02 luglio 2009
Incendio all’inceneritore di Piacenza: i media tacciono
nube diossina inceneritore piacenza
L'11 giugno il deposito rifiuti dell'inceneritore di Piacenza ha preso fuoco
“Tenete chiuse le finestre, non muovetevi da casa”, questo l’ordine lanciato da Vittorino Francani dell’Arpa (Agenzia regionale per ambiente e prevenzione), fra i primi ad accorrere sul luogo dell’incendio. Alle 18:40 di giovedì 11 giugno un capannone con una superficie di mezzo chilometro quadrato ha preso fuoco. Era il deposito rifiuti dell’inceneritore di Piacenza.
Al suo interno si trovavano tonnellate di plastica, metallo, carta e legno. Benché questi imballaggi e scarti industriali fossero destinati alla combustione, non erano ancora stati né separati né puliti. Del resto gli effetti di un simile incendio non sono in alcun modo paragonabili a quelli di una combustione all’interno di un inceneritore munito di filtri. (Nemmeno questi però rendono il processo sicuro e pulito, poiché non catturano le polveri sottili che, oltre a creare gravi danni alla salute, restano nell’atmosfera per sempre).
I gas emessi durante l’incendio hanno formato una nube nera che ha continuato ad alzarsi anche dopo lo spegnimento del rogo, avvenuto dopo oltre due ore. La nube, trasportata dal vento, ha viaggiato per chilometri verso nord-est, coprendo così di nero il cielo dell’hinterland di Piacenza.
Quel che ha dato il colore alla nube è stata la diossina, che si sprigiona ogni volta che bruciano plastica o cartone sporco.
vigili fuoco incendio piacenza
E' stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme
Tali gas possono causare problemi immediati (blocchi respiratori, tosse e fastidi agli occhi), ma anche danni ai polmoni protratti nel tempo, spiega Pietro Bottrighi, primario del reparto di pneumologia all’ospedale di Piacenza.
Nonostante questi rischi, nessun paziente si è recato al Pronto soccorso con sintomatologie respiratorie acute, dichiara l’Azienda unità sanitaria locale (Ausl) di Piacenza.
Oltre a rimanere in casa però, i tecnici del dipartimento di Sanità pubblica hanno consigliato di lavare bene la frutta e la verdura proveniente dagli orti della zona. L’Arpa ha proseguito gli accertamenti presso il centro Enìa (società che gestisce impianti ambientali di pubblica utilità), effettuando campionamenti dei terreni e dei vegetali nell’area interessata.
Ha inoltre prelevato i filtri della centralina di monitoraggio ambientale di Gerbido, per effettuare rilievi sull’emissione di diossina e di IPA (idrocarburi policiclici aromatici). Il tutto è stato inviato nella sede di Ravenna per gli esami necessari. “Al momento abbiamo rilevato un aumento dei livelli di monossido di carbonio e degli idrocarburi”, ha dichiarato Sandro Fabbri, direttore di Arpa Piacenza.
La pubblicazione delle quantità di diossine e idrocarburi aromatici presenti nel terreno e nell’atmosfera però, non è ancora avvenuta.
Oltre ai danni ambientali vi sono quelli economici, che comunque risultano “tutto sommato modesti, viste anche le dimensioni dell’incendio”, si legge nel giornale locale Libertà.
E' la diossina a dare il colore alla nube
Grazie all’intervento dei dipendenti di Enìa si tratta ‘solo’ di qualche decina di migliaia di euro: “Abbiamo salvato il trituratore, la macchina che trita i rifiuti e che è molto costosa, poi con gli estintori abbiamo tentato di fermare le fiamme, ma erano troppo forti e ci sono voluti i vigili del fuoco” racconta Anselmo Baistrocchi, responsabile degli impianti Enìa.
I giornali locali (gli unici a parlarne) hanno attribuito l’incendio a un’autocombustione favorita dal calore. Ammesso che questa spiegazione venga confermata, si tratterebbe comunque di un problema grave. L’apparente spontaneità dell’autocombustione, però, non attenua la responsabilità di chi ha trascurato le misure di sicurezza che avrebbero dovuto evitarla.
di Elisabeth Zoja
01 luglio 2009
Giornali e giornalisti di guerra
Embedded è l’appellativo con cui vengono definiti i giornalisti di guerra al seguito delle truppe d’aggressione americane, e quindi posti sotto la loto tutela. Giornalisti simili, com’è ovvio, possono raccontare solo ciò che i comandi militari fanno vedere loro, forniscono quindi un’informazione a senso unico, quella desiderata dall’esercito che accompagnano. Non sapevamo che il termine venisse dal mondo informatico e che sta per “sistema incapsulato o specificamente dedicato”. Un sistema embedded, diversamente da un normale calcolatore che può svolgere mansioni differenti, è concepito per assolvere compiti predeterminati e solo quelli. Mai analogia fu più azzeccata. Quello di come si stia comportando la stampa occidentale davanti all’attuale crisi iraniana è un caso di embeddeddismo raddoppiato, ovvero oltre il confine dell’indecenza.
Non c’è infatti un’aggressione, una guerra in atto, delle truppe d’invasione a cui fare da amplificatori. Eppure gli organi di stampa occidentali, come se fossero membra di un unico corpo, come se ubbidissero ad un unico grande e diabolico cervello, come innumerevoli diffusori allacciati al medesimo amplificatore, suonano la stessa musica, un uguale spartito. Non c’è affatto bisogno di essere complottisti per ritenere che questa centrale unica di disinformazione strategica esista. La musica, o meglio il rumore, è composto dagli stessi ritornelli: Ahmadinejad è un dittatore, ha vinto le elezioni coi brogli; a conferma del primo assunto e del secondo sta soffocando nel sangue la legittima rivolta popolare. Se è falso liquidare Ahmadinejad come un dittatore, questa assordante campagna non è riuscita a dimostrare né che i brogli avrebbero pregiudicato la vittoria di Mousavi, né che per le strade di Tehran ci sarebbero stati “decine di morti ammazzati”.
