudley, alto dirigente Goldman, diventa presidente della Federal Reserve di New York. Mario Draghi, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e ora presidente della BCE, è stato dirigente Goldman. Lo stesso Romano Prodi, catturato ai tempi dell’IRI da Goldman, è poi diventato presidente del consiglio italiano. E Gianni Letta, braccio destro del signor B., membro dell’Advisory Board di Goldman. E come Letta, Monti, anche lui dell’Advisory Board.
Ricordate i tempi in cui si parlava di pensiero unico? Ci si arrovellava il cervello. Più che dei capi di stato e di governo, lo pensavamo dominio di un grande vecchio. Ma sì, era la Goldman! Virtualmente, senz’altro, fisicamente, quasi certamente, pure. L’esaltazione del profitto finanziario, l’invenzione dei derivati, il profitto che viene dall’etere e via fantasticando, sono tutte creature Goldman. Che non si limita a fare profitti, vuole che la sua filosofia corrompa – per il bene di tutti, naturalmente – la politica. Con i suoi uomini: alti, forti, prestigiosi, a volte un po’ rarefatti.
Monti non potrà mai disdegnare questa sua radice. Per questo non c’è bisogno di idee. Basta mantenere il corso già tracciato dal pensiero unico (che, per definizione è immobile, cioè senza idee). Basta ascoltare Goldman.
di Pino Dato

26 marzo 2012

Riflessioni contro la democrazia




Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.

Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri

25 marzo 2012

La politica ha perso il contatto con la realtà

La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio

24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)

22 marzo 2012

Intoccabili

Con estrema ingenuità eravamo convinti che l’acme del grottesco fosse stato raggiunto ieri sera. Quando l’usuraio Mario Monti e il suo delfino lacrima Fornero sono stati omaggiati dalla Torino “che conta”, costituita dal PD e dalla"famiglia Fiat", unitamente ai guitti da cortile modello Littizzetto e ad altro bestiario politico di minoranza. Mentre in un centro blindato stile G8, il resto dei torinesi che non contano nulla, venivano tenuti lontani tramite le transenne ed un nutrito manipolo di poliziotti in tenuta antisommossa. Lontani dall’egoarca e dal suo ministro, che dopo avere cenato al “Cambio” in salsa chic, sono stati ospitati al teatro Regio, dove (dicono i giornali) tutta la città dentro le transenne avrebbe tributato loro una lunga ovazione per il"lavoro" di demolizione svolto fino ad oggi nel paese.
L’elite tecno finanziaria, con il proprio codazzo di camerieri politici e consorteria assortita dentro, impegnati a celebrare sé stessi in una cerimonia autoreferenziale, e tutto il resto del mondo fuori, senza alcun diritto, ma con il dovere di mantenerne economicamente di tasca propria i fasti principeschi. Una commedia dell’assurdo che risale alla notte dei tempi ed è oggi più attuale che mai.
Ma in tutta evidenza il grottesco non conosce limite, dal momento che in un’Ansa di oggi si può apprendere come un ragazzo sia stato fermato dalla polizia e poi denunciato, per avere rivolto degli insulti a lacrima Fornero, durante la visita fatta dalla stessa alle OGR, dove ha presenziato all’inaugurazione della mostra dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia, prima di recarsi al Cambio per rifocillarsi dopo l’improba fatica…..


In un paese dove i ministri del governo precedente e di quelli precedenti ancora (compresi i presidenti del Consiglio) sono sempre stati sistematicamente insultati in TV e sui giornali, con una variegata quantità di epiteti che spaziava dal “mortadella” allo “psiconano”, passando attraverso dracula, gli scheletri e le gobbe, solamente i “tecnici” al servizio della BCE assurgono allo status di intoccabili, inavvicinabili, inguardabili e assolutamente da non criticare.

E’ un segno dello stato di polizia nel quale stiamo precipitando, il fatto che un giovane venga fermato, intimidito e denunciato, per avere osato esprimere tutto il proprio entusiasmo nei confronti di colei che gli ha negato il diritto ad andare un giorno in pensione e si sta prodigando per eliminare ogni prospettiva di trovare un posto di lavoro dignitoso.
Ma è un segno che in fondo non stupisce, proprio a Torino, dove magistrati compiacenti sono soliti incarcerare le donne incinta e le persone perbene, con la sola colpa di battersi contro la costruzione del TAV. E tenerceli dentro anche dei mesi, nonostante non esistano le motivazioni oggettive per farlo, salvo poi lagnarsi e piagnucolare per le (poche) contestazioni subite, al solo fine di pubblicizzare la vendita di libercoli che nessuno comprerebbe mai, se non per compiacenza e servilismo.

Non si possono guardare, non si possono toccare, non si può esternare loro il nostro pensiero. Sono i ministri del governo di occupazione, lavorano per le grandi banche, per la BCE e per la FED. Tutti dietro le transenne e in rigoroso silenzio, il primo che proferisce parola vola dritto in galera senza neanche passare dal via, siamo in democrazia, cosa vi credete?
di Marco Cedolin

21 marzo 2012

Monti, lo stalinista americano che devasterà gli italiani

I colpi di Stato? Oggi non si fanno più coi carri armati, ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. «È il post-moderno, bellezza!», ironizza il filosofo Costanzo Preve, che denuncia due golpe: «Quello di Monti del 2011 non è il primo ma il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992», un “colpo di stato giudiziario” per abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, «non certo più corrotto di quello venuto dopo, ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello Stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano». Stavolta non c’è stato neppure bisogno di manette: «Sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani».

Già nel ’92, aggiunge Preve nel suo dialogo con Luigi Tedeschi sulla “mutazione antropologica degli italiani” pubblicato da Arianna editrice e Stalinripreso da “Megachip”, era stato decisivo l’ex Pci nell’assestare il “colpo di Stato giudiziario extraparlamentare”, Stessi attori, sempre in prima linea: «Allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente indeboliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa». Orfani di Berlinguer, quelli che Preve chiama “rinnegati” si trovavano «improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica». I seguaci identitari «furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone)». L’eterogenesi dei fini, segnalata da Vico, si è sposata con l’astuzia della ragione storica teorizzata da Hegel.

«La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992», aggiunge Preve. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due: la prima volta in Libia, dove «è stata costretta dalla Nato a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”». La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo. Destra e sinistra? Ormai sono solo «segnali stradali e simboli di costume extra-politico». Esempio: «La sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe Norberto Bobbiomai». Dicotomia ormai inesistente, eppure «continuamente reimposta, per motivi di tifo sportivo, dal ceto intellettuale».

Pura manipolazione simbolica, dice Preve, dotata di un potere inerziale ancora forte anche se non più fondato sulla realtà. «Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello Stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito». Ora questo scenario non esiste più. Ad al suo posto, ci sono solo «questioni di gusto estetico e di snobismo culturale». La classe politica ? «Si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per deresponsabilizzazione». I politici, «ricattati dalle polemiche contro la “casta” e inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecitorio», si sono «consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, il linciaggio mediatico».

Quello di Monti? Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. «Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi». Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx, ricorda Preve, avrebbero entrambi dovuto funzionare senza Stato, o con uno “Stato minimo” tendente verso lo zero. «Pura utopia modellistica astratta». In realtà, il comunismo di Marx nel ‘900 «funzionò unicamente con lo Stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura». Idem il Adam Smithcapitalismo di Locke e di Smith: «Funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica».

