27 maggio 2009
L'ultima bolla : prepariamoci
E' il trucco estremo della finanza: gonfiare a dismisura il debito pubblico. è l’attacco finale alle nostre tasche e alle nostre vite. è ciò che deve indurci a una ribellione a tutto campo
La cosa peggiore che si possa fare in questo momento è continuare a comportarsi come se nulla fosse. Il che significa mantenere lo stesso stile di vita, e di spesa, che si avevano prima che la bolla speculativa mondiale esplodesse. Beninteso, parliamo di chi oggi è ancora in grado di decidere se continuare a vivere come sempre oppure prendere alcuni provvedimenti. Per la fasce più deboli del nostro Paese, per chi già viveva vicino la soglia della povertà economica, per i lavoratori precari senza rinnovo e per chi è finito in cassa integrazione, quando non ha proprio perso il lavoro, quella scelta non c'è e il confronto con gli effetti devastanti ai quali ci ha condotto il nostro modello di sviluppo è già in atto.
A tutti loro, così come a chiunque altro, onestà intellettuale ci impone di suggerire che non è in una ripresa economica che si può sperare. E dunque in un ripristino della situazione anteriore.
Attenzione, però. Senza che se ne parli troppo sui media ufficiali, si è già messo in atto l'unico sistema per non far crollare del tutto il nostro Occidente dal punto di vista economico, ovvero creare una nuova bolla. Ed è esattamente quanto ci si poteva aspettare dai padroni del vapore, piuttosto che sparire subito con quanto rimane nelle loro casse, o essere linciati come probabilmente si meriterebbero.
La bolla che sta crescendo in queste settimane - e che ovviamente prima o poi esploderà - è già stata innescata. Ed è l'ultima possibile prima della fine: si tratta delle bolla pubblica. Ovvero statale.
Dopo il petrolio e la new economy, dopo i mutui subprime e i derivati di Borsa, quale poteva essere l'ultimo elemento su cui speculare a dismisura per sostenere i circuiti finanziari? Lo Stato, naturalmente. L'indebitamento pubblico. Ovvero quello di tutti noi.
Banche e assicurazioni e industrie e posti di lavoro si sta cercando di salvarli attraverso l'emissione incondizionata di denaro. Di denaro senza valore, quando lo si crea, ma onerosissimo poi, quando lo si dovrà restituire. In primo luogo la Fed, che non solo, e da quasi 40 anni, ha svincolato l'emissione di moneta dall’ammontare delle riserve auree, che pure limitavano, almeno in parte, la quantità di denaro circolante, ma che oggi si rifiuta addirittura di rendere pubblico il dato relativo alla quantità reale di moneta stampata. I dollari in circolazione, se non lo sono ancora, stanno rapidamente diventando carta igienica.
A indebitarsi non possono più essere direttamente i cittadini degli Stati, di loro spontanea volontà o facendosi concedere dei prestiti dalle banche secondo la necessità. Ciò non toglie che essi si stiano indebitando, in ogni caso, con il sistema. Senza volerlo. Senza saperlo. Ci stanno pensando i governi al posto loro. Tutto il denaro stampato e messo in circolazione, tutto il debito pubblico dei vari Paesi in crescita esponenziale, è esattamente l'ultima bolla possibile. Ed è esattamente quello che sta accadendo. Si indebita lo Stato, per far fronte alle esigenze attuali, facendo fede sulla possibilità di ripresa di questo modello di sviluppo per poter poi ripagare, un giorno, tale debito.
Solo che questo debito non è solo grande. Sta diventando incommensurabile. E nessuno di noi sarà mai in grado di poterlo ripagare.
Oltre questa bolla c'è il default statale. A fare fallimento, dopo le aziende, dopo le Banche, le Borse e le Assicurazioni, saranno gli Stati.
Siamo, insomma, all'ultima fermata. A meno di sperare di scoprire nuovi pianeti in qualche galassia, e di convincerli a indebitarsi per noi, dunque, economicamente siamo arrivati proprio alla frutta. Dal punto di vista pratico e materiale, almeno per chi è riuscito a mantenere un lavoro, nell'immediato futuro è lecito aspettarsi che non cambi molto. Consumare un po’ meno, visti i ritmi di consumo attuali, non basterà a far scadere troppo il proprio tenore economico di vita. Attenzione: abbiamo scritto economico, perché dal punto di vista psicologico le cose cambiano.
Evitare di cambiare automobile, acquistare vestiti o elettrodomestici in quantità inferiore rispetto a prima, o scegliere un luogo di villeggiatura più vicino alla propria residenza invece di raggiungere un paese esotico, dal punto di vista materiale sposta di poco la situazione. Dal punto di vista psicologico invece, in una società che ha nel solo consumo i motivi di gratificazione, la cosa può avere degli effetti piuttosto importanti. Di questi parleremo in altra occasione: il tema è fondamentale non solo per l'immediato, ma anche per cercare di approdare a un sistema di vita, oltre l'economico, migliore di quello attuale. Merita dunque uno spazio specifico che promettiamo di affrontare a breve. Stavolta continuiamo a concentraci sugli effetti materiali.
Chi ha perso il lavoro e si trova già vicino all'indigenza deve dunque scontrarsi immediatamente anche con la parte materiale, ma per tutti vale la pena riflettere, soprattutto considerando quanto abbiamo detto nello scorso numero della rivista e considerando i probabili sviluppi dell'economia mondiale, su cosa è plausibile aspettarsi e su cosa è vivamente suggerito modificare. In una società con al centro scambi monetari e consumo in grave crisi finanziaria, dipendente dalle fonti energetiche fossili dirette verso l'esaurimento e con sistemi di vita centrati su tali elementi, è ovviamente sulla privazione di denaro che si deve ragionare. Vuoi per mancanza di lavoro, vuoi per aumento dei costi e delle tasse. Dunque la prima cosa da immaginare è come vivere con meno denaro. E con costi sempre maggiori anche delle cose indispensabili.
È lecito aspettarsi, infatti, maggiori perdite di posti di lavoro, meno guadagni monetari, aumento delle tasse, aumento dei costi dei beni primari.
L'Herald Tribune del 23 aprile riportava la notizia secondo la quale l'U.K. sta pensando di incrementare le tasse, per far fronte ai problemi debitori del Paese. Considerando il debito di Stato come fondamentale, visti gli interventi anti crisi di salvataggio della Banche & Co., è probabile dunque aspettarsi - anche per un minore numero di persone in grado di lavorare e dunque di contribuire al gettito fiscale dello Stato - che anche nel nostro Paese assisteremo a un ulteriore incremento delle tasse.
È plausibile inoltre aspettarsi che uno Stato privato del gettito Iva derivante dalla riduzione dei consumi - alla quale si collegherà la chiusura di tanti esercizi commerciali e imprese operanti nei servizi connessi, con ulteriore perdita di posti di lavoro - tenti di incidere sulle tasse con un aumento di quelle dirette. E a maggior ragione, considerando che ci sarà una riduzione di spesa sui beni voluttuari di consumo, non vi sarà altra alternativa che vedere una riduzione dei servizi, con ulteriore perdita dei posti di lavoro, e un aumento dei costi dei beni primari. Si potrà vivere acquistando meno merci non indispensabili, ma si dovrà continuare a mangiare, bere e riscaldarsi.
Su questo preme anche l'incognita inflazione: la continua immissione di denaro da parte delle Banche Centrali nel sistema, per scongiurare la (inevitabile, comunque) caduta delle Borse, porterà fatalmente a una crescita dei prezzi. E dunque all’aumento dei tassi di interesse (mutui, prestiti) e alla caduta del potere d'acquisto sia dei redditi che dei risparmi.
Insomma, ribadiamo: meno denaro a disposizione.
Va da sé, a questo punto, che il fuoco della riflessione debba svolgersi su due binari. Il primo: ipotizzare come vivere con meno denaro. Il secondo: ipotizzare come vivere in modo completamente diverso - sia sul piano psicologico che su quello pratico - rispetto a quanto si è fatto finora.
Un’ulteriore riflessione, che facciamo en passant, riguarda il prevedibile aumento di tensioni sociali e di delinquenza, considerata l'escalation di scontenti ed emarginati.
Molti consigli sono frutto di semplice buon senso. Il difficile non è starli a sentire considerandoli suggerimenti astratti e spunti di riflessione solo teorica. Il difficile è accettarli, riconoscerli, farli propri e, sopra ogni altra cosa, metterli in pratica. Ovvero, condividere l'analisi.
Il treno, in altre (e conosciute) parole, si sta per schiantare. E sta rapidamente arrivando a quell’epilogo. Delle due l'una: rimanere sul treno e aspettare lo schianto, oppure scendere dal treno e cominciare una nuova vita.
Il che implica problemi enormi e non aggirabili. Innanzitutto il fatto di scendere da un treno in corsa, e dunque le probabili conseguenze del salto. In secondo luogo trovarsi in una realtà disgregata e da ricostruire. Dove dover ricominciare tutto, o quasi. La differenza, essenziale, è che in quest'ultimo caso però saremo noi a guidare. Chi si sente pronto? Chi è tanto ribelle da farlo?
Diffidate di chiunque prospetti scenari certi. Ancora di più, come abbiamo visto, di chi (quasi) impone di avere fiducia in una ripresa economica nello stesso solco del sistema che ha portato alla situazione attuale.
Fatto questo, non resta che scendere dal treno. Con una serie di manovre essenziali - alcune, certamente, dolorose - e giocando qualche fiche al tavolo della previsione e della lungimiranza. Facendo fede sulla propria cultura e capacità di analisi.
Innanzitutto non fare debiti di nessun tipo. Da subito. È il principio cardine sul quale si è retto il nostro sistema prima di esplodere: consumare a oltranza e spendere più di quanto si aveva. Appare persino superfluo, come argomento, non fosse che ancora oggi molti, tra quelli che possono avere accesso al credito, continuano imperterriti a ricorrere a rate di vario tipo pur di acquistare oggetti che il più delle volte sono superflui.
In secondo luogo, iniziando un processo inverso, si deve cercare di estinguere il prima possibile i propri debiti. Mentre una volta acquisita la piena proprietà del bene che si è comperato a credito (ad esempio la casa) è plausibile sperare che essa non venga mai più espropriata, è molto alto il rischio che in una crisi strutturale come questa chi è in debito possa precipitare nell’insolvenza. Le ipoteche sono spade di Damocle sulle teste dei debitori. Meglio, dunque, eliminare gli oggetti superflui che si deve ancora finire di pagare, e utilizzare il più possibile il denaro che ancora si ha a disposizione per estinguere i debiti dei beni essenziali.
Si tratta, con tutta evidenza, di un processo in primo luogo psicologico ancora prima che pratico, soprattutto nell'imporsi di non contrarre ulteriori debiti, per modesti che siano. Come ha ben scritto Serge Latouche, e per la verità molti altri ben prima di lui, il temi della decrescita e della decolonizzazione dell'immaginario sono fondamentali. Naturalmente tutto il discorso dello studioso francese, pur profondo nel messaggio, è molto superficiale. Il discorso della decrescita si situa nel solco del nostro modello di sviluppo e ne suggerisce un rallentamento, finanche uno stato di fermo. Ma in una ipotetica direttrice rimane nella stessa dimensione del problema.
Ciò che in realtà auspichiamo, e ciò per cui ci battiamo, è invero una dimensione ulteriore dell'esistenza nel suo complesso. Una dimensione altra che deve situarsi in nuovi scenari, con approcci e obiettivi differenti. È nel senso, inteso nella duplice accezione di direzione e di significato, che si deve agire. E questo deve produrre degli effetti pratici. Per mettere in atto i quali si deve sposare una visione del mondo e della vita completamente differenti da quelli attuali. Vi è insomma bisogno di una Weltanschauung nuova - o perduta - che discende principalmente da un aspetto: ricominciare a stabilire cosa è importante e cosa non lo è.
Dal punto di vista culturale e spirituale, la nostra società è infatti di una povertà assoluta. La vita della maggior parte delle persone si può sintetizzare in tre parole, come sappiamo: lavora, consuma, crepa. Se a una famiglia i cui componenti lavorano come schiavi sei giorni su sette togli il centro commerciale la domenica non resta nulla. E questo è tutto. Ovvero, il nulla.
Uno dei motivi di tensioni sociali e di crisi attuale deriva infatti proprio da questo. Il pur becero, fittizio e inconistente benessere che derivava dallo spendere denaro e accumulare merce, allo stato attuale delle cose è venuto meno. Ed è rimasta unicamente la schiavitù da questo sistema.
Il senso di vuoto, inteso come mancanza di contenuto, fino a ieri riempito dal surrogato della merce, è oggi una voragine che si apre all'interno della gente. Tale vuoto era originariamente colmato dal senso di cittadinanza, dal sapere che si faceva parte di un destino comune. Dai rapporti sociali e comunitari.
Ma mentre la nostra società ha svuotato quasi del tutto questo contenuto fondamentale, provocando il vuoto che si andava a riempire attraverso i gironi danteschi degli scaffali, il processo inverso, oggi che viene meno il consumo, è molto più complesso. Perché ha bisogno di un percorso culturale le cui tracce, per chi è maggiormente inserito nel sistema stesso, sono di difficile individuazione.
Ed è invece a queste che si deve tornare.
Più facilitato, naturalmente, sarà chi non se ne è discostato troppo anche in questi decenni difficili per respirare. Così come lo sarà, almeno in parte, chi adesso si è finalmente convinto di doverle ricercare. Dal punto di vista pratico si deve pertanto resistere al consumo compulsivo per colmare altre lacune. E al frastuono dei centri commerciali, del mondo dei media pubblicitari, si sostituirà il silenzio necessario a scoprire e a percorrere l'altra dimensione dell'esistenza cui facevamo accenno.
Ti puoi fidare dei tuoi condòmini?
Molto spesso non ci si saluta neanche più in ascensore. Prepararsi ai prossimi anni necessita invece della riscoperta comunitaria. Potrebbe sembrare di essere soli, tutti contro tutti. In realtà c'è molta gente con la stessa sensazione, con le stesse necessità, che aspetta solo di ritrovare lo spirito comunitario di propri simili.
Una delle cose più importanti è dunque quella di iniziare nuovamente a creare una rete, una propria rete di amicizie e persone fidate con le quali trovare coesione, alleanza. Amici, amici veri (quanti se ne hanno?) parenti, persone con le quali condividere gli stessi percorsi, le stesse necessità. Bisogna insomma trovare le basi per affrontare il periodo di transizione che abbiamo di fronte. Se prima pensavamo - meglio: qualcuno pensava - di poter essere felice con il carrello pieno, lo shopping la domenica, il nonno con la badante o spedito in un ospizio, i figli con la baby sitter e lavorare quaranta ore a settimana, annodare fili su fili per poi tentare di scioglierli con quindici giorni di ferie all'anno, ebbene per forza questo stato di cose dovrà cambiare. E sarà un bene.
Per quanto attiene ai beni immobili il discorso è di una semplicità assoluta. Facciamo due esempi. Il primo, più comune, di chi si è indebitato una vita intera per acquistare un appartamento di 80 metri quadri a un terzo piano di una anonima periferia di una grande città. Il secondo, di chi ha fatto lo stesso per una casa fuori città, magari con un piccolo terreno intorno, o un giardino più o meno grande.
Ora attenzione: nel primo caso, cosa si possiede? Una abitazione sospesa a un terzo piano, magari su un pianerottolo con altri tre appartamenti in un palazzo di cinque piani. Il che significa che in realtà si possiede un minimo corrispettivo di terreno, a terra, e un minimo corrispettivo di solaio. Da dividere con tutti gli altri condomini della stessa colonna del palazzo che, appunto, hanno in con-dominio, un tot di terreno sul quale - letteralmente - vivono uno sopra all'altro.
Nel secondo caso, per esempio di una casa a due piani con un giardino intorno, non si è più un "Giovanni senza terra" ma si ha qualcosa che oltre a permettere di avere un tetto sopra la testa - di cui si è unico proprietario - offre potenzialmente la possibilità di un minimo di sussistenza.
Insomma la differenza è enorme, proprio dal punto di vista pratico, e soprattutto in previsione di quanto potrebbe accadere in futuro.
Il mondo moderno ha visto l'afflusso verso le città per andare incontro alla domanda-offerta di lavoro nelle attività tipicamente cittadine. Esercizi commerciali o servizi che siano. La concentrazione nelle città ha reso tutti dipendenti da due cose: il denaro per acquistare ciò che in città non si produce e dunque qui si deve far arrivare (soprattutto cibo) e il fatto di dover sottostare ai prezzi altissimi anche per un semplice appartamento. Per non parlare della qualità della vita, all'interno delle nostre città.
Molte persone stanno capendo che il gioco non vale la candela. Per molti, soprattutto adesso, ovvero chi non ha un lavoro in città e dispera di averlo in futuro, è chiaro come sia assurdo tentare con le unghie di rimanere in un ambiente costosissimo che offre esattamente, peraltro, lo stile di vita cucito su misura al tipico uomo moderno che meccanismo del lavora-consuma-crepa.
Cosa si rimane a fare, dunque, nelle caotiche, alienanti, costosissime, cancerogene città? Soprattutto: quanto le grandi città sono oggi in grado di poter offrire quello che serve per vivere?
Materialmente, per vivere, non è che serva poi molto. Le esigenze sono sempre le stesse, almeno quelle di base. È dopo aver soddisfatte queste che viene il resto. Fino a ora, il resto significava soprattutto merce, cultura, divertimento. Ma la declinazione, la chiave di lettura di questi altri aspetti, è divenuta consumo. Consumo di merce, di cultura, di divertimento. Appunto.
