05 luglio 2009

Storia petrolifera del Bel Paese

colin campbell aspo
Colin Campbell, presidente onorario di ASPO Internazionale

Quello riguardante il petrolio e l’approvvigionamento energetico in generale è uno dei temi più caldi di cui si discute in questo periodo. Le prime crepe di un sistema “energivoro” di crescita sfrenata sono già comparse da tempo e adesso si stanno allargando sempre più, con la lancetta del contagiri di produzione e consumo che è oramai stabilmente sul rosso.

In questo contesto, un contributo estremamente interessante è portato da una piccola pubblicazione curata da Editrice Le Balze a firma di Ugo Bardi e Giovanni Pancani. Entrambi membri di ASPO Italia (Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio), Bardi è docente di Chimica presso l’Università di Firenze. La loro opera si intitola Storia petrolifera del Bel Paese e la prefazione è a cura di Colin Campbell, presidente onorario di ASPO Internazionale.

Pur nella sua brevità, il libro affronta il discorso sul petrolio seguendo un filo logico chiaro e coerente. Si parte con qualche nozione tecnica su come si forma il petrolio, quali sono le sue diverse varietà, le modalità di lavorazione e altre informazioni utili anche per comprendere le peculiarità e i dettagli che troppo spesso vengono dati per scontati nell’analisi del mercato internazionale, delle politiche energetiche e delle opere infrastrutturali.

Dopo questo passaggio si entra subito nel vivo della discussione con l’esposizione della famosa Teoria di Hubbert. Questa teoria – che prende il nome da Marion King Hubbert, il geologo americano che per primo la formulò negli anni ’50 – si basa sull’osservazione dell’andamento dell’attività estrattiva e produttiva del greggio – anche se può essere applicata anche ad altri prodotti, come il carbone –, la quale segue uno schema preciso che si ripete in ogni situazione e che, se rappresentato graficamente, dà origine a una curva “a campana” che evidenzia come in un primo momento la produzione cresca rapidamente, per poi passare a una fase apicale centrale e infine a un lento declino.

Il picco che si raggiunge nella seconda fase è proprio il famigerato Peak Oil – il picco del petrolio – che segna il momento in cui la produzione comincia il suo cammino verso l’esaurimento totale. La teoria di Hubbert individua quindi quattro fasi della vita di un ciclo estrattivo: l’espansione rapida, l’inizio dell’esaurimento – la produzione continua la sua crescita ma rallentandone il ritmo –, il picco e l’inizio del declino, l’esaurimento.
copertina libro storia petrolifera bel paese
La copertina del libro di Ugo Bardi e Giovanni Pancani

Analizzate queste considerazioni, si arriva alla domanda fatidica: “quando giungeremo al picco del petrolio?”. La risposta varia a seconda delle interpretazioni, ma la maggioranza degli studiosi ha collocato il Peak Oil fra il 2000 e il 2030; per i più pessimisti quindi siamo già entrati nella fase decrescente.

Partendo da questa constatazione, Bardi e Pancani impiegano la seconda parte del libro ad analizzare il contesto non solo geologico ma anche commerciale, politico e sociale che ha condotto il mondo intero e l’Italia in particolare a questa situazione potenzialmente drammatica.

La parte centrale della trattazione è dedicata all’analisi del percorso storico dell’industria petrolifera nazionale e internazionale: in questo scenario la fanno da padrone le grandi compagni internazionali – le “sette sorelle”, come le chiamava Mattei – come Standard Oil, Royal Dutch-Shell, British Petroleum e altre, padrone dello scacchiere geopolitico nel gioco dell’accaparramento delle fonti energetiche.

Queste compagnie sono protagoniste anche del mercato italiano nella sua prima fase, quella che va dalle origini dell’industria del petrolio fino ai tempi del Fascismo, caratterizzata dalla nascita e dallo sviluppo embrionale – sempre sotto l’egida delle “sette sorelle” – della rete infrastrutturale italiana.

