24 marzo 2009

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009

23 marzo 2009

La più grande truffa della Storia



asrob

In vasti settori dell’opinione pubblica americana c’è oggi la tendenza a ritenere Bush il colpevole della crisi che ha messo in ginocchio gli USA. Non vi è alcun dubbio che la presidenza di Bush junior sia stata una delle peggiori disgrazie capitate a questa giovane nazione. Sarà evidentemente la Storia a giudicarlo, anche se è già lecito dire che Bush il giovane è stato sicuramente il peggiore presidente della storia americana, certamente come immagine ma forse non come contenuti, almeno per quanto riguarda l’attuale crisi economica e finanziaria, perché per cercare di spiegare la più grande truffa finanziaria messa in atto da quando l’uomo ha cominciato a camminare da bipede, bisogna andare indietro a tempi pre-bushiani.

Nel 1980 il grande predicatore fu eletto presidente degli USA. Ronald Reagan era il classico discendente dei primi “pellegrini”. quelli cioè che di giorno massacravano gli Indiani e la sera si battevano il petto con la Bibbia. Uno dei suoi motti era:«L’intervento dello Stato non è la soluzione ai nostri problemi, anzi è proprio la presenza dello Stato ad essere il problema».

Gli sciacalli “banchieri” e “finanzieri” capirono che il cowboy era disposto a lasciare incustodito il pollaio e si misero quindi al lavoro. La loro strategia era semplice. Individuare il punto debole del recinto e convincere il cowboy a togliere i paletti che sostenevano il recinto di protezione. Una volta fatto ciò, la festa sarebbe stata assicurata. Il punto d’ingresso del pollaio fu individuato nelle Savings and Loans Banks, le piccole ma solide banche dell’immensa provincia Americana.

Nel 1831 a Frankford, Pennsylvania, 37 individui fondarono la Oxford Provident Building and Loan. Ognuno dei 37 soci pagò 5 dollari per un’azione e continuò a versare 3 dollari al mese. Non era una vera banca perché non vi erano clienti e non veniva pagato alcun interesse sul denaro che i soci versavano. Quando però la banca ebbe abbastanza soldi in cassa, fece un prestito di 500 dollari a qualcuno il quale si impegnò ad usare il denaro per costruire una casa. Da quel momento le due idee di risparmio e prestito si sposarono e nacquero le Savings and Loans Banks. Attiravano denaro promuovendo il risparmio e rimettevano in circolo il denaro stesso prestandolo all’Americano medio che voleva coronare il centro del suo “american dream”, possedere una casa.

Quando la grande crisi del 1929 decimò queste piccole banche il governo decise di intervenire con una serie di misure atte a regolamentare l’industria bancaria per proteggere i cittadini risparmiatori da ulteriori catastrofi.

Gli interventi governativi cominciarono sotto il presidente Hoover e culminarono sotto Roosevelt con la promulgazione nel 1933 del Glass-Seagall Act. Con esso si faceva una distinzione netta e precisa tra “commercial bank” e “investment bank”.

Questo perché c’era motivo di credere che proprio gli sconfinamenti delle banche commerciali in operazioni di investimenti troppo rischiose e spesso poco chiare, erano stati fra le cause primarie del disastro finanziario del 1929. Per quanto riguardava le casse di risparmio furono messi dei paletti che ne limitavano fortemente i movimenti. Non potevano aprire conti correnti ma solamente libretti di risparmio. C’era un tetto sul tasso d’interesse pagato ai risparmiatori così come vi era un massimo tasso d’interesse che le banche potevano caricare sui prestiti, i quali erano fatti solamente per l’acquisto di immobili a scopo residenziale e avevano una durata media trentennale.

Le piccole Savings and Loans Banks che offrivano un ferro da stiro o un frullatore a chi apriva un conto nelle loro banche trotterellarono con limitati guadagni ma praticamente senza problemi fino alla fine degli anni settanta, quando un notevole aumento dell’inflazione le mise in difficoltà.
Ma considerando le restrizioni in atto vi erano poche strade da percorrere e una di queste era naturalmente quella di convincere il governo, attraverso le giuste lobby, ad aprire i cancelli. E così tra il 1980 e il 1982 ci fu la catastrofe della “deregulation” che segnò l’inizio della fine delle Savings and Loans banks.

Il tetto dei tassi di interesse attivo e passivo fu tolto, e fu consentito alle banche di aprire conti correnti.

Prima della “deregulation” il 5% dei beni della banca doveva essere mantenuto come capitale liquido per fare fronte a eventuali perdite, ma con la “deregulation” questo importantissimo paletto fu dimezzato. In origine le casse di risparmio quando emettevano un prestito dovevano spalmare la commissione ricevuta in un periodo di 10 anni, ma nel 1981 Reagan insediò alla Federal Home Loan Bank Board un certo Dick Pritt il quale sradicò questo altro importante paletto consentendo alla banche di scrivere come attivi nei loro libri contabili le commissioni nel momento stesso in cui emettevano i prestiti.

Nello stesso 1981 il Congresso USA diede un’altra mano ai lupi in agguato. Le Savings and Loans Banks avevano in cassaforte una montagna di mutui trentennali che praticamente collezionavano polvere senza portare reali guadagni alle banche stesse. Il governo intervenne con una legge che consentiva alle casse di risparmio di vendere i mutui giacenti in cassaforte.

Così i “big” di Wall Street scesero in campo. Compravano i mutui dalle casse di risparmio, li combinavano come se fossero ingredienti di una torta e quando questa era pronta la rivendevano a fette come se fossero obbligazioni. Le casse di risparmio vendevano i vecchi mutui con uno sconto del 35% per avere capitale fresco da mettere in investimenti più lucrativi. E infatti si arrivò al 1982 con l’approvazione del “Garn-St.Germain Act”, grazie al quale si aprirono i mari ai pirati della finanza. Da quel momento infatti le casse di risparmio erano autorizzate ad emettere carte di credito e sopratutto potevano a quel punto fare qualsiasi tipo di prestito per qualsiasi finalità.

Il recinto era finalmente aperto e la festa iniziò. Le Savings and Loans Banks cominciarono a fare prestiti a destra e a sinistra, sopra e sotto, senza nessun controllo da parte delle autorità preposte e sopratutto senza preoccuparsi della solvibilità dei prestiti stessi. Esse cominciarono allora a finanziare tutto, acquisto di terreni, proprietà commerciali di tutti i tipi e soprattutto finanziamenti per la costruzione del nuovo simbolo del “made in USA” e cioè il “Mall”, lo spersonalizzato ed anonimo conglomerato di negozi al coperto che stava diventando il punto di riferimento della famiglia americana.

I finanziamenti si moltiplicarono esponenzialmente, tanto che nessuno si preoccupava dei prestiti che diventavano inesigibili dopo pochi mesi.

Le commissioni ricavate dai nuovi prestiti andavano a coprire parte delle perdite e in più il mercato immobiliare stava attraversando un periodo di prezzi artificialmente gonfiati, sopratutto in Texas, Arizona e Colorado.
Nel 1983 però Edwin Gray prese il posto di Dick Pratt al timone della Federal Home Loan Bank Board. Quello che gli si presentò agli occhi dopo un primo superficiale esame della situazione fu orrendo.
La catastrofe non poteva essere lontana ma sicuramente non c’era né il tempo né la volontà politica, essendo troppo forti le lobby bancarie, per potere fare retromarcia. Le Savings and Loans Banks cominciarono a cadere come uccelli morti fino all’8 Giugno 1988, quando una delle più grandi e famose, la Silverado di Denver, colò a picco portandosi dietro tante altre. Il costo per i contribuenti non fu mai esattamente quantificato, ma tutti sono concordi che si trattò di una cifra vicina ai 500 miliardi di dollari (valore dei primi anni novanta). Neil Bush, fratello di George W, era coinvolto nella vicenda Silverado, ma papà Bush senior aggiustò tutto. E così, mentre l’americano medio pagava, i lupi dopo la lauta festa si ritirarono nei loro rifugi dorati in attesa della prossima occasione.

La lezione era chiara. Dalla “deregulation” del governo Reagan era nata una vera e propria orgia di speculazioni, di profitti illeciti, un enorme saccheggio delle risorse del paese, il tutto nel nome della democrazia e del libero mercato. Si pensava che i nuovi governi fossero più attenti nel custodire il pollaio e invece il peggio doveva ancora arrivare.