La vita come un costoso tubo digerente.
Il “migliore dei mondi possibili” ha postulato di lavorare, di lavorare sempre di più, prima per vivere, e quindi per consumare. La domanda da porsi, alla fine, è sempre la stessa: quanto siamo diventati felici?
Non è forse nell'avere meno, nel lavorare meno, nell'avere più tempo per sé che possiamo trovare le basi per affrontare questo periodo di transizione così come di un nuovo paradigma di vita?
Non è che ci sia un metodo. Ci sono però alcuni principi. Partono innanzitutto da un processo di eliminazione: del caos, dello stress, del rumore, della lotta metropolitana che inizia la mattina quando ci alziamo per andare a lavoro, prosegue in ufficio, e ancora una volta mentre tentiamo di tornare a casa.
È questo il momento di riscoprire alcuni punti chiave, come il contatto con la natura e gli spazi vitali più ampi (via dalle fabbriche e dalle città); le occupazioni più legate al territorio e alla persona (rispetto alla alienazione di produrre qualcosa di inutile); la riscoperta della comunità, della partecipazione e della collaborazione (rispetto alla logica competitiva del tutti contro tutti).
Le parole d'ordine, in tal senso, sono riduzione, disintossicazione, localismo, autoproduzione, scambio, prossimità, comunità.
Ridurre i consumi anche prima di doverlo fare per forza. Sottrarsi alla dipendenza indotta dalla propaganda. Scegliere un territorio nel quale radicarsi, autoprodurre il possibile e innescare processi di scambio e sostegno reciproco all'interno di comunità che vogliono condividere lo stesso percorso culturale e di vita. Può non essere affatto sbagliato indirizzare i propri figli a studiare agraria. È indispensabile ricostruire il tessuto sociale che la competizione del nostro mondo ha disintegrato per sconfinare nella lotta di tutti contro tutti.
E attenzione: se uno dei punti cardine di tutto il processo di transizione è quello della diminuzione, l'altro, ancora più importante, è quello della differenziazione.
Perché riduzione non significa vivere nello stesso solco al quale siamo abituati semplicemente impoverendo - dal punto di vista materiale - la propria vita. La chiave di volta è quella di sostituire alcune caratteristiche della nostra attuale vita alienata con altre ormai perdute. Allo spostamento nel traffico si deve sostituire un lavoro locale, che non necessiti spostamento. Alle ore di lavoro straordinario per avere qualche euro in più da spendere in sciocchezze si può sostituire il tempo libero per fare altre attività più edificanti, per se stessi e per la comunità nella quale si vive. Non vi è praticamente attività, passione, attitudine e capacità che non possa essere applicata e declinata anche in situazioni locali, invece che globali come facciamo adesso. È la finalità con la quale si svolge l'occupazione che deve cambiare. Fino a ora era accumulo di denaro e competizione personale. Domani (o già oggi) può diventare miglioramento della propria comunità, oltre che costruzione personale come è giusto che sia.
E avremo dato scacco matto al sistema.
di Valerio Lo Monaco
26 maggio 2009
Obama e la crisi del capitalismo
I programmi messi a punto dagli USA, dall'Europa occidentale, e da altre regioni capitalistiche non hanno nemmeno cominciato ad ammettere le basi strutturali della depressione.
In primo luogo, Obama ha destinato 1 trilione di dollari all'acquisto di titoli bancari senza valore e oltre il 40% dei suoi 787 miliardi di dollari d'incentivi non ai settori produttivi ma a banche insolventi e ad evasori fiscali, in modo da salvare i possessori di azioni e titoli; e questo mentre ogni mese oltre 600.000 si ritrovano senza lavoro.
In secondo luogo, per sostenere la costruzione di un impero basato sulle armi, il regime di Obama sta destinando oltre 800 miliardi di dollari al finanziamento della guerre in Iraq e Afghanistan. Si tratta di un massiccio trasferimento di fondi pubblici dall'economia civile al settore militare che spinge decine di migliaia di giovani disoccupati ad arruolarsi dell'armata (Boston Globe, 1 marzo 2009).
In terzo luogo, la commissione di Obama per sorvegliare la "ristrutturazione" dell'industria automobilistica statunitense ha approvato i piani che prevedono di chiudere molte fabbriche, eliminare i piani di protezione sociale finanziati dalle aziende a favore dei pensionati e obbligare decine di migliaia di lavoratori a brutali tagli nelle pensioni e l'assistenza sanitaria. L'intero onere per riportare in attivo l'industria privata dell'auto ricade sulle spalle degl'impiegati, salariati e pensionati, e naturalmente sui contribuenti americani.
L'intera strategia economica del regime di Obama consiste nel salvare i possessori di titoli, iniettando trilioni di dollari in strutture insolventi e comprando titoli di credito senza alcun valore e azioni di società finanziarie in fallimento. Al tempo stesso, però, il suo regime evita ogni investimento diretto nelle imprese pubbliche produttive, cosa che permetterebbe di dar lavoro a 10 milioni di disoccupati. Mentre oltre il 40% del bilancio di Obama è destinato alle spese militari e al pagamento del debito, un americano su dieci è stato sfrattato, il numero di americani senza lavoro sta arrivando al 10%, e quelli che devono usare i buoni statali per ottenere gli alimenti di base sta aumentando di vari milioni nel 2009.
Il programma di "creazione di posti di lavoro" di Obama indirizza miliardi di dollari verso le società private di telecomunicazione, costruzione, ambientali e di produzione elettrica, dove il grosso dei fondi pubblici serve per i bonus degli alti papaveri e per i dividendi degli azionisti, mentre solo una quota minima serve per i salari dei lavoratori. Inoltre, il grosso dei disoccupati nei settori della produzione e dei servizi non può essere riconvertito nei settori "beneficiari". Nel 2009 verrà assegnata solo una minima parte dei "pacchetti d'incentivi", che hanno il fine di sostenere le entrate della classe finanziaria e dominante e di rimandarne la loro già da tempo necessaria eliminazione. L'effetto sarà quello di aumentare il divario tra classe dirigente e lavoratori salariati. Gli aumenti delle tasse per la classe ricca sono incrementali, mentre l'enorme debito legato al deficit fiscale ricadono sui contribuenti attuali e futuri.
L'adesione entusiastica alla creazione di un impero su basi militari - anche in una situazione di deficit di bilancio da record, di un enorme passivo commerciale e di una depressione incalzante – identifica Obama come un militarista senza eguali nella storia contemporanea. Nonostante avesse promesso il contrario, il bilancio militare per il 2009-2010 supererà di almeno il 4% quello di Bush: il numero di militari statunitensi aumenterà di varie centinaia di migliaia, in Iraq si manterrà vicino al massimo e in Afghanistan aumenterà di varie decine di migliaia, almeno nel 2009, mentre gli attacchi aerei e terrestri in Pakistan sono cresciuti in progressione geometrica. I massimi responsabili nominati da Obama al Dipartimento di stato, al Pentagono, al Tesoro e al National Security Council sono in gran parte, soprattutto per quel che concerne le funzioni legate al Medio oriente, ebrei guerrafondai con una lunga storia di incitamento alla guerra contro l'Iran e strettamente legati ai comandi militari israeliani.
Per riassumere, le massime priorità del regime di Obama sono messe in luce dall'assegnazione di risorse finanziarie e materiali, dalle nomine dei responsabili economici e di politica estera, e dalle classi che trarranno benefici o che verranno penalizzate dalle sue scelte. La politica di Obama dimostra che il regime si preoccupa solo di salvare la classe capitalistica e l'impero USA, e per raggiungere il suo scopo il presidente è disposto a sacrificare i bisogni basici immediati, gl'interessi futuri, gli standard di vita della grande maggioranza dei lavoratori e proprietari americani, più direttamente colpiti dalla depressione economica nazionale. Nella nuova amministrazione, Obama ha ampliato gli obiettivi della costruzione di un impero basato sulla forza militare e rafforzato il potere dei guerrafondai proisraeliani. Le sue strategie di escalation militare e di "recupero economico" e sono incompatibili dal punto di vista finanziario e fiscale: il costo dell'una annulla l'impatto dell'altra e lascia un vuoto incolmabile negli sforzi di contrastare il collasso dei servizi sociali, dei sempre più frequenti sfratti, delle bancarotte e delle chiusure massicce.
I trasferimenti orizzontali di ricchezza pubblica dal gruppo di potere di Obama alla classe economica dominante non "hanno ricadute" sull'occupazione, il credito e i servizi sociali. Il tentativo di trasformare le banche insolventi in attive aziende di credito è un ossimoro. Il dilemma centrale di Obama è come creare le condizioni per rendere nuovamente lucrosi i settori falliti dell'attuale economia statunitense.
La sua strategia presenta numerosi problemi di base:
In primo luogo la struttura economica del paese – che in passato generava occupazione, profitti e crescita – non esiste più: è stata smantellata dirottando il capitale oltremare, in strumenti finanziari e in altri settori economici non produttivi.
In secondo luogo le politiche "d'incentivi" di Obama rinforza il potere finanziario su quello economico, destinando importanti risorse a quel settore invece di "riequilibrare" l'economia a favore del settore produttivo. E all'interno del settore produttivo le risorse pubbliche vengono usate per sostenere le élite capitalistiche che hanno dimostrato la loro incapacità di creare impiego, rafforzare la competitività sui mercati e di innovare alla luce delle preferenze e degl'interessi dei consumatori.
In terzo luogo la strategia economica di Obama di un recupero diretto verso il basso annulla buona parte del suo impatto sussidiando imprese capitalistiche fallite invece di aumentare le entrate della classe lavoratrice raddoppiando il salario minimo e i sussidi di disoccupazione, la sola base reale per aumentare la domanda e stimolare il recupero economico. Alla luce della riduzione dello standard di vita, imputabile al crollo nazionale e all'espansione dell'impero basato sulla forza militare, due fattori che sono parte integrale delle fondamenta istituzionali dello stato, non esistono speranze per un tipo di trasformazione strutturale in grado di modificar le onerose politiche "top-down" promosse dal regime di Obama.
Il segreto per uscire dalla sempre più profonda depressione non consiste nello stampare trilioni di dollari, operazione che crea solo le condizioni per l'iperinflazione e la marginalizzazione del dollaro. La causa principale è la sovraccumulazione del capitale legata allo sfruttamento intensivo del lavoro, che ha provocato tassi di profitto sempre più alti e il collasso della domanda: alla base dell'esplosione della bolla finanziaria c'è l'enorme disparità tra espansione del capitale e declino del consumo della classe lavoratrice.
"Riequilibrare" l'economia significa creare domanda (non di un settore produttivo privato stremato o di un sistema finanziario insolvente) attraverso la proprietà pubblica diretta e gl'investimenti a lungo termine e grande scala nella produzione di beni e servizi sociali. L'intera "sovrastruttura" speculativa, cresciuta in massima parte mettendo da parte il valore generato dal lavoro, si è riprodotta in una miriade di "strumenti cartacei" senza rapporto con il valore d'uso. Per liberare le forze produttive dai legacci e limitazioni dei capitalisti improduttivi e dei loro seguaci, è necessario smantellare l'intera economia cartacea, definire un ampio programma di formazione per riconvertire i broker in elementi creativi e produttivi, smantellare completamente l'impero mondiale per ricostruire il mercato domestico e per fare largo a innovazioni che incrementino la produttività. Le costose e improduttive basi dell'armata, elementi essenziali per l'espansione di un impero su basi militari, dovrebbero essere chiuse e sostituite da reti commerciali, mercati, transazioni economiche con produttori che operano al di fuori dei mercati domestici. Invertire la tendenza al declino domestico esige la fine dell'impero e la costruzione di una repubblica socialista democratica. In questa ottica, è imprescindibile porre fine alle alleanze politiche con le potenze guerrafondaie d'oltremare, in particolare con lo stato israeliano, e modificare radicalmente una struttura domestica che mina alla base gli sforzi per una società democratica aperta al servizio degl'interessi del popolo americano.
Impatto regionale della crisi globale
La depressione mondiale ha cause comuni e differenti, influenzate dagli specifici legami tra economie e strutture socioeconomiche. A un livello globale più generale, il crescente tasso di profitto e la sovraccumulazione del capitale che ha portato alle folli speculazioni finanziarie e immobiliari e al susseguente crollo hanno colpito, in modo diretto o indiretto, la maggior parte dei paesi. Ma al tempo stesso, anche se tutte le economie regionali stanno subendo le conseguenze della depressione, gli effetti sono notevolmente diversi dato che le regioni sono posizionate differentemente nell'economia mondiale.
America latina
Il Brasile – con una politica di libero mercato e di profonde divisioni di classe che vanificano ogni tentativo di recupero interno, e con il rapido declino delle esportazioni e della produzione industriale – avanza a grandi passi verso la recessione, nonostante le roboanti dichiarazioni del presidente Lula da Silva, il pupillo di Wall Street e della Casa Bianca.
Nel gennaio 2009 la produzione industriale è scesa del 17,2% annuo, mentre nell'ultimo trimestre del 2008 il PIL si è ridotto del 3,6% (Financial Times, 11 marzo 2009). Tutto lascia pensare che in quel che resta del 2009 la decrescita continuerà e si aggraverà: i mercati esteri dell'esportazione e degl'investimenti diretti, forza trainante delle passata crescita, sono in netta contrazione. Le politiche di privatizzazione di Lula hanno permesso che il settore finanziario cadesse in mano a investitori stranieri, che hanno importato la crisi degli USA e dell'UE. Le "politiche di globalizzazione" hanno reso il Brasile più vulnerabile al collasso del commercio estero. I flussi di capitale sono decisamente negativi. Tra dicembre 2008 e aprile 2009 centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro. I 5 milioni di lavoratori rurali senza terra impoveriti, e i 10 milioni di famiglie che vivono con il sussidio alimentare governativo di un dollaro al giorno sono esclusi dalla domanda interna, così come le decine di milioni di lavoratori che vivono con il salario minimo di 250 dollari al mese. Il potere d'acquisto degli agricoltori superindebitati non sostituisce la latitante domanda estera. Tutti i settori, rurale e urbano, della classe capitalistica stanno congelando i nuovi investimenti visto che il credito è scomparso, gl'investitori stranieri abbandonano il campo e i la spesa dei consumatori locali si riduce a causa della sempre più grave recessione. Le affermazioni di Lula e le sue previsioni di crescita del 4% sono considerate "pura illusione" per coprire il sopravvenire di una dura recessione economica. Il cieco sostegno di Lula alla globalizzazione e al "libero mercato" è un elemento determinante della crescente recessione.
Il passaggio del Brasile a un PIL negativo precede di poco quello previsto per gli altri paesi della regione: -2% l'Argentina, -3% il Messico, 0% o meno il Cile. America centrale e area caraibica, totalmente "integrate" nell'economia statunitense e mondiale, stanno provando la forza devastante della depressione mondiale, con un tasso di disoccupazione che schizza verso l'alto a causa del collasso del turismo, della ridotta domanda di beni primari, e della grave caduta delle rimesse dei lavoratori emigrati. Povertà, criminalità e possibili rivolgimenti sociali contro i governi di centro e centro-sinistra si aggraveranno.
La diffusione mondiale del capitale dell'imperialismo ("globalizzazione" secondo i sostenitori, "imperialismo" secondo gli avversari) ha portato al ripercuotersi della crisi finanziaria e dei fallimenti nei paesi più strettamente legati ai circuiti finanziari europei e statunitensi.
La globalizzazione ha legato le economie latino-americane ai mercati mondiali, a spese dei mercati interni, e ha aumentato la vulnerabilità alle cadute della domanda, dei prezzi e del credito che oggi sperimenta. La globalizzazione, che prima aveva agevolato l'entrata di capitali, ne agevola, ora che siamo in presenza della depressione, la fuga massiccia. Gli USA, che assorbono il 70% dei risparmi mondiali nel suo sforzo disperato di cancellare e rifinanziare il suo mostruoso deficit di bilancio e commerciale ha estromesso i suoi partner commerciali latino-americani dal mercato mondiale del credito. La depressione ha dimostrato in modo chiarissimo il vuoto della globalizzazione centrata sull'imperialismo e l'assenza di rimedi per i suoi collaboratori sudamericani. Il crescente protezionismo (e i miliardi di dollari in sussidi di stato per sostenere i capitalisti degli stati imperialisti nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e produttivo) dimostra in modo lampante la disintegrazione dell'economia globale centrata sull'imperialismo. La depressione mondiale non solo mette in luce i limiti intrinseci dell'economia globalizzata ma ne rende inevitabile la frantumazione in una molteplicità di unità in conflitto: le nazioni, ognuna delle quali dipende dalle proprie finanze e settori statali per poter uscire dalla profonda depressione a spese degli antichi alleati. Man mano che la deglobalizzazione accelera, la depressione mondiale spinge a tornare alla nazione-stato.
Parallela e strettamente collegata alla caduta del mercato mondiale è la crescita dello stato capitalistico come elemento chiave per recuperare le ricchezze nazionali ed imporre un esorbitante tributo alle pensioni e ai fondi sanitari e pensionistici di miliardi di lavoratori, pensionati e contribuenti. In un momento di collasso del capitalismo, il crescente "capitalismo di stato" nasce solo per "salvare il sistema capitalistico dai suoi fallimenti", come affermano i suoi sostenitori. E per arrivare a questo risultato sfrutta la ricchezza collettiva dell'intero paese. La "nazionalizzazione" delle banche e delle industrie insolventi è l'apice del capitalismo predatore. Non sono più le singole imprese o i singoli settori a profittare dei salariati, ma è il capitalismo di stato che rapina l'intera classe di coloro che producono ricchezza.
Le possibilità dell'America latina partono dal riconoscimento che la globalizzazione è morta, che solo grazie al controllo popolare democratico la nazionalizzazione può servire a generare ricchezza e creare occupazione, invece di servire per indirizzare e ridistribuire le risorse a una classe capitalistica fallita e in bancarotta.
Europa dell'est e paesi dell'ex blocco comunista
Nell'Europa dell'est, il passaggio dal comunismo al capitalismo ha seguito un processo di privatizzazione, spesso basato su una rapina generalizzata, l'uso illegale delle risorse pubbliche e la caduta drammatica del livello di vita e della produzione nella prima metà degli anni '90. Approfittando del costo ridotto del lavoro e del facile accesso a lucrose opportunità in tutti i settori economici, i capitalisti europei e americani hanno assunto il controllo dei settori produttivo, estrattivo, finanziario e delle comunicazioni. La caduta delle barriere tra Est e Ovest è stata accompagnata da un flusso massiccio di lavoratori specializzati verso i paesi occidentali. Il recupero economico, e la susseguente crescita, nell'Europa dell'est e nei paesi dell'ex blocco comunista è andato a braccetto con l'espansione degl'investimenti e del credito dal capitalismo occidentale: il trasferimento dei centri produttivi, l'arrivo di capitale speculativo nei settori finanziario e immobiliare, l'accesso ai mercati occidentali in piena espansione, e, in particolare, il finanziamento via indebitamento delle spese dei consumatori hanno drogato la crescita. La regione è stata quindi doppiamente colpita: dal collasso economico causato da una speculazione interna insostenibile e dalla sua dipendenza da un occidente in fase di depressione per i capitali, il credito e i mercati. Le economie capitalistiche degli stati baltici, dell'Europa dell'est e della Russia hanno subito un collasso rapido: man mano che i mercati creditizi dell'Europa occidentale si restringevano e le multinazionali disinvestivano largamente, le valute locali si sono svalutate e i mercati esteri si sono dissolti. L'intera strategia dello "sviluppo dipendente" basata sulla disarticolazione dei mercati locali e il flusso di capitali ha vanificato gli sforzi per contrastare il crollo. La sola scelta possibile era cercare di ottenere un sostanzioso aiuto finanziario dal FMI e dalle banche, a condizioni pesanti e tali da limitare le opzioni dei piani nazionali d'incentivazione fiscale.
I legami regionali con i mercati mondiali, basati su rapporti di dipendenza con i capitalisti occidentali, implicano in primo luogo l'assenza di mercati interni e di capitali per attenuare il crollo e in secondo luogo il pericolo che l'arrivo di capitali esterni aggravi la depressione. Dal Baltico ai Balcani, dall'Europa dell''est alla Russia, la potente forza della depressione ha provocato disoccupazione generalizzata di lunga durata, bancarotta delle industrie locali sussidiarie, dei servizi e delle banche. I neonato movimenti popolari rimettono in discussione le politiche commerciali dei governi e, i certi casi, rifiutano il modello capitalistico di dipendenza dalle esportazioni.
Asia: la fine dell'illusione d'indipendenza e crescita autonoma
La grande depressione del 2009 ha colpito tutte le economie asiatiche, che dipendono dai mercati internazionali finanziari e dei beni. Anche i paesi più dinamici (Giappone, Cina, India, Corea del sud, Taiwan e Vietnam) non hanno potuto sottrarsi alle conseguenze del drastico declino del commercio, dell'occupazione, degl'investimenti e degli standard di vita. Due decenni di espansione dinamica, alta crescita ed elevati tassi di profitto, grazie ai mercati dell'esportazione e allo sfruttamento intensivo del lavoro, hanno provocato una sovraccumulazione di capitale. Molti esperti asiatici ed occidentali parlano di "un nuovo ordine mondiale", guidato e orientato dalle potenze economiche emergenti dell'Asia, in particolare la Cina, in cui il potere si baserebbe sempre di più sulla loro "autonomia regionale". In realtà, la dinamica crescita industriale cinese era profondamente inserita in una catena mondiale di beni in cui i paesi industriali avanzati (Germania, Giappone, Taiwan e Corea del sud, ad esempio) fornivano strumenti di precisione, macchinari e pezzi alla Cina, che li assemblava e li esportava poi nei mercati statunitensi, europei e asiatici. "L'indipendenza" era un mito.
La crescita pilotata dalle esportazioni è stata alimentata dallo sfruttamento selvaggio del lavoro, dalla distruzione di vaste aree di servizi sociali (servizi sanitari, pensioni, sussidi alimentari e istruzione) e dalla generalizzata concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo ristretto di nuovi ricchi miliardari (Economic and Political Weekly – Mumbai, 27 dicembre 2008, p. 27-102). La crescita della Cina e del resto dell'Asia si basava sulla contraddizione tra espansione dinamica delle forze produttive e crescente polarizzazione dei rapporti produttivi di classe. Gli alti tassi di profitto hanno condotto alla sovraccumulazione del capitale (alti tassi d'investimento) e quindi a notevoli attivi di bilancio e commerciali che si sono poi propagati nei settori finanziari, nell'espansione oltremare (riciclaggio di fondi neri) e nella speculazione mobiliare.
L'edificio economico asiatico poggiava precariamente sulle spalle di centinaia di milioni di lavoratori, virtualmente non consumatori, e sulla sempre maggiore dipendenza dai mercati di esportazione. La crisi mondiale ha fatto collassare soprattutto i mercati di esportazione, mettendo in luce i punti deboli delle economie asiatiche e provocando una grave caduta del commercio e della produzione, accompagnata da una considerevole crescita della disoccupazione. Gli sforzi cinesi e degli altri paesi asiatici per contrastare il crollo dei mercati di esportazione con massicce iniezioni di capitale pubblico per stimolare la liquidità finanziaria e lo sviluppo delle infrastrutture sono risultati insufficienti per bloccare l'aumento della disoccupazione e la bancarotta di milioni di imprese dipendenti dall'esportazione.
La classe capitalistica asiatica e il gruppo dirigente sono del tutto incapaci di "ristrutturare" la struttura economica e sociale dando forza alla domanda interna ora che il mercato esterno ha ceduto. Un tale passo comporterebbe molte profonde trasformazioni nella struttura di classe: ad esempio il passaggio da investimenti basati sul profitto elevato a servizi produttivi e sociali a scarso margine per centinaia di milioni di lavoratori e contadini a basso reddito, oppure il trasferimento di capitali dal settore immobiliare privato, i mercati azionati, e l'acquisto di titoli stranieri, per finanziare servizi sanitari universali, istruzione, pensioni, o ancora il recupero dei suoli per un uso produttivo piuttosto che per le speculazioni immobiliari.
L'intera crescita dinamica dall'Asia, costruita sulla concentrazione di capitale, alti profitti e bassi salari, sta cercando di sopravvivere aggravando l'impoverimento del lavoro con massicci licenziamenti, ampliando i flussi di ritorno dei lavoratori migranti verso i campi devastati, e aumentando il surplus di forza di lavoro. L'espulsione del lavoro, tradizionale soluzione del capitalismo, non fa altro che spostare e intensificare la contraddizione e allargare il conflitto tra il capitale industriale e finanziario a base urbana e le centinaia di milioni di lavoratori e contadini poveri, disoccupati o sottoccupati. Le iniezioni statali di capitale per stimolare l'economia passano attraverso il "filtro" dei dirigenti regionali e della classe capitalista, che assorbe e usa buona parte dei fondi per puntellare le imprese in fallimento, senza impatto sensibile sulla massa di lavoratori disoccupati.
La proprietà privata e il controllo capitalistico sullo stato impedisce il tipo di trasformazione sociale che potrebbe espandere il mercato interno e far ripartire la crescita.
Il sistema cinese di crescita ha ovviamente minato i suoi partner commerciali, che dipendono dalle esportazioni verso il paese di materie prime e industriali. Il collasso della domanda dei mercati euro-americani ha distrutto l'intera architettura delle industrie che lavorano per l'esportazione. Lo sfruttamento selvaggio del lavoro e il potere della nuova borghesia cinese fa sì che esistano poche possibilità di una ripresa della domanda interna.
La riprese economica della Cina dipende da una nuova trasformazione socialista che renda la domanda interna il vero motore della crescita.
Medio oriente: depressione e guerre regionali
Il motivo fondamentale della crisi e del fallimento del Medio Oriente risiede nelle guerre regionali sionistiche e nel collasso dei prodotti di base.
I paesi produttori di petrolio hanno accumulato ampi "redditi", usati per acquisti a grane scala, nella regione o fuori, nei settori finanziario, immobiliare e militare. I profitti si sono concentrati nelle mani di capi assolutisti miliardari con un rapporto di classe estremamente polarizzato: super ricchi e lavoratori immigranti con salari bassissimi hanno limitato la portata e l'ampiezza dei mercati interni. Per eliminare la crisi della sovraccumulazione e della contrazione dei profitti, i gruppi dirigenti hanno adottato due strategie che hanno ritardato l'inevitabile: in primo luogo la dipendenza dall'esportazione massiccia (dapprima in USA e Europa e poi in Asia e Africa) di capitali da prestare ad alti tassi d'interesse, in secondo luogo il reimpiego dei profitti in immobili faraonici, centri turistici e settore bancario negli Stati del Golfo che ha portato a una immensa bolla immobiliare. Il collasso dei beneficiari di questi redditi (non produttivi) nel Medio oriente è stato preparato dal frenetico aumento dei prodotti petroliferi, tra il 2004 e il 2008, che ha accelerato il processo di sovraccumulazione e la generalizzazione del debito e dell'importazione di lavoro. Ne è seguita una crisi economica regionale, in cui gli attivi di bilancio e commerciali sono stati rimpiazzati da deficit sempre più grandi. Le economie mediorientali non si sono mai modificate dopo la loro creazione per dar vita a un sistema diversificato, basato non più sui "redditi" ma sulla produzione e la creazione di un dinamico mercato regionale di massa. La classe dominante deve far fronte a una sempre crescente massa di lavoratori locali e immigrati disoccupati, la fuga compatta di migliaia di espatriati europei del settore finanziario, del settore immobiliare e di altri operatori di settori non produttivi. Ora che non possono più profittare del boom petrolifero (prezzi, profitti e ricavi sono crollati) e non sono più i potenti banchieri e detentori di debiti, la classe dominante dei Paesi del Golfo dispone di poche risorse esterne o interne per mettere a punto un "programma di recupero". Peggio ancora, nel pieno di questo crescente collasso economico lo stato militarista di Israele funziona da forza regionale di destabilizzazione e proietta la sua potenza e le sue ambizioni coloniali in tutta l'area. Con una situazione di potere unica nella storia del mondo, lo stato d'Israele, economicamente insignificante, controlla i livelli fondamentali del potere politico del governo USA grazie all'attività di varie decine di migliaia di membri della Diaspora strategicamente situati, estremamente organizzati e disciplinati, e ideologicamente impegnati...... di James Petras
25 maggio 2009
Le tante facce della nazionalizzazione delle banche
Gli appelli per la nazionalizzazione del sistema bancario stanno vibrando almeno dallo scorso settembre, quando ha avuto origine l’attuale Panico dopo il tracollo della banca Lehman Brothers, il salvataggio iniziale di AIG e il rapido assorbimento delle banche Merrill Lynch-Wachovia-Washington Mutual da parte dei loro concorrenti più grandi, Bank of America, Wells Fargo e JP Morgan Chase.
Alcuni dei primi a sollevare l’idea della necessità eventuale di una nazionalizzazione bancaria furono lo scorso autunno gli editorialisti del Wall Street Journal e l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan. Naturalmente l’idea di nazionalizzazione che avevano in mente gli editorialisti del Journal e Greenspan era che il governo si dovesse assumere la responsabilità di ripulire i beni deteriorati della banca a spese del contribuente, per poi svendere rapidamente i beni rimasti ai nuovi investitori ad un prezzo d’occasione. La banca “nazionalizzata” verrebbe quindi rimessa prontamente in attività come un nuovo istituto interamente privato mentre le sue “bollette” (i beni deteriorati), nel frattempo, sarebbero pagate dal contribuente.
La nazionalizzazione è pertanto un tipo di procedura fallimentare di emergenza decretata ed avviata dal governo degli Stati Uniti. Le banche non verrebbero “acquisite” se non in senso legale, formale. Seguirebbe poi un rapido trasferimento degli beni deteriorati, dopodiché l’istituto verrebbe di nuovo “messo sul mercato” e venduto agli investitori privati. La nazionalizzazione, in questo senso, serve solamente come mossa strategica per sbarazzarsi dei beni deteriorati e riportare in vita una banca zombie.
Qualcosa di simile avvenne con il fallimento della banca regionale di medie dimensioni IndyMac alla fine dell’estate 2008 quando fu acquisita dall’agenzia del governo americano Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Oggi IndyMac ha riaperto i battenti con i propri debiti azzerati, debiti che sono ora del governo e del contribuente. Per la verità, IndyMac è stata riacquistata dalla FDIC ad un prezzo d’occasione dallo stesso gruppo di investitori che già l’aveva posseduta in passato. E di cui ora sono ritornati proprietari. Gli investitori sono stati “salvati”. La nazionalizzazione, quindi, è una forma di “salvataggio degli investitori”, una sorta di “amministrazione fiduciaria temporanea” in un senso formale e legale, in attesa di una nuova privatizzazione.
Quello che il Journal e Greenspan avevano in mente con “nazionalizzazione delle banche” è semplicemente il concetto di fare alle altre banche, anche quelle più grandi, quello che è stato “fatto per IndyMac.” Non vi è alcuna idea sottintesa sul fatto che una banca possa essere acquisita in modo permanente e gestita di giorno in giorno, non per gli interessi degli investitori privati ma per il più ampio interesse pubblico della nazione e dei suoi cittadini.
Dall’autunno 2008, quando i banchieri sono sostanzialmente entrati in sciopero rifiutandosi di erogare prestiti alle imprese e ai consumatori, se non applicando tassi a livello di usura, è infuriata la polemica nei circoli del potere su che cosa dovesse essere fatto delle migliaia di miliardi di dollari di “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. Questi “beni deteriorati” sotto forma sia di “mutui deteriorati” che di “cartolarizzazioni deteriorate” ora ammontano ad una cifra che oscilla tra i 4.000 e i 6.000 miliardi di dollari stando a diverse fonti come Fortune Magazine e il Journal, e altre rispettabili fonti indipendenti, come il professore dell’Università di New York, Nouriel Roubini, e persino secondo il Segretario al Tesoro Geithner prima che venisse ufficialmente nominato per ricoprire tale incarico. Il punto principale è che finché i “beni deteriorati” non saranno eliminati dai bilanci delle banche, queste continueranno a rifiutarsi di erogare prestiti e l’attuale rapido declino dell’economia reale americana continuerà ad aggravarsi.
Il concetto Journal-Greenspan di nazionalizzazione bancaria deve essere visto come parte della discussione in corso della classe capitalista. La nazionalizzazione è solamente una tattica per impegnarsi nell’eliminazione dei beni deteriorati a cui seguirà una rapida privatizzazione, nulla di più.
Dallo scorso autunno diverse altre proposte strategiche si sono scontrate con l’idea della nazionalizzazione delle banche come “un’amministrazione fiduciaria temporanea” e come strumento per eliminare i beni deteriorati. Ci sono proposte come la creazione di una “bad bank aggregante”, nella quale il governo depositerebbe i beni deteriorati delle banche dopo averle in qualche modo acquistate. Ma l’”acquisto” si è dimostrato difficile perché le banche in realtà si sono rifiutate di vendere i loro beni deteriorati. Le banche sono “in sciopero” dallo scorso autunno e, in altre parole, non solo “si rifiutano di erogare prestiti” ma “si rifiutano anche di vendere i beni deteriorati.”
I beni deteriorati nei registri contabili delle banche hanno due forme. Una rappresenta i beni da “mutui deteriorati”. Un’altra i beni da “cartolarizzazioni deteriorate.” Secondo le norme della contabilità legale, le banche possono detenere “mutui deteriorati” nei propri registri al loro valore d’acquisto iniziale. Pertanto, le banche sono poco incentivate a venderli ad un valore inferiore e registrare la perdita. Ma chi vuole comprare i mutui al loro prezzo pieno quando è chiaro che valgono molto meno di quanto la banca sia disposta a venderli? Perciò, da settembre nessun altro investitore ha voluto acquistare i mutui deteriorati ad un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato. E se il governo lo facesse significherebbe un chiaro finanziamento alle banche a spese del contribuente. Quindi i mutui deteriorati non si sono spostati dai registri delle banche. Qualcosa di analogo è avvenuto anche con i beni delle cartolarizzazioni deteriorate. Queste sono rappresentate da mutui subprime, prestiti per auto, carte di credito, prestiti agli studenti e altri tipi di cartolarizzazioni garantite da beni che sono stati cartolarizzati, o impacchettati, in nuovi strumenti finanziari in vendita dal 2002. A differenza dei “mutui deteriorati”, i beni deteriorati garantiti da cartolarizzazioni devono essere valutati al loro reale prezzo odierno. Che è vicino allo zero. Mentre le banche vorrebbero vendere questi beni (agli investitori o al governo), lo vorrebbero fare solamente al di sopra del loro vero valore di mercato. Gli investitori, a loro volta, vorrebbero acquistarli solamente al loro vero prezzo – se mai ne hanno uno. Alcuni di questi beni sono considerati così assolutamente privi di valore che nessuno s’è fatto avanti per comprarli. Quindi, ancora una volta, i “beni deteriorati” sotto quest’aspetto non vengono venduti e rimangono “tossici” nei bilanci delle banche, peggiorando giorno dopo giorno.
