26 luglio 2009

Deglobalizzare il pianeta

Nel 1991, sei anni prima che la crisi finanziaria investisse con devastante irruenza il sistema economico, apparentemente solidissimo, delle “tigri asiatiche”, con conseguenze catastrofiche per milioni di cittadini, Walden Bello mandava alle stampe Dragons in Distress. Asia’s Miracle Economies in Crisis, un testo che annunciava l’inevitabile tracollo di quel sistema.

Già allora infatti il fondatore (nel 1995) e direttore esecutivo dell’associazione Focus on the Global South si diceva convinto, come avrebbe ribadito in Domination. La fine di un’era (Nuovi Mondi Media, 2005), «che l’economia globale è ormai alla fine dell’onda lunga di espansione del capitalismo durata cinquant’anni, e all’inizio del suo declino», e che «uno dei sintomi della condizione patologica in cui versa l’economia è il peso preponderante assunto dal capitale finanziario».

Una condizione patologica che oggi appare in tutta la sua evidenza, e che alcuni, come questo attivista e sociologo filippino, già direttore dell’Institute for Food and Development Policy (Food First) di Oakland, California, oggi membro del Transnational Institute di Amsterdam e dell’International Forum on Globalisation, analizzano da tempo.



Nato a Manila nel 1945, docente di sociologia e pubblica amministrazione presso l’Università delle Filippine di Diliman, già visiting professor alle Università di Los Angeles, Irvine e Santa Barbara, Walden Bello ha cominciato ad accorgersi delle patologie del sistema politico-economico internazionale a metà degli anni Settanta, quando assunse un ruolo centrale nel movimento che si batteva contro la dittatura del presidente filippino Ferdinando Marcos, coordinando dagli Stati Uniti la coalizione Anti-Martial Law.

Fu allora infatti che, nel corso delle ricerche per le campagne per la promozione dei diritti umani nel suo paese, scoprì che il regime di Marcos era appoggiato finanziariamente da istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Per dimostrarlo, entrò illegalmente nel quartier generale della Banca mondiale, “recuperando” tremila pagine di documenti confidenziali che avrebbero costituito la base per il suo Development Debacle (1982).



Da allora, non ha mai smesso di dedicarsi all’analisi delle diseguaglianze generate dal sistema capitalistico, alla critica del finto multilateralismo delle istituzioni di Bretton Woods-WTO e alla denuncia dei progetti egemonici degli Stati Uniti. Vincitore nel 2003 del Right Livelihood Award (il premio Nobel alternativo), critico radicale del capitalismo e dell’imperialismo a stelle e strisce, Walden Bello ha fatto della combinazione tra la ricerca intellettuale e la militanza politica una vera e propria cifra distintiva, dando alle stampe diversi saggi, tra cui ricordiamo Il futuro incerto: globalizzazione e nuova resistenza e Deglobalizzazione (entrambi editi da Baldini Castoldi Dalai, rispettivamente nel 2002 e nel 2004), testi in cui ha trasferito «le lezioni apprese dai paesi in via di sviluppo negli ultimi 25 anni: che la politica commerciale deve essere subordinata allo sviluppo; che la tecnologia deve essere liberata dalla rigida normativa della proprietà intellettuale; che sono necessari controlli sui movimenti di capitali; che lo sviluppo richiede non meno, ma più intervento dello stato; e, soprattutto, che i deboli devono restare uniti perché da soli vanno a finire male».



Nel libro Domination. La fine di un’era, lei identifica tre elementi che segnalerebbero la fine dell’egemonia americana: una crisi da sovrapproduzione (dimensione economica), una crisi da sovraesposizione (dimensione strategico-militare) e una di legittimità (dimensione politico-ideologica). Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?

La crisi economica a cui stiamo assistendo da alcuni mesi può essere meglio compresa proprio se la intendiamo come crisi da sovrapproduzione, e deriva dalla straordinaria capacità produttiva del sistema capitalistico che supera e contraddice la limitata capacità di consumo e d’acquisto della popolazione, causata dalle continue e crescenti disuguaglianze nell’ambito della sfrenata competizione tra attori capitalisti.

La mia tesi, che ovviamente condivido con altri, è che a partire dalla metà degli anni Settanta questa crisi abbia raggiunto un livello tale da spingere il capitale a ricorrere a tre vie d’uscita: la ristrutturazione neoliberista, la globalizzazione e la “finanziarizzazione”.

Strumenti che però non hanno funzionato, e anziché risolverla o mitigarla hanno aggravato la crisi da sovrapproduzione. Oggi assistiamo alla dimostrazione plateale di questo fallimento.

L’altra dimensione è la crisi da sovraesposizione, che si situa al livello dello Stato e riguarda la sua capacità di “proiettare” potere; sin dalla guerra in Afghanistan abbiamo sostenuto che gli Stati Uniti si stessero sovraesponendo, rendendo manifesto lo scarto tra gli obiettivi del sistema imperiale e la mancanza delle risorse per ottenerli. Non è un caso che sia stato facile prevedere, da parte mia e di altri, quel che oggi accade in Iraq e in Afghanistan.