Il meccanismo non è nuovo. Esso fu ben collaudato in almeno altri tre casi clamorosi. Nella primavera del 1999, poco prima dell’attacco NATO-USA alla Jugoslavia. Tutti ricorderanno le accuse al governo di Belgrado, accusato di applicare un piano sanguinoso e premeditato di pulizia etnica in Kosovo. Il secondo, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando i Talibani vennero accusati senza alcuna prova di essere corresponsabili della strage di New York. Il terzo infine, non meno sfrontato, che l’Iraq di Saddam Hussein avrebbe posseduto armi di distruzione di massa. In tutti e due questi casi i media occidentali scatenarono campagne formidabili d’intossicazione. Lo scopo fu subito evidente: si dovevano satanizzare gli avversari allo scopo di abbindolare l’opinione pubblica occidentale affinché accettasse come “atti dovuti”, come azioni “umanitarie e/o democratiche”, le devastanti aggressioni imperialistiche. Tre gigantesche campagne mediatiche, tre guerre. In tutti e tre i casi la spada fu preceduta dalla penna, la guerra vera e propria con le armi fu preparata da quella più insidiosa consistente nel più colossale lavaggio internazionale di cervelli. Le stesse tecniche di propaganda del nazista Gobbels, lo stesso principio del Gaulaiter per cui “una menzogna ripetuta tre volte diventa una verità”.
Saremo accusati di dietrologia dal momento che sospettiamo che siamo al quarto atto della medesima tragedia? Se anche in questo caso, come nei due precedenti, la virulenta campagna di sputtanamento del governo iraniano e di Ahmadinejad, questo pervasivo lavaggio del cervello, faccia da apripista ad una nuova aggressione (che non necessariamente seguirà le forme delle tre che l’hanno preceduta)?
Vogliamo oggi soltanto mostrare la sfacciataggine e l’insulsa disinvoltura della stampa italiana. Dalla mazzetta estraiamo La Stampa di Torino, un giornale circondato dall’aureola di “sobrietà, obbiettività e pacatezza informativa”. Titolo di scatola: “Si parla di numerosi morti e feriti. L’IRAN PRECIPTA NEL CAOS. Brutale attacco ai manifestanti”.
E’ dal dodici giugno che i media italiani ed occidentali, oltre che parlare di scontri tra “manifestazioni moltitudinarie” e forze di polizia (da tutti i video amatoriali visti sin qui di moltitudini non c’e traccia - si tenga conto che solo Tehran ha circa dieci milioni di abitanti) suonano gli stessi tasti.
Notate anzitutto il “si parla”, ossia: si dice, si mormora, si vocifera... Da giorni vengono fatti titoli sul sangue che scorrerebbe per le strade di Theran, basati dunque sui “si sentito dire”. Sentito dire da chi? Ma è ovvio! Dai sostenitori di Mousavi, oppure dagli esuli iraniani in America e in Europa che degli avvenimenti ne sanno poco più che un fico secco, e le cui denuncie vengono invece prese per oro colato. Per adesso abbiamo la prova solo di una donna uccisa (per altro in circostanze poco chiare), la famosa e sfortunata Neda. Tantè che si ha notizia di un solo funerale, visto che di quello annunciato da Mousavi in onore “dei martiri uccisi” non si è avuta più notizia. Come mai? Tutta la prima pagina de La Stampa è un affresco sul “massacro iraniano”, ma anche la seconda e pure la terza.
Ora, prendiamo pure per buona la notizia che in due settimane sarebbero stati uccisi dodici manifestanti. Dodici manifestanti uccisi in quattordici giorni fa meno di una vittima al giorno.
Ora, se avete tra le mani La Stampa, passate a pagina 16 (Estero). Accanto ad un titolo sul prossimo incontro di Obama col Papa, se vi sforzate, potete vedere, con le dimensioni di un francobollo, questa istruttiva e agghiacciante notizia: Titolo: «Drone USA in Pakistan: Missili sul funerale ottanta morti». Il testo ha questo incipit: «Nuovo tragico incidente nel nordest del Pakistan. Un missile sparato contro un covo di ribelli ha colpito in pieno un funerale di civili radunatisi per il funerale di un capo taliban ucciso poche ore prima da un altro drone».
Un caso da manuale per capire la tecnica della menzogna informativa occidentale*. Giorni e giorni di prime pagine sui presunti assassinii compiuti dalla polizia iraniana. Spazio di un francobollo all’ennesimo attacco terroristico americano, compiuto sempre da quelle parti, ma che ha fatto una strage vera. Quante migliaia di afghani e pakistani sono morti sotto le bombe americane negli ultimi anni? Non è dato sapere. E perché non lo è dato? perché lì “c’è la guerra contro il terrorismo”, nel cui nome tutto si giustifica, tutto si comprende, anche lo scempio contro un mesto funerale. E come si giustifica questo crimine, questo massacro di civili inermi? Affermando che è stato un incidente, e insinuando pelosamente (poiché prove se ne fregano di portarle come sempre) che i partecipanti al funerale forse erano inermi, ma non propriamente innocenti, dato che, se non amici di un talibano, si erano permessi di onorare e accompagnare le sue esequie.
In quell’inferno se solo sfiori o sei solidale con un “terrorista” ti becchi come minimo un missile lanciato da un drone. Nel paradiso occidentale aspettati un fragoroso arresto e una bella richiesta di condanna a quindici anni come “fiancheggiatore”, per 270 bis, ter, quarter, quinquies sexies ecc., lanciata non da un drone a stelle e strisce, ma da uno zelante e tricolorato pubblico ministero.