Quanto descritto sopra è il “grande dilemma” a cui si trova di fronte oggi il sistema finanziario. Il governo degli Stati Uniti, il Tesoro e la Federal Reserve stanno cercando diversi modi per ripulire le banche dai beni deteriorati, ma ad oggi senza alcun risultato. Le banche, nel frattempo, rimangono in sciopero e si rifiutano di erogare prestiti (o di vendere i beni).
La succitata “banca aggregante” è un’idea per cercare di ripulire le banche dai loro beni deteriorati. Qualcosa del genere fu tentato con successo in Svezia nei primi anni Novanta. Tuttavia, la Svezia è un paese piccolo. Il problema oggi è enormemente più vasto, negli Stati Uniti e nel mondo. Il governo svedese ha potuto acquistare con buoni risultati i beni deteriorati e metterli in una banca aggregante. Tuttavia, le somme da “acquistare” oggi sono probabilmente molto maggiori di qualunque somma un governo possa finanziare, compresi gli Stati Uniti. E’ stato detto che il governo svedese ha “nazionalizzato” le proprie banche nel corso della costituzione della sua “bad bank aggregante”. Ma, di nuovo, quell’idea di nazionalizzazione è semplicemente una variante sul tema proposto dal Wall Street Journal e da Greenspan.
Altre varianti sul tema che vengono confuse con “nazionalizzazione” sono state gli sforzi del Tesoro americano e della Federal Reserve per acquistare azioni delle banche in fallimento – sia sotto forma di azioni privilegiate, azioni ordinarie o qualche altra forma convertibile che combinasse azioni ordinarie e privilegiate. Invece di acquistare in blocco il saldo dei beni deteriorati (ad esempio, la banca aggregante), l’idea qui è quella di compensare i beni deteriorati sui registri contabili delle banche con la speranza che, una volta che i beni siano stati neutralizzati, le banche ricomincino di nuovo ad erogare prestiti. La proprietà delle azioni, parziale o addirittura di maggioranza, viene perciò identificata con l’idea di nazionalizzazione.
Così lo scorso autunno la Fed e il Tesoro hanno acquistato l’80% delle azioni di AIG e dunque, in qualche modo, l’hanno effettivamente “nazionalizzata”. Ma la proprietà formale delle azioni non equivale assolutamente ad una nazionalizzazione. Facendo mente locale, AIG si è comportata come ha sempre fatto, sprecando miliardi di dollari in festini per i propri manager e distribuendo somme enormi del denaro del programma TARP sotto forma di bonus. Per avere un esempio dei limiti della definizione di proprietà legale di nazionalizzazione, è sufficiente fermarsi ad osservare l’esperienza di AIG.
Il programma TARP introdotto lo scorso ottobre è stato un tentativo per generalizzare la condotta di AIG. Ma con 700 miliardi di dollari, è stato ben presto chiaro che il TARP era solamente una goccia per tappare il buco di 4.000-6.000 miliardi di dollari nei bilanci delle banche. In modo sorprendente, l’esperimento del TARP dimostra che il governo americano non ha la più pallida idea della vastità delle perdite delle banche e di come effettivamente le banche l’avessero tenuta nascosta all’opinione pubblica e al governo. Il programma TARP è entrato rapidamente in collisione con il detto problema delle banche che si rifiutano di vendere i loro beni deteriorati se non a prezzi gonfiati e al di sopra del valore di mercato. Quindi il Segretario al Tesoro Paulson ha spaventato il Congresso e l’opinione pubblica per avere i 700 miliardi di dollari, per poi scoprire che era una somma ampiamente insufficiente e che, in ogni caso, le banche si sarebbero rifiutate di vendere i loro beni deteriorati a meno che non fossero finanziate in modo massiccio dal governo.
Quando Citigroup e Bank of America sono crollate nel novembre 2008, il Tesoro e la Fed hanno dato loro buona parte di quanto rimaneva dei fondi del TARP (e molto di più per AIG) e hanno tirato fuori altre centinaia di miliardi di dollari in garanzie contro le loro perdite (300 miliardi di dollari solo per Citigroup) come misura temporanea. Ma Citigroup e Bank of America sono sprofondate ulteriormente a gennaio-febbraio 2009, richiedendo un altro salvataggio. Ma a febbraio stava diventando sempre più evidente che il buco nei bilanci delle 19 grandi banche continuava ad aumentare giorno dopo giorno e stava diventando sempre più improbabile che il governo americano potesse permettersi di acquistare da solo tutti i beni deteriorati delle banche.
Tutto questo ha riacceso ancora una volta la discussione e il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche. Se il governo americano stesso non può permettersi di acquistare tutti i beni deteriorati, alcuni hanno iniziato ad obiettare “perché gettare i soldi dei contribuenti in questo buco nero?” Forse le banche non erano “troppo grandi per fallire.” Forse dovrebbe essere loro permesso di fallire. O... forse il governo dovrebbe nazionalizzarle. Ma se la nazionalizzazione intesa come ripulitura dai beni deteriorati non è stata possibile, che cosa significa adesso nazionalizzazione?
All’inizio di febbraio l’appello per una qualche forma di nazionalizzazione è iniziato ad affiorare da varie direzioni. L’AFL-CIO [1] ha sollevato la questione, senza però fornire una chiara definizione di cosa dovrebbe essere. Celebri economisti come il premio Nobel, Joseph Stiglitz, l’hanno richiesta, come pure il professore dell'Università di New York, Nouriel Roubini, le cui previsioni sull’evoluzione della crisi si sono dimostrate esatte negli ultimi due anni. Anche James Naker, il responsabile delle decisioni durante l’amministrazione Reagan, si è schierato a favore. Greenspan ha ripetuto che la nazionalizzazione era necessaria per “una ristrutturazione metodica” del sistema. Le figure di spicco del partito repubblicano, come Lindsey Graham, hanno dichiarato alla televisione pubblica che “se la nazionalizzazione funziona, allora dovremmo metterla in pratica”. Lo stesso ha detto il presidente della Commissione Bancaria al Senato, il democratico Chris Dodd.
Ma subito hanno risposto gli alti papaveri dell’amministrazione Obama, scoraggiando l’idea e il dibattito sulla nazionalizzazione. Geithner, il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers e il presidente della Fed, Ben Bernanke, hanno tutti bocciato l’idea, così come il presidente della Commissione Bancaria della Camera, Barney Frank. Anche Dodd, al Senato, è ritornato sui propri passi e si è unito al rifiuto. Tutti a protestare all’unisono con gli amministratori delegati delle grandi banche, Ken Lewis di Bank of America e Jaime Dimond di JP Morgan Chase e Vikram Pandit di Citigroup che hanno dichiarato che “sarebbe un passo indietro.”
La resistenza a questo stesso concetto deriva un altro progetto in corso d’opera tramite il quale il governo e i contribuenti finanziano le banche e gli investitori per liberarsi da questi “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. L’ultimo progetto è stato presentato all’inizio di marzo e successivamente sono stati esposti i dettagli di quello che è stato chiamato “Programma di Investimento Pubblico-Privato” (PIPP), presentato da Geithner il 23 marzo. Ma come il programma TARP, il PIPP è fondamentalmente ancora un’idea per acquistare “beni deteriorati”. Questa volta con la forzatura che in qualche modo quegli speculatori-investitori, che hanno creato la crisi finanziaria emettendo miliardi di dollari di “beni cartolarizzati” che sono andati a gambe all’aria, ora accorrerebbero in aiuto del sistema e comprerebbero i beni deteriorati – a patto, ovviamente, che il governo finanzi generosamente l’operazione. Questa sovvenzione sarebbe finanziata, questa volta con una forzatura, non solo dal Tesoro che stanzia i fondi ma con la stampa di altri miliardi di dollari da parte della Federal Reserve. Perciò l’impegno del governo nei confronti delle banche da un giorno all’altro è aumentato dai 3.000-4.000 miliardi di dollari ad una cifra più che raddoppiata.
Ma se il nuovo salvataggio bancario dovesse fallire, come così sarà, la questione prevista dal programma sarà ancora una volta quella di procedere ad una qualche forma di nazionalizzazione. Il dibattito sulla nazionalizzazione pertanto riemergerà di nuovo in modo brutale mentre diverrà chiaro che il piano Geithner sta fallendo.
Ma quando la discussione riaffiorerà di nuovo, non potrà più essere limitata alle sue definizioni passate. La nazionalizzazione come semplice proprietà di azioni – come, per la verità, qualsiasi altro tipo formale di proprietà – è già stata tentata ed ha fallito. La stessa AIG ne è un esempio. La nazionalizzazione come amministrazione fiduciaria temporanea è chiaramente insufficiente. Non affronta quello che dev’essere fatto con i beni deteriorati contenuti nei miliardi di dollari che sono messi sotto amministrazione fiduciaria. La nazionalizzazione come banca aggregante solleva il problema di come capitalizzare un’intera struttura bancaria che è ampiamente insolvente e che costerebbe parecchie migliaia di miliardi di dollari per essere avviata. Le acquisizioni in stile FDIC-IndyMac sollevano problemi analoghi. Il costo per la FDIC per l’acquisizione di IndyMac è stato poco meno di 10 miliardi di dollari. Il solo salvataggio degli azionisti comuni di Citigroup costerà più di 1.000 miliardi di dollari.
All’altra estremità del panorama politico, dall’idea di nazionalizzazione come acquisto dei “beni deteriorati” c’è l’idea di un impegno di nazionalizzazione non nell’interesse degli investitori ma della nazione stessa. Il punto importante è chi trarrà benefici da un progetto di nazionalizzazione. Sarà tutta la nazione o i suoi individui privati? Viene chiamata NAZIONAlizzazione proprio per questo motivo. La definizione di nazionalizzazione mentre questa è al servizio degli investitori individuali, è un’appropriazione e una distorsione del vero significato del termine originale.
Chi è allora “la Nazione” che ne dovrà trarre i benefici? Ci sono 114 milioni di nuclei famigliari negli Stati Uniti. 91 milioni sono famiglie in cui i componenti guadagnano meno di 80.000 dollari all’anno. Il 5% più benestante delle famiglie, all’incirca 5 milioni di nuclei famigliari, incamera la maggior parte dei propri redditi da fonti di capitali (guadagni in conto capitale, dividendi, interessi, affitti, ricavi finanziari). L’1% più ricco incamera praticamente tutto il proprio reddito da fonti di capitali. I 91 milioni di famiglie – cioè la parte che lavora e che appartiene in larga parte al ceto medio – sono la stragrande maggioranza del paese. Ma non beneficeranno in alcun modo credibile dalla “nazionalizzazione come salvataggio degli investitori.” Un vero programma di nazionalizzazione dovrebbe pertanto dimostrare come trarranno beneficio queste 91 milioni di famiglie. E se questo non può essere dimostrato, allora il programma, qualunque sia la sua struttura, non può essere definito in alcun modo nazionalizzazione.
Né una vera nazionalizzazione può limitarsi semplicemente ad una predisposizione legale, non importa quante e che genere di azioni (privilegiate, ordinarie, convertibili) possano o non possano essere acquistate. La sola proprietà non è nazionalizzazione. La nazionalizzazione sottintende il controllo e il controllo diretto per conto dell’interesse pubblico, non per interessi privati. Ma “controllo” su che cosa e in quale forma?
Esistono tutti i tipi e i gradi di controllo. La predisposizione formale della proprietà azionaria ad oggi richiede al massimo un resoconto occasionale dalla banca in questione. I resoconti e le informazioni non sono di per sé il controllo. Né lo sono le decisioni sulla gestione del veto. AIG e altre banche che hanno preso finora centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti testimoniano i limiti dei resoconti delle decisioni prese dai manager che rappresentano gli investitori privati. Il controllo deve andare ben oltre il semplice veto del governo alle decisioni del management delle banche. Il controllo dev’essere inteso come prendere decisioni.
Ma che genere di decisioni? Sicuramente le decisioni strategiche delle banche. E probabilmente anche una serie importante di decisioni operative. Ma per quello, i governi devono allontanare tutti i membri del consiglio di amministrazione di una banca nazionalizzata a nominarne altri, si spera di rappresentazione sindacale e della collettività. Gli amministratori delegati e i gruppi di dirigenti più anziani devono essere sostituiti. In secondo luogo, le decisioni operative devono essere esaminate ogni giorno dal nuovo gruppo dirigenziale. I manager delle divisioni principali e di medio livello possono essere lasciati al loro posto, a patto che la loro prestazione sia attentamente valutata su base periodica. Questa è una minima struttura decisionale che accompagna una vera nazionalizzazione.
Chi si oppone a questa visione di nazionalizzazione sosterrà che avrà come risultato, se applicata per una banca, il crollo del prezzo delle azioni per le banche rimanenti perché gli azionisti delle altre banche si renderanno conto che il loro istituto potrebbe essere il prossimo della lista e potrebbero sbarazzarsi delle loro azioni. Ma potrebbe non essere affatto così. Nell’acquisire una banca, il governo potrebbe annunciare che garantirà i prezzi delle azioni delle altre banche, ancora private, come minimo ai livelli attuali. Questo metterebbe una soglia al crollo del prezzo delle azioni e stabilizzerebbe i prezzi delle loro azioni.
Un’altra obiezione di chi oppone ad una vera nazionalizzazione è che le banche sono sostanzialmente solide, ma solo bisognose di liquidità. Anche se quest’obiezione potrebbe aver ingannato la gente nel 2008, è ora del tutto evidente che le “grandi 19 banche” sono insolventi, non carenti di liquidità. Il concetto di “troppo grandi per fallire” ora è chiaramente “troppo grandi per essere salvate.” La nazione non può più permettersi questo genere di istituti, che stanno letteralmente succhiando la linfa vitale economica del paese.
Un’altra obiezione punta il dito su AIG e Fannie Mae/Freddie Mac e alle loro continue perdite di beni. Chi si oppone utilizza questi istituti come esempio per il definitivo fallimento delle nazionalizzazioni. Ma AIG e Fannie/Freddie non sono esempi di nazionalizzazione: sono esempi di “investimenti sbagliati” e salvataggi pasticciati.
Un’altra tipica critica che si è sollevata contro la nazionalizzazione è che l’acquisizione di una banca è un’operazione troppo complessa. Il governo non ha il personale adeguato e non sa come gestire in modo efficiente una banca. Per rispondere a quest’obiezione è sufficiente ribattere a come un governo potrebbe fare peggio dei cosiddetti “esperti privati” che stanno ora gestendo le banche e le hanno portate alla rovina. I cosiddetti esperti bancari hanno perso più di 5.000 miliardi di dollari. Chi potrebbe fare di peggio? Stando ai princìpi di una qualunque società privata capitalista, questi esperti dovrebbero essere stati licenziati da tempo e le aziende che hanno distrutto messe, come minimo, all’interno di un progetto di riorganizzazione in base al Capitolo 11.
E’ necessaria una nuova struttura bancaria in America. Oltretutto, una simile struttura è possibilissima e ne ho illustrato alcuni elementi in recenti pubblicazioni. Per iniziare, potrebbe essere messa in piedi con una completa nazionalizzazione dei mercati dei mutui residenziali e dei mercati delle proprietà delle piccole imprese. Una nuova agenzia, la Home and Small Business Loan Corporation (HSBLC), basata sulle esperienze degli anni Trenta con l’allora Home Owners Loan Corporation e la Reconstruction Finance Corporation, potrebbe non solo sistemare il disordine di oggi ma potrebbe continuare come la fonte finanziaria principale per erogare prestiti per i tutti i mutui residenziali dei consumatori che percepiscono meno di 200.000 dollari all’anno e per le società che hanno meno di 50 dipendenti. Come secondo sviluppo, la Federal Reserve stessa potrebbe essere completamente nazionalizzata, rimuovendola dal suo status attuale di banca in parte di proprietà privata e in parte finanziata dal governo. Una Federal Reserve completamente nazionalizzata potrebbe quindi servire come “prestatore di prima istanza” per tutti i mercati dei mutui per i consumatori – automobili, studenti ed altri tipi di prestiti. La sua struttura locale potrebbe comprendere le cooperative no-profit e gli uffici del Dipartimento per lo Sviluppo Urbano e Abitativo per interfacciarsi con il consumatore. E’ possibile estendere queste idee in modo analogo per gli altri mercati del credito. In due parole, è possibile pensare ad un’altra struttura per il sistema bancario.
Sì, ogni economia ha bisogno di un sistema creditizio ma gli Stati Uniti non hanno per forza bisogno di quello che hanno ora, che sta distruggendo l’economia reale e milioni di posti di lavoro ogni mese. Un altro sistema è possibile.
E’ dunque giunto il momento di essere pronti a spostarsi dall’inevitabile dibattito sulla nazionalizzazione delle banche che ben presto emergerà per considerare altre possibili strutture e progetti – strutture che esistono allo scopo di servire la “NAZIONE” e non gli interessi degli investitori privati. Strutture in cui le decisioni non vengono prese in favore degli interessi privati ma da rappresentanti dell’interesse pubblico in favore dell’interesse pubblico.