Poteva andare diversamente? No, perché «un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione». Finché sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie pre-capitalistiche (famiglia, tribù), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, come mostra il tragico esempio della Grecia di oggi. «E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smith succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti».

La «dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti» è fuori dal liberismo che si studia nelle università: «Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”». Potremo difenderci da questa sorta di “stalinismo occidentale”? Non nel breve periodo, dice Preve: «Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscienza e di conoscenza: troppo forti sono le forze inerziali della simulazione destra-sinistra, dell’identitarismo di partito di origine Pci, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del politicamente corretto». Per il filosofo, «questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni». La realtà? «Siamo appena all’inizio Monti e Obamadel “tempo di cottura” che la storia ci prepara: la ricetta vuole il suo tempo».

Monti coltiva un disegno pericoloso: «Vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è». Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. «Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali» e quindi sembra non sapere che l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, «non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo-liberale e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo».

Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”: «Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine, poco più di mezzo secolo». Il progetto di “americanizzazione antropologica forzata dagli italiani”, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 «addossata al solo fascismo», secondo Preve «solo ora, nel 2012, può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario». Monti sembra “l’uomo dei tedeschi”, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio, Costanzo Prevema in realtà è “l’uomo degli americani”: «Si è creduto a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli Usa, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale».

La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, «tipica di un paese privo di sovranità politica e militare», ha fatto sì che passassero praticamente inosservate le nomine dei nuovi ministri degli esteri e della difesa, «un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan per conto della Nato». I due personaggi che hanno sostituito «i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa», in realtà sono «servi degli Usa al cento per cento». Berlusconi? Non poteva certo piacere a Washington: non solo per il suo «stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo Usa», ma soprattutto per i suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, «fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”». E ora, eccoci serviti. «Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza – conclude Preve – ma ci vorrà sicuramente del tempo: probabilmente, molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione».
di Giorgio Cattaneo

20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin

16 marzo 2012

Goldman Sachs, le accuse dell'ex-dirigente. Una deriva morale strategica?

Goldman Sachs
Le accuse di deriva morale che l'ex dirigente muove a Goldman Sachs potrebbero essere dovute alla nuova fase economica in cui l'azienda si muove

Ambiente “tossico e distruttivo”, clienti chiamati “pupazzi” cui si cercano di affibbiare titoli spazzatura con l'unico scopo di massimizzare i profitti, neanche un briciolo di “cultura aziendale”, piuttosto il messaggio per i nuovi arrivati che solo essendo spregiudicati riusciranno a fare carriera. Questa la descrizione, non proprio confortante, che il dirigente Greg Smith, al suo ultimo giorno di lavoro, fornisce dalle pagine del New York Times della sua quasi-ex azienda: Goldman Sachs.

Ebbene sì, pare proprio che alla banca di investimenti che ci ha generosamente donato due primi ministri (Romano Prodi ed il mai eletto Mario Monti), un governatore della Banca d'Italia (Mario Draghi, ora assurto a presidente della Banca centrale europea) e che ha avuto un ruolo chiave negli attacchi al nostro debito sovrano assieme alla Deutsche bank – per non parlare del debito greco -, non siano proprio degli stinchi di santo.

Bella scoperta, direte voi. Eppure quando lo stesso Smith afferma che non sempre è stato così, che un tempo “Si ruotava intorno a lavoro di squadra, integrità, spirito di umiltà, e sempre cercando il bene dei nostri clienti”, potrebbe non avere tutti i torti.

Greg Smith è stato ai vertici di Goldman Sachs per 12 anni, come direttore esecutivo per i derivati in Usa, Europa, Medio oriente ed Africa. Nella lettera accusatoria che ha deciso di scrivere nello stesso giorno in cui abbandonava l'incarico sostiene di aver assistito ad un cambiamento enorme nel modo di gestire l'azienda.

“Potrà suonare sorprendente ad un pubblico scettico - afferma Smith – ma la cultura è stata sempre una parte vitale del successo di Goldman Sachs”. E continua: “La cultura era l'ingrediente segreto che ha reso questo posto fantastico e ci ha permesso di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni. Non era solo di fare soldi, questo da solo non può sostenere una società per così tanto tempo. Aveva qualcosa a che fare con l'orgoglio e la fede nella organizzazione”.

Per poi concludere amaramente, “Mi dispiace dire che oggi mi guardo intorno e vedere praticamente alcuna traccia della cultura che mi ha fatto amare a lavorare per questa azienda per molti anni. Non ho più l'orgoglio, o la convinzione.”

Qualcosa, secondo l'ex dirigente, ha smesso di funzionare; la banca sta affrontando una deriva semi-criminale che la conduce ad abbandonare del tutto gli interessi dei propri clienti per rincorrere facili profitti. Ma è davvero una deriva? Un “declino nella fibra morale della società [che] rappresenta la singola minaccia più grave per la sua sopravvivenza a lungo termine”, come afferma Smith?

Ci sono elementi che fanno ritenere che invece il nuovo volto di Goldman Sachs sia frutto di una strategia molto più a lungo termine di quanto l'ex dirigente non ritenga. Quando Smith entrò nell'azienda, l'economia mondiale era ancora in fase di espansione (pur essendoci già avvisaglie della crisi imminente). Per una grande banca d'affari, quando un'economia è in espansione è il momento di “curare il cliente”, ovvero di cercare di creare una ricchezza più diffusa possibile nella società. Perché? Semplicemente perché più saranno cresciuti i beni materiali, la ricchezza reale di quella determinata società, più ci sarà da arraffare nel momento della crisi.

Adesso è il momento della crisi. È il momento in cui la ricchezza creata nel periodo di espansione viene redistribuita verso l'alto, in cui le banche smettono di emettere credito ma traggono profitto dall'enorme debito accumulato negli anni; in pratica convertono il debito, frutto della somma degli interessi della moneta da esse stesse emessa, in beni materiali.

Per questo le crisi sono cicliche: l'economia capitalista ha bisogno di rigenerarsi di volta in volta, di azzerare il debito accumulato, di distruggere i diritti acquisiti dai lavoratori, creare manodopera a basso costo e povertà diffusa per poi ripartire da zero. E le banche sanno esattamente come muoversi in ogni momento. Sanno quando è il momento di favorire la crescita, quando quello di fare sciacallaggio. Lo sgomento di Smith nasce probabilmente dall'interpretare in maniera lineare quel frammento di circonferenza che si è trovato a vivere.
di Andrea Degl'Innocenti

15 marzo 2012

Crollano i consumi? Ecco come stiamo cambiando

I consumi di benzina scendono del 20 per cento rispetto all'anno passato, mentre la spesa alimentare delle famiglie torna ai livelli del 1981. I giornali ne parlano con toni drammatici, ma leggendo fra le pieghe delle notizie si colgono incoraggianti segnali di cambiamento. Per una volta, sembra proprio che la crisi possa rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio per il sistema che l'ha generata.

consumi benzina
Il crollo dei consumi è veramente dovuto solo alla crisi? Oppure intervengono anche fattori di cambiamento culturale e sociale negli italiani?