Cè forse qualche Tribunale penale internazionale che si occupi dei reiterati atti terroristici americani o NATO? Certo che no! Certi Tribunali si occupano dei “crimini contro l’umanità”, non della bassa macelleria contro iracheni, palestinesi, afghani o pakistani. Quelli non fanno parte dell’umanità, sono bestie da macello, belve che meritano di finire a Guantanamo, di essere torturati e umiliati ad Abu Ghraib o Baghram.
Non troverete nella stampa occidentale queste nostre accuse. Essa è infatti una stampa libera, democratica, obbiettiva, mentre quelle nostre sono solo malignità prevenute, elucubrazioni, accuse per partito preso. Gi embedded invece non agiscono per partito preso, non ubbidiscono ad un padrone. Il giornalista in Occidente è libero. E’ vero infatti che non deve più attendere la velina del politico per scrivere il suo pezzo. Siamo ormai giunti allo stadio per cui la simbiosi e l’empatia tra servo e padrone è giunta a tal punto che è il primo che detta la velina al secondo. La gerarchia è mutata, il quarto potere è salito di rango, e se non è diventato il primo della scala, certamente è montato sulle spalle dei replicanti politici.
*PS - Va detto che quel che vale per La Stampa e per i principali quotidiani del paese, vale anche per i giornali di sinistra.
Il Manifesto del 25 giugno titola "Dalla parte dell'Iran" sotto un'enorme foto centrale di Obama, mentre a pagina 2 il titolo di testa è "Colpo di Stato in una notte".
Fin qui l'Iran, e la strage americana in Pakistan?
Per trovarla ci vuole pazienza e lente d'ingrandimento. La notizia è finita nelle "brevi" scritte in piccolo a pagina 9. Titolo: "Waziristan, drone Usa uccide 45 persone" (in realtà più di 80, ndr). Viene riportata in poche righe la notizia così come fornita dai servizi pachistani. Il Manifesto non ha da fare commenti...
Ed in questo caso anche noi possiamo astenerci dal commentare il comportamento del Manifesto, dato che si commenta abbondantemente da solo.
29 giugno 2009
Francia: la rivoluzione parte dalle campagne
Al solito, tutto inizia in Francia. Come racconta Alessandro Cisilin, su Galatea European Magazine, le tradizionali spese parigine del sabato hanno incontrato il 13 giugno scorso una brutta sorpresa, coi supermercati semivuoti. Su iniziativa della Fnsea (“Fédération Nationale des Syndicats des Exploitants Agricoles”) e di Ja (“Jeunes Agriculteurs”) i contadini, armati di forconi, pale, trattori, cumuli di terra e perfino gli stessi carrelli dei supermercati, hanno completamente bloccato dal giovedì precedente i principali centri di smistamento della grande distribuzione. L’obiettivo dichiarato dal suo leader Lemétayer era bloccarne una trentina. Ne sono stati occupati quarantuno, e cioè oltre la metà delle fonti di approvvigionamento del paese. Motivo della protesta, le contrazioni nel prezzo pagato dagli intermediari nell’ultimo anno, senza giustificazione nella crisi.
Spesso si dimentica infatti che nei momenti di difficoltà per l’economia gli sciacalli della finanza trovano ampi spazi per le loro manovre speculative. Quando tutto va giù è facile giocare al ribasso più di quanto la situazione non richieda e poi lucrare comprando a 1 quello che varrebbe 10. Quando oggetto delle contrattazioni sono quelle maniacali strutture di alchimia finanziaria, si può anche far finta di non vedere gli effetti che questo produce nell’economia reale; ma se a rimetterci - come in questo caso - sono i lattai e gli agricoltori è segno evidente che qualcosa debba cambiare. Come puntualizza più che giustamente il giornalista: “La crisi c’è e, diversamente da quanto argomentato da qualche ministro europeo, non arricchisce i meno abbienti con meccanismi deflazionistici ma allarga e aggrava la povertà. La dimostrazione, tra le altre, é che i consumi alimentari, solitamente mattone indistruttibile rispetto alla congiuntura economica, si sono anch’essi sensibilmente ridotti”. Accade in Francia, accade in Italia, accade in tutto l’occidente civilizzato.
Ad essere malata non è, però, la sola rete della distribuzione, ma piuttosto l’intera struttura dell’industria alimentare. Da quando con l’avvento dei petrolchimici il settore agricolo ha ceduto il passo all’industria agroalimentare, con i derivati del petrolio ad intossicarci l’esistenza non solo attraverso i fumi delle fabbriche, ma nascosti nel cibo, considerati come un’inevitabile conseguenza della crescita forzosa delle economie, anche l’attività più antica del mondo si è trovata inevitabilmente a dover scendere a compromessi con le logiche sempre più aggressive del liberismo. Tra le cause di distruzione degli ecosistemi la produzione di cibo risulta infatti essere al primo posto. Si continua a fingere di non comprendere che oltre a sfiancare il territorio le tecniche alimentari e, più in generale, l’onnipresente logica di sovrapproduzione svilisce il valore del cibo e di chi quel cibo plastificato lo consuma.
Accade così che l’uomo non sappia organizzare e gestire il territorio, ma lo usi semplicemente per i suoi scopi, in maniera indiscriminata e senza una prospettiva sostenibile né da un punto di vista strettamente agricolo né, tanto meno, da un punto di vista sociale. È necessario, invece, prendere coscienza dell’evidenza che la gastronomia non è intrattenimento, non consiste e non si esaurisce nel ricettario da cui sono invase riviste e rubriche televisive. La gastronomia è un atto politico, economico, etico. Anche la coltivazione e lo spostamento del cibo producono uno squilibrio nel pianeta, lo inquinano, ne esauriscono le risorse. E nessuna delle innovazioni tecnologiche di cui la produzione si serve favorisce la qualità di quel che arriva sulle nostre tavole. Semplicemente aumenta la produttività di terreni, piante, animali già esauriti nella loro capacità di rigenerarsi naturalmente.
La qualità è un diritto e un valore, non un lusso, non un eccesso di cui solo pochi possono godere. Il cibo è salute, diventa parte di noi, siamo noi. Dunque com’è possibile che l’opinione pubblica ignori o superi agevolmente il problema di capire cosa c’è in quel che mangia e quali conseguenze produca il modo in cui si nutre? L’esperienza francese - ma più in generale il corso della storia - ci insegna che le grandi rivoluzioni iniziano dal basso e dalle piccole cose, similmente a quanto accade in natura.
Come l’innocuo getto d’acqua di una fonte di alta montagna arriva, passando per il fiume, ad esprimere la devastante forza di una cascata, così anche oggi gli agricoltori francesi, all’occorrenza, sanno uscire dai terreni e compattarsi in strada. A muoversi stavolta sono stati almeno settemila. Proteste analoghe avevano indotto il governo a istituire il dicembre scorso un Osservatorio dei margini di profitto applicati dai distributori. Nulla però è cambiato nella tendenza a falcidiare i redditi agricoli. Nei giorni della protesta i vertici della distribuzione hanno mobilitato i propri dipendenti in azioni di disturbo dei blocchi dichiarando al contempo che le proteste dei contadini non intaccavano l’offerta nei supermercati. Nella guerra delle cifre però parlano le fotografie e i video diffusi dai cittadini e dai lavoratori. Il blocco è riuscito al di là delle attese, e molti scaffali rinviavano a scenari bellici. Quando si dice l’arroganza del potere.
In Francia però gli intermediari agricoli hanno a che fare con una categoria di produttori che, seppur dispersa territorialmente e scarsamente sindacalizzata, quando s’incazza, si muove da far paura. “Come sanno alcuni storici – si legge nell’articolo - la Rivoluzione Francese non esplose nel 1789. Nacque tre secoli prima, quando i contadini di molti villaggi conquistarono la proprietà dei loro terreni e ottennero che l’amministrazione locale venisse affidata ad assemblee elettive, in alcuni casi perfino a suffragio universale. La successiva Rivoluzione non scaturì dunque dalla frustrazione dell’arretratezza bensì al contrario dal permanere anacronistico di alcuni privilegi nobiliari e clericali rispetto al tessuto sociale, economico e politico più avanzato d’Europa.”
Ora come allora appare impensabile continuare sulla strada fin qui percorsa. Le rivendicazioni, sempre crescenti, di giustizia e di equità sociale si integrano male e stonano tragicamente con il disegno che fa da sfondo alla nostra civiltà in questo frangente storico. Ci si interroga, infatti, sul come sia possibile che ci si preoccupi di spendere molti più soldi per un indumento che rimane all’esterno della nostra persona rispetto a quelli spesi per qualcosa che diventa nostra materia e sostanza. Il mercato, insomma, ha posto e imposto le proprie regole e il consumatore non ha tempo, mezzi o voglia di intervenire, di prendere coscienza, di agire in ogni piccolo atto della quotidianità in maniera globale. Mangiare cibi di stagione, non pretendere uniformità dalla produzione, abituarsi a consumare meno ma meglio, assicurarsi che non ci sia sfruttamento umano dietro il cibo che si compra è condizione sufficiente e necessaria per creare i presupposti per un’agricoltura più sana e più socialmente giusta; assicurarsi insomma di non lasciarci cadaveri e deserti alle spalle è il senso degli interventi che si dovrebbero attuare, a livello individuale prima e collettivo poi.
Come si legge nell’articolo “la stessa “Fédération d Commerce e de la Distribution” si è trovata costretta in poche ore a cambiare strategia, passando dall’ostentata sicurezza del nulla di fatto all’allarmismo, con la denuncia del rischio di un “crollo nelle forniture dei prodotti alimentari di base del cinquanta per cento”, nonché di conseguenze occupazionali”. Alla conclusione dell’incontro ministeriale solo la metà delle occupazioni era terminata. Poi è arrivata la promessa del ministro dell’Agricoltura Barnier: “Generalizzeremo i controlli sui prezzi della grande distribuzione e sanzionerimo quando sarà il caso” - ha promesso - riconoscendo la “legittimità delle richieste contadine in materia di trasparenza sui costi” e annunciando un’apposita “brigata” governativa incaricata delle verifiche. Nei giorni successivi alla promessa governativa un’apparente calma è tornata a regnare nelle campagne francesi. Di nuovo, però, i sindacati hanno concesso un mese di tempo. Dinanzi all’assenza di risultati reali non mancheranno alla promessa di tornare all’azione.
In Francia le rivoluzioni cominciano dalle campagne, sebbene il fatto sia caduto nell’oblio storico, oscurato dalle vicende settecentesche di Parigi. Ed è la terra il simbolo proclamato della sua moderna nazione, contro le tentazioni “etniche” e contro l’identificazione “di sangue” che cementa l’unità tedesca al di là del Reno. Nulla di strano che siano stati proprio gli agricoltori il mese scorso a suonare la carica della protesta, svuotando gli scaffali dei supermercati cittadini. Proprio mentre la nuova manifestazione unitaria dei sindacati dell’industria e dei servizi registrava un relativo flop, la campagna sapeva far sentire la sua voce contro gli affaristi urbani dei prezzi alimentari. Con un miliardo di affamati nel mondo forse è il caso di prendere esempio da loro che di rivoluzioni ne sanno qualcosa.
di Ilvio Pannullo
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02 luglio 2009
Incendio all’inceneritore di Piacenza: i media tacciono
nube diossina inceneritore piacenza
L'11 giugno il deposito rifiuti dell'inceneritore di Piacenza ha preso fuoco
“Tenete chiuse le finestre, non muovetevi da casa”, questo l’ordine lanciato da Vittorino Francani dell’Arpa (Agenzia regionale per ambiente e prevenzione), fra i primi ad accorrere sul luogo dell’incendio. Alle 18:40 di giovedì 11 giugno un capannone con una superficie di mezzo chilometro quadrato ha preso fuoco. Era il deposito rifiuti dell’inceneritore di Piacenza.