La terza dimensione è quella della legittimità, senza la quale tutti i sistemi sono destinati al fallimento. Credo che il sistema democratico liberale, la cui diffusione è stata fortemente promossa dagli Stati Uniti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, sia oggi ampiamente discreditato a causa del modo in cui gli USA hanno usato la democrazia per promuovere i propri interessi strategici. Lo stesso è accaduto con le istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio, che aspirano a presentarsi come democraticamente rispondenti ai diversi membri che le compongono, ma che continuano a servire alcuni, particolari e circoscritti interessi.

Credo che l’uso della democrazia e delle istituzioni multilaterali per promuovere e imporre obiettivi unilaterali abbiamo fortemente contribuito alla crisi di legittimità dell’impero americano. Se poi si mettono insieme tutti e tre gli elementi critici di cui abbiamo parlato, e a questi si aggiunge la crisi ambientale, si avrà di fronte l’immagine di una formidabile tempesta. Quella che ha ereditato Obama.



Secondo la sua analisi, dunque, la crisi attuale, più che come il risultato di una mancata regolamentazione del settore finanziario, andrebbe interpretata come l’incancrenirsi di una delle contraddizioni centrali del capitalismo globale…

È proprio così: la mancata regolamentazione è soltanto parte della risposta, così come l’avidità dimostrata dagli attori economici, mentre la parte più rilevante della risposta va individuata nella crisi del sistema in quanto tale, e nel fallimento del tentativo di superare la crisi dei profitti, che deriva dalla crisi da sovrapproduzione, attraverso le tre risposte a cui abbiamo accennato prima. In particolare, poi, la “finanziarizzazione”, attuata nella speranza di poter assorbire il surplus e creare profitto, ci ha piombati nel bel mezzo della crisi attuale. Una crisi che ci deve indurre a guardarci indietro, per capire che essa non investe semplicemente una questione di regole non rispettate, ma ha a che fare con la specifica dinamica del sistema capitalistico.



Come da anni critica i pericoli della “finanziarizzazione”, così da molto tempo sostiene anche che «ci sarebbe sicuramente bisogno di controlli sul movimento dei capitali, sia a livello regionale che locale». Eppure continua a dirsi scettico sull’istituzione di un’autorità monetaria mondiale. Perché ritiene che anche un’istituzione del genere possa essere controproducente?

Perché ritengo che le istituzioni centralizzate, anche laddove si suppone che operino per il multilateralismo, finiscano spesso sotto il controllo dei poteri dominanti. Questa è una delle ragioni per cui mi sono sempre opposto alla sostituzione di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio con un’unica istituzione che gestisca la politica monetaria mondiale. Le istituzioni centralizzate hanno due difetti principali: il primo è che acquisiscono presto una sorta di vita propria, e tendono a soddisfare i propri interessi anziché rispondere ai bisogni di coloro ai quali dovrebbero offrire i propri servizi. L’altro è invece che, per il modo stesso in cui operano, i poteri dominanti trovano molto facilmente il modo di sovvertirne gli obiettivi, prendendone la direzione e orientandone il funzionamento verso la soddisfazione dei propri, particolaristici interessi anziché verso quelli della totalità dei paesi. Per questo credo che la risposta alla crisi del sistema multilaterale non vada cercata nella creazione di un nuovo gruppo di istituzioni centralizzate, ma nella promozione di un processo di decentralizzazione e regionalizzazione e nell’edificazione di un sistema di “checks and balances” fra istituzioni non eccessivamente potenti, che si possano controllare reciprocamente. Ciò di cui si ha bisogno per realizzare uno sviluppo sostenibile è lo spazio per i paesi più piccoli e deboli: le grandi istituzioni centralizzate non solo non creano spazio per le persone e per i paesi più vulnerabili, ma spesso finiscono per sottrarglielo.



Torniamo alla sua lettura della crisi attuale e, più in generale, del suo significato all’interno del sistema capitalistico contemporaneo. Ci può spiegare perché ritiene che la globalizzazione debba essere intesa come «il tentativo disperato del capitale globale di scappare dalla stagnazione e dai disequilibri caratteristici dell’economia globale negli anni Settanta e Ottanta» piuttosto che come una nuova fase nello sviluppo del capitalismo?

Mi capita spesso di ricordare che la mia analisi è fortemente debitrice delle tesi sviluppate da Rosa Luxemburg in quel libro lucido ed essenziale che è L’accumulazione del capitale, dove si sostiene che per estendere i tassi di profitto il capitalismo abbia bisogno di incorporare nel sistema sempre nuove aree del mondo, che siano semi-capitalistiche, non-capitalistiche o pre-capitalistiche. In questo senso io credo che la globalizzazione e la continua integrazione nel sistema capitalistico di nuove parti del mondo sia da intendere come una risposta alla crisi da sovrapproduzione piuttosto che una nuova e qualitativamente più elevata fase del capitalismo.

Insisto nel dire che la globalizzazione è una via d’uscita - fallimentare - alla crisi del capitalismo piuttosto che una sua nuova espressione.

Proprio su questo punto sono nati moltissimi errori all’interno del movimento progressista, perché si è creduto che i processi di globalizzazione fossero irreversibili. Invece sono del tutto reversibili.

Oggi molti, sulla scia di Stiglitz, sostengono che il processo irreversibile della globalizzazione debