11 aprile 2009

La guerra infinita contro il mondo prosegue con Obama














31obama-general-patton-warmonger-.jpg

31 marzo 2009

L'annunzio di Obama di proseguire nell'impegno militare di Bush concentrando gli sforzi in Afghanistan e nel vicino Pakistan, ritirando parte delle truppe dall'Irak dove lascia importanti basi militari ed una ambasciata grande quanto Città del Vaticano, dovrebbe fare riflettere molti tra i liberal e la sinistra europea che si erano entusiasmati per il carisma del giovane presidente. Il programma di ritiro parziale dall'Iraq e di aumento degli sforzi militari in Afghanistan era stato reso pubblico da Bush almeno un anno prima della fine del suo mandato. Quindi nessuna novità tranne gli aggiustamenti per di più di secondaria importanza e di carattere propagandistico. In tutto il pianeta la pressione militare e colonialistica degli USA prosegue senza soste. Contro la Cina sono stati scagliati i monaci del Dalai Lama e l'emigrazione tibetana all'estero di sentimenti simili a quella cubana in Florida. La Cina viene molestata con una campagna di diritti civili conculcati promossa da un Dalai Lama che è immemore della durezza del regime dei monaci sulla popolazione tibetana ridotta in schiavitù servi della gleba analfabeti e preda della fame e di ogni malattia.

La motivazione per il rinnovato attacco e l'uso di altri cinquanta mila soldati contro l'Afghanistan è la lotta contro AlQaeda che "minaccia gli Stati Uniti". Se Obama parla della stessa AlQaeda dell'11 settembre ci dovrebbe spiegare come oltre la metà dei suoi concittadini pur storditi da campagne nazionalistiche e patriottiche non crede alla ipotesi dell'attacco terroristico e considerano menzognera la versione data dal Governo e dal Pentagono. E' difficile non sospettare della coincidenza. Ogni volta che gli Usa debbono aggredire, bombardare, distruggere qualche zona del pianeta, qualche giorno prima immancabilmente la figura ieratica di Osama Bin Laden o del suo alter ego appaiono sugli schermi televisivi per minacciare.

Il terrorismo esiste davvero al mondo ed agisce in zone di interesse nevralgico per gli Usa. E' di questi giorni la notizia della presenza di Israele nel Sudan in funzione di sostegno degli scissionisti che vorrebbero spaccarlo in due. L'opinione pubblica mondiale è stata informata per caso della presenza di eserciti privati israeliani in Colombia a sostegno del feroce regime filoamericano che lo governo e contro la resistenza armata dei contadini espropriati dalle multinazionali delle loro terre e rinchiusi a migliaia nelle fetide prigionidel paese.

E' terroristica la presenza degli Usa in Iraq ed in Afghanistan dove hanno introdotto "la democrazia" facendo eleggere due loro agenti a Capi del Governo, sospettati di numerosi crimini. Il Presidente Karzai è stato addirittura esortato ripetutamente da Bush di abbandonare il traffico dell'eroina con il quale si sarebbe arricchito a dismisura. Questi tiranni "eletti democraticamente" cadrebbero un istante dopo l' allontanamento delle truppe di occupazione. La storia li considererà traditori della loro gente e della loro patria dal momento che governano mentre incessanti bombardamenti riducono in macerie le città e provocano montagne di cadaveri tra i civili.

E' estremistico affermare che Obama è come Bush? Si tratta di un giudizio sbagliato o ingeneroso? Non credo proprio. Un milione e mezzo di palestinesi, traditi dal Karzai in pectore locale, sono rinchiusi in una prigione e privati financo del diritto di mangiare, bere, curarsi, muoversi. Ha forse mosso un dito Obama per la loro liberazione? Si è limitato a fare una telefonata ad Abu Mazen ciòè a colui che è rimasto immobile mentre si distruggeva Gaza e si sparava contro la sua popolazione civile.

Dal mio punto di vista è corretto giudicare Obama per ciò che fa nel mondo e non per ciò che fa per i suoi concittadini americani. Darà ai bambini Usa l'assistenza sanitaria? Resterà un fiore all'occhiello in un sistema disumano nel quale chi non ha soldi può crepare come si abitasse la più remota ed arretrata regione del pianeta. I lavoratori americani continueranno ad essere afflitti da sindacati impastoiati da leggi restrittive e che comunque non controllano.

Restituirà in tutto o in parte quanto i finanzieri e le banche americane hanno truffato al mondo intero? Ne dubito molto

di Pietro Ancona



09 aprile 2009

L'abbraccio inscindibile tra Cina e dollaro

Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...

In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.

Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.

L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.

Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.

Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.

Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).

In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.

La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.

L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.

di Federico Rampini

08 aprile 2009

L’Argentina tradisce il dollaro per lo yuan

Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...

In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.

Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.

L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.

Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.

Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.

Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).

In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.

La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.