Sì, perché negli anni novanta i lupi ritornarono più affamati di prima e più forti che mai. E questa volta scesero in campo i giocatori importanti, i grossi calibri, quelli capaci di decidere il risultato in una finale di campionato del mondo. Questi big decisero infatti che era giunto il momento di cancellare quel pezzo di legislazione comunista che andava sotto il nome di “Glass-Steagall Act del 1933”, che era stato uno dei piloni portanti del New Deal di Roosevelt per quanto riguardava la ristrutturazione del sistema finanziario americano picconato dalla crisi del 1929.
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Questa legge in pratica proibiva qualsiasi interconnessione tra banche, agenzie di cambio e intermediazioni e compagnie di assicurazioni. In più separava nettamente i campi di pertinenza tra banche commerciali e banche d’investimento.
Negli anni novanta, a partire dalla fine del 1992, i democratici con Clinton erano al comando e nessuno pensava che un pezzo così importante di legislazione democratica potesse essere stravolta proprio da una amministrazione democratica.
Ma la mafia sa che si può fare “business” con qualsiasi governo, indipendentemente dalla sua colorazione politica, basta avere le giuste chiavi.

Solamente nel 1997 e nel 1998 le lobby di banche e assicurazioni spesero più di 300 milioni di dollari in contributi diretti ai partiti Democratico e Repubblicano nonché in contributi alle campagne elettorali di importanti deputati e senatori dei due partiti. Il 6 aprile del 1998 ci fu la prova generale e cioè la fusione tra Citibank, la più grande banca di New York, e Travelers Group, l’immensa compagnia di assicurazioni che controllava tra l’altro Salomon Smith Barney, la famosissima agenzia di intermediazione. Questo matrimonio era una chiara violazione della legge promulgata nel 1933 (la sunnominata Glass-Seagall Act) e ancora in vigore nel 1998.

Ma quando questa chiara violazione della legge fu fatta notare a Sandy Weill, presidente del nuovo gruppo Citigroup, egli rispose dicendo che col tempo la legislazione sarebbe cambiata e che lui in discussioni ad alto livello aveva avuto assicurazioni che non ci sarebbe stato alcun problema. E infatti nel 1999 avvenne quello che Sandy Weill aveva preannunciato. Il 22 Ottobre 1999 si attuò uno dei più grandi e meschini “inciuci” della storia parlamentare americana. Solo che in USA si chiama “bipartisan legislation”.

Con la totale approvazione democratica e repubblicana fu firmato il “Financial Services Modernization Act of 1999” che praticamente cancellava il “Glass-Steagall Act of 1933”.

Il «Wall Street Journal» gongolava nel dire che finalmente L’America si stava scrollando di dosso i fantasmi del 1929, ma quasi tutti gli addetti ai lavori sapevano che si stava iniziando un viaggio pericolosissimo, perché questo sconvolgimento delle regole stava creando una diabolica alleanza tra banche, compagnie di assicurazioni e le “madrasse” della pirateria finanziaria meglio conosciute come gli “stock market”.

Infatti la borsa non ubbidisce più alle leggi di domanda e offerta e non dipende dalle forze del libero mercato. Lo stock market è invece manovrato dagli sciacalli della finanza i quali hanno solamente l’interesse di rubare quanto più possibile e scaricare i cadaveri nelle mani del governo. E d’altra parte è anche giusto che deputati e senatori facciano la loro parte dato che in fin dei conti hanno intascato un mare di soldi dalle lobby per svendere gli interessi dei cittadini.

Il meccanismo messo in atto ultimamente è stato più meno lo stesso di quello attuato durante la crisi delle Savings and Loans Banks.
Le differenze ci sono ma non cambiano la sostanza dell’operazione, cioè la truffa.

Innanzi tutto l’impiego da parte di Wall Street di veri e propri matematici e ingegneri finanziari i quali hanno sfornato una serie di prodotti impossibili da decifrare, alieni a qualsiasi modello economico ma sopratutto così volatili nella loro messa in opera e nel loro legame con li mercati di borsa che praticamente sono incontrollabili anche da parte dei più esperti broker.
Seconda differenza è che questa truffa nata negli USA, ha generato una quantità di prodotti tossici così grande che i “Wallstreettini” hanno dovuto usare la componente G della truffa e cioè la Globalizzazione, per esportare quanti più rifiuti tossici possibili a tutti coloro che - sciacquandosi ogni mattina la bocca con le parole globalità e liberalizzazione - consapevolmente hanno accettato l’invito americano a truffare la gente onesta.