“Se spostarsi diventa un lusso” titola la Stampa. “Cibo, bevande, tabacco, spendiamo come nel 1981”, gli fa eco il Corriere della Sera. Ovunque il calo dei consumi degli italiani viene dipinto con le tinte fosche di un evento drammatico. Ma l'argomento merita almeno qualche considerazione più approfondita.

A colpire l'immaginario dei lettori è spesso il concetto di recessione. La crisi ci sta trascinando all'indietro di 30 anni, affermano i giornali. Ma l'idea di recessione è legata ad una visione lineare della storia, che a sua volta è una “invenzione” relativamente recente. Nelle culture popolari, tradizionali, rurali, la storia è piuttosto ciclica, scandita dall'eterno ritorno dei giorni, delle stagioni, delle ere geologiche.

Il concetto di progresso ha rotto la ciclicità della storia. Un concetto che, pur partorito oramai duemila anni fa dall'etica cristiana e dall'idea di salvezza, ha trovato il suo successo solo in tempi recenti, quando lo sviluppo della tecnica ha permesso all'uomo di affrancarsi dalle leggi naturali. Dunque il fatto di tornare indietro non dovrebbe di per sé spaventarci, ed è più “naturale” di quanto immaginiamo.

Certo, si obbietterà, questo “regresso” non è frutto di una maturazione culturale delle persone ma di una crisi che sta riducendo alla povertà una fetta sempre maggiore della popolazione. È vero, e aggiungo che tale crisi non distrugge le ricchezze ma le redistribuisce verso l'alto. Distrugge la classe media, aumenta la concentrazione, arricchisce infinitamente le grandi banche e le corporazioni. E probabilmente – data la natura ciclica del capitalismo – prepara il campo per una nuova crescita. Crea aree immense di mano d'opera a buon mercato; fa piazza pulita per poter ripartire da zero.

Ma è altrettanto vero che è nei momenti difficili che si prendono le decisioni più drastiche, che si affrontano quei cambiamenti necessari che gli agi e il benessere ci portavano a rimandare ad un domani indefinito.

Analizziamo meglio i dati cui si accennava all'inizio. I consumi di carburanti hanno avuto, nel febbraio 2012, un crollo del 20 per cento rispetto allo stesso mese del 2011. Pur facendo la tara delle nevicate che hanno bloccato a lungo strade e autostrade, degli scioperi dei trasportatori che incidono di diversi punti sui consumi di benzina, il dato resta comunque impressionante.

Ma è un male? A parte il sicuro beneficio per l'ambiente, ci sono altri dati che fanno supporre che al calo dei consumi dei carburanti non abbia corrisposto un peggioramento degli stili di vita degli italiani. Ad esempio sta riscontrando un successo crescente il carpooling. Sempre più persone scelgono di condividere la propria auto con altri passeggeri, al tempo stesso risparmiando, inquinando meno, e rendendo più piacevole il viaggio.

Negli ultimi due anni gli utenti italiani sono aumentati del 200 per cento, i siti che offrono il servizio si sono moltiplicati (da carpooling.it a roadsharing.it a postinauto.it). Si calcola – dati del sito postoinauto.it - che con le auto condivise il costo medio per la benzina sia di 5 euro per 100 chilometri, e si risparmi fino al 67 per cento sulla benzina e il 50 per cento sul completo costo della trasferta.

E che dire del crollo della spesa degli italiani, ripiombati secondo il Corriere al 1981? Anche qui il calo dei consumi alimentari avviene in un contesto di partenza caratterizzato dall'eccesso. Se dalla dieta degli italiani spariscono alcuni cibi sovraconsumati – si pensi al consumo di carne – non può certo essere considerato un dramma.

Non sarà che l'improvvisa necessità ha fatto aprire d'un tratto gli occhi agli italiani? Possibile che ad un assottigliarsi dei portafogli stia corrispondendo un arricchimento delle coscienze? A dare adito ad interrogativi di questo genere arriva anche una ricerca del Censis sui “Valori degli italiani” che testimonia il netto calo dell'individualismo ed un ritorno alla ricerca di collettività, di nuove forme di aggregazione sociale.

Gli italiani abbandonano un modello basato sulla competizione e cercano di elaborare un senso collettivo. E, udite udite, bocciano il consumismo. Il 57 per cento pensa che “al di là dei concreti problemi di reddito, nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno intenso rispetto a qualche anno fa”.

Sembra che la crisi stia innescando un meccanismo di reazione - involontario e non calcolato – a quel modello sociale neoliberista che proprio dalla crisi, come da ogni shock, immaginava di trarre il massimo beneficio. Gli italiani – e come loro molti altri cittadini d'Europa e del mondo – sembrano risvegliarsi da quel torpore in cui anni di benessere a buon mercato li aveva fatti precipitare. Che la crisi, una volta tanto, possa rivoltarsi contro il sistema che l'ha generata?
di Andrea Degl'Innocenti

14 marzo 2012

Monti: la mutazione antropologica degli italiani

1) Il 2011 sarà ricordato come un anno decisivo per l’Italia: un anno cioè in cui si sono determinati mutamenti rilevanti nella struttura della società italiana. Nel 2011, in conseguenza dell’aggravarsi della crisi del debito e dell’innalzamento dello spread, a seguito del declassamento delle agenzia di rating Moody’s e Standard & Poor’s, l’Italia ha subito dapprima il commissariamento della sua politica economica da parte della BCE, poi l’imposizione da parte del presidente Napolitano, con procedure di dubbia costituzionalità, di un governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’unico inesorabile mandato di varare le manovre economiche imposte dalla UE. Secondo l’orientamento della grande stampa e della quasi totalità dei media, “l’annus horribilis” 2011 si è concluso con un lieto fine: Mario Monti sarebbe dunque il nuovo uomo della provvidenza, l’ultimo in ordine storico, giunto per grazia bancaria a salvare l’Italia dal baratro del default finanziario e ad imporre una trasformazione sistemica in senso liberista della società italiana. La grande sconfitta è stata la politica. I grandi partiti, PdL e PD, già “mortalmente” contrapposti, si sono omologati nel sostegno incondizionato a Monti. Quest’ultimo ha infatti varato manovre impopolari che nessun governo precedente avrebbe potuto realizzare, se non con la prospettiva di perdere vaste fasce del proprio consenso elettorale. L’unica polemica tra destra e sinistra, consiste attualmente nel rivendicare a sé il merito del sostegno incondizionato ed entusiasta a Monti, di aver già previsto e proposto senza successo manovre similari. La continuità tra Monti e i governi precedenti è evidente. Destra e sinistra rivelano dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, la loro gemellare e speculare identità nei programmi e nella prassi politica: la loro unica funzione da 20 anni a questa parte è stata quella di legittimare in Italia l’ordine economico e geopolitico occidentale. Ma il sostegno di PdL e PD a Monti ha accentuato la divaricazione già evidente tra classe politica e paese reale. Monti, al di là delle manifestazioni di protesta anche accentuate, oggi gode del consenso della maggioranza degli italiani, che, atterriti dallo spettro di una Italia condannata a seguire il destino della Grecia, giudicano positivamente l’operato del governo Monti, nella misura in cui specularmente rifiuta i politici e i partiti, la loro corruzione, la loro incapacità ad affrontare la crisi economica. Il governo Monti, dunque rappresenterebbe il superamento della vecchia dicotomia destra/sinistra? Sembrerebbe di si, dal momento che entrambe convergono nella condivisione dei contenuti delle manovre “lacrime e sangue”, rivelando un insospettabile senso di responsabilità nazionale, un “patriottismo” finanziario-liberista che annulla tutte le contrapposizioni in nome della “salvezza nazionale”. In realtà, non è nei programmi del governo Monti realizzare un nuovo progetto di riforme politiche, semmai esso porta a compimento un processo di disgregazione della politica italiana e la sua omologazione alle direttive finanziarie UE, perpetrata attraverso l’azzeramento di ogni dialettica di ogni contrapposizione politica. In effetti il governo Monti non ha un programma politico, né vuole essere rappresentativo di una fantomatica unità nazionale. E’ un governo “non politico”, composto da tecnici e come tale, non ha programmi progettuali, ma di mera attuazione delle direttive della BCE, in accordi con i gruppi finanziari di oltre Oceano, quali Goldman Sachs. Il governo Monti non svolge quindi nemmeno una politica economica. Che le misure di smantellamento dello stato sociale, di aggravio della pressione fiscale, di riforma in senso liberista della legislazione sul lavoro comportino cali di produzione, disoccupazione, recessione generalizzata, non è un fatto rilevante per Monti & C: le conseguenze sull’economia reale e l’impatto sociale delle manovre sono temi estranei alla azione governativa. Monti non è un premier eletto e non ha responsabilità dinanzi agli elettori: il suo mandato è limitato alle problematiche finanziarie connesse allo spread del debito pubblico e come tale, è tenuto a rispondere solo alle direttive sovranazionali della UE. La classe politica si è omologata a Monti non per responsabilità, ma per allinearsi alla sua deresponsabilizzazione, che inevitabilmente comporta l’abiura cosciente e volontaria della sovranità nazionale, ormai ridotta a fardello inutile e rischioso nel mondo finanziarizzato occidentale.