Jack Rasmus è l’autore del libro di prossima pubblicazione “Epic recession and global financial crisis”. I suoi articoli e interviste sono disponibili sul suo sito web http://www.kyklosproductions.com
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27 maggio 2009
L'ultima bolla : prepariamoci
E' il trucco estremo della finanza: gonfiare a dismisura il debito pubblico. è l’attacco finale alle nostre tasche e alle nostre vite. è ciò che deve indurci a una ribellione a tutto campo
La cosa peggiore che si possa fare in questo momento è continuare a comportarsi come se nulla fosse. Il che significa mantenere lo stesso stile di vita, e di spesa, che si avevano prima che la bolla speculativa mondiale esplodesse. Beninteso, parliamo di chi oggi è ancora in grado di decidere se continuare a vivere come sempre oppure prendere alcuni provvedimenti. Per la fasce più deboli del nostro Paese, per chi già viveva vicino la soglia della povertà economica, per i lavoratori precari senza rinnovo e per chi è finito in cassa integrazione, quando non ha proprio perso il lavoro, quella scelta non c'è e il confronto con gli effetti devastanti ai quali ci ha condotto il nostro modello di sviluppo è già in atto.
A tutti loro, così come a chiunque altro, onestà intellettuale ci impone di suggerire che non è in una ripresa economica che si può sperare. E dunque in un ripristino della situazione anteriore.
Attenzione, però. Senza che se ne parli troppo sui media ufficiali, si è già messo in atto l'unico sistema per non far crollare del tutto il nostro Occidente dal punto di vista economico, ovvero creare una nuova bolla. Ed è esattamente quanto ci si poteva aspettare dai padroni del vapore, piuttosto che sparire subito con quanto rimane nelle loro casse, o essere linciati come probabilmente si meriterebbero.
La bolla che sta crescendo in queste settimane - e che ovviamente prima o poi esploderà - è già stata innescata. Ed è l'ultima possibile prima della fine: si tratta delle bolla pubblica. Ovvero statale.
Dopo il petrolio e la new economy, dopo i mutui subprime e i derivati di Borsa, quale poteva essere l'ultimo elemento su cui speculare a dismisura per sostenere i circuiti finanziari? Lo Stato, naturalmente. L'indebitamento pubblico. Ovvero quello di tutti noi.
Banche e assicurazioni e industrie e posti di lavoro si sta cercando di salvarli attraverso l'emissione incondizionata di denaro. Di denaro senza valore, quando lo si crea, ma onerosissimo poi, quando lo si dovrà restituire. In primo luogo la Fed, che non solo, e da quasi 40 anni, ha svincolato l'emissione di moneta dall’ammontare delle riserve auree, che pure limitavano, almeno in parte, la quantità di denaro circolante, ma che oggi si rifiuta addirittura di rendere pubblico il dato relativo alla quantità reale di moneta stampata. I dollari in circolazione, se non lo sono ancora, stanno rapidamente diventando carta igienica.
A indebitarsi non possono più essere direttamente i cittadini degli Stati, di loro spontanea volontà o facendosi concedere dei prestiti dalle banche secondo la necessità. Ciò non toglie che essi si stiano indebitando, in ogni caso, con il sistema. Senza volerlo. Senza saperlo. Ci stanno pensando i governi al posto loro. Tutto il denaro stampato e messo in circolazione, tutto il debito pubblico dei vari Paesi in crescita esponenziale, è esattamente l'ultima bolla possibile. Ed è esattamente quello che sta accadendo. Si indebita lo Stato, per far fronte alle esigenze attuali, facendo fede sulla possibilità di ripresa di questo modello di sviluppo per poter poi ripagare, un giorno, tale debito.
Solo che questo debito non è solo grande. Sta diventando incommensurabile. E nessuno di noi sarà mai in grado di poterlo ripagare.
Oltre questa bolla c'è il default statale. A fare fallimento, dopo le aziende, dopo le Banche, le Borse e le Assicurazioni, saranno gli Stati.
Siamo, insomma, all'ultima fermata. A meno di sperare di scoprire nuovi pianeti in qualche galassia, e di convincerli a indebitarsi per noi, dunque, economicamente siamo arrivati proprio alla frutta. Dal punto di vista pratico e materiale, almeno per chi è riuscito a mantenere un lavoro, nell'immediato futuro è lecito aspettarsi che non cambi molto. Consumare un po’ meno, visti i ritmi di consumo attuali, non basterà a far scadere troppo il proprio tenore economico di vita. Attenzione: abbiamo scritto economico, perché dal punto di vista psicologico le cose cambiano.
Evitare di cambiare automobile, acquistare vestiti o elettrodomestici in quantità inferiore rispetto a prima, o scegliere un luogo di villeggiatura più vicino alla propria residenza invece di raggiungere un paese esotico, dal punto di vista materiale sposta di poco la situazione. Dal punto di vista psicologico invece, in una società che ha nel solo consumo i motivi di gratificazione, la cosa può avere degli effetti piuttosto importanti. Di questi parleremo in altra occasione: il tema è fondamentale non solo per l'immediato, ma anche per cercare di approdare a un sistema di vita, oltre l'economico, migliore di quello attuale. Merita dunque uno spazio specifico che promettiamo di affrontare a breve. Stavolta continuiamo a concentraci sugli effetti materiali.
Chi ha perso il lavoro e si trova già vicino all'indigenza deve dunque scontrarsi immediatamente anche con la parte materiale, ma per tutti vale la pena riflettere, soprattutto considerando quanto abbiamo detto nello scorso numero della rivista e considerando i probabili sviluppi dell'economia mondiale, su cosa è plausibile aspettarsi e su cosa è vivamente suggerito modificare. In una società con al centro scambi monetari e consumo in grave crisi finanziaria, dipendente dalle fonti energetiche fossili dirette verso l'esaurimento e con sistemi di vita centrati su tali elementi, è ovviamente sulla privazione di denaro che si deve ragionare. Vuoi per mancanza di lavoro, vuoi per aumento dei costi e delle tasse. Dunque la prima cosa da immaginare è come vivere con meno denaro. E con costi sempre maggiori anche delle cose indispensabili.
È lecito aspettarsi, infatti, maggiori perdite di posti di lavoro, meno guadagni monetari, aumento delle tasse, aumento dei costi dei beni primari.
L'Herald Tribune del 23 aprile riportava la notizia secondo la quale l'U.K. sta pensando di incrementare le tasse, per far fronte ai problemi debitori del Paese. Considerando il debito di Stato come fondamentale, visti gli interventi anti crisi di salvataggio della Banche & Co., è probabile dunque aspettarsi - anche per un minore numero di persone in grado di lavorare e dunque di contribuire al gettito fiscale dello Stato - che anche nel nostro Paese assisteremo a un ulteriore incremento delle tasse.
È plausibile inoltre aspettarsi che uno Stato privato del gettito Iva derivante dalla riduzione dei consumi - alla quale si collegherà la chiusura di tanti esercizi commerciali e imprese operanti nei servizi connessi, con ulteriore perdita di posti di lavoro - tenti di incidere sulle tasse con un aumento di quelle dirette. E a maggior ragione, considerando che ci sarà una riduzione di spesa sui beni voluttuari di consumo, non vi sarà altra alternativa che vedere una riduzione dei servizi, con ulteriore perdita dei posti di lavoro, e un aumento dei costi dei beni primari. Si potrà vivere acquistando meno merci non indispensabili, ma si dovrà continuare a mangiare, bere e riscaldarsi.
Su questo preme anche l'incognita inflazione: la continua immissione di denaro da parte delle Banche Centrali nel sistema, per scongiurare la (inevitabile, comunque) caduta delle Borse, porterà fatalmente a una crescita dei prezzi. E dunque all’aumento dei tassi di interesse (mutui, prestiti) e alla caduta del potere d'acquisto sia dei redditi che dei risparmi.
Insomma, ribadiamo: meno denaro a disposizione.
Va da sé, a questo punto, che il fuoco della riflessione debba svolgersi su due binari. Il primo: ipotizzare come vivere con meno denaro. Il secondo: ipotizzare come vivere in modo completamente diverso - sia sul piano psicologico che su quello pratico - rispetto a quanto si è fatto finora.
Un’ulteriore riflessione, che facciamo en passant, riguarda il prevedibile aumento di tensioni sociali e di delinquenza, considerata l'escalation di scontenti ed emarginati.
Molti consigli sono frutto di semplice buon senso. Il difficile non è starli a sentire considerandoli suggerimenti astratti e spunti di riflessione solo teorica. Il difficile è accettarli, riconoscerli, farli propri e, sopra ogni altra cosa, metterli in pratica. Ovvero, condividere l'analisi.
Il treno, in altre (e conosciute) parole, si sta per schiantare. E sta rapidamente arrivando a quell’epilogo. Delle due l'una: rimanere sul treno e aspettare lo schianto, oppure scendere dal treno e cominciare una nuova vita.
Il che implica problemi enormi e non aggirabili. Innanzitutto il fatto di scendere da un treno in corsa, e dunque le probabili conseguenze del salto. In secondo luogo trovarsi in una realtà disgregata e da ricostruire. Dove dover ricominciare tutto, o quasi. La differenza, essenziale, è che in quest'ultimo caso però saremo noi a guidare. Chi si sente pronto? Chi è tanto ribelle da farlo?
Diffidate di chiunque prospetti scenari certi. Ancora di più, come abbiamo visto, di chi (quasi) impone di avere fiducia in una ripresa economica nello stesso solco del sistema che ha portato alla situazione attuale.
Fatto questo, non resta che scendere dal treno. Con una serie di manovre essenziali - alcune, certamente, dolorose - e giocando qualche fiche al tavolo della previsione e della lungimiranza. Facendo fede sulla propria cultura e capacità di analisi.
Innanzitutto non fare debiti di nessun tipo. Da subito. È il principio cardine sul quale si è retto il nostro sistema prima di esplodere: consumare a oltranza e spendere più di quanto si aveva. Appare persino superfluo, come argomento, non fosse che ancora oggi molti, tra quelli che possono avere accesso al credito, continuano imperterriti a ricorrere a rate di vario tipo pur di acquistare oggetti che il più delle volte sono superflui.
In secondo luogo, iniziando un processo inverso, si deve cercare di estinguere il prima possibile i propri debiti. Mentre una volta acquisita la piena proprietà del bene che si è comperato a credito (ad esempio la casa) è plausibile sperare che essa non venga mai più espropriata, è molto alto il rischio che in una crisi strutturale come questa chi è in debito possa precipitare nell’insolvenza. Le ipoteche sono spade di Damocle sulle teste dei debitori. Meglio, dunque, eliminare gli oggetti superflui che si deve ancora finire di pagare, e utilizzare il più possibile il denaro che ancora si ha a disposizione per estinguere i debiti dei beni essenziali.
Si tratta, con tutta evidenza, di un processo in primo luogo psicologico ancora prima che pratico, soprattutto nell'imporsi di non contrarre ulteriori debiti, per modesti che siano. Come ha ben scritto Serge Latouche, e per la verità molti altri ben prima di lui, il temi della decrescita e della decolonizzazione dell'immaginario sono fondamentali. Naturalmente tutto il discorso dello studioso francese, pur profondo nel messaggio, è molto superficiale. Il discorso della decrescita si situa nel solco del nostro modello di sviluppo e ne suggerisce un rallentamento, finanche uno stato di fermo. Ma in una ipotetica direttrice rimane nella stessa dimensione del problema.
Ciò che in realtà auspichiamo, e ciò per cui ci battiamo, è invero una dimensione ulteriore dell'esistenza nel suo complesso. Una dimensione altra che deve situarsi in nuovi scenari, con approcci e obiettivi differenti. È nel senso, inteso nella duplice accezione di direzione e di significato, che si deve agire. E questo deve produrre degli effetti pratici. Per mettere in atto i quali si deve sposare una visione del mondo e della vita completamente differenti da quelli attuali. Vi è insomma bisogno di una Weltanschauung nuova - o perduta - che discende principalmente da un aspetto: ricominciare a stabilire cosa è importante e cosa non lo è.
Dal punto di vista culturale e spirituale, la nostra società è infatti di una povertà assoluta. La vita della maggior parte delle persone si può sintetizzare in tre parole, come sappiamo: lavora, consuma, crepa. Se a una famiglia i cui componenti lavorano come schiavi sei giorni su sette togli il centro commerciale la domenica non resta nulla. E questo è tutto. Ovvero, il nulla.
Uno dei motivi di tensioni sociali e di crisi attuale deriva infatti proprio da questo. Il pur becero, fittizio e inconistente benessere che derivava dallo spendere denaro e accumulare merce, allo stato attuale delle cose è venuto meno. Ed è rimasta unicamente la schiavitù da questo sistema.
Il senso di vuoto, inteso come mancanza di contenuto, fino a ieri riempito dal surrogato della merce, è oggi una voragine che si apre all'interno della gente. Tale vuoto era originariamente colmato dal senso di cittadinanza, dal sapere che si faceva parte di un destino comune. Dai rapporti sociali e comunitari.
Ma mentre la nostra società ha svuotato quasi del tutto questo contenuto fondamentale, provocando il vuoto che si andava a riempire attraverso i gironi danteschi degli scaffali, il processo inverso, oggi che viene meno il consumo, è molto più complesso. Perché ha bisogno di un percorso culturale le cui tracce, per chi è maggiormente inserito nel sistema stesso, sono di difficile individuazione.
Ed è invece a queste che si deve tornare.
Più facilitato, naturalmente, sarà chi non se ne è discostato troppo anche in questi decenni difficili per respirare. Così come lo sarà, almeno in parte, chi adesso si è finalmente convinto di doverle ricercare. Dal punto di vista pratico si deve pertanto resistere al consumo compulsivo per colmare altre lacune. E al frastuono dei centri commerciali, del mondo dei media pubblicitari, si sostituirà il silenzio necessario a scoprire e a percorrere l'altra dimensione dell'esistenza cui facevamo accenno.
Ti puoi fidare dei tuoi condòmini?
Molto spesso non ci si saluta neanche più in ascensore. Prepararsi ai prossimi anni necessita invece della riscoperta comunitaria. Potrebbe sembrare di essere soli, tutti contro tutti. In realtà c'è molta gente con la stessa sensazione, con le stesse necessità, che aspetta solo di ritrovare lo spirito comunitario di propri simili.
Una delle cose più importanti è dunque quella di iniziare nuovamente a creare una rete, una propria rete di amicizie e persone fidate con le quali trovare coesione, alleanza. Amici, amici veri (quanti se ne hanno?) parenti, persone con le quali condividere gli stessi percorsi, le stesse necessità. Bisogna insomma trovare le basi per affrontare il periodo di transizione che abbiamo di fronte. Se prima pensavamo - meglio: qualcuno pensava - di poter essere felice con il carrello pieno, lo shopping la domenica, il nonno con la badante o spedito in un ospizio, i figli con la baby sitter e lavorare quaranta ore a settimana, annodare fili su fili per poi tentare di scioglierli con quindici giorni di ferie all'anno, ebbene per forza questo stato di cose dovrà cambiare. E sarà un bene.
Per quanto attiene ai beni immobili il discorso è di una semplicità assoluta. Facciamo due esempi. Il primo, più comune, di chi si è indebitato una vita intera per acquistare un appartamento di 80 metri quadri a un terzo piano di una anonima periferia di una grande città. Il secondo, di chi ha fatto lo stesso per una casa fuori città, magari con un piccolo terreno intorno, o un giardino più o meno grande.
Ora attenzione: nel primo caso, cosa si possiede? Una abitazione sospesa a un terzo piano, magari su un pianerottolo con altri tre appartamenti in un palazzo di cinque piani. Il che significa che in realtà si possiede un minimo corrispettivo di terreno, a terra, e un minimo corrispettivo di solaio. Da dividere con tutti gli altri condomini della stessa colonna del palazzo che, appunto, hanno in con-dominio, un tot di terreno sul quale - letteralmente - vivono uno sopra all'altro.
Nel secondo caso, per esempio di una casa a due piani con un giardino intorno, non si è più un "Giovanni senza terra" ma si ha qualcosa che oltre a permettere di avere un tetto sopra la testa - di cui si è unico proprietario - offre potenzialmente la possibilità di un minimo di sussistenza.
Insomma la differenza è enorme, proprio dal punto di vista pratico, e soprattutto in previsione di quanto potrebbe accadere in futuro.
Il mondo moderno ha visto l'afflusso verso le città per andare incontro alla domanda-offerta di lavoro nelle attività tipicamente cittadine. Esercizi commerciali o servizi che siano. La concentrazione nelle città ha reso tutti dipendenti da due cose: il denaro per acquistare ciò che in città non si produce e dunque qui si deve far arrivare (soprattutto cibo) e il fatto di dover sottostare ai prezzi altissimi anche per un semplice appartamento. Per non parlare della qualità della vita, all'interno delle nostre città.
Molte persone stanno capendo che il gioco non vale la candela. Per molti, soprattutto adesso, ovvero chi non ha un lavoro in città e dispera di averlo in futuro, è chiaro come sia assurdo tentare con le unghie di rimanere in un ambiente costosissimo che offre esattamente, peraltro, lo stile di vita cucito su misura al tipico uomo moderno che meccanismo del lavora-consuma-crepa.
Cosa si rimane a fare, dunque, nelle caotiche, alienanti, costosissime, cancerogene città? Soprattutto: quanto le grandi città sono oggi in grado di poter offrire quello che serve per vivere?
Materialmente, per vivere, non è che serva poi molto. Le esigenze sono sempre le stesse, almeno quelle di base. È dopo aver soddisfatte queste che viene il resto. Fino a ora, il resto significava soprattutto merce, cultura, divertimento. Ma la declinazione, la chiave di lettura di questi altri aspetti, è divenuta consumo. Consumo di merce, di cultura, di divertimento. Appunto.