Ultima differenza comunque importantissima è la cifra. È chiaro che non sarà mai possibile quantificarla, ma è altrettanto chiaro che parliamo di numeri colossali, nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari. Il risultato finale è che i lupi sono scappati ancora una volta o continuano a viaggiare con i jet privati da un posto all’altro, mentre i governanti chiedono sacrifici a tutti per seppellire i morti e ripulire l’ambiente.
La classe operaia invece che andare in paradiso è già sprofondata all’inferno, mentre la borghesia sta annegando in un mare di debiti che prima o poi la sommergerà completamente, probabilmente prima della prossima truffa.


di Ugo Natale

L'impero britannico e la politica iperinflazionistica

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Dopo gli annunci e discussioni pubbliche delle scorse settimane, la Banca d'Inghilterra ha lanciato la sua politica di "quantitative easing", cioè di stampare denaro. Il 5 marzo il Tesoro ha autorizzato una prima emissione di 150 miliardi di sterline, 75 dei quali (85 miliardi di euro) sono già in stampa. Il nuovo denaro servirà per acquistare buoni del tesoro e titoli delle banche private. Naturalmente, sia la Banca d'Inghilterra che il Tesoro sono ben consapevoli delle conseguenze dell'emissione di moneta. Essi hanno semplicemente deciso di generare inflazione, allo scopo di ridurre il debito svalutando la moneta.

Invece di riconoscere l'insolvenza del sistema e congelare i titoli senza valore, i cosiddetti "rifiuti tossici" generati dalla speculazione, Londra ha deciso di avviare un processo che porterà all'iperinflazione, come nel 1923 in Germania ma stavolta su scala mondiale. Che farà la Banca Centrale Europea? Finora essa ha seguito a ruota la Banca d'Inghilterra nel taglio dei tassi. Il 5 marzo, entrambe li hanno tagliati ulteriormente, a 1,5% (BCE) e 0,5% (Bank of England).

Non tutti sono ciechi di fronte alle conseguenze della folle politica britannica. Alcuni articoli di giornale hanno ammonito del fatto che il "quantitative easing" può condurre ad una "iperinflazione in stile Zimbabwe". Il tasso d'inflazione del paese africano ha toccato recentemente l'11,3 milioni per cento! L'iperinflazione, come nella Germania di Weimar, significa la distruzione dei risparmi e del potere d'acquisto della popolazione, mentre l'oligarchia finanziaria mantiene il potere sui valori fisici, come le merci e le materie prime, l'energia e le capacità produttive. L'attuale processo di ricolonizzazione dell'Africa ne è testimone.

Dallo scoppio della crisi finanziaria sono trascorsi diciannove mesi e decine di migliaia di miliardi sono stati versati nel sistema nella forma di pacchetti di salvataggio, programmi congiunturali e iniezioni di liquidità, senza sortire alcun effetto. Le banche, gli hedge funds e le compagnie d'assicurazione sono stati mantenuti in vita come zombies, per sopravvivere fino al salvataggio successivo. Come nel caso dell'AIG, l'ex colosso assicurativo americano, che il governo USA ha dovuto salvare per la terza volta dopo l'annuncio di 100 miliardi di perdite il 2 marzo. E anche questo salvataggio, come gli altri, andrà in fumo ancor prima di comparire sui bilanci. Un rapporto riservato dell'AIG preparato per il governo USA indica che AIG ha venduto 375 milioni di Credit Default Swaps, polizze assicurative contro il rischio d'insolvenza, per un totale di 19 mila miliardi di dollari. "Come si fa a rifinanziare quella cifra?" ha commentato un ex funzionario della SEC all'EIR. "Non credo che esista un modo per sbrogliare la matassa", ha aggiunto. Con le azioni bancarie in caduta libera, la prossima crisi finanziaria è dietro l'angolo. Nel frattempo, l'economia fisica mondiale si è avvitata. A gennaio, le esportazioni giapponesi sono crollate del 45,7% su base annua, e la situazione in Europa non è migliore.

Ogni giorno in più che il sistema ormai fallito viene tenuto in piedi significa la disintegrazione di una ulteriore porzione dell'economia fisica mondiale. "La linea di battaglia non potrebbe essere più chiara", ha scritto Helga Zepp-LaRouche in un articolo il 6 marzo. "Da una parte ci sono gli interessi finanziari che hanno finora profittato dal sistema della globalizzazione, i quali vogliono salvare i loro assets a tutti i costi, compresa l'iperinflazione. Dall'altra, ci sono gli interessi di 6,5 miliardi di popolazione mondiale, la cui sopravvivenza dipende dal salvataggio delle capacità industriali dell'economia reale e non dei rifiuti tossici di investitori che hanno speculato". Quegli assets non vanno salvati, ma congelati in una riorganizzazione fallimentare del sistema come LaRouche propone da tempo.
by movisol