Il secondo periodo coincide quasi esattamente con il Ventennio e vede l’ingresso in campo di un nuovo giocatore, l’AGIP, nata nel 1926 nell’ambito di una politica di autodeterminazione energetica voluta da Mussolini, tentativo lungimirante ma fallimentare di affrancarsi dal predominio dei privati.

Dopo questa fase arriva lo spartiacque della Seconda Guerra mondiale, avvenimento decisivo non solo in ambito militare e politico ma anche dal punto di vista della produzione, in quanto determina un’accelerazione decisiva della domanda energetica che – fatte salve alcune contingenze specifiche – non rallenterà più fino ai giorni nostri.

Il dopoguerra inaugura il terzo periodo, che in Italia è dominato da un nuovo protagonista: l’ENI e il suo presidente Enrico Mattei. Prima come presidente dell’AGIP e poi, dal 1953, a capo dell’Ente Nazionale Idrocarburi, Mattei tenta in tutti i modi di perseguire l’ambizioso e fondamentale obiettivo di garantire un futuro di autonomia energetica all’Italia.
ugo bardi
Ugo Bardi, membro di AISPO Italia

Grazie alla sua abilità persuasiva e politica riesce a orientare la legislazione interna in suo favore e a stringere importantissimi accordi internazionali con partner quali Unione Sovietica, Iran e Libia, ponendo fine all’egemonia dell’Accordo della Linea Rossa, il patto di ferro che spartiva la torta fra le grandi compagnie private anglo-americane.

La sua coraggiosa iniziativa terminerà però tragicamente nel 1962, in occasione del disastro aereo di Bascapè, solo recentemente riconosciuto, dopo anni di battaglie legali, come un vero e proprio attentato scientemente studiato per eliminare un personaggio scomodo.

Il destino dell’ENI e dell’autonomia energetica italiana cambia nuovamente, conoscendo prima un rapido declino sotto la guida di Cefis poi un successo aziendale grazie alla privatizzazione del 1992, senza però mai tornare a recitare un ruolo da protagonista come ai tempi di Mattei.

Sullo scenario internazionale, un altro momento cruciale è quello dello shock petrolifero del 1973, forse la prima occasione in cui tutto il mondo industrializzato si trovò a fare i conti con un sistema produttivo e un mercato energetico che, protetto dalla rassicurante visione della società del benessere e dello sviluppo, stava lentamente degenerando.

L’interessante digressione che gli autori presentano dopo questa lunga e esaustiva cronistoria riguarda quella che viene presentata come la nuova, straordinaria frontiera dello sfruttamento energetico, ovvero il Mar Caspio. È molto interessante notare che, pur al centro di grandi tensioni, lotte geopolitiche, guerre più o meno estese e sanguinose, l’area caspica non presenti in realtà la soluzione ai problemi di approvvigionamento energetico di cui necessita il mondo industrializzato.
estrazione petrolio
Nel 1997 il vice-segretario di Stato americano Strobe Talbott parla di estrazione petrolifera in area caspica con un quantitativo pari a 200 miliardi di barili

Le stime – proposte per la prima volta nel 1997 dal vice-segretario di Stato americano Strobe Talbott – parlano di un quantitativo pari a 200 miliardi di barili, sovrastimando esageratamente la reale potenzialità dell’area, compresa fra i 30 e i 50 miliardi di barili. Questo quantitativo peraltro è ben lontano dal rappresentare una soluzione definitiva poiché, al ritmo di consumo attuale, potrebbe soddisfare la domanda energetica mondiale per soli due anni.

Che fare, quindi? Le prospettive per l’Italia e per il resto del mondo sono poco incoraggianti. Ciononostante, Bardi e Pancani non si lasciano andare a radicali considerazioni catastrofiste o ideologicamente orientate, né glissano su quello che è un problema reale e urgente.

Prendono atto del fatto che la transizione energetica non può prescindere dall’utilizzo delle ultime scorte di petrolio esistenti, che ovviamente dovranno gradualmente essere sostituite con fonti energetiche alternative, senza strappi ma senza indugi.