I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcera¬zione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. E’ il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992. Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani. Vorrei far nota¬re quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente inde¬boliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cade¬re le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.
La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.
E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli ¬di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la di¬cotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere iner¬ziale è ancora forte. Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale.
Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per derespon¬sabilizzazione. Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecito¬rio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, i1 linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne du¬bito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!
L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!

2) Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone. Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza. Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli. Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi. Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese. Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.

Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il lo¬ro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!
Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.
Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”. In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose). In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tut¬ti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza. In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzar¬si. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filoso¬fo e scienziato sociale.
Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluziona¬ria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovescia¬mento.
Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno di¬rigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmen¬te smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.. Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura. Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (fami¬glia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).
E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.
La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filo¬sofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).
Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo. Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscien¬za e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni. Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.

3) In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca. La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico. Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi. La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo. La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati. Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.

Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).
L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.
Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è. Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.
L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiama¬vano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.
Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo. Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.
Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove. Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.

4) La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente. Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti. Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”. L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica. Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkosy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti. Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA. Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkosy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA. Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico - finanziario, ma anche geopolitico: so vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane. Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.

Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamenta¬le.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passas¬se praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”. E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi

27 marzo 2012

Economista giapponese accusa l'establishment anglo-americano di aver provocato la Nuova Grande Depressione

Daisuke Kotegawa (Canon Institute for Global Studies) 24 marzo 2012 (MoviSol) – Daisuke Kotegawa, ex funzionario ad alto livello del Ministero delle Finanze giapponese e rappresentante nipponico presso il FMI, ha descritto l'abrogazione della legge Glass-Steagall come "la principale causa strutturale della bolla finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dal 2002 al 2007". Scrivendo per il Canon Institute for Global Studies, di cui è ora il direttore della ricerca, Kotegawa ha anche attaccato la risposta fallimentare del gruppo costituito da Paulson, Geithner e Darling a Londra e a New York quando si verificò il collasso finanziario del 2008, una decisione a suo avviso responsabile dell'aggravamento della crisi globale. Ha paragonato la scelta di quel gruppo a come egli personalmente gestì un'analoga crisi del suo Paese, quella del 1999 (allora era direttore del dipartimento titoli del Ministero delle Finanze), in primo luogo imponendo il disbrigo delle transazioni estere delle società fallite, quindi consentendo al Giappone di assorbire i costi della liquidazione, piuttosto che costringere il resto del mondo a pagare per la crisi nipponica, e parallelamente incarcerando numerosi banchieri, azione da lui ripetutamente suggerita agli Stati Uniti e al Regno Unito, i quali hanno finora fatto orecchie da mercante. Riportiamo alcuni estratti delle sue dichiarazioni, con enfasi aggiunta dalla nostra redazione: «Perché la crisi economica mondiale si è avuta dopo il caso sconcertante della banca Lehman Brothers? Si è discusso pochissimo a tal proposito, con la giusta profondità, probabilmente come riflesso del vizio che affligge i media occidentali, quando si occupano di Wall Street. La totale abrogazione del Glass-Steagall Act nel febbraio 1999 fu la principale causa strutturale della bolla finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dal 2002 al 2007. Fu abrogata sotto l’influsso del ministro del Tesoro Lawrence Summers, durante il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari della fine del XX secolo. La legge era stata posta in vigore nel 1933, al fine di separare le banche d’affari dalle banche commerciali, alla luce delle tragiche esperienze della Grande Depressione. La liquidità in surplus creata in un lungo periodo di lassa politica monetaria, durante il primo decennio del XXI secolo, sotto gli auspici del presidente della Federal Reserve di Alan Greenspan, ha alimentato il cosiddetto gioco monetario delle banche d'affari, che è stato inconsistente con le leggi della vera domanda. Una tale politica e un tale amministrazione della Riserva Federale e del Tesoro sono state le cause principali della bolla.» Parlando della sua gestione del collasso finanziario di Yamaichi Securities, ecc. nel 1997: «Lehman Brothers andò in bancarotta, il lunedì 15 settembre 2008, senza sbrigare il suo enorme volume di transazioni transfrontaliere. Ciò ebbe uno stupefacente effetto contagioso sul sistema finanziario mondiale, a cominciare dalla branca londinese di AIG, e scatenò una depressione mondiale paragonabile alla Grande Depressione precedente la Seconda Guerra Mondiale... Liquidare la Lehman Brothers solo dopo il disbrigo delle sue transazioni con l'estero avrebbe impedito la crisi mondiale. In modo sufficientemente comprensibile, se Lehman Brothers fosse stata liquidata solo dopo il disbrigo, il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto impiegare una grande quantità di denaro dei contribuenti per quel salvataggio, per proteggere il sistema finanziario americano, e porre un freno a qualunque effetto contagioso di altri istituti finanziari. Se questo fosse accaduto, il governo avrebbe avuto bisogno di offrire una spiegazione plausibile ai contribuenti dell'uso di una così grande quantità di denaro pubblico. Ciò, molto probabilmente, avrebbe implicato una inchiesta sulle responsabilità della dirigenza e delle autorità di controllo.» «Una simile inchiesta non è mai stata condotta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nei tre anni e mezzo dalla caduta di Lehman Brothers. Al contrario, dieci anni fa in Giappone, la responsabilità dei dirigenti esecutivi degli istituti finanziari falliti, come Yamaichi, LTCB e NCB, furono indagate approfonditamente, mentre la maggioranza degli stessi fu arrestata e perseguita. Da lungo tempo abbiamo indicato alle nostre controparti nei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito la necessità di tali inchieste, ma la nostra voce è rimasta inascoltata».