La vita come un costoso tubo digerente.
Il “migliore dei mondi possibili” ha postulato di lavorare, di lavorare sempre di più, prima per vivere, e quindi per consumare. La domanda da porsi, alla fine, è sempre la stessa: quanto siamo diventati felici?
Non è forse nell'avere meno, nel lavorare meno, nell'avere più tempo per sé che possiamo trovare le basi per affrontare questo periodo di transizione così come di un nuovo paradigma di vita?
Non è che ci sia un metodo. Ci sono però alcuni principi. Partono innanzitutto da un processo di eliminazione: del caos, dello stress, del rumore, della lotta metropolitana che inizia la mattina quando ci alziamo per andare a lavoro, prosegue in ufficio, e ancora una volta mentre tentiamo di tornare a casa.
È questo il momento di riscoprire alcuni punti chiave, come il contatto con la natura e gli spazi vitali più ampi (via dalle fabbriche e dalle città); le occupazioni più legate al territorio e alla persona (rispetto alla alienazione di produrre qualcosa di inutile); la riscoperta della comunità, della partecipazione e della collaborazione (rispetto alla logica competitiva del tutti contro tutti).
Le parole d'ordine, in tal senso, sono riduzione, disintossicazione, localismo, autoproduzione, scambio, prossimità, comunità.
Ridurre i consumi anche prima di doverlo fare per forza. Sottrarsi alla dipendenza indotta dalla propaganda. Scegliere un territorio nel quale radicarsi, autoprodurre il possibile e innescare processi di scambio e sostegno reciproco all'interno di comunità che vogliono condividere lo stesso percorso culturale e di vita. Può non essere affatto sbagliato indirizzare i propri figli a studiare agraria. È indispensabile ricostruire il tessuto sociale che la competizione del nostro mondo ha disintegrato per sconfinare nella lotta di tutti contro tutti.
E attenzione: se uno dei punti cardine di tutto il processo di transizione è quello della diminuzione, l'altro, ancora più importante, è quello della differenziazione.
Perché riduzione non significa vivere nello stesso solco al quale siamo abituati semplicemente impoverendo - dal punto di vista materiale - la propria vita. La chiave di volta è quella di sostituire alcune caratteristiche della nostra attuale vita alienata con altre ormai perdute. Allo spostamento nel traffico si deve sostituire un lavoro locale, che non necessiti spostamento. Alle ore di lavoro straordinario per avere qualche euro in più da spendere in sciocchezze si può sostituire il tempo libero per fare altre attività più edificanti, per se stessi e per la comunità nella quale si vive. Non vi è praticamente attività, passione, attitudine e capacità che non possa essere applicata e declinata anche in situazioni locali, invece che globali come facciamo adesso. È la finalità con la quale si svolge l'occupazione che deve cambiare. Fino a ora era accumulo di denaro e competizione personale. Domani (o già oggi) può diventare miglioramento della propria comunità, oltre che costruzione personale come è giusto che sia.
E avremo dato scacco matto al sistema.
di Valerio Lo Monaco
26 maggio 2009
Obama e la crisi del capitalismo
I programmi messi a punto dagli USA, dall'Europa occidentale, e da altre regioni capitalistiche non hanno nemmeno cominciato ad ammettere le basi strutturali della depressione.
In primo luogo, Obama ha destinato 1 trilione di dollari all'acquisto di titoli bancari senza valore e oltre il 40% dei suoi 787 miliardi di dollari d'incentivi non ai settori produttivi ma a banche insolventi e ad evasori fiscali, in modo da salvare i possessori di azioni e titoli; e questo mentre ogni mese oltre 600.000 si ritrovano senza lavoro.
In secondo luogo, per sostenere la costruzione di un impero basato sulle armi, il regime di Obama sta destinando oltre 800 miliardi di dollari al finanziamento della guerre in Iraq e Afghanistan. Si tratta di un massiccio trasferimento di fondi pubblici dall'economia civile al settore militare che spinge decine di migliaia di giovani disoccupati ad arruolarsi dell'armata (Boston Globe, 1 marzo 2009).
In terzo luogo, la commissione di Obama per sorvegliare la "ristrutturazione" dell'industria automobilistica statunitense ha approvato i piani che prevedono di chiudere molte fabbriche, eliminare i piani di protezione sociale finanziati dalle aziende a favore dei pensionati e obbligare decine di migliaia di lavoratori a brutali tagli nelle pensioni e l'assistenza sanitaria. L'intero onere per riportare in attivo l'industria privata dell'auto ricade sulle spalle degl'impiegati, salariati e pensionati, e naturalmente sui contribuenti americani.
L'intera strategia economica del regime di Obama consiste nel salvare i possessori di titoli, iniettando trilioni di dollari in strutture insolventi e comprando titoli di credito senza alcun valore e azioni di società finanziarie in fallimento. Al tempo stesso, però, il suo regime evita ogni investimento diretto nelle imprese pubbliche produttive, cosa che permetterebbe di dar lavoro a 10 milioni di disoccupati. Mentre oltre il 40% del bilancio di Obama è destinato alle spese militari e al pagamento del debito, un americano su dieci è stato sfrattato, il numero di americani senza lavoro sta arrivando al 10%, e quelli che devono usare i buoni statali per ottenere gli alimenti di base sta aumentando di vari milioni nel 2009.
Il programma di "creazione di posti di lavoro" di Obama indirizza miliardi di dollari verso le società private di telecomunicazione, costruzione, ambientali e di produzione elettrica, dove il grosso dei fondi pubblici serve per i bonus degli alti papaveri e per i dividendi degli azionisti, mentre solo una quota minima serve per i salari dei lavoratori. Inoltre, il grosso dei disoccupati nei settori della produzione e dei servizi non può essere riconvertito nei settori "beneficiari". Nel 2009 verrà assegnata solo una minima parte dei "pacchetti d'incentivi", che hanno il fine di sostenere le entrate della classe finanziaria e dominante e di rimandarne la loro già da tempo necessaria eliminazione. L'effetto sarà quello di aumentare il divario tra classe dirigente e lavoratori salariati. Gli aumenti delle tasse per la classe ricca sono incrementali, mentre l'enorme debito legato al deficit fiscale ricadono sui contribuenti attuali e futuri.
L'adesione entusiastica alla creazione di un impero su basi militari - anche in una situazione di deficit di bilancio da record, di un enorme passivo commerciale e di una depressione incalzante – identifica Obama come un militarista senza eguali nella storia contemporanea. Nonostante avesse promesso il contrario, il bilancio militare per il 2009-2010 supererà di almeno il 4% quello di Bush: il numero di militari statunitensi aumenterà di varie centinaia di migliaia, in Iraq si manterrà vicino al massimo e in Afghanistan aumenterà di varie decine di migliaia, almeno nel 2009, mentre gli attacchi aerei e terrestri in Pakistan sono cresciuti in progressione geometrica. I massimi responsabili nominati da Obama al Dipartimento di stato, al Pentagono, al Tesoro e al National Security Council sono in gran parte, soprattutto per quel che concerne le funzioni legate al Medio oriente, ebrei guerrafondai con una lunga storia di incitamento alla guerra contro l'Iran e strettamente legati ai comandi militari israeliani.
Per riassumere, le massime priorità del regime di Obama sono messe in luce dall'assegnazione di risorse finanziarie e materiali, dalle nomine dei responsabili economici e di politica estera, e dalle classi che trarranno benefici o che verranno penalizzate dalle sue scelte. La politica di Obama dimostra che il regime si preoccupa solo di salvare la classe capitalistica e l'impero USA, e per raggiungere il suo scopo il presidente è disposto a sacrificare i bisogni basici immediati, gl'interessi futuri, gli standard di vita della grande maggioranza dei lavoratori e proprietari americani, più direttamente colpiti dalla depressione economica nazionale. Nella nuova amministrazione, Obama ha ampliato gli obiettivi della costruzione di un impero basato sulla forza militare e rafforzato il potere dei guerrafondai proisraeliani. Le sue strategie di escalation militare e di "recupero economico" e sono incompatibili dal punto di vista finanziario e fiscale: il costo dell'una annulla l'impatto dell'altra e lascia un vuoto incolmabile negli sforzi di contrastare il collasso dei servizi sociali, dei sempre più frequenti sfratti, delle bancarotte e delle chiusure massicce.
I trasferimenti orizzontali di ricchezza pubblica dal gruppo di potere di Obama alla classe economica dominante non "hanno ricadute" sull'occupazione, il credito e i servizi sociali. Il tentativo di trasformare le banche insolventi in attive aziende di credito è un ossimoro. Il dilemma centrale di Obama è come creare le condizioni per rendere nuovamente lucrosi i settori falliti dell'attuale economia statunitense.
La sua strategia presenta numerosi problemi di base:
In primo luogo la struttura economica del paese – che in passato generava occupazione, profitti e crescita – non esiste più: è stata smantellata dirottando il capitale oltremare, in strumenti finanziari e in altri settori economici non produttivi.
In secondo luogo le politiche "d'incentivi" di Obama rinforza il potere finanziario su quello economico, destinando importanti risorse a quel settore invece di "riequilibrare" l'economia a favore del settore produttivo. E all'interno del settore produttivo le risorse pubbliche vengono usate per sostenere le élite capitalistiche che hanno dimostrato la loro incapacità di creare impiego, rafforzare la competitività sui mercati e di innovare alla luce delle preferenze e degl'interessi dei consumatori.
In terzo luogo la strategia economica di Obama di un recupero diretto verso il basso annulla buona parte del suo impatto sussidiando imprese capitalistiche fallite invece di aumentare le entrate della classe lavoratrice raddoppiando il salario minimo e i sussidi di disoccupazione, la sola base reale per aumentare la domanda e stimolare il recupero economico. Alla luce della riduzione dello standard di vita, imputabile al crollo nazionale e all'espansione dell'impero basato sulla forza militare, due fattori che sono parte integrale delle fondamenta istituzionali dello stato, non esistono speranze per un tipo di trasformazione strutturale in grado di modificar le onerose politiche "top-down" promosse dal regime di Obama.
Il segreto per uscire dalla sempre più profonda depressione non consiste nello stampare trilioni di dollari, operazione che crea solo le condizioni per l'iperinflazione e la marginalizzazione del dollaro. La causa principale è la sovraccumulazione del capitale legata allo sfruttamento intensivo del lavoro, che ha provocato tassi di profitto sempre più alti e il collasso della domanda: alla base dell'esplosione della bolla finanziaria c'è l'enorme disparità tra espansione del capitale e declino del consumo della classe lavoratrice.
"Riequilibrare" l'economia significa creare domanda (non di un settore produttivo privato stremato o di un sistema finanziario insolvente) attraverso la proprietà pubblica diretta e gl'investimenti a lungo termine e grande scala nella produzione di beni e servizi sociali. L'intera "sovrastruttura" speculativa, cresciuta in massima parte mettendo da parte il valore generato dal lavoro, si è riprodotta in una miriade di "strumenti cartacei" senza rapporto con il valore d'uso. Per liberare le forze produttive dai legacci e limitazioni dei capitalisti improduttivi e dei loro seguaci, è necessario smantellare l'intera economia cartacea, definire un ampio programma di formazione per riconvertire i broker in elementi creativi e produttivi, smantellare completamente l'impero mondiale per ricostruire il mercato domestico e per fare largo a innovazioni che incrementino la produttività. Le costose e improduttive basi dell'armata, elementi essenziali per l'espansione di un impero su basi militari, dovrebbero essere chiuse e sostituite da reti commerciali, mercati, transazioni economiche con produttori che operano al di fuori dei mercati domestici. Invertire la tendenza al declino domestico esige la fine dell'impero e la costruzione di una repubblica socialista democratica. In questa ottica, è imprescindibile porre fine alle alleanze politiche con le potenze guerrafondaie d'oltremare, in particolare con lo stato israeliano, e modificare radicalmente una struttura domestica che mina alla base gli sforzi per una società democratica aperta al servizio degl'interessi del popolo americano.
Impatto regionale della crisi globale
La depressione mondiale ha cause comuni e differenti, influenzate dagli specifici legami tra economie e strutture socioeconomiche. A un livello globale più generale, il crescente tasso di profitto e la sovraccumulazione del capitale che ha portato alle folli speculazioni finanziarie e immobiliari e al susseguente crollo hanno colpito, in modo diretto o indiretto, la maggior parte dei paesi. Ma al tempo stesso, anche se tutte le economie regionali stanno subendo le conseguenze della depressione, gli effetti sono notevolmente diversi dato che le regioni sono posizionate differentemente nell'economia mondiale.
America latina
Il Brasile – con una politica di libero mercato e di profonde divisioni di classe che vanificano ogni tentativo di recupero interno, e con il rapido declino delle esportazioni e della produzione industriale – avanza a grandi passi verso la recessione, nonostante le roboanti dichiarazioni del presidente Lula da Silva, il pupillo di Wall Street e della Casa Bianca.
Nel gennaio 2009 la produzione industriale è scesa del 17,2% annuo, mentre nell'ultimo trimestre del 2008 il PIL si è ridotto del 3,6% (Financial Times, 11 marzo 2009). Tutto lascia pensare che in quel che resta del 2009 la decrescita continuerà e si aggraverà: i mercati esteri dell'esportazione e degl'investimenti diretti, forza trainante delle passata crescita, sono in netta contrazione. Le politiche di privatizzazione di Lula hanno permesso che il settore finanziario cadesse in mano a investitori stranieri, che hanno importato la crisi degli USA e dell'UE. Le "politiche di globalizzazione" hanno reso il Brasile più vulnerabile al collasso del commercio estero. I flussi di capitale sono decisamente negativi. Tra dicembre 2008 e aprile 2009 centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro. I 5 milioni di lavoratori rurali senza terra impoveriti, e i 10 milioni di famiglie che vivono con il sussidio alimentare governativo di un dollaro al giorno sono esclusi dalla domanda interna, così come le decine di milioni di lavoratori che vivono con il salario minimo di 250 dollari al mese. Il potere d'acquisto degli agricoltori superindebitati non sostituisce la latitante domanda estera. Tutti i settori, rurale e urbano, della classe capitalistica stanno congelando i nuovi investimenti visto che il credito è scomparso, gl'investitori stranieri abbandonano il campo e i la spesa dei consumatori locali si riduce a causa della sempre più grave recessione. Le affermazioni di Lula e le sue previsioni di crescita del 4% sono considerate "pura illusione" per coprire il sopravvenire di una dura recessione economica. Il cieco sostegno di Lula alla globalizzazione e al "libero mercato" è un elemento determinante della crescente recessione.
Il passaggio del Brasile a un PIL negativo precede di poco quello previsto per gli altri paesi della regione: -2% l'Argentina, -3% il Messico, 0% o meno il Cile. America centrale e area caraibica, totalmente "integrate" nell'economia statunitense e mondiale, stanno provando la forza devastante della depressione mondiale, con un tasso di disoccupazione che schizza verso l'alto a causa del collasso del turismo, della ridotta domanda di beni primari, e della grave caduta delle rimesse dei lavoratori emigrati. Povertà, criminalità e possibili rivolgimenti sociali contro i governi di centro e centro-sinistra si aggraveranno.
La diffusione mondiale del capitale dell'imperialismo ("globalizzazione" secondo i sostenitori, "imperialismo" secondo gli avversari) ha portato al ripercuotersi della crisi finanziaria e dei fallimenti nei paesi più strettamente legati ai circuiti finanziari europei e statunitensi.
La globalizzazione ha legato le economie latino-americane ai mercati mondiali, a spese dei mercati interni, e ha aumentato la vulnerabilità alle cadute della domanda, dei prezzi e del credito che oggi sperimenta. La globalizzazione, che prima aveva agevolato l'entrata di capitali, ne agevola, ora che siamo in presenza della depressione, la fuga massiccia. Gli USA, che assorbono il 70% dei risparmi mondiali nel suo sforzo disperato di cancellare e rifinanziare il suo mostruoso deficit di bilancio e commerciale ha estromesso i suoi partner commerciali latino-americani dal mercato mondiale del credito. La depressione ha dimostrato in modo chiarissimo il vuoto della globalizzazione centrata sull'imperialismo e l'assenza di rimedi per i suoi collaboratori sudamericani. Il crescente protezionismo (e i miliardi di dollari in sussidi di stato per sostenere i capitalisti degli stati imperialisti nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e produttivo) dimostra in modo lampante la disintegrazione dell'economia globale centrata sull'imperialismo. La depressione mondiale non solo mette in luce i limiti intrinseci dell'economia globalizzata ma ne rende inevitabile la frantumazione in una molteplicità di unità in conflitto: le nazioni, ognuna delle quali dipende dalle proprie finanze e settori statali per poter uscire dalla profonda depressione a spese degli antichi alleati. Man mano che la deglobalizzazione accelera, la depressione mondiale spinge a tornare alla nazione-stato.
Parallela e strettamente collegata alla caduta del mercato mondiale è la crescita dello stato capitalistico come elemento chiave per recuperare le ricchezze nazionali ed imporre un esorbitante tributo alle pensioni e ai fondi sanitari e pensionistici di miliardi di lavoratori, pensionati e contribuenti. In un momento di collasso del capitalismo, il crescente "capitalismo di stato" nasce solo per "salvare il sistema capitalistico dai suoi fallimenti", come affermano i suoi sostenitori. E per arrivare a questo risultato sfrutta la ricchezza collettiva dell'intero paese. La "nazionalizzazione" delle banche e delle industrie insolventi è l'apice del capitalismo predatore. Non sono più le singole imprese o i singoli settori a profittare dei salariati, ma è il capitalismo di stato che rapina l'intera classe di coloro che producono ricchezza.