Al suo interno si trovavano tonnellate di plastica, metallo, carta e legno. Benché questi imballaggi e scarti industriali fossero destinati alla combustione, non erano ancora stati né separati né puliti. Del resto gli effetti di un simile incendio non sono in alcun modo paragonabili a quelli di una combustione all’interno di un inceneritore munito di filtri. (Nemmeno questi però rendono il processo sicuro e pulito, poiché non catturano le polveri sottili che, oltre a creare gravi danni alla salute, restano nell’atmosfera per sempre).
I gas emessi durante l’incendio hanno formato una nube nera che ha continuato ad alzarsi anche dopo lo spegnimento del rogo, avvenuto dopo oltre due ore. La nube, trasportata dal vento, ha viaggiato per chilometri verso nord-est, coprendo così di nero il cielo dell’hinterland di Piacenza.
Quel che ha dato il colore alla nube è stata la diossina, che si sprigiona ogni volta che bruciano plastica o cartone sporco.
vigili fuoco incendio piacenza
E' stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme
Tali gas possono causare problemi immediati (blocchi respiratori, tosse e fastidi agli occhi), ma anche danni ai polmoni protratti nel tempo, spiega Pietro Bottrighi, primario del reparto di pneumologia all’ospedale di Piacenza.
Nonostante questi rischi, nessun paziente si è recato al Pronto soccorso con sintomatologie respiratorie acute, dichiara l’Azienda unità sanitaria locale (Ausl) di Piacenza.
Oltre a rimanere in casa però, i tecnici del dipartimento di Sanità pubblica hanno consigliato di lavare bene la frutta e la verdura proveniente dagli orti della zona. L’Arpa ha proseguito gli accertamenti presso il centro Enìa (società che gestisce impianti ambientali di pubblica utilità), effettuando campionamenti dei terreni e dei vegetali nell’area interessata.
Ha inoltre prelevato i filtri della centralina di monitoraggio ambientale di Gerbido, per effettuare rilievi sull’emissione di diossina e di IPA (idrocarburi policiclici aromatici). Il tutto è stato inviato nella sede di Ravenna per gli esami necessari. “Al momento abbiamo rilevato un aumento dei livelli di monossido di carbonio e degli idrocarburi”, ha dichiarato Sandro Fabbri, direttore di Arpa Piacenza.
La pubblicazione delle quantità di diossine e idrocarburi aromatici presenti nel terreno e nell’atmosfera però, non è ancora avvenuta.
Oltre ai danni ambientali vi sono quelli economici, che comunque risultano “tutto sommato modesti, viste anche le dimensioni dell’incendio”, si legge nel giornale locale Libertà.
E' la diossina a dare il colore alla nube
Grazie all’intervento dei dipendenti di Enìa si tratta ‘solo’ di qualche decina di migliaia di euro: “Abbiamo salvato il trituratore, la macchina che trita i rifiuti e che è molto costosa, poi con gli estintori abbiamo tentato di fermare le fiamme, ma erano troppo forti e ci sono voluti i vigili del fuoco” racconta Anselmo Baistrocchi, responsabile degli impianti Enìa.
I giornali locali (gli unici a parlarne) hanno attribuito l’incendio a un’autocombustione favorita dal calore. Ammesso che questa spiegazione venga confermata, si tratterebbe comunque di un problema grave. L’apparente spontaneità dell’autocombustione, però, non attenua la responsabilità di chi ha trascurato le misure di sicurezza che avrebbero dovuto evitarla.
di Elisabeth Zoja
01 luglio 2009
Giornali e giornalisti di guerra
Embedded è l’appellativo con cui vengono definiti i giornalisti di guerra al seguito delle truppe d’aggressione americane, e quindi posti sotto la loto tutela. Giornalisti simili, com’è ovvio, possono raccontare solo ciò che i comandi militari fanno vedere loro, forniscono quindi un’informazione a senso unico, quella desiderata dall’esercito che accompagnano. Non sapevamo che il termine venisse dal mondo informatico e che sta per “sistema incapsulato o specificamente dedicato”. Un sistema embedded, diversamente da un normale calcolatore che può svolgere mansioni differenti, è concepito per assolvere compiti predeterminati e solo quelli. Mai analogia fu più azzeccata. Quello di come si stia comportando la stampa occidentale davanti all’attuale crisi iraniana è un caso di embeddeddismo raddoppiato, ovvero oltre il confine dell’indecenza.
Non c’è infatti un’aggressione, una guerra in atto, delle truppe d’invasione a cui fare da amplificatori. Eppure gli organi di stampa occidentali, come se fossero membra di un unico corpo, come se ubbidissero ad un unico grande e diabolico cervello, come innumerevoli diffusori allacciati al medesimo amplificatore, suonano la stessa musica, un uguale spartito. Non c’è affatto bisogno di essere complottisti per ritenere che questa centrale unica di disinformazione strategica esista. La musica, o meglio il rumore, è composto dagli stessi ritornelli: Ahmadinejad è un dittatore, ha vinto le elezioni coi brogli; a conferma del primo assunto e del secondo sta soffocando nel sangue la legittima rivolta popolare. Se è falso liquidare Ahmadinejad come un dittatore, questa assordante campagna non è riuscita a dimostrare né che i brogli avrebbero pregiudicato la vittoria di Mousavi, né che per le strade di Tehran ci sarebbero stati “decine di morti ammazzati”.