Che la Goldman sia con te

A cosa servono le idee? Ad affrontare la giornata? No, per questa possono bastare i riflessi condizionati di cui anche l’uomo, come gli animali – Pavlov insegna – risulta dotato. A prendere iniziative per essere felici? A effettuare tentativi – magari non individuali, bensì collettivi – per cambiare la realtà, i suoi rapporti di forza, la sua struttura sociale? Già su questo piano potremmo esserci. Anzi, ci siamo. Ma allora la domanda si sposta. Chi ha idee oggi in Italia? Chi mette in campo le idee che ha perché le cose cambino? La Chiesa cattolica? I partiti? I movimenti? Gli intellettuali? Immagino le risposte dei lettori di Nuova Vicenza. Sono risposte realistiche, corrette. Identificabili al punto che si possono omettere.
Viviamo in un paese dove i rapporti di forza, già delineati da tempo, sono, per intima loro natura e grazia, tali da essere stati concepiti per la loro conservazione sine die. Rapporti di forza economici, industriali, ideali, religiosi. Nulla fa pensare che ci sia una sola forza intellettuale, produttrice di idee, detentrice del diritto a cambiarli, a modificarne l’iter.
In Italia il futuro dei prossimi dieci anni è già segnato. Monti è lo spartiacque iniziale fra il passato e i prossimi dieci (forse venti) anni. Con l’avvento di Monti è terminata la fase del conflitto delle idee. L’ultimo a giustificare il conflitto è stato Berlusconi con il suo contrastato regno. Finito Berlusconi, finito il regno visibile (quello invisibile prosegue la corsa), finiti i conflitti, finite le idee. Come potevamo supporre nel corso di quel regno la sua forza era un limite per sé medesimo (sempre lo stesso vuoto, la solita TV, le stesse figure femminili virtuali, gli stessi conflitti con la giustizia) ma soprattutto per gli oppositori, sfiancati dalla sua resistenza e dalla loro concentrazione su un unico obiettivo. L’anti-berlusconismo era troppo impegnato sul proprio versante bellico per avere tempo e modo (e genio) per altri obiettivi. Finito Berlusconi, finito lo schieramento anti, siamo tutti in un deserto. E i Tartari non arrivano mai.
Questa lunga premessa mi è servita per delineare un primo simbolo dell’insussistenza di idee (che hegelianamente dovrebbero portare a novità su una situazione statica): il fenomeno Mario Monti. Il vero golem nazionale, oggi.
Mario Monti viene dal mondo economico della conservazione, il liberismo estremo dei bocconiani. Al di là degli incarichi pubblici che il “pensiero unico” liberista nato negli anni ’80 e tuttora in auge in occidente gli ha affidato (Commissario Europeo alla Concorrenza, eccetera) il nostro professore è stato (ed è?) un esponente di grido dell’americana Goldman Sachs, la famosa banca d’affari uscita da tutte le crisi (a partire dal ’29) con l’aureola, e sempre capace di riciclarsi. Con uno stile unico: tenere i propri uomini in sospeso, sempre in un pendant magico fra il mondo asettico del profitto finanziario e la politica. In un lessico più corretto questo si chiama conflitto di interessi (e di quelli letali, anche, altro che i berluschini) ma non importa.
Oggi la Goldman è a disagio per qualche buccia di banana su cui recentemente è scivolata. Ma certo, se fossi stato fascista ai tempi della peggiore propaganda non avrei esitato a portare la Goldman come esempio di demoplutocrazia. Oggi sarei un nostalgico. Ma ci sono fatti che non si possono nascondere. La Goldman produce influenza planetaria e profitti altissimi. Dal suo scranno centrale cova le istituzioni democratiche e mette i propri uomini a capo di esse.
Esempi. Henry Paulson esce da Goldman come presidente e diventa ministro del tesoro di George W. Bush. Robert Rubin, alto dirigente Goldman diventa ministro del tesoro con Clinton. William Dudley, alto dirigente Goldman, diventa presidente della Federal Reserve di New York. Mario Draghi, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e ora presidente della BCE, è stato dirigente Goldman. Lo stesso Romano Prodi, catturato ai tempi dell’IRI da Goldman, è poi diventato presidente del consiglio italiano. E Gianni Letta, braccio destro del signor B., membro dell’Advisory Board di Goldman. E come Letta, Monti, anche lui dell’Advisory Board.
Ricordate i tempi in cui si parlava di pensiero unico? Ci si arrovellava il cervello. Più che dei capi di stato e di governo, lo pensavamo dominio di un grande vecchio. Ma sì, era la Goldman! Virtualmente, senz’altro, fisicamente, quasi certamente, pure. L’esaltazione del profitto finanziario, l’invenzione dei derivati, il profitto che viene dall’etere e via fantasticando, sono tutte creature Goldman. Che non si limita a fare profitti, vuole che la sua filosofia corrompa – per il bene di tutti, naturalmente – la politica. Con i suoi uomini: alti, forti, prestigiosi, a volte un po’ rarefatti.
Monti non potrà mai disdegnare questa sua radice. Per questo non c’è bisogno di idee. Basta mantenere il corso già tracciato dal pensiero unico (che, per definizione è immobile, cioè senza idee). Basta ascoltare Goldman.
di Pino Dato

26 marzo 2012

Riflessioni contro la democrazia




Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.

Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri

25 marzo 2012

La politica ha perso il contatto con la realtà

La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio

24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)

22 marzo 2012

Intoccabili

Con estrema ingenuità eravamo convinti che l’acme del grottesco fosse stato raggiunto ieri sera. Quando l’usuraio Mario Monti e il suo delfino lacrima Fornero sono stati omaggiati dalla Torino “che conta”, costituita dal PD e dalla"famiglia Fiat", unitamente ai guitti da cortile modello Littizzetto e ad altro bestiario politico di minoranza. Mentre in un centro blindato stile G8, il resto dei torinesi che non contano nulla, venivano tenuti lontani tramite le transenne ed un nutrito manipolo di poliziotti in tenuta antisommossa. Lontani dall’egoarca e dal suo ministro, che dopo avere cenato al “Cambio” in salsa chic, sono stati ospitati al teatro Regio, dove (dicono i giornali) tutta la città dentro le transenne avrebbe tributato loro una lunga ovazione per il"lavoro" di demolizione svolto fino ad oggi nel paese.
L’elite tecno finanziaria, con il proprio codazzo di camerieri politici e consorteria assortita dentro, impegnati a celebrare sé stessi in una cerimonia autoreferenziale, e tutto il resto del mondo fuori, senza alcun diritto, ma con il dovere di mantenerne economicamente di tasca propria i fasti principeschi. Una commedia dell’assurdo che risale alla notte dei tempi ed è oggi più attuale che mai.
Ma in tutta evidenza il grottesco non conosce limite, dal momento che in un’Ansa di oggi si può apprendere come un ragazzo sia stato fermato dalla polizia e poi denunciato, per avere rivolto degli insulti a lacrima Fornero, durante la visita fatta dalla stessa alle OGR, dove ha presenziato all’inaugurazione della mostra dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia, prima di recarsi al Cambio per rifocillarsi dopo l’improba fatica…..