La soluzione può quindi essere un misto di LWR – la fissione nucleare classica tramite reattori ad acqua leggera, che pure deve ancora dimostrare la sua sicurezza e soprattutto la sua sostenibilità futura – e NFER, ovvero Nuove Fonti di Energia Rinnovabile, accompagnate alle già collaudate fonti idroelettriche e geotermiche, tenendo però presente che vanno sviluppati in fretta sistemi che consentano la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo su larga scala di queste soluzioni.

Infine, ultimo ma non per importanza, è fondamentale un mutamento di mentalità che renda tutti coscienti del fatto che l’energia è un bene prezioso che, soprattutto in un momento critico come quello che stiamo vivendo, va amministrato con saggezza e oculatezza.

di Francesco Bevilacqua

04 luglio 2009

Il guerriero Obama, ma da qui nessuno è mai uscito vittorioso...


La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.
by Vittorio Zucconi

03 luglio 2009

La finanza non è la sola colpevole


La crisi finanziaria scoppiata lo scorso anno nelle Borse di tutto il mondo e che successivamente si è riversata nella cosiddetta economia reale globale non è stata determinata esclusivamente, come si vorrebbe fare credere, dagli eccessi di una finanza troppo vorace per non lasciarsi sfuggire la benché minima occasione di speculare pur non disponendo dei capitali necessari.
Certo, i mercati finanziari sono quello che sono. Un immenso tavolo verde nel quale i più diversi operatori scommettono e puntano anche i capitali che non possiedono su autentici titoli spazzatura che non rappresentano altro che una scommessa su una scommessa e su una scommessa ancora. Nella loro maggioranza tali titoli non sono infatti rappresentativi di una azienda industriale o di una società finanziaria ma rappresentano spesso e volentieri una sorta di polizza di assicurazione sul valore futuro di un’azione o di un indice di titoli o sul valore di una materia prima. Detto questo ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che ad un simile meccanismo sia stato permesso non solo di operare ma addirittura di nascere. E la risposta è a dir poco semplice. I mercati finanziari globali sono in mano a banche e società finanziarie che impongono la propria volontà ai governi e agli organismi internazionali. Attraverso il meccanismo della finanza, che di per sé è virtuale, i grandi potentati economico-finanziari riescono ad operare un massiccio trasferimento di ricchezza reale a proprio favore, derubando di fatto i piccoli risparmiatori di tutto il mondo che si sono fidati dei consigli di uno dei tanti esperti o consulenti del settore, o anche di uno dei tanti quotidiani, il più delle volte legati a filo doppio alle società che hanno emesso tali titoli. Una obiezione questa alla quale i vari liberisti d’accatto replicano che questo è il Libero Mercato e che chi va sul mercato e scommette in Borsa deve accettare di correre qualche rischio.
Precisato questo bisogna però pur dire che non bisogna cadere nell’errore di imputare tutti i mali e tutte le colpe alla Finanza, speculatrice per definizione, e assolvere invece il Mercato come organismo sano e da difendere in ogni caso.
L’approccio speculativo della Finanza è in realtà una conseguenza diretta della mentalità “mercatista”, tanto per usare un termine caro al nostro ministro dell’Economia Giulio Tremonti, per indicare gli eccessi di un mercato sempre più autoreferenziale.
Una mentalità che vede nell’economia il primo e unico valore. Una visione meccanicistica che punta su una crescita e su uno sviluppo infiniti che finiscono inevitabilmente per essere devastanti per il tessuto sociale di tutti i Paesi perché pongono ai cittadini traguardi economici e sociali irraggiungibili. Si arriva all’assurdo di un capo del governo, Silvio Berlusconi, che invita gli italiani a consumare per tenere in piedi l’economia nazionale. Una follia sotto tutti i punti di vista perché rivolta ogni legge naturale, non posso spendere quello che non ho, e spinge sempre più in là il momento nel quale nessuno avrà più niente da produrre, spendere o consumare perché il meccanismo sarà imploso su se stesso.
Non siamo di fronte quindi ad una crisi di sistema, siamo invece di fronte alla presa d’atto che il sistema nel quale viviamo è basato sul nulla e che contiene in sé tutte le premesse per travolgerci nella sua imminente caduta.
di Filippo Ghira

05 luglio 2009

Storia petrolifera del Bel Paese

colin campbell aspo
Colin Campbell, presidente onorario di ASPO Internazionale

Quello riguardante il petrolio e l’approvvigionamento energetico in generale è uno dei temi più caldi di cui si discute in questo periodo. Le prime crepe di un sistema “energivoro” di crescita sfrenata sono già comparse da tempo e adesso si stanno allargando sempre più, con la lancetta del contagiri di produzione e consumo che è oramai stabilmente sul rosso.