Il meccanismo non è nuovo. Esso fu ben collaudato in almeno altri tre casi clamorosi. Nella primavera del 1999, poco prima dell’attacco NATO-USA alla Jugoslavia. Tutti ricorderanno le accuse al governo di Belgrado, accusato di applicare un piano sanguinoso e premeditato di pulizia etnica in Kosovo. Il secondo, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando i Talibani vennero accusati senza alcuna prova di essere corresponsabili della strage di New York. Il terzo infine, non meno sfrontato, che l’Iraq di Saddam Hussein avrebbe posseduto armi di distruzione di massa. In tutti e due questi casi i media occidentali scatenarono campagne formidabili d’intossicazione. Lo scopo fu subito evidente: si dovevano satanizzare gli avversari allo scopo di abbindolare l’opinione pubblica occidentale affinché accettasse come “atti dovuti”, come azioni “umanitarie e/o democratiche”, le devastanti aggressioni imperialistiche. Tre gigantesche campagne mediatiche, tre guerre. In tutti e tre i casi la spada fu preceduta dalla penna, la guerra vera e propria con le armi fu preparata da quella più insidiosa consistente nel più colossale lavaggio internazionale di cervelli. Le stesse tecniche di propaganda del nazista Gobbels, lo stesso principio del Gaulaiter per cui “una menzogna ripetuta tre volte diventa una verità”.
Saremo accusati di dietrologia dal momento che sospettiamo che siamo al quarto atto della medesima tragedia? Se anche in questo caso, come nei due precedenti, la virulenta campagna di sputtanamento del governo iraniano e di Ahmadinejad, questo pervasivo lavaggio del cervello, faccia da apripista ad una nuova aggressione (che non necessariamente seguirà le forme delle tre che l’hanno preceduta)?
Vogliamo oggi soltanto mostrare la sfacciataggine e l’insulsa disinvoltura della stampa italiana. Dalla mazzetta estraiamo La Stampa di Torino, un giornale circondato dall’aureola di “sobrietà, obbiettività e pacatezza informativa”. Titolo di scatola: “Si parla di numerosi morti e feriti. L’IRAN PRECIPTA NEL CAOS. Brutale attacco ai manifestanti”.
E’ dal dodici giugno che i media italiani ed occidentali, oltre che parlare di scontri tra “manifestazioni moltitudinarie” e forze di polizia (da tutti i video amatoriali visti sin qui di moltitudini non c’e traccia - si tenga conto che solo Tehran ha circa dieci milioni di abitanti) suonano gli stessi tasti.
Notate anzitutto il “si parla”, ossia: si dice, si mormora, si vocifera... Da giorni vengono fatti titoli sul sangue che scorrerebbe per le strade di Theran, basati dunque sui “si sentito dire”. Sentito dire da chi? Ma è ovvio! Dai sostenitori di Mousavi, oppure dagli esuli iraniani in America e in Europa che degli avvenimenti ne sanno poco più che un fico secco, e le cui denuncie vengono invece prese per oro colato. Per adesso abbiamo la prova solo di una donna uccisa (per altro in circostanze poco chiare), la famosa e sfortunata Neda. Tantè che si ha notizia di un solo funerale, visto che di quello annunciato da Mousavi in onore “dei martiri uccisi” non si è avuta più notizia. Come mai? Tutta la prima pagina de La Stampa è un affresco sul “massacro iraniano”, ma anche la seconda e pure la terza.
Ora, prendiamo pure per buona la notizia che in due settimane sarebbero stati uccisi dodici manifestanti. Dodici manifestanti uccisi in quattordici giorni fa meno di una vittima al giorno.
Ora, se avete tra le mani La Stampa, passate a pagina 16 (Estero). Accanto ad un titolo sul prossimo incontro di Obama col Papa, se vi sforzate, potete vedere, con le dimensioni di un francobollo, questa istruttiva e agghiacciante notizia: Titolo: «Drone USA in Pakistan: Missili sul funerale ottanta morti». Il testo ha questo incipit: «Nuovo tragico incidente nel nordest del Pakistan. Un missile sparato contro un covo di ribelli ha colpito in pieno un funerale di civili radunatisi per il funerale di un capo taliban ucciso poche ore prima da un altro drone».
Un caso da manuale per capire la tecnica della menzogna informativa occidentale*. Giorni e giorni di prime pagine sui presunti assassinii compiuti dalla polizia iraniana. Spazio di un francobollo all’ennesimo attacco terroristico americano, compiuto sempre da quelle parti, ma che ha fatto una strage vera. Quante migliaia di afghani e pakistani sono morti sotto le bombe americane negli ultimi anni? Non è dato sapere. E perché non lo è dato? perché lì “c’è la guerra contro il terrorismo”, nel cui nome tutto si giustifica, tutto si comprende, anche lo scempio contro un mesto funerale. E come si giustifica questo crimine, questo massacro di civili inermi? Affermando che è stato un incidente, e insinuando pelosamente (poiché prove se ne fregano di portarle come sempre) che i partecipanti al funerale forse erano inermi, ma non propriamente innocenti, dato che, se non amici di un talibano, si erano permessi di onorare e accompagnare le sue esequie.
In quell’inferno se solo sfiori o sei solidale con un “terrorista” ti becchi come minimo un missile lanciato da un drone. Nel paradiso occidentale aspettati un fragoroso arresto e una bella richiesta di condanna a quindici anni come “fiancheggiatore”, per 270 bis, ter, quarter, quinquies sexies ecc., lanciata non da un drone a stelle e strisce, ma da uno zelante e tricolorato pubblico ministero.