Le possibilità dell'America latina partono dal riconoscimento che la globalizzazione è morta, che solo grazie al controllo popolare democratico la nazionalizzazione può servire a generare ricchezza e creare occupazione, invece di servire per indirizzare e ridistribuire le risorse a una classe capitalistica fallita e in bancarotta.
Europa dell'est e paesi dell'ex blocco comunista
Nell'Europa dell'est, il passaggio dal comunismo al capitalismo ha seguito un processo di privatizzazione, spesso basato su una rapina generalizzata, l'uso illegale delle risorse pubbliche e la caduta drammatica del livello di vita e della produzione nella prima metà degli anni '90. Approfittando del costo ridotto del lavoro e del facile accesso a lucrose opportunità in tutti i settori economici, i capitalisti europei e americani hanno assunto il controllo dei settori produttivo, estrattivo, finanziario e delle comunicazioni. La caduta delle barriere tra Est e Ovest è stata accompagnata da un flusso massiccio di lavoratori specializzati verso i paesi occidentali. Il recupero economico, e la susseguente crescita, nell'Europa dell'est e nei paesi dell'ex blocco comunista è andato a braccetto con l'espansione degl'investimenti e del credito dal capitalismo occidentale: il trasferimento dei centri produttivi, l'arrivo di capitale speculativo nei settori finanziario e immobiliare, l'accesso ai mercati occidentali in piena espansione, e, in particolare, il finanziamento via indebitamento delle spese dei consumatori hanno drogato la crescita. La regione è stata quindi doppiamente colpita: dal collasso economico causato da una speculazione interna insostenibile e dalla sua dipendenza da un occidente in fase di depressione per i capitali, il credito e i mercati. Le economie capitalistiche degli stati baltici, dell'Europa dell'est e della Russia hanno subito un collasso rapido: man mano che i mercati creditizi dell'Europa occidentale si restringevano e le multinazionali disinvestivano largamente, le valute locali si sono svalutate e i mercati esteri si sono dissolti. L'intera strategia dello "sviluppo dipendente" basata sulla disarticolazione dei mercati locali e il flusso di capitali ha vanificato gli sforzi per contrastare il crollo. La sola scelta possibile era cercare di ottenere un sostanzioso aiuto finanziario dal FMI e dalle banche, a condizioni pesanti e tali da limitare le opzioni dei piani nazionali d'incentivazione fiscale.
I legami regionali con i mercati mondiali, basati su rapporti di dipendenza con i capitalisti occidentali, implicano in primo luogo l'assenza di mercati interni e di capitali per attenuare il crollo e in secondo luogo il pericolo che l'arrivo di capitali esterni aggravi la depressione. Dal Baltico ai Balcani, dall'Europa dell''est alla Russia, la potente forza della depressione ha provocato disoccupazione generalizzata di lunga durata, bancarotta delle industrie locali sussidiarie, dei servizi e delle banche. I neonato movimenti popolari rimettono in discussione le politiche commerciali dei governi e, i certi casi, rifiutano il modello capitalistico di dipendenza dalle esportazioni.
Asia: la fine dell'illusione d'indipendenza e crescita autonoma
La grande depressione del 2009 ha colpito tutte le economie asiatiche, che dipendono dai mercati internazionali finanziari e dei beni. Anche i paesi più dinamici (Giappone, Cina, India, Corea del sud, Taiwan e Vietnam) non hanno potuto sottrarsi alle conseguenze del drastico declino del commercio, dell'occupazione, degl'investimenti e degli standard di vita. Due decenni di espansione dinamica, alta crescita ed elevati tassi di profitto, grazie ai mercati dell'esportazione e allo sfruttamento intensivo del lavoro, hanno provocato una sovraccumulazione di capitale. Molti esperti asiatici ed occidentali parlano di "un nuovo ordine mondiale", guidato e orientato dalle potenze economiche emergenti dell'Asia, in particolare la Cina, in cui il potere si baserebbe sempre di più sulla loro "autonomia regionale". In realtà, la dinamica crescita industriale cinese era profondamente inserita in una catena mondiale di beni in cui i paesi industriali avanzati (Germania, Giappone, Taiwan e Corea del sud, ad esempio) fornivano strumenti di precisione, macchinari e pezzi alla Cina, che li assemblava e li esportava poi nei mercati statunitensi, europei e asiatici. "L'indipendenza" era un mito.
La crescita pilotata dalle esportazioni è stata alimentata dallo sfruttamento selvaggio del lavoro, dalla distruzione di vaste aree di servizi sociali (servizi sanitari, pensioni, sussidi alimentari e istruzione) e dalla generalizzata concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo ristretto di nuovi ricchi miliardari (Economic and Political Weekly – Mumbai, 27 dicembre 2008, p. 27-102). La crescita della Cina e del resto dell'Asia si basava sulla contraddizione tra espansione dinamica delle forze produttive e crescente polarizzazione dei rapporti produttivi di classe. Gli alti tassi di profitto hanno condotto alla sovraccumulazione del capitale (alti tassi d'investimento) e quindi a notevoli attivi di bilancio e commerciali che si sono poi propagati nei settori finanziari, nell'espansione oltremare (riciclaggio di fondi neri) e nella speculazione mobiliare.
L'edificio economico asiatico poggiava precariamente sulle spalle di centinaia di milioni di lavoratori, virtualmente non consumatori, e sulla sempre maggiore dipendenza dai mercati di esportazione. La crisi mondiale ha fatto collassare soprattutto i mercati di esportazione, mettendo in luce i punti deboli delle economie asiatiche e provocando una grave caduta del commercio e della produzione, accompagnata da una considerevole crescita della disoccupazione. Gli sforzi cinesi e degli altri paesi asiatici per contrastare il crollo dei mercati di esportazione con massicce iniezioni di capitale pubblico per stimolare la liquidità finanziaria e lo sviluppo delle infrastrutture sono risultati insufficienti per bloccare l'aumento della disoccupazione e la bancarotta di milioni di imprese dipendenti dall'esportazione.
La classe capitalistica asiatica e il gruppo dirigente sono del tutto incapaci di "ristrutturare" la struttura economica e sociale dando forza alla domanda interna ora che il mercato esterno ha ceduto. Un tale passo comporterebbe molte profonde trasformazioni nella struttura di classe: ad esempio il passaggio da investimenti basati sul profitto elevato a servizi produttivi e sociali a scarso margine per centinaia di milioni di lavoratori e contadini a basso reddito, oppure il trasferimento di capitali dal settore immobiliare privato, i mercati azionati, e l'acquisto di titoli stranieri, per finanziare servizi sanitari universali, istruzione, pensioni, o ancora il recupero dei suoli per un uso produttivo piuttosto che per le speculazioni immobiliari.
L'intera crescita dinamica dall'Asia, costruita sulla concentrazione di capitale, alti profitti e bassi salari, sta cercando di sopravvivere aggravando l'impoverimento del lavoro con massicci licenziamenti, ampliando i flussi di ritorno dei lavoratori migranti verso i campi devastati, e aumentando il surplus di forza di lavoro. L'espulsione del lavoro, tradizionale soluzione del capitalismo, non fa altro che spostare e intensificare la contraddizione e allargare il conflitto tra il capitale industriale e finanziario a base urbana e le centinaia di milioni di lavoratori e contadini poveri, disoccupati o sottoccupati. Le iniezioni statali di capitale per stimolare l'economia passano attraverso il "filtro" dei dirigenti regionali e della classe capitalista, che assorbe e usa buona parte dei fondi per puntellare le imprese in fallimento, senza impatto sensibile sulla massa di lavoratori disoccupati.
La proprietà privata e il controllo capitalistico sullo stato impedisce il tipo di trasformazione sociale che potrebbe espandere il mercato interno e far ripartire la crescita.
Il sistema cinese di crescita ha ovviamente minato i suoi partner commerciali, che dipendono dalle esportazioni verso il paese di materie prime e industriali. Il collasso della domanda dei mercati euro-americani ha distrutto l'intera architettura delle industrie che lavorano per l'esportazione. Lo sfruttamento selvaggio del lavoro e il potere della nuova borghesia cinese fa sì che esistano poche possibilità di una ripresa della domanda interna.
La riprese economica della Cina dipende da una nuova trasformazione socialista che renda la domanda interna il vero motore della crescita.
Medio oriente: depressione e guerre regionali
Il motivo fondamentale della crisi e del fallimento del Medio Oriente risiede nelle guerre regionali sionistiche e nel collasso dei prodotti di base.
I paesi produttori di petrolio hanno accumulato ampi "redditi", usati per acquisti a grane scala, nella regione o fuori, nei settori finanziario, immobiliare e militare. I profitti si sono concentrati nelle mani di capi assolutisti miliardari con un rapporto di classe estremamente polarizzato: super ricchi e lavoratori immigranti con salari bassissimi hanno limitato la portata e l'ampiezza dei mercati interni. Per eliminare la crisi della sovraccumulazione e della contrazione dei profitti, i gruppi dirigenti hanno adottato due strategie che hanno ritardato l'inevitabile: in primo luogo la dipendenza dall'esportazione massiccia (dapprima in USA e Europa e poi in Asia e Africa) di capitali da prestare ad alti tassi d'interesse, in secondo luogo il reimpiego dei profitti in immobili faraonici, centri turistici e settore bancario negli Stati del Golfo che ha portato a una immensa bolla immobiliare. Il collasso dei beneficiari di questi redditi (non produttivi) nel Medio oriente è stato preparato dal frenetico aumento dei prodotti petroliferi, tra il 2004 e il 2008, che ha accelerato il processo di sovraccumulazione e la generalizzazione del debito e dell'importazione di lavoro. Ne è seguita una crisi economica regionale, in cui gli attivi di bilancio e commerciali sono stati rimpiazzati da deficit sempre più grandi. Le economie mediorientali non si sono mai modificate dopo la loro creazione per dar vita a un sistema diversificato, basato non più sui "redditi" ma sulla produzione e la creazione di un dinamico mercato regionale di massa. La classe dominante deve far fronte a una sempre crescente massa di lavoratori locali e immigrati disoccupati, la fuga compatta di migliaia di espatriati europei del settore finanziario, del settore immobiliare e di altri operatori di settori non produttivi. Ora che non possono più profittare del boom petrolifero (prezzi, profitti e ricavi sono crollati) e non sono più i potenti banchieri e detentori di debiti, la classe dominante dei Paesi del Golfo dispone di poche risorse esterne o interne per mettere a punto un "programma di recupero". Peggio ancora, nel pieno di questo crescente collasso economico lo stato militarista di Israele funziona da forza regionale di destabilizzazione e proietta la sua potenza e le sue ambizioni coloniali in tutta l'area. Con una situazione di potere unica nella storia del mondo, lo stato d'Israele, economicamente insignificante, controlla i livelli fondamentali del potere politico del governo USA grazie all'attività di varie decine di migliaia di membri della Diaspora strategicamente situati, estremamente organizzati e disciplinati, e ideologicamente impegnati...... di James Petras
25 maggio 2009
Le tante facce della nazionalizzazione delle banche
Gli appelli per la nazionalizzazione del sistema bancario stanno vibrando almeno dallo scorso settembre, quando ha avuto origine l’attuale Panico dopo il tracollo della banca Lehman Brothers, il salvataggio iniziale di AIG e il rapido assorbimento delle banche Merrill Lynch-Wachovia-Washington Mutual da parte dei loro concorrenti più grandi, Bank of America, Wells Fargo e JP Morgan Chase.
Alcuni dei primi a sollevare l’idea della necessità eventuale di una nazionalizzazione bancaria furono lo scorso autunno gli editorialisti del Wall Street Journal e l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan. Naturalmente l’idea di nazionalizzazione che avevano in mente gli editorialisti del Journal e Greenspan era che il governo si dovesse assumere la responsabilità di ripulire i beni deteriorati della banca a spese del contribuente, per poi svendere rapidamente i beni rimasti ai nuovi investitori ad un prezzo d’occasione. La banca “nazionalizzata” verrebbe quindi rimessa prontamente in attività come un nuovo istituto interamente privato mentre le sue “bollette” (i beni deteriorati), nel frattempo, sarebbero pagate dal contribuente.
La nazionalizzazione è pertanto un tipo di procedura fallimentare di emergenza decretata ed avviata dal governo degli Stati Uniti. Le banche non verrebbero “acquisite” se non in senso legale, formale. Seguirebbe poi un rapido trasferimento degli beni deteriorati, dopodiché l’istituto verrebbe di nuovo “messo sul mercato” e venduto agli investitori privati. La nazionalizzazione, in questo senso, serve solamente come mossa strategica per sbarazzarsi dei beni deteriorati e riportare in vita una banca zombie.
Qualcosa di simile avvenne con il fallimento della banca regionale di medie dimensioni IndyMac alla fine dell’estate 2008 quando fu acquisita dall’agenzia del governo americano Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Oggi IndyMac ha riaperto i battenti con i propri debiti azzerati, debiti che sono ora del governo e del contribuente. Per la verità, IndyMac è stata riacquistata dalla FDIC ad un prezzo d’occasione dallo stesso gruppo di investitori che già l’aveva posseduta in passato. E di cui ora sono ritornati proprietari. Gli investitori sono stati “salvati”. La nazionalizzazione, quindi, è una forma di “salvataggio degli investitori”, una sorta di “amministrazione fiduciaria temporanea” in un senso formale e legale, in attesa di una nuova privatizzazione.
Quello che il Journal e Greenspan avevano in mente con “nazionalizzazione delle banche” è semplicemente il concetto di fare alle altre banche, anche quelle più grandi, quello che è stato “fatto per IndyMac.” Non vi è alcuna idea sottintesa sul fatto che una banca possa essere acquisita in modo permanente e gestita di giorno in giorno, non per gli interessi degli investitori privati ma per il più ampio interesse pubblico della nazione e dei suoi cittadini.
Dall’autunno 2008, quando i banchieri sono sostanzialmente entrati in sciopero rifiutandosi di erogare prestiti alle imprese e ai consumatori, se non applicando tassi a livello di usura, è infuriata la polemica nei circoli del potere su che cosa dovesse essere fatto delle migliaia di miliardi di dollari di “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. Questi “beni deteriorati” sotto forma sia di “mutui deteriorati” che di “cartolarizzazioni deteriorate” ora ammontano ad una cifra che oscilla tra i 4.000 e i 6.000 miliardi di dollari stando a diverse fonti come Fortune Magazine e il Journal, e altre rispettabili fonti indipendenti, come il professore dell’Università di New York, Nouriel Roubini, e persino secondo il Segretario al Tesoro Geithner prima che venisse ufficialmente nominato per ricoprire tale incarico. Il punto principale è che finché i “beni deteriorati” non saranno eliminati dai bilanci delle banche, queste continueranno a rifiutarsi di erogare prestiti e l’attuale rapido declino dell’economia reale americana continuerà ad aggravarsi.
Il concetto Journal-Greenspan di nazionalizzazione bancaria deve essere visto come parte della discussione in corso della classe capitalista. La nazionalizzazione è solamente una tattica per impegnarsi nell’eliminazione dei beni deteriorati a cui seguirà una rapida privatizzazione, nulla di più.
Dallo scorso autunno diverse altre proposte strategiche si sono scontrate con l’idea della nazionalizzazione delle banche come “un’amministrazione fiduciaria temporanea” e come strumento per eliminare i beni deteriorati. Ci sono proposte come la creazione di una “bad bank aggregante”, nella quale il governo depositerebbe i beni deteriorati delle banche dopo averle in qualche modo acquistate. Ma l’”acquisto” si è dimostrato difficile perché le banche in realtà si sono rifiutate di vendere i loro beni deteriorati. Le banche sono “in sciopero” dallo scorso autunno e, in altre parole, non solo “si rifiutano di erogare prestiti” ma “si rifiutano anche di vendere i beni deteriorati.”
I beni deteriorati nei registri contabili delle banche hanno due forme. Una rappresenta i beni da “mutui deteriorati”. Un’altra i beni da “cartolarizzazioni deteriorate.” Secondo le norme della contabilità legale, le banche possono detenere “mutui deteriorati” nei propri registri al loro valore d’acquisto iniziale. Pertanto, le banche sono poco incentivate a venderli ad un valore inferiore e registrare la perdita. Ma chi vuole comprare i mutui al loro prezzo pieno quando è chiaro che valgono molto meno di quanto la banca sia disposta a venderli? Perciò, da settembre nessun altro investitore ha voluto acquistare i mutui deteriorati ad un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato. E se il governo lo facesse significherebbe un chiaro finanziamento alle banche a spese del contribuente. Quindi i mutui deteriorati non si sono spostati dai registri delle banche. Qualcosa di analogo è avvenuto anche con i beni delle cartolarizzazioni deteriorate. Queste sono rappresentate da mutui subprime, prestiti per auto, carte di credito, prestiti agli studenti e altri tipi di cartolarizzazioni garantite da beni che sono stati cartolarizzati, o impacchettati, in nuovi strumenti finanziari in vendita dal 2002. A differenza dei “mutui deteriorati”, i beni deteriorati garantiti da cartolarizzazioni devono essere valutati al loro reale prezzo odierno. Che è vicino allo zero. Mentre le banche vorrebbero vendere questi beni (agli investitori o al governo), lo vorrebbero fare solamente al di sopra del loro vero valore di mercato. Gli investitori, a loro volta, vorrebbero acquistarli solamente al loro vero prezzo – se mai ne hanno uno. Alcuni di questi beni sono considerati così assolutamente privi di valore che nessuno s’è fatto avanti per comprarli. Quindi, ancora una volta, i “beni deteriorati” sotto quest’aspetto non vengono venduti e rimangono “tossici” nei bilanci delle banche, peggiorando giorno dopo giorno.