In questo contesto, un contributo estremamente interessante è portato da una piccola pubblicazione curata da Editrice Le Balze a firma di Ugo Bardi e Giovanni Pancani. Entrambi membri di ASPO Italia (Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio), Bardi è docente di Chimica presso l’Università di Firenze. La loro opera si intitola Storia petrolifera del Bel Paese e la prefazione è a cura di Colin Campbell, presidente onorario di ASPO Internazionale.

Pur nella sua brevità, il libro affronta il discorso sul petrolio seguendo un filo logico chiaro e coerente. Si parte con qualche nozione tecnica su come si forma il petrolio, quali sono le sue diverse varietà, le modalità di lavorazione e altre informazioni utili anche per comprendere le peculiarità e i dettagli che troppo spesso vengono dati per scontati nell’analisi del mercato internazionale, delle politiche energetiche e delle opere infrastrutturali.

Dopo questo passaggio si entra subito nel vivo della discussione con l’esposizione della famosa Teoria di Hubbert. Questa teoria – che prende il nome da Marion King Hubbert, il geologo americano che per primo la formulò negli anni ’50 – si basa sull’osservazione dell’andamento dell’attività estrattiva e produttiva del greggio – anche se può essere applicata anche ad altri prodotti, come il carbone –, la quale segue uno schema preciso che si ripete in ogni situazione e che, se rappresentato graficamente, dà origine a una curva “a campana” che evidenzia come in un primo momento la produzione cresca rapidamente, per poi passare a una fase apicale centrale e infine a un lento declino.

Il picco che si raggiunge nella seconda fase è proprio il famigerato Peak Oil – il picco del petrolio – che segna il momento in cui la produzione comincia il suo cammino verso l’esaurimento totale. La teoria di Hubbert individua quindi quattro fasi della vita di un ciclo estrattivo: l’espansione rapida, l’inizio dell’esaurimento – la produzione continua la sua crescita ma rallentandone il ritmo –, il picco e l’inizio del declino, l’esaurimento.
copertina libro storia petrolifera bel paese
La copertina del libro di Ugo Bardi e Giovanni Pancani

Analizzate queste considerazioni, si arriva alla domanda fatidica: “quando giungeremo al picco del petrolio?”. La risposta varia a seconda delle interpretazioni, ma la maggioranza degli studiosi ha collocato il Peak Oil fra il 2000 e il 2030; per i più pessimisti quindi siamo già entrati nella fase decrescente.

Partendo da questa constatazione, Bardi e Pancani impiegano la seconda parte del libro ad analizzare il contesto non solo geologico ma anche commerciale, politico e sociale che ha condotto il mondo intero e l’Italia in particolare a questa situazione potenzialmente drammatica.

La parte centrale della trattazione è dedicata all’analisi del percorso storico dell’industria petrolifera nazionale e internazionale: in questo scenario la fanno da padrone le grandi compagni internazionali – le “sette sorelle”, come le chiamava Mattei – come Standard Oil, Royal Dutch-Shell, British Petroleum e altre, padrone dello scacchiere geopolitico nel gioco dell’accaparramento delle fonti energetiche.

Queste compagnie sono protagoniste anche del mercato italiano nella sua prima fase, quella che va dalle origini dell’industria del petrolio fino ai tempi del Fascismo, caratterizzata dalla nascita e dallo sviluppo embrionale – sempre sotto l’egida delle “sette sorelle” – della rete infrastrutturale italiana.