Cè forse qualche Tribunale penale internazionale che si occupi dei reiterati atti terroristici americani o NATO? Certo che no! Certi Tribunali si occupano dei “crimini contro l’umanità”, non della bassa macelleria contro iracheni, palestinesi, afghani o pakistani. Quelli non fanno parte dell’umanità, sono bestie da macello, belve che meritano di finire a Guantanamo, di essere torturati e umiliati ad Abu Ghraib o Baghram.
Non troverete nella stampa occidentale queste nostre accuse. Essa è infatti una stampa libera, democratica, obbiettiva, mentre quelle nostre sono solo malignità prevenute, elucubrazioni, accuse per partito preso. Gi embedded invece non agiscono per partito preso, non ubbidiscono ad un padrone. Il giornalista in Occidente è libero. E’ vero infatti che non deve più attendere la velina del politico per scrivere il suo pezzo. Siamo ormai giunti allo stadio per cui la simbiosi e l’empatia tra servo e padrone è giunta a tal punto che è il primo che detta la velina al secondo. La gerarchia è mutata, il quarto potere è salito di rango, e se non è diventato il primo della scala, certamente è montato sulle spalle dei replicanti politici.
*PS - Va detto che quel che vale per La Stampa e per i principali quotidiani del paese, vale anche per i giornali di sinistra.
Il Manifesto del 25 giugno titola "Dalla parte dell'Iran" sotto un'enorme foto centrale di Obama, mentre a pagina 2 il titolo di testa è "Colpo di Stato in una notte".
Fin qui l'Iran, e la strage americana in Pakistan?
Per trovarla ci vuole pazienza e lente d'ingrandimento. La notizia è finita nelle "brevi" scritte in piccolo a pagina 9. Titolo: "Waziristan, drone Usa uccide 45 persone" (in realtà più di 80, ndr). Viene riportata in poche righe la notizia così come fornita dai servizi pachistani. Il Manifesto non ha da fare commenti...
Ed in questo caso anche noi possiamo astenerci dal commentare il comportamento del Manifesto, dato che si commenta abbondantemente da solo.
29 giugno 2009
Francia: la rivoluzione parte dalle campagne
Al solito, tutto inizia in Francia. Come racconta Alessandro Cisilin, su Galatea European Magazine, le tradizionali spese parigine del sabato hanno incontrato il 13 giugno scorso una brutta sorpresa, coi supermercati semivuoti. Su iniziativa della Fnsea (“Fédération Nationale des Syndicats des Exploitants Agricoles”) e di Ja (“Jeunes Agriculteurs”) i contadini, armati di forconi, pale, trattori, cumuli di terra e perfino gli stessi carrelli dei supermercati, hanno completamente bloccato dal giovedì precedente i principali centri di smistamento della grande distribuzione. L’obiettivo dichiarato dal suo leader Lemétayer era bloccarne una trentina. Ne sono stati occupati quarantuno, e cioè oltre la metà delle fonti di approvvigionamento del paese. Motivo della protesta, le contrazioni nel prezzo pagato dagli intermediari nell’ultimo anno, senza giustificazione nella crisi.
Spesso si dimentica infatti che nei momenti di difficoltà per l’economia gli sciacalli della finanza trovano ampi spazi per le loro manovre speculative. Quando tutto va giù è facile giocare al ribasso più di quanto la situazione non richieda e poi lucrare comprando a 1 quello che varrebbe 10. Quando oggetto delle contrattazioni sono quelle maniacali strutture di alchimia finanziaria, si può anche far finta di non vedere gli effetti che questo produce nell’economia reale; ma se a rimetterci - come in questo caso - sono i lattai e gli agricoltori è segno evidente che qualcosa debba cambiare. Come puntualizza più che giustamente il giornalista: “La crisi c’è e, diversamente da quanto argomentato da qualche ministro europeo, non arricchisce i meno abbienti con meccanismi deflazionistici ma allarga e aggrava la povertà. La dimostrazione, tra le altre, é che i consumi alimentari, solitamente mattone indistruttibile rispetto alla congiuntura economica, si sono anch’essi sensibilmente ridotti”. Accade in Francia, accade in Italia, accade in tutto l’occidente civilizzato.
Ad essere malata non è, però, la sola rete della distribuzione, ma piuttosto l’intera struttura dell’industria alimentare. Da quando con l’avvento dei petrolchimici il settore agricolo ha ceduto il passo all’industria agroalimentare, con i derivati del petrolio ad intossicarci l’esistenza non solo attraverso i fumi delle fabbriche, ma nascosti nel cibo, considerati come un’inevitabile conseguenza della crescita forzosa delle economie, anche l’attività più antica del mondo si è trovata inevitabilmente a dover scendere a compromessi con le logiche sempre più aggressive del liberismo. Tra le cause di distruzione degli ecosistemi la produzione di cibo risulta infatti essere al primo posto. Si continua a fingere di non comprendere che oltre a sfiancare il territorio le tecniche alimentari e, più in generale, l’onnipresente logica di sovrapproduzione svilisce il valore del cibo e di chi quel cibo plastificato lo consuma.
Accade così che l’uomo non sappia organizzare e gestire il territorio, ma lo usi semplicemente per i suoi scopi, in maniera indiscriminata e senza una prospettiva sostenibile né da un punto di vista strettamente agricolo né, tanto meno, da un punto di vista sociale. È necessario, invece, prendere coscienza dell’evidenza che la gastronomia non è intrattenimento, non consiste e non si esaurisce nel ricettario da cui sono invase riviste e rubriche televisive. La gastronomia è un atto politico, economico, etico. Anche la coltivazione e lo spostamento del cibo producono uno squilibrio nel pianeta, lo inquinano, ne esauriscono le risorse. E nessuna delle innovazioni tecnologiche di cui la produzione si serve favorisce la qualità di quel che arriva sulle nostre tavole. Semplicemente aumenta la produttività di terreni, piante, animali già esauriti nella loro capacità di rigenerarsi naturalmente.