Quanto descritto sopra è il “grande dilemma” a cui si trova di fronte oggi il sistema finanziario. Il governo degli Stati Uniti, il Tesoro e la Federal Reserve stanno cercando diversi modi per ripulire le banche dai beni deteriorati, ma ad oggi senza alcun risultato. Le banche, nel frattempo, rimangono in sciopero e si rifiutano di erogare prestiti (o di vendere i beni).
La succitata “banca aggregante” è un’idea per cercare di ripulire le banche dai loro beni deteriorati. Qualcosa del genere fu tentato con successo in Svezia nei primi anni Novanta. Tuttavia, la Svezia è un paese piccolo. Il problema oggi è enormemente più vasto, negli Stati Uniti e nel mondo. Il governo svedese ha potuto acquistare con buoni risultati i beni deteriorati e metterli in una banca aggregante. Tuttavia, le somme da “acquistare” oggi sono probabilmente molto maggiori di qualunque somma un governo possa finanziare, compresi gli Stati Uniti. E’ stato detto che il governo svedese ha “nazionalizzato” le proprie banche nel corso della costituzione della sua “bad bank aggregante”. Ma, di nuovo, quell’idea di nazionalizzazione è semplicemente una variante sul tema proposto dal Wall Street Journal e da Greenspan.
Altre varianti sul tema che vengono confuse con “nazionalizzazione” sono state gli sforzi del Tesoro americano e della Federal Reserve per acquistare azioni delle banche in fallimento – sia sotto forma di azioni privilegiate, azioni ordinarie o qualche altra forma convertibile che combinasse azioni ordinarie e privilegiate. Invece di acquistare in blocco il saldo dei beni deteriorati (ad esempio, la banca aggregante), l’idea qui è quella di compensare i beni deteriorati sui registri contabili delle banche con la speranza che, una volta che i beni siano stati neutralizzati, le banche ricomincino di nuovo ad erogare prestiti. La proprietà delle azioni, parziale o addirittura di maggioranza, viene perciò identificata con l’idea di nazionalizzazione.
Così lo scorso autunno la Fed e il Tesoro hanno acquistato l’80% delle azioni di AIG e dunque, in qualche modo, l’hanno effettivamente “nazionalizzata”. Ma la proprietà formale delle azioni non equivale assolutamente ad una nazionalizzazione. Facendo mente locale, AIG si è comportata come ha sempre fatto, sprecando miliardi di dollari in festini per i propri manager e distribuendo somme enormi del denaro del programma TARP sotto forma di bonus. Per avere un esempio dei limiti della definizione di proprietà legale di nazionalizzazione, è sufficiente fermarsi ad osservare l’esperienza di AIG.
Il programma TARP introdotto lo scorso ottobre è stato un tentativo per generalizzare la condotta di AIG. Ma con 700 miliardi di dollari, è stato ben presto chiaro che il TARP era solamente una goccia per tappare il buco di 4.000-6.000 miliardi di dollari nei bilanci delle banche. In modo sorprendente, l’esperimento del TARP dimostra che il governo americano non ha la più pallida idea della vastità delle perdite delle banche e di come effettivamente le banche l’avessero tenuta nascosta all’opinione pubblica e al governo. Il programma TARP è entrato rapidamente in collisione con il detto problema delle banche che si rifiutano di vendere i loro beni deteriorati se non a prezzi gonfiati e al di sopra del valore di mercato. Quindi il Segretario al Tesoro Paulson ha spaventato il Congresso e l’opinione pubblica per avere i 700 miliardi di dollari, per poi scoprire che era una somma ampiamente insufficiente e che, in ogni caso, le banche si sarebbero rifiutate di vendere i loro beni deteriorati a meno che non fossero finanziate in modo massiccio dal governo.
Quando Citigroup e Bank of America sono crollate nel novembre 2008, il Tesoro e la Fed hanno dato loro buona parte di quanto rimaneva dei fondi del TARP (e molto di più per AIG) e hanno tirato fuori altre centinaia di miliardi di dollari in garanzie contro le loro perdite (300 miliardi di dollari solo per Citigroup) come misura temporanea. Ma Citigroup e Bank of America sono sprofondate ulteriormente a gennaio-febbraio 2009, richiedendo un altro salvataggio. Ma a febbraio stava diventando sempre più evidente che il buco nei bilanci delle 19 grandi banche continuava ad aumentare giorno dopo giorno e stava diventando sempre più improbabile che il governo americano potesse permettersi di acquistare da solo tutti i beni deteriorati delle banche.
Tutto questo ha riacceso ancora una volta la discussione e il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche. Se il governo americano stesso non può permettersi di acquistare tutti i beni deteriorati, alcuni hanno iniziato ad obiettare “perché gettare i soldi dei contribuenti in questo buco nero?” Forse le banche non erano “troppo grandi per fallire.” Forse dovrebbe essere loro permesso di fallire. O... forse il governo dovrebbe nazionalizzarle. Ma se la nazionalizzazione intesa come ripulitura dai beni deteriorati non è stata possibile, che cosa significa adesso nazionalizzazione?
All’inizio di febbraio l’appello per una qualche forma di nazionalizzazione è iniziato ad affiorare da varie direzioni. L’AFL-CIO [1] ha sollevato la questione, senza però fornire una chiara definizione di cosa dovrebbe essere. Celebri economisti come il premio Nobel, Joseph Stiglitz, l’hanno richiesta, come pure il professore dell'Università di New York, Nouriel Roubini, le cui previsioni sull’evoluzione della crisi si sono dimostrate esatte negli ultimi due anni. Anche James Naker, il responsabile delle decisioni durante l’amministrazione Reagan, si è schierato a favore. Greenspan ha ripetuto che la nazionalizzazione era necessaria per “una ristrutturazione metodica” del sistema. Le figure di spicco del partito repubblicano, come Lindsey Graham, hanno dichiarato alla televisione pubblica che “se la nazionalizzazione funziona, allora dovremmo metterla in pratica”. Lo stesso ha detto il presidente della Commissione Bancaria al Senato, il democratico Chris Dodd.
Ma subito hanno risposto gli alti papaveri dell’amministrazione Obama, scoraggiando l’idea e il dibattito sulla nazionalizzazione. Geithner, il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers e il presidente della Fed, Ben Bernanke, hanno tutti bocciato l’idea, così come il presidente della Commissione Bancaria della Camera, Barney Frank. Anche Dodd, al Senato, è ritornato sui propri passi e si è unito al rifiuto. Tutti a protestare all’unisono con gli amministratori delegati delle grandi banche, Ken Lewis di Bank of America e Jaime Dimond di JP Morgan Chase e Vikram Pandit di Citigroup che hanno dichiarato che “sarebbe un passo indietro.”
La resistenza a questo stesso concetto deriva un altro progetto in corso d’opera tramite il quale il governo e i contribuenti finanziano le banche e gli investitori per liberarsi da questi “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. L’ultimo progetto è stato presentato all’inizio di marzo e successivamente sono stati esposti i dettagli di quello che è stato chiamato “Programma di Investimento Pubblico-Privato” (PIPP), presentato da Geithner il 23 marzo. Ma come il programma TARP, il PIPP è fondamentalmente ancora un’idea per acquistare “beni deteriorati”. Questa volta con la forzatura che in qualche modo quegli speculatori-investitori, che hanno creato la crisi finanziaria emettendo miliardi di dollari di “beni cartolarizzati” che sono andati a gambe all’aria, ora accorrerebbero in aiuto del sistema e comprerebbero i beni deteriorati – a patto, ovviamente, che il governo finanzi generosamente l’operazione. Questa sovvenzione sarebbe finanziata, questa volta con una forzatura, non solo dal Tesoro che stanzia i fondi ma con la stampa di altri miliardi di dollari da parte della Federal Reserve. Perciò l’impegno del governo nei confronti delle banche da un giorno all’altro è aumentato dai 3.000-4.000 miliardi di dollari ad una cifra più che raddoppiata.
Ma se il nuovo salvataggio bancario dovesse fallire, come così sarà, la questione prevista dal programma sarà ancora una volta quella di procedere ad una qualche forma di nazionalizzazione. Il dibattito sulla nazionalizzazione pertanto riemergerà di nuovo in modo brutale mentre diverrà chiaro che il piano Geithner sta fallendo.
Ma quando la discussione riaffiorerà di nuovo, non potrà più essere limitata alle sue definizioni passate. La nazionalizzazione come semplice proprietà di azioni – come, per la verità, qualsiasi altro tipo formale di proprietà – è già stata tentata ed ha fallito. La stessa AIG ne è un esempio. La nazionalizzazione come amministrazione fiduciaria temporanea è chiaramente insufficiente. Non affronta quello che dev’essere fatto con i beni deteriorati contenuti nei miliardi di dollari che sono messi sotto amministrazione fiduciaria. La nazionalizzazione come banca aggregante solleva il problema di come capitalizzare un’intera struttura bancaria che è ampiamente insolvente e che costerebbe parecchie migliaia di miliardi di dollari per essere avviata. Le acquisizioni in stile FDIC-IndyMac sollevano problemi analoghi. Il costo per la FDIC per l’acquisizione di IndyMac è stato poco meno di 10 miliardi di dollari. Il solo salvataggio degli azionisti comuni di Citigroup costerà più di 1.000 miliardi di dollari.
All’altra estremità del panorama politico, dall’idea di nazionalizzazione come acquisto dei “beni deteriorati” c’è l’idea di un impegno di nazionalizzazione non nell’interesse degli investitori ma della nazione stessa. Il punto importante è chi trarrà benefici da un progetto di nazionalizzazione. Sarà tutta la nazione o i suoi individui privati? Viene chiamata NAZIONAlizzazione proprio per questo motivo. La definizione di nazionalizzazione mentre questa è al servizio degli investitori individuali, è un’appropriazione e una distorsione del vero significato del termine originale.
Chi è allora “la Nazione” che ne dovrà trarre i benefici? Ci sono 114 milioni di nuclei famigliari negli Stati Uniti. 91 milioni sono famiglie in cui i componenti guadagnano meno di 80.000 dollari all’anno. Il 5% più benestante delle famiglie, all’incirca 5 milioni di nuclei famigliari, incamera la maggior parte dei propri redditi da fonti di capitali (guadagni in conto capitale, dividendi, interessi, affitti, ricavi finanziari). L’1% più ricco incamera praticamente tutto il proprio reddito da fonti di capitali. I 91 milioni di famiglie – cioè la parte che lavora e che appartiene in larga parte al ceto medio – sono la stragrande maggioranza del paese. Ma non beneficeranno in alcun modo credibile dalla “nazionalizzazione come salvataggio degli investitori.” Un vero programma di nazionalizzazione dovrebbe pertanto dimostrare come trarranno beneficio queste 91 milioni di famiglie. E se questo non può essere dimostrato, allora il programma, qualunque sia la sua struttura, non può essere definito in alcun modo nazionalizzazione.
Né una vera nazionalizzazione può limitarsi semplicemente ad una predisposizione legale, non importa quante e che genere di azioni (privilegiate, ordinarie, convertibili) possano o non possano essere acquistate. La sola proprietà non è nazionalizzazione. La nazionalizzazione sottintende il controllo e il controllo diretto per conto dell’interesse pubblico, non per interessi privati. Ma “controllo” su che cosa e in quale forma?
Esistono tutti i tipi e i gradi di controllo. La predisposizione formale della proprietà azionaria ad oggi richiede al massimo un resoconto occasionale dalla banca in questione. I resoconti e le informazioni non sono di per sé il controllo. Né lo sono le decisioni sulla gestione del veto. AIG e altre banche che hanno preso finora centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti testimoniano i limiti dei resoconti delle decisioni prese dai manager che rappresentano gli investitori privati. Il controllo deve andare ben oltre il semplice veto del governo alle decisioni del management delle banche. Il controllo dev’essere inteso come prendere decisioni.
Ma che genere di decisioni? Sicuramente le decisioni strategiche delle banche. E probabilmente anche una serie importante di decisioni operative. Ma per quello, i governi devono allontanare tutti i membri del consiglio di amministrazione di una banca nazionalizzata a nominarne altri, si spera di rappresentazione sindacale e della collettività. Gli amministratori delegati e i gruppi di dirigenti più anziani devono essere sostituiti. In secondo luogo, le decisioni operative devono essere esaminate ogni giorno dal nuovo gruppo dirigenziale. I manager delle divisioni principali e di medio livello possono essere lasciati al loro posto, a patto che la loro prestazione sia attentamente valutata su base periodica. Questa è una minima struttura decisionale che accompagna una vera nazionalizzazione.
Chi si oppone a questa visione di nazionalizzazione sosterrà che avrà come risultato, se applicata per una banca, il crollo del prezzo delle azioni per le banche rimanenti perché gli azionisti delle altre banche si renderanno conto che il loro istituto potrebbe essere il prossimo della lista e potrebbero sbarazzarsi delle loro azioni. Ma potrebbe non essere affatto così. Nell’acquisire una banca, il governo potrebbe annunciare che garantirà i prezzi delle azioni delle altre banche, ancora private, come minimo ai livelli attuali. Questo metterebbe una soglia al crollo del prezzo delle azioni e stabilizzerebbe i prezzi delle loro azioni.
Un’altra obiezione di chi oppone ad una vera nazionalizzazione è che le banche sono sostanzialmente solide, ma solo bisognose di liquidità. Anche se quest’obiezione potrebbe aver ingannato la gente nel 2008, è ora del tutto evidente che le “grandi 19 banche” sono insolventi, non carenti di liquidità. Il concetto di “troppo grandi per fallire” ora è chiaramente “troppo grandi per essere salvate.” La nazione non può più permettersi questo genere di istituti, che stanno letteralmente succhiando la linfa vitale economica del paese.
Un’altra obiezione punta il dito su AIG e Fannie Mae/Freddie Mac e alle loro continue perdite di beni. Chi si oppone utilizza questi istituti come esempio per il definitivo fallimento delle nazionalizzazioni. Ma AIG e Fannie/Freddie non sono esempi di nazionalizzazione: sono esempi di “investimenti sbagliati” e salvataggi pasticciati.
Un’altra tipica critica che si è sollevata contro la nazionalizzazione è che l’acquisizione di una banca è un’operazione troppo complessa. Il governo non ha il personale adeguato e non sa come gestire in modo efficiente una banca. Per rispondere a quest’obiezione è sufficiente ribattere a come un governo potrebbe fare peggio dei cosiddetti “esperti privati” che stanno ora gestendo le banche e le hanno portate alla rovina. I cosiddetti esperti bancari hanno perso più di 5.000 miliardi di dollari. Chi potrebbe fare di peggio? Stando ai princìpi di una qualunque società privata capitalista, questi esperti dovrebbero essere stati licenziati da tempo e le aziende che hanno distrutto messe, come minimo, all’interno di un progetto di riorganizzazione in base al Capitolo 11.
E’ necessaria una nuova struttura bancaria in America. Oltretutto, una simile struttura è possibilissima e ne ho illustrato alcuni elementi in recenti pubblicazioni. Per iniziare, potrebbe essere messa in piedi con una completa nazionalizzazione dei mercati dei mutui residenziali e dei mercati delle proprietà delle piccole imprese. Una nuova agenzia, la Home and Small Business Loan Corporation (HSBLC), basata sulle esperienze degli anni Trenta con l’allora Home Owners Loan Corporation e la Reconstruction Finance Corporation, potrebbe non solo sistemare il disordine di oggi ma potrebbe continuare come la fonte finanziaria principale per erogare prestiti per i tutti i mutui residenziali dei consumatori che percepiscono meno di 200.000 dollari all’anno e per le società che hanno meno di 50 dipendenti. Come secondo sviluppo, la Federal Reserve stessa potrebbe essere completamente nazionalizzata, rimuovendola dal suo status attuale di banca in parte di proprietà privata e in parte finanziata dal governo. Una Federal Reserve completamente nazionalizzata potrebbe quindi servire come “prestatore di prima istanza” per tutti i mercati dei mutui per i consumatori – automobili, studenti ed altri tipi di prestiti. La sua struttura locale potrebbe comprendere le cooperative no-profit e gli uffici del Dipartimento per lo Sviluppo Urbano e Abitativo per interfacciarsi con il consumatore. E’ possibile estendere queste idee in modo analogo per gli altri mercati del credito. In due parole, è possibile pensare ad un’altra struttura per il sistema bancario.
Sì, ogni economia ha bisogno di un sistema creditizio ma gli Stati Uniti non hanno per forza bisogno di quello che hanno ora, che sta distruggendo l’economia reale e milioni di posti di lavoro ogni mese. Un altro sistema è possibile.
E’ dunque giunto il momento di essere pronti a spostarsi dall’inevitabile dibattito sulla nazionalizzazione delle banche che ben presto emergerà per considerare altre possibili strutture e progetti – strutture che esistono allo scopo di servire la “NAZIONE” e non gli interessi degli investitori privati. Strutture in cui le decisioni non vengono prese in favore degli interessi privati ma da rappresentanti dell’interesse pubblico in favore dell’interesse pubblico.
Jack Rasmus è l’autore del libro di prossima pubblicazione “Epic recession and global financial crisis”. I suoi articoli e interviste sono disponibili sul suo sito web http://www.kyklosproductions.com
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