Il secondo periodo coincide quasi esattamente con il Ventennio e vede l’ingresso in campo di un nuovo giocatore, l’AGIP, nata nel 1926 nell’ambito di una politica di autodeterminazione energetica voluta da Mussolini, tentativo lungimirante ma fallimentare di affrancarsi dal predominio dei privati.

Dopo questa fase arriva lo spartiacque della Seconda Guerra mondiale, avvenimento decisivo non solo in ambito militare e politico ma anche dal punto di vista della produzione, in quanto determina un’accelerazione decisiva della domanda energetica che – fatte salve alcune contingenze specifiche – non rallenterà più fino ai giorni nostri.

Il dopoguerra inaugura il terzo periodo, che in Italia è dominato da un nuovo protagonista: l’ENI e il suo presidente Enrico Mattei. Prima come presidente dell’AGIP e poi, dal 1953, a capo dell’Ente Nazionale Idrocarburi, Mattei tenta in tutti i modi di perseguire l’ambizioso e fondamentale obiettivo di garantire un futuro di autonomia energetica all’Italia.
ugo bardi
Ugo Bardi, membro di AISPO Italia

Grazie alla sua abilità persuasiva e politica riesce a orientare la legislazione interna in suo favore e a stringere importantissimi accordi internazionali con partner quali Unione Sovietica, Iran e Libia, ponendo fine all’egemonia dell’Accordo della Linea Rossa, il patto di ferro che spartiva la torta fra le grandi compagnie private anglo-americane.

La sua coraggiosa iniziativa terminerà però tragicamente nel 1962, in occasione del disastro aereo di Bascapè, solo recentemente riconosciuto, dopo anni di battaglie legali, come un vero e proprio attentato scientemente studiato per eliminare un personaggio scomodo.

Il destino dell’ENI e dell’autonomia energetica italiana cambia nuovamente, conoscendo prima un rapido declino sotto la guida di Cefis poi un successo aziendale grazie alla privatizzazione del 1992, senza però mai tornare a recitare un ruolo da protagonista come ai tempi di Mattei.

Sullo scenario internazionale, un altro momento cruciale è quello dello shock petrolifero del 1973, forse la prima occasione in cui tutto il mondo industrializzato si trovò a fare i conti con un sistema produttivo e un mercato energetico che, protetto dalla rassicurante visione della società del benessere e dello sviluppo, stava lentamente degenerando.

L’interessante digressione che gli autori presentano dopo questa lunga e esaustiva cronistoria riguarda quella che viene presentata come la nuova, straordinaria frontiera dello sfruttamento energetico, ovvero il Mar Caspio. È molto interessante notare che, pur al centro di grandi tensioni, lotte geopolitiche, guerre più o meno estese e sanguinose, l’area caspica non presenti in realtà la soluzione ai problemi di approvvigionamento energetico di cui necessita il mondo industrializzato.
estrazione petrolio
Nel 1997 il vice-segretario di Stato americano Strobe Talbott parla di estrazione petrolifera in area caspica con un quantitativo pari a 200 miliardi di barili

Le stime – proposte per la prima volta nel 1997 dal vice-segretario di Stato americano Strobe Talbott – parlano di un quantitativo pari a 200 miliardi di barili, sovrastimando esageratamente la reale potenzialità dell’area, compresa fra i 30 e i 50 miliardi di barili. Questo quantitativo peraltro è ben lontano dal rappresentare una soluzione definitiva poiché, al ritmo di consumo attuale, potrebbe soddisfare la domanda energetica mondiale per soli due anni.

Che fare, quindi? Le prospettive per l’Italia e per il resto del mondo sono poco incoraggianti. Ciononostante, Bardi e Pancani non si lasciano andare a radicali considerazioni catastrofiste o ideologicamente orientate, né glissano su quello che è un problema reale e urgente.

Prendono atto del fatto che la transizione energetica non può prescindere dall’utilizzo delle ultime scorte di petrolio esistenti, che ovviamente dovranno gradualmente essere sostituite con fonti energetiche alternative, senza strappi ma senza indugi.