24 marzo 2009

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009

23 marzo 2009

La più grande truffa della Storia



asrob

In vasti settori dell’opinione pubblica americana c’è oggi la tendenza a ritenere Bush il colpevole della crisi che ha messo in ginocchio gli USA. Non vi è alcun dubbio che la presidenza di Bush junior sia stata una delle peggiori disgrazie capitate a questa giovane nazione. Sarà evidentemente la Storia a giudicarlo, anche se è già lecito dire che Bush il giovane è stato sicuramente il peggiore presidente della storia americana, certamente come immagine ma forse non come contenuti, almeno per quanto riguarda l’attuale crisi economica e finanziaria, perché per cercare di spiegare la più grande truffa finanziaria messa in atto da quando l’uomo ha cominciato a camminare da bipede, bisogna andare indietro a tempi pre-bushiani.

Nel 1980 il grande predicatore fu eletto presidente degli USA. Ronald Reagan era il classico discendente dei primi “pellegrini”. quelli cioè che di giorno massacravano gli Indiani e la sera si battevano il petto con la Bibbia. Uno dei suoi motti era:«L’intervento dello Stato non è la soluzione ai nostri problemi, anzi è proprio la presenza dello Stato ad essere il problema».

Gli sciacalli “banchieri” e “finanzieri” capirono che il cowboy era disposto a lasciare incustodito il pollaio e si misero quindi al lavoro. La loro strategia era semplice. Individuare il punto debole del recinto e convincere il cowboy a togliere i paletti che sostenevano il recinto di protezione. Una volta fatto ciò, la festa sarebbe stata assicurata. Il punto d’ingresso del pollaio fu individuato nelle Savings and Loans Banks, le piccole ma solide banche dell’immensa provincia Americana.

Nel 1831 a Frankford, Pennsylvania, 37 individui fondarono la Oxford Provident Building and Loan. Ognuno dei 37 soci pagò 5 dollari per un’azione e continuò a versare 3 dollari al mese. Non era una vera banca perché non vi erano clienti e non veniva pagato alcun interesse sul denaro che i soci versavano. Quando però la banca ebbe abbastanza soldi in cassa, fece un prestito di 500 dollari a qualcuno il quale si impegnò ad usare il denaro per costruire una casa. Da quel momento le due idee di risparmio e prestito si sposarono e nacquero le Savings and Loans Banks. Attiravano denaro promuovendo il risparmio e rimettevano in circolo il denaro stesso prestandolo all’Americano medio che voleva coronare il centro del suo “american dream”, possedere una casa.

Quando la grande crisi del 1929 decimò queste piccole banche il governo decise di intervenire con una serie di misure atte a regolamentare l’industria bancaria per proteggere i cittadini risparmiatori da ulteriori catastrofi.

Gli interventi governativi cominciarono sotto il presidente Hoover e culminarono sotto Roosevelt con la promulgazione nel 1933 del Glass-Seagall Act. Con esso si faceva una distinzione netta e precisa tra “commercial bank” e “investment bank”.

Questo perché c’era motivo di credere che proprio gli sconfinamenti delle banche commerciali in operazioni di investimenti troppo rischiose e spesso poco chiare, erano stati fra le cause primarie del disastro finanziario del 1929. Per quanto riguardava le casse di risparmio furono messi dei paletti che ne limitavano fortemente i movimenti. Non potevano aprire conti correnti ma solamente libretti di risparmio. C’era un tetto sul tasso d’interesse pagato ai risparmiatori così come vi era un massimo tasso d’interesse che le banche potevano caricare sui prestiti, i quali erano fatti solamente per l’acquisto di immobili a scopo residenziale e avevano una durata media trentennale.

Le piccole Savings and Loans Banks che offrivano un ferro da stiro o un frullatore a chi apriva un conto nelle loro banche trotterellarono con limitati guadagni ma praticamente senza problemi fino alla fine degli anni settanta, quando un notevole aumento dell’inflazione le mise in difficoltà.
Ma considerando le restrizioni in atto vi erano poche strade da percorrere e una di queste era naturalmente quella di convincere il governo, attraverso le giuste lobby, ad aprire i cancelli. E così tra il 1980 e il 1982 ci fu la catastrofe della “deregulation” che segnò l’inizio della fine delle Savings and Loans banks.

Il tetto dei tassi di interesse attivo e passivo fu tolto, e fu consentito alle banche di aprire conti correnti.