In un paese dove i ministri del governo precedente e di quelli precedenti ancora (compresi i presidenti del Consiglio) sono sempre stati sistematicamente insultati in TV e sui giornali, con una variegata quantità di epiteti che spaziava dal “mortadella” allo “psiconano”, passando attraverso dracula, gli scheletri e le gobbe, solamente i “tecnici” al servizio della BCE assurgono allo status di intoccabili, inavvicinabili, inguardabili e assolutamente da non criticare.

E’ un segno dello stato di polizia nel quale stiamo precipitando, il fatto che un giovane venga fermato, intimidito e denunciato, per avere osato esprimere tutto il proprio entusiasmo nei confronti di colei che gli ha negato il diritto ad andare un giorno in pensione e si sta prodigando per eliminare ogni prospettiva di trovare un posto di lavoro dignitoso.
Ma è un segno che in fondo non stupisce, proprio a Torino, dove magistrati compiacenti sono soliti incarcerare le donne incinta e le persone perbene, con la sola colpa di battersi contro la costruzione del TAV. E tenerceli dentro anche dei mesi, nonostante non esistano le motivazioni oggettive per farlo, salvo poi lagnarsi e piagnucolare per le (poche) contestazioni subite, al solo fine di pubblicizzare la vendita di libercoli che nessuno comprerebbe mai, se non per compiacenza e servilismo.

Non si possono guardare, non si possono toccare, non si può esternare loro il nostro pensiero. Sono i ministri del governo di occupazione, lavorano per le grandi banche, per la BCE e per la FED. Tutti dietro le transenne e in rigoroso silenzio, il primo che proferisce parola vola dritto in galera senza neanche passare dal via, siamo in democrazia, cosa vi credete?
di Marco Cedolin

21 marzo 2012

Monti, lo stalinista americano che devasterà gli italiani

I colpi di Stato? Oggi non si fanno più coi carri armati, ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. «È il post-moderno, bellezza!», ironizza il filosofo Costanzo Preve, che denuncia due golpe: «Quello di Monti del 2011 non è il primo ma il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992», un “colpo di stato giudiziario” per abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, «non certo più corrotto di quello venuto dopo, ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello Stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano». Stavolta non c’è stato neppure bisogno di manette: «Sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani».

Già nel ’92, aggiunge Preve nel suo dialogo con Luigi Tedeschi sulla “mutazione antropologica degli italiani” pubblicato da Arianna editrice e Stalinripreso da “Megachip”, era stato decisivo l’ex Pci nell’assestare il “colpo di Stato giudiziario extraparlamentare”, Stessi attori, sempre in prima linea: «Allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente indeboliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa». Orfani di Berlinguer, quelli che Preve chiama “rinnegati” si trovavano «improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica». I seguaci identitari «furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone)». L’eterogenesi dei fini, segnalata da Vico, si è sposata con l’astuzia della ragione storica teorizzata da Hegel.

«La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992», aggiunge Preve. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due: la prima volta in Libia, dove «è stata costretta dalla Nato a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”». La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo. Destra e sinistra? Ormai sono solo «segnali stradali e simboli di costume extra-politico». Esempio: «La sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe Norberto Bobbiomai». Dicotomia ormai inesistente, eppure «continuamente reimposta, per motivi di tifo sportivo, dal ceto intellettuale».

Pura manipolazione simbolica, dice Preve, dotata di un potere inerziale ancora forte anche se non più fondato sulla realtà. «Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello Stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito». Ora questo scenario non esiste più. Ad al suo posto, ci sono solo «questioni di gusto estetico e di snobismo culturale». La classe politica ? «Si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per deresponsabilizzazione». I politici, «ricattati dalle polemiche contro la “casta” e inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecitorio», si sono «consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, il linciaggio mediatico».

Quello di Monti? Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. «Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi». Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx, ricorda Preve, avrebbero entrambi dovuto funzionare senza Stato, o con uno “Stato minimo” tendente verso lo zero. «Pura utopia modellistica astratta». In realtà, il comunismo di Marx nel ‘900 «funzionò unicamente con lo Stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura». Idem il Adam Smithcapitalismo di Locke e di Smith: «Funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica».

Poteva andare diversamente? No, perché «un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione». Finché sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie pre-capitalistiche (famiglia, tribù), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, come mostra il tragico esempio della Grecia di oggi. «E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smith succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti».

La «dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti» è fuori dal liberismo che si studia nelle università: «Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”». Potremo difenderci da questa sorta di “stalinismo occidentale”? Non nel breve periodo, dice Preve: «Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscienza e di conoscenza: troppo forti sono le forze inerziali della simulazione destra-sinistra, dell’identitarismo di partito di origine Pci, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del politicamente corretto». Per il filosofo, «questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni». La realtà? «Siamo appena all’inizio Monti e Obamadel “tempo di cottura” che la storia ci prepara: la ricetta vuole il suo tempo».

Monti coltiva un disegno pericoloso: «Vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è». Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. «Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali» e quindi sembra non sapere che l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, «non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo-liberale e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo».

Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”: «Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine, poco più di mezzo secolo». Il progetto di “americanizzazione antropologica forzata dagli italiani”, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 «addossata al solo fascismo», secondo Preve «solo ora, nel 2012, può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario». Monti sembra “l’uomo dei tedeschi”, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio, Costanzo Prevema in realtà è “l’uomo degli americani”: «Si è creduto a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli Usa, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale».

La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, «tipica di un paese privo di sovranità politica e militare», ha fatto sì che passassero praticamente inosservate le nomine dei nuovi ministri degli esteri e della difesa, «un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan per conto della Nato». I due personaggi che hanno sostituito «i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa», in realtà sono «servi degli Usa al cento per cento». Berlusconi? Non poteva certo piacere a Washington: non solo per il suo «stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo Usa», ma soprattutto per i suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, «fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”». E ora, eccoci serviti. «Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza – conclude Preve – ma ci vorrà sicuramente del tempo: probabilmente, molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione».
di Giorgio Cattaneo

20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin

16 marzo 2012

Goldman Sachs, le accuse dell'ex-dirigente. Una deriva morale strategica?

Goldman Sachs
Le accuse di deriva morale che l'ex dirigente muove a Goldman Sachs potrebbero essere dovute alla nuova fase economica in cui l'azienda si muove

Ambiente “tossico e distruttivo”, clienti chiamati “pupazzi” cui si cercano di affibbiare titoli spazzatura con l'unico scopo di massimizzare i profitti, neanche un briciolo di “cultura aziendale”, piuttosto il messaggio per i nuovi arrivati che solo essendo spregiudicati riusciranno a fare carriera. Questa la descrizione, non proprio confortante, che il dirigente Greg Smith, al suo ultimo giorno di lavoro, fornisce dalle pagine del New York Times della sua quasi-ex azienda: Goldman Sachs.

Ebbene sì, pare proprio che alla banca di investimenti che ci ha generosamente donato due primi ministri (Romano Prodi ed il mai eletto Mario Monti), un governatore della Banca d'Italia (Mario Draghi, ora assurto a presidente della Banca centrale europea) e che ha avuto un ruolo chiave negli attacchi al nostro debito sovrano assieme alla Deutsche bank – per non parlare del debito greco -, non siano proprio degli stinchi di santo.