La qualità è un diritto e un valore, non un lusso, non un eccesso di cui solo pochi possono godere. Il cibo è salute, diventa parte di noi, siamo noi. Dunque com’è possibile che l’opinione pubblica ignori o superi agevolmente il problema di capire cosa c’è in quel che mangia e quali conseguenze produca il modo in cui si nutre? L’esperienza francese - ma più in generale il corso della storia - ci insegna che le grandi rivoluzioni iniziano dal basso e dalle piccole cose, similmente a quanto accade in natura.
Come l’innocuo getto d’acqua di una fonte di alta montagna arriva, passando per il fiume, ad esprimere la devastante forza di una cascata, così anche oggi gli agricoltori francesi, all’occorrenza, sanno uscire dai terreni e compattarsi in strada. A muoversi stavolta sono stati almeno settemila. Proteste analoghe avevano indotto il governo a istituire il dicembre scorso un Osservatorio dei margini di profitto applicati dai distributori. Nulla però è cambiato nella tendenza a falcidiare i redditi agricoli. Nei giorni della protesta i vertici della distribuzione hanno mobilitato i propri dipendenti in azioni di disturbo dei blocchi dichiarando al contempo che le proteste dei contadini non intaccavano l’offerta nei supermercati. Nella guerra delle cifre però parlano le fotografie e i video diffusi dai cittadini e dai lavoratori. Il blocco è riuscito al di là delle attese, e molti scaffali rinviavano a scenari bellici. Quando si dice l’arroganza del potere.
In Francia però gli intermediari agricoli hanno a che fare con una categoria di produttori che, seppur dispersa territorialmente e scarsamente sindacalizzata, quando s’incazza, si muove da far paura. “Come sanno alcuni storici – si legge nell’articolo - la Rivoluzione Francese non esplose nel 1789. Nacque tre secoli prima, quando i contadini di molti villaggi conquistarono la proprietà dei loro terreni e ottennero che l’amministrazione locale venisse affidata ad assemblee elettive, in alcuni casi perfino a suffragio universale. La successiva Rivoluzione non scaturì dunque dalla frustrazione dell’arretratezza bensì al contrario dal permanere anacronistico di alcuni privilegi nobiliari e clericali rispetto al tessuto sociale, economico e politico più avanzato d’Europa.”
Ora come allora appare impensabile continuare sulla strada fin qui percorsa. Le rivendicazioni, sempre crescenti, di giustizia e di equità sociale si integrano male e stonano tragicamente con il disegno che fa da sfondo alla nostra civiltà in questo frangente storico. Ci si interroga, infatti, sul come sia possibile che ci si preoccupi di spendere molti più soldi per un indumento che rimane all’esterno della nostra persona rispetto a quelli spesi per qualcosa che diventa nostra materia e sostanza. Il mercato, insomma, ha posto e imposto le proprie regole e il consumatore non ha tempo, mezzi o voglia di intervenire, di prendere coscienza, di agire in ogni piccolo atto della quotidianità in maniera globale. Mangiare cibi di stagione, non pretendere uniformità dalla produzione, abituarsi a consumare meno ma meglio, assicurarsi che non ci sia sfruttamento umano dietro il cibo che si compra è condizione sufficiente e necessaria per creare i presupposti per un’agricoltura più sana e più socialmente giusta; assicurarsi insomma di non lasciarci cadaveri e deserti alle spalle è il senso degli interventi che si dovrebbero attuare, a livello individuale prima e collettivo poi.
Come si legge nell’articolo “la stessa “Fédération d Commerce e de la Distribution” si è trovata costretta in poche ore a cambiare strategia, passando dall’ostentata sicurezza del nulla di fatto all’allarmismo, con la denuncia del rischio di un “crollo nelle forniture dei prodotti alimentari di base del cinquanta per cento”, nonché di conseguenze occupazionali”. Alla conclusione dell’incontro ministeriale solo la metà delle occupazioni era terminata. Poi è arrivata la promessa del ministro dell’Agricoltura Barnier: “Generalizzeremo i controlli sui prezzi della grande distribuzione e sanzionerimo quando sarà il caso” - ha promesso - riconoscendo la “legittimità delle richieste contadine in materia di trasparenza sui costi” e annunciando un’apposita “brigata” governativa incaricata delle verifiche. Nei giorni successivi alla promessa governativa un’apparente calma è tornata a regnare nelle campagne francesi. Di nuovo, però, i sindacati hanno concesso un mese di tempo. Dinanzi all’assenza di risultati reali non mancheranno alla promessa di tornare all’azione.
In Francia le rivoluzioni cominciano dalle campagne, sebbene il fatto sia caduto nell’oblio storico, oscurato dalle vicende settecentesche di Parigi. Ed è la terra il simbolo proclamato della sua moderna nazione, contro le tentazioni “etniche” e contro l’identificazione “di sangue” che cementa l’unità tedesca al di là del Reno. Nulla di strano che siano stati proprio gli agricoltori il mese scorso a suonare la carica della protesta, svuotando gli scaffali dei supermercati cittadini. Proprio mentre la nuova manifestazione unitaria dei sindacati dell’industria e dei servizi registrava un relativo flop, la campagna sapeva far sentire la sua voce contro gli affaristi urbani dei prezzi alimentari. Con un miliardo di affamati nel mondo forse è il caso di prendere esempio da loro che di rivoluzioni ne sanno qualcosa.
di Ilvio Pannullo
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