La soluzione può quindi essere un misto di LWR – la fissione nucleare classica tramite reattori ad acqua leggera, che pure deve ancora dimostrare la sua sicurezza e soprattutto la sua sostenibilità futura – e NFER, ovvero Nuove Fonti di Energia Rinnovabile, accompagnate alle già collaudate fonti idroelettriche e geotermiche, tenendo però presente che vanno sviluppati in fretta sistemi che consentano la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo su larga scala di queste soluzioni.

Infine, ultimo ma non per importanza, è fondamentale un mutamento di mentalità che renda tutti coscienti del fatto che l’energia è un bene prezioso che, soprattutto in un momento critico come quello che stiamo vivendo, va amministrato con saggezza e oculatezza.

di Francesco Bevilacqua

04 luglio 2009

Il guerriero Obama, ma da qui nessuno è mai uscito vittorioso...


La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.
by Vittorio Zucconi

03 luglio 2009

La finanza non è la sola colpevole


La crisi finanziaria scoppiata lo scorso anno nelle Borse di tutto il mondo e che successivamente si è riversata nella cosiddetta economia reale globale non è stata determinata esclusivamente, come si vorrebbe fare credere, dagli eccessi di una finanza troppo vorace per non lasciarsi sfuggire la benché minima occasione di speculare pur non disponendo dei capitali necessari.
Certo, i mercati finanziari sono quello che sono. Un immenso tavolo verde nel quale i più diversi operatori scommettono e puntano anche i capitali che non possiedono su autentici titoli spazzatura che non rappresentano altro che una scommessa su una scommessa e su una scommessa ancora. Nella loro maggioranza tali titoli non sono infatti rappresentativi di una azienda industriale o di una società finanziaria ma rappresentano spesso e volentieri una sorta di polizza di assicurazione sul valore futuro di un’azione o di un indice di titoli o sul valore di una materia prima. Detto questo ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che ad un simile meccanismo sia stato permesso non solo di operare ma addirittura di nascere. E la risposta è a dir poco semplice. I mercati finanziari globali sono in mano a banche e società finanziarie che impongono la propria volontà ai governi e agli organismi internazionali. Attraverso il meccanismo della finanza, che di per sé è virtuale, i grandi potentati economico-finanziari riescono ad operare un massiccio trasferimento di ricchezza reale a proprio favore, derubando di fatto i piccoli risparmiatori di tutto il mondo che si sono fidati dei consigli di uno dei tanti esperti o consulenti del settore, o anche di uno dei tanti quotidiani, il più delle volte legati a filo doppio alle società che hanno emesso tali titoli. Una obiezione questa alla quale i vari liberisti d’accatto replicano che questo è il Libero Mercato e che chi va sul mercato e scommette in Borsa deve accettare di correre qualche rischio.
Precisato questo bisogna però pur dire che non bisogna cadere nell’errore di imputare tutti i mali e tutte le colpe alla Finanza, speculatrice per definizione, e assolvere invece il Mercato come organismo sano e da difendere in ogni caso.
L’approccio speculativo della Finanza è in realtà una conseguenza diretta della mentalità “mercatista”, tanto per usare un termine caro al nostro ministro dell’Economia Giulio Tremonti, per indicare gli eccessi di un mercato sempre più autoreferenziale.
Una mentalità che vede nell’economia il primo e unico valore. Una visione meccanicistica che punta su una crescita e su uno sviluppo infiniti che finiscono inevitabilmente per essere devastanti per il tessuto sociale di tutti i Paesi perché pongono ai cittadini traguardi economici e sociali irraggiungibili. Si arriva all’assurdo di un capo del governo, Silvio Berlusconi, che invita gli italiani a consumare per tenere in piedi l’economia nazionale. Una follia sotto tutti i punti di vista perché rivolta ogni legge naturale, non posso spendere quello che non ho, e spinge sempre più in là il momento nel quale nessuno avrà più niente da produrre, spendere o consumare perché il meccanismo sarà imploso su se stesso.
Non siamo di fronte quindi ad una crisi di sistema, siamo invece di fronte alla presa d’atto che il sistema nel quale viviamo è basato sul nulla e che contiene in sé tutte le premesse per travolgerci nella sua imminente caduta.
di Filippo Ghira