L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.

di Federico Rampini

11 aprile 2009

La guerra infinita contro il mondo prosegue con Obama














31obama-general-patton-warmonger-.jpg

31 marzo 2009

L'annunzio di Obama di proseguire nell'impegno militare di Bush concentrando gli sforzi in Afghanistan e nel vicino Pakistan, ritirando parte delle truppe dall'Irak dove lascia importanti basi militari ed una ambasciata grande quanto Città del Vaticano, dovrebbe fare riflettere molti tra i liberal e la sinistra europea che si erano entusiasmati per il carisma del giovane presidente. Il programma di ritiro parziale dall'Iraq e di aumento degli sforzi militari in Afghanistan era stato reso pubblico da Bush almeno un anno prima della fine del suo mandato. Quindi nessuna novità tranne gli aggiustamenti per di più di secondaria importanza e di carattere propagandistico. In tutto il pianeta la pressione militare e colonialistica degli USA prosegue senza soste. Contro la Cina sono stati scagliati i monaci del Dalai Lama e l'emigrazione tibetana all'estero di sentimenti simili a quella cubana in Florida. La Cina viene molestata con una campagna di diritti civili conculcati promossa da un Dalai Lama che è immemore della durezza del regime dei monaci sulla popolazione tibetana ridotta in schiavitù servi della gleba analfabeti e preda della fame e di ogni malattia.

La motivazione per il rinnovato attacco e l'uso di altri cinquanta mila soldati contro l'Afghanistan è la lotta contro AlQaeda che "minaccia gli Stati Uniti". Se Obama parla della stessa AlQaeda dell'11 settembre ci dovrebbe spiegare come oltre la metà dei suoi concittadini pur storditi da campagne nazionalistiche e patriottiche non crede alla ipotesi dell'attacco terroristico e considerano menzognera la versione data dal Governo e dal Pentagono. E' difficile non sospettare della coincidenza. Ogni volta che gli Usa debbono aggredire, bombardare, distruggere qualche zona del pianeta, qualche giorno prima immancabilmente la figura ieratica di Osama Bin Laden o del suo alter ego appaiono sugli schermi televisivi per minacciare.

Il terrorismo esiste davvero al mondo ed agisce in zone di interesse nevralgico per gli Usa. E' di questi giorni la notizia della presenza di Israele nel Sudan in funzione di sostegno degli scissionisti che vorrebbero spaccarlo in due. L'opinione pubblica mondiale è stata informata per caso della presenza di eserciti privati israeliani in Colombia a sostegno del feroce regime filoamericano che lo governo e contro la resistenza armata dei contadini espropriati dalle multinazionali delle loro terre e rinchiusi a migliaia nelle fetide prigionidel paese.

E' terroristica la presenza degli Usa in Iraq ed in Afghanistan dove hanno introdotto "la democrazia" facendo eleggere due loro agenti a Capi del Governo, sospettati di numerosi crimini. Il Presidente Karzai è stato addirittura esortato ripetutamente da Bush di abbandonare il traffico dell'eroina con il quale si sarebbe arricchito a dismisura. Questi tiranni "eletti democraticamente" cadrebbero un istante dopo l' allontanamento delle truppe di occupazione. La storia li considererà traditori della loro gente e della loro patria dal momento che governano mentre incessanti bombardamenti riducono in macerie le città e provocano montagne di cadaveri tra i civili.

E' estremistico affermare che Obama è come Bush? Si tratta di un giudizio sbagliato o ingeneroso? Non credo proprio. Un milione e mezzo di palestinesi, traditi dal Karzai in pectore locale, sono rinchiusi in una prigione e privati financo del diritto di mangiare, bere, curarsi, muoversi. Ha forse mosso un dito Obama per la loro liberazione? Si è limitato a fare una telefonata ad Abu Mazen ciòè a colui che è rimasto immobile mentre si distruggeva Gaza e si sparava contro la sua popolazione civile.

Dal mio punto di vista è corretto giudicare Obama per ciò che fa nel mondo e non per ciò che fa per i suoi concittadini americani. Darà ai bambini Usa l'assistenza sanitaria? Resterà un fiore all'occhiello in un sistema disumano nel quale chi non ha soldi può crepare come si abitasse la più remota ed arretrata regione del pianeta. I lavoratori americani continueranno ad essere afflitti da sindacati impastoiati da leggi restrittive e che comunque non controllano.

Restituirà in tutto o in parte quanto i finanzieri e le banche americane hanno truffato al mondo intero? Ne dubito molto

di Pietro Ancona



09 aprile 2009

L'abbraccio inscindibile tra Cina e dollaro

Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...

In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.

Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.

L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.

Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.

Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.

Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).

In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.

La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.

L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.

di Federico Rampini

08 aprile 2009

L’Argentina tradisce il dollaro per lo yuan

Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...

In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.

Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.

L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.

Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.

Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.

Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).

In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.

La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.

L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.

di Federico Rampini