Bella scoperta, direte voi. Eppure quando lo stesso Smith afferma che non sempre è stato così, che un tempo “Si ruotava intorno a lavoro di squadra, integrità, spirito di umiltà, e sempre cercando il bene dei nostri clienti”, potrebbe non avere tutti i torti.

Greg Smith è stato ai vertici di Goldman Sachs per 12 anni, come direttore esecutivo per i derivati in Usa, Europa, Medio oriente ed Africa. Nella lettera accusatoria che ha deciso di scrivere nello stesso giorno in cui abbandonava l'incarico sostiene di aver assistito ad un cambiamento enorme nel modo di gestire l'azienda.

“Potrà suonare sorprendente ad un pubblico scettico - afferma Smith – ma la cultura è stata sempre una parte vitale del successo di Goldman Sachs”. E continua: “La cultura era l'ingrediente segreto che ha reso questo posto fantastico e ci ha permesso di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni. Non era solo di fare soldi, questo da solo non può sostenere una società per così tanto tempo. Aveva qualcosa a che fare con l'orgoglio e la fede nella organizzazione”.

Per poi concludere amaramente, “Mi dispiace dire che oggi mi guardo intorno e vedere praticamente alcuna traccia della cultura che mi ha fatto amare a lavorare per questa azienda per molti anni. Non ho più l'orgoglio, o la convinzione.”

Qualcosa, secondo l'ex dirigente, ha smesso di funzionare; la banca sta affrontando una deriva semi-criminale che la conduce ad abbandonare del tutto gli interessi dei propri clienti per rincorrere facili profitti. Ma è davvero una deriva? Un “declino nella fibra morale della società [che] rappresenta la singola minaccia più grave per la sua sopravvivenza a lungo termine”, come afferma Smith?

Ci sono elementi che fanno ritenere che invece il nuovo volto di Goldman Sachs sia frutto di una strategia molto più a lungo termine di quanto l'ex dirigente non ritenga. Quando Smith entrò nell'azienda, l'economia mondiale era ancora in fase di espansione (pur essendoci già avvisaglie della crisi imminente). Per una grande banca d'affari, quando un'economia è in espansione è il momento di “curare il cliente”, ovvero di cercare di creare una ricchezza più diffusa possibile nella società. Perché? Semplicemente perché più saranno cresciuti i beni materiali, la ricchezza reale di quella determinata società, più ci sarà da arraffare nel momento della crisi.

Adesso è il momento della crisi. È il momento in cui la ricchezza creata nel periodo di espansione viene redistribuita verso l'alto, in cui le banche smettono di emettere credito ma traggono profitto dall'enorme debito accumulato negli anni; in pratica convertono il debito, frutto della somma degli interessi della moneta da esse stesse emessa, in beni materiali.

Per questo le crisi sono cicliche: l'economia capitalista ha bisogno di rigenerarsi di volta in volta, di azzerare il debito accumulato, di distruggere i diritti acquisiti dai lavoratori, creare manodopera a basso costo e povertà diffusa per poi ripartire da zero. E le banche sanno esattamente come muoversi in ogni momento. Sanno quando è il momento di favorire la crescita, quando quello di fare sciacallaggio. Lo sgomento di Smith nasce probabilmente dall'interpretare in maniera lineare quel frammento di circonferenza che si è trovato a vivere.
di Andrea Degl'Innocenti

15 marzo 2012

Crollano i consumi? Ecco come stiamo cambiando

I consumi di benzina scendono del 20 per cento rispetto all'anno passato, mentre la spesa alimentare delle famiglie torna ai livelli del 1981. I giornali ne parlano con toni drammatici, ma leggendo fra le pieghe delle notizie si colgono incoraggianti segnali di cambiamento. Per una volta, sembra proprio che la crisi possa rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio per il sistema che l'ha generata.

consumi benzina
Il crollo dei consumi è veramente dovuto solo alla crisi? Oppure intervengono anche fattori di cambiamento culturale e sociale negli italiani?

“Se spostarsi diventa un lusso” titola la Stampa. “Cibo, bevande, tabacco, spendiamo come nel 1981”, gli fa eco il Corriere della Sera. Ovunque il calo dei consumi degli italiani viene dipinto con le tinte fosche di un evento drammatico. Ma l'argomento merita almeno qualche considerazione più approfondita.

A colpire l'immaginario dei lettori è spesso il concetto di recessione. La crisi ci sta trascinando all'indietro di 30 anni, affermano i giornali. Ma l'idea di recessione è legata ad una visione lineare della storia, che a sua volta è una “invenzione” relativamente recente. Nelle culture popolari, tradizionali, rurali, la storia è piuttosto ciclica, scandita dall'eterno ritorno dei giorni, delle stagioni, delle ere geologiche.

Il concetto di progresso ha rotto la ciclicità della storia. Un concetto che, pur partorito oramai duemila anni fa dall'etica cristiana e dall'idea di salvezza, ha trovato il suo successo solo in tempi recenti, quando lo sviluppo della tecnica ha permesso all'uomo di affrancarsi dalle leggi naturali. Dunque il fatto di tornare indietro non dovrebbe di per sé spaventarci, ed è più “naturale” di quanto immaginiamo.

Certo, si obbietterà, questo “regresso” non è frutto di una maturazione culturale delle persone ma di una crisi che sta riducendo alla povertà una fetta sempre maggiore della popolazione. È vero, e aggiungo che tale crisi non distrugge le ricchezze ma le redistribuisce verso l'alto. Distrugge la classe media, aumenta la concentrazione, arricchisce infinitamente le grandi banche e le corporazioni. E probabilmente – data la natura ciclica del capitalismo – prepara il campo per una nuova crescita. Crea aree immense di mano d'opera a buon mercato; fa piazza pulita per poter ripartire da zero.

Ma è altrettanto vero che è nei momenti difficili che si prendono le decisioni più drastiche, che si affrontano quei cambiamenti necessari che gli agi e il benessere ci portavano a rimandare ad un domani indefinito.

Analizziamo meglio i dati cui si accennava all'inizio. I consumi di carburanti hanno avuto, nel febbraio 2012, un crollo del 20 per cento rispetto allo stesso mese del 2011. Pur facendo la tara delle nevicate che hanno bloccato a lungo strade e autostrade, degli scioperi dei trasportatori che incidono di diversi punti sui consumi di benzina, il dato resta comunque impressionante.

Ma è un male? A parte il sicuro beneficio per l'ambiente, ci sono altri dati che fanno supporre che al calo dei consumi dei carburanti non abbia corrisposto un peggioramento degli stili di vita degli italiani. Ad esempio sta riscontrando un successo crescente il carpooling. Sempre più persone scelgono di condividere la propria auto con altri passeggeri, al tempo stesso risparmiando, inquinando meno, e rendendo più piacevole il viaggio.

Negli ultimi due anni gli utenti italiani sono aumentati del 200 per cento, i siti che offrono il servizio si sono moltiplicati (da carpooling.it a roadsharing.it a postinauto.it). Si calcola – dati del sito postoinauto.it - che con le auto condivise il costo medio per la benzina sia di 5 euro per 100 chilometri, e si risparmi fino al 67 per cento sulla benzina e il 50 per cento sul completo costo della trasferta.