Prima della “deregulation” il 5% dei beni della banca doveva essere mantenuto come capitale liquido per fare fronte a eventuali perdite, ma con la “deregulation” questo importantissimo paletto fu dimezzato. In origine le casse di risparmio quando emettevano un prestito dovevano spalmare la commissione ricevuta in un periodo di 10 anni, ma nel 1981 Reagan insediò alla Federal Home Loan Bank Board un certo Dick Pritt il quale sradicò questo altro importante paletto consentendo alla banche di scrivere come attivi nei loro libri contabili le commissioni nel momento stesso in cui emettevano i prestiti.

Nello stesso 1981 il Congresso USA diede un’altra mano ai lupi in agguato. Le Savings and Loans Banks avevano in cassaforte una montagna di mutui trentennali che praticamente collezionavano polvere senza portare reali guadagni alle banche stesse. Il governo intervenne con una legge che consentiva alle casse di risparmio di vendere i mutui giacenti in cassaforte.

Così i “big” di Wall Street scesero in campo. Compravano i mutui dalle casse di risparmio, li combinavano come se fossero ingredienti di una torta e quando questa era pronta la rivendevano a fette come se fossero obbligazioni. Le casse di risparmio vendevano i vecchi mutui con uno sconto del 35% per avere capitale fresco da mettere in investimenti più lucrativi. E infatti si arrivò al 1982 con l’approvazione del “Garn-St.Germain Act”, grazie al quale si aprirono i mari ai pirati della finanza. Da quel momento infatti le casse di risparmio erano autorizzate ad emettere carte di credito e sopratutto potevano a quel punto fare qualsiasi tipo di prestito per qualsiasi finalità.

Il recinto era finalmente aperto e la festa iniziò. Le Savings and Loans Banks cominciarono a fare prestiti a destra e a sinistra, sopra e sotto, senza nessun controllo da parte delle autorità preposte e sopratutto senza preoccuparsi della solvibilità dei prestiti stessi. Esse cominciarono allora a finanziare tutto, acquisto di terreni, proprietà commerciali di tutti i tipi e soprattutto finanziamenti per la costruzione del nuovo simbolo del “made in USA” e cioè il “Mall”, lo spersonalizzato ed anonimo conglomerato di negozi al coperto che stava diventando il punto di riferimento della famiglia americana.

I finanziamenti si moltiplicarono esponenzialmente, tanto che nessuno si preoccupava dei prestiti che diventavano inesigibili dopo pochi mesi.

Le commissioni ricavate dai nuovi prestiti andavano a coprire parte delle perdite e in più il mercato immobiliare stava attraversando un periodo di prezzi artificialmente gonfiati, sopratutto in Texas, Arizona e Colorado.
Nel 1983 però Edwin Gray prese il posto di Dick Pratt al timone della Federal Home Loan Bank Board. Quello che gli si presentò agli occhi dopo un primo superficiale esame della situazione fu orrendo.
La catastrofe non poteva essere lontana ma sicuramente non c’era né il tempo né la volontà politica, essendo troppo forti le lobby bancarie, per potere fare retromarcia. Le Savings and Loans Banks cominciarono a cadere come uccelli morti fino all’8 Giugno 1988, quando una delle più grandi e famose, la Silverado di Denver, colò a picco portandosi dietro tante altre. Il costo per i contribuenti non fu mai esattamente quantificato, ma tutti sono concordi che si trattò di una cifra vicina ai 500 miliardi di dollari (valore dei primi anni novanta). Neil Bush, fratello di George W, era coinvolto nella vicenda Silverado, ma papà Bush senior aggiustò tutto. E così, mentre l’americano medio pagava, i lupi dopo la lauta festa si ritirarono nei loro rifugi dorati in attesa della prossima occasione.

La lezione era chiara. Dalla “deregulation” del governo Reagan era nata una vera e propria orgia di speculazioni, di profitti illeciti, un enorme saccheggio delle risorse del paese, il tutto nel nome della democrazia e del libero mercato. Si pensava che i nuovi governi fossero più attenti nel custodire il pollaio e invece il peggio doveva ancora arrivare.

Sì, perché negli anni novanta i lupi ritornarono più affamati di prima e più forti che mai. E questa volta scesero in campo i giocatori importanti, i grossi calibri, quelli capaci di decidere il risultato in una finale di campionato del mondo. Questi big decisero infatti che era giunto il momento di cancellare quel pezzo di legislazione comunista che andava sotto il nome di “Glass-Steagall Act del 1933”, che era stato uno dei piloni portanti del New Deal di Roosevelt per quanto riguardava la ristrutturazione del sistema finanziario americano picconato dalla crisi del 1929.
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Questa legge in pratica proibiva qualsiasi interconnessione tra banche, agenzie di cambio e intermediazioni e compagnie di assicurazioni. In più separava nettamente i campi di pertinenza tra banche commerciali e banche d’investimento.
Negli anni novanta, a partire dalla fine del 1992, i democratici con Clinton erano al comando e nessuno pensava che un pezzo così importante di legislazione democratica potesse essere stravolta proprio da una amministrazione democratica.
Ma la mafia sa che si può fare “business” con qualsiasi governo, indipendentemente dalla sua colorazione politica, basta avere le giuste chiavi.

Solamente nel 1997 e nel 1998 le lobby di banche e assicurazioni spesero più di 300 milioni di dollari in contributi diretti ai partiti Democratico e Repubblicano nonché in contributi alle campagne elettorali di importanti deputati e senatori dei due partiti. Il 6 aprile del 1998 ci fu la prova generale e cioè la fusione tra Citibank, la più grande banca di New York, e Travelers Group, l’immensa compagnia di assicurazioni che controllava tra l’altro Salomon Smith Barney, la famosissima agenzia di intermediazione. Questo matrimonio era una chiara violazione della legge promulgata nel 1933 (la sunnominata Glass-Seagall Act) e ancora in vigore nel 1998.

Ma quando questa chiara violazione della legge fu fatta notare a Sandy Weill, presidente del nuovo gruppo Citigroup, egli rispose dicendo che col tempo la legislazione sarebbe cambiata e che lui in discussioni ad alto livello aveva avuto assicurazioni che non ci sarebbe stato alcun problema. E infatti nel 1999 avvenne quello che Sandy Weill aveva preannunciato. Il 22 Ottobre 1999 si attuò uno dei più grandi e meschini “inciuci” della storia parlamentare americana. Solo che in USA si chiama “bipartisan legislation”.

Con la totale approvazione democratica e repubblicana fu firmato il “Financial Services Modernization Act of 1999” che praticamente cancellava il “Glass-Steagall Act of 1933”.

Il «Wall Street Journal» gongolava nel dire che finalmente L’America si stava scrollando di dosso i fantasmi del 1929, ma quasi tutti gli addetti ai lavori sapevano che si stava iniziando un viaggio pericolosissimo, perché questo sconvolgimento delle regole stava creando una diabolica alleanza tra banche, compagnie di assicurazioni e le “madrasse” della pirateria finanziaria meglio conosciute come gli “stock market”.

Infatti la borsa non ubbidisce più alle leggi di domanda e offerta e non dipende dalle forze del libero mercato. Lo stock market è invece manovrato dagli sciacalli della finanza i quali hanno solamente l’interesse di rubare quanto più possibile e scaricare i cadaveri nelle mani del governo. E d’altra parte è anche giusto che deputati e senatori facciano la loro parte dato che in fin dei conti hanno intascato un mare di soldi dalle lobby per svendere gli interessi dei cittadini.

Il meccanismo messo in atto ultimamente è stato più meno lo stesso di quello attuato durante la crisi delle Savings and Loans Banks.
Le differenze ci sono ma non cambiano la sostanza dell’operazione, cioè la truffa.

Innanzi tutto l’impiego da parte di Wall Street di veri e propri matematici e ingegneri finanziari i quali hanno sfornato una serie di prodotti impossibili da decifrare, alieni a qualsiasi modello economico ma sopratutto così volatili nella loro messa in opera e nel loro legame con li mercati di borsa che praticamente sono incontrollabili anche da parte dei più esperti broker.
Seconda differenza è che questa truffa nata negli USA, ha generato una quantità di prodotti tossici così grande che i “Wallstreettini” hanno dovuto usare la componente G della truffa e cioè la Globalizzazione, per esportare quanti più rifiuti tossici possibili a tutti coloro che - sciacquandosi ogni mattina la bocca con le parole globalità e liberalizzazione - consapevolmente hanno accettato l’invito americano a truffare la gente onesta.

Ultima differenza comunque importantissima è la cifra. È chiaro che non sarà mai possibile quantificarla, ma è altrettanto chiaro che parliamo di numeri colossali, nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari. Il risultato finale è che i lupi sono scappati ancora una volta o continuano a viaggiare con i jet privati da un posto all’altro, mentre i governanti chiedono sacrifici a tutti per seppellire i morti e ripulire l’ambiente.
La classe operaia invece che andare in paradiso è già sprofondata all’inferno, mentre la borghesia sta annegando in un mare di debiti che prima o poi la sommergerà completamente, probabilmente prima della prossima truffa.


di Ugo Natale

L'impero britannico e la politica iperinflazionistica

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Dopo gli annunci e discussioni pubbliche delle scorse settimane, la Banca d'Inghilterra ha lanciato la sua politica di "quantitative easing", cioè di stampare denaro. Il 5 marzo il Tesoro ha autorizzato una prima emissione di 150 miliardi di sterline, 75 dei quali (85 miliardi di euro) sono già in stampa. Il nuovo denaro servirà per acquistare buoni del tesoro e titoli delle banche private. Naturalmente, sia la Banca d'Inghilterra che il Tesoro sono ben consapevoli delle conseguenze dell'emissione di moneta. Essi hanno semplicemente deciso di generare inflazione, allo scopo di ridurre il debito svalutando la moneta.

Invece di riconoscere l'insolvenza del sistema e congelare i titoli senza valore, i cosiddetti "rifiuti tossici" generati dalla speculazione, Londra ha deciso di avviare un processo che porterà all'iperinflazione, come nel 1923 in Germania ma stavolta su scala mondiale. Che farà la Banca Centrale Europea? Finora essa ha seguito a ruota la Banca d'Inghilterra nel taglio dei tassi. Il 5 marzo, entrambe li hanno tagliati ulteriormente, a 1,5% (BCE) e 0,5% (Bank of England).

Non tutti sono ciechi di fronte alle conseguenze della folle politica britannica. Alcuni articoli di giornale hanno ammonito del fatto che il "quantitative easing" può condurre ad una "iperinflazione in stile Zimbabwe". Il tasso d'inflazione del paese africano ha toccato recentemente l'11,3 milioni per cento! L'iperinflazione, come nella Germania di Weimar, significa la distruzione dei risparmi e del potere d'acquisto della popolazione, mentre l'oligarchia finanziaria mantiene il potere sui valori fisici, come le merci e le materie prime, l'energia e le capacità produttive. L'attuale processo di ricolonizzazione dell'Africa ne è testimone.

Dallo scoppio della crisi finanziaria sono trascorsi diciannove mesi e decine di migliaia di miliardi sono stati versati nel sistema nella forma di pacchetti di salvataggio, programmi congiunturali e iniezioni di liquidità, senza sortire alcun effetto. Le banche, gli hedge funds e le compagnie d'assicurazione sono stati mantenuti in vita come zombies, per sopravvivere fino al salvataggio successivo. Come nel caso dell'AIG, l'ex colosso assicurativo americano, che il governo USA ha dovuto salvare per la terza volta dopo l'annuncio di 100 miliardi di perdite il 2 marzo. E anche questo salvataggio, come gli altri, andrà in fumo ancor prima di comparire sui bilanci. Un rapporto riservato dell'AIG preparato per il governo USA indica che AIG ha venduto 375 milioni di Credit Default Swaps, polizze assicurative contro il rischio d'insolvenza, per un totale di 19 mila miliardi di dollari. "Come si fa a rifinanziare quella cifra?" ha commentato un ex funzionario della SEC all'EIR. "Non credo che esista un modo per sbrogliare la matassa", ha aggiunto. Con le azioni bancarie in caduta libera, la prossima crisi finanziaria è dietro l'angolo. Nel frattempo, l'economia fisica mondiale si è avvitata. A gennaio, le esportazioni giapponesi sono crollate del 45,7% su base annua, e la situazione in Europa non è migliore.

Ogni giorno in più che il sistema ormai fallito viene tenuto in piedi significa la disintegrazione di una ulteriore porzione dell'economia fisica mondiale. "La linea di battaglia non potrebbe essere più chiara", ha scritto Helga Zepp-LaRouche in un articolo il 6 marzo. "Da una parte ci sono gli interessi finanziari che hanno finora profittato dal sistema della globalizzazione, i quali vogliono salvare i loro assets a tutti i costi, compresa l'iperinflazione. Dall'altra, ci sono gli interessi di 6,5 miliardi di popolazione mondiale, la cui sopravvivenza dipende dal salvataggio delle capacità industriali dell'economia reale e non dei rifiuti tossici di investitori che hanno speculato". Quegli assets non vanno salvati, ma congelati in una riorganizzazione fallimentare del sistema come LaRouche propone da tempo.
by movisol