E che dire del crollo della spesa degli italiani, ripiombati secondo il Corriere al 1981? Anche qui il calo dei consumi alimentari avviene in un contesto di partenza caratterizzato dall'eccesso. Se dalla dieta degli italiani spariscono alcuni cibi sovraconsumati – si pensi al consumo di carne – non può certo essere considerato un dramma.

Non sarà che l'improvvisa necessità ha fatto aprire d'un tratto gli occhi agli italiani? Possibile che ad un assottigliarsi dei portafogli stia corrispondendo un arricchimento delle coscienze? A dare adito ad interrogativi di questo genere arriva anche una ricerca del Censis sui “Valori degli italiani” che testimonia il netto calo dell'individualismo ed un ritorno alla ricerca di collettività, di nuove forme di aggregazione sociale.

Gli italiani abbandonano un modello basato sulla competizione e cercano di elaborare un senso collettivo. E, udite udite, bocciano il consumismo. Il 57 per cento pensa che “al di là dei concreti problemi di reddito, nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno intenso rispetto a qualche anno fa”.

Sembra che la crisi stia innescando un meccanismo di reazione - involontario e non calcolato – a quel modello sociale neoliberista che proprio dalla crisi, come da ogni shock, immaginava di trarre il massimo beneficio. Gli italiani – e come loro molti altri cittadini d'Europa e del mondo – sembrano risvegliarsi da quel torpore in cui anni di benessere a buon mercato li aveva fatti precipitare. Che la crisi, una volta tanto, possa rivoltarsi contro il sistema che l'ha generata?
di Andrea Degl'Innocenti

14 marzo 2012

Monti: la mutazione antropologica degli italiani

1) Il 2011 sarà ricordato come un anno decisivo per l’Italia: un anno cioè in cui si sono determinati mutamenti rilevanti nella struttura della società italiana. Nel 2011, in conseguenza dell’aggravarsi della crisi del debito e dell’innalzamento dello spread, a seguito del declassamento delle agenzia di rating Moody’s e Standard & Poor’s, l’Italia ha subito dapprima il commissariamento della sua politica economica da parte della BCE, poi l’imposizione da parte del presidente Napolitano, con procedure di dubbia costituzionalità, di un governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’unico inesorabile mandato di varare le manovre economiche imposte dalla UE. Secondo l’orientamento della grande stampa e della quasi totalità dei media, “l’annus horribilis” 2011 si è concluso con un lieto fine: Mario Monti sarebbe dunque il nuovo uomo della provvidenza, l’ultimo in ordine storico, giunto per grazia bancaria a salvare l’Italia dal baratro del default finanziario e ad imporre una trasformazione sistemica in senso liberista della società italiana. La grande sconfitta è stata la politica. I grandi partiti, PdL e PD, già “mortalmente” contrapposti, si sono omologati nel sostegno incondizionato a Monti. Quest’ultimo ha infatti varato manovre impopolari che nessun governo precedente avrebbe potuto realizzare, se non con la prospettiva di perdere vaste fasce del proprio consenso elettorale. L’unica polemica tra destra e sinistra, consiste attualmente nel rivendicare a sé il merito del sostegno incondizionato ed entusiasta a Monti, di aver già previsto e proposto senza successo manovre similari. La continuità tra Monti e i governi precedenti è evidente. Destra e sinistra rivelano dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, la loro gemellare e speculare identità nei programmi e nella prassi politica: la loro unica funzione da 20 anni a questa parte è stata quella di legittimare in Italia l’ordine economico e geopolitico occidentale. Ma il sostegno di PdL e PD a Monti ha accentuato la divaricazione già evidente tra classe politica e paese reale. Monti, al di là delle manifestazioni di protesta anche accentuate, oggi gode del consenso della maggioranza degli italiani, che, atterriti dallo spettro di una Italia condannata a seguire il destino della Grecia, giudicano positivamente l’operato del governo Monti, nella misura in cui specularmente rifiuta i politici e i partiti, la loro corruzione, la loro incapacità ad affrontare la crisi economica. Il governo Monti, dunque rappresenterebbe il superamento della vecchia dicotomia destra/sinistra? Sembrerebbe di si, dal momento che entrambe convergono nella condivisione dei contenuti delle manovre “lacrime e sangue”, rivelando un insospettabile senso di responsabilità nazionale, un “patriottismo” finanziario-liberista che annulla tutte le contrapposizioni in nome della “salvezza nazionale”. In realtà, non è nei programmi del governo Monti realizzare un nuovo progetto di riforme politiche, semmai esso porta a compimento un processo di disgregazione della politica italiana e la sua omologazione alle direttive finanziarie UE, perpetrata attraverso l’azzeramento di ogni dialettica di ogni contrapposizione politica. In effetti il governo Monti non ha un programma politico, né vuole essere rappresentativo di una fantomatica unità nazionale. E’ un governo “non politico”, composto da tecnici e come tale, non ha programmi progettuali, ma di mera attuazione delle direttive della BCE, in accordi con i gruppi finanziari di oltre Oceano, quali Goldman Sachs. Il governo Monti non svolge quindi nemmeno una politica economica. Che le misure di smantellamento dello stato sociale, di aggravio della pressione fiscale, di riforma in senso liberista della legislazione sul lavoro comportino cali di produzione, disoccupazione, recessione generalizzata, non è un fatto rilevante per Monti & C: le conseguenze sull’economia reale e l’impatto sociale delle manovre sono temi estranei alla azione governativa. Monti non è un premier eletto e non ha responsabilità dinanzi agli elettori: il suo mandato è limitato alle problematiche finanziarie connesse allo spread del debito pubblico e come tale, è tenuto a rispondere solo alle direttive sovranazionali della UE. La classe politica si è omologata a Monti non per responsabilità, ma per allinearsi alla sua deresponsabilizzazione, che inevitabilmente comporta l’abiura cosciente e volontaria della sovranità nazionale, ormai ridotta a fardello inutile e rischioso nel mondo finanziarizzato occidentale.

I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcera¬zione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. E’ il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992. Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani. Vorrei far nota¬re quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente inde¬boliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cade¬re le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.
La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.
E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli ¬di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la di¬cotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere iner¬ziale è ancora forte. Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale.
Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per derespon¬sabilizzazione. Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecito¬rio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, i1 linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne du¬bito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!
L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!

2) Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone. Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza. Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli. Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi. Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese. Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.

Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il lo¬ro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!
Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.
Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”. In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose). In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tut¬ti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza. In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzar¬si. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filoso¬fo e scienziato sociale.
Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluziona¬ria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovescia¬mento.
Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno di¬rigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmen¬te smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.. Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura. Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (fami¬glia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).
E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.
La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filo¬sofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).
Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo. Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscien¬za e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni. Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.

3) In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca. La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico. Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi. La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo. La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati. Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.

Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).
L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.
Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è. Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.
L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiama¬vano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.
Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo. Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.
Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove. Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.

4) La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente. Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti. Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”. L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica. Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkosy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti. Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA. Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkosy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA. Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico - finanziario, ma anche geopolitico: so vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane. Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.

Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamenta¬le.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passas¬se praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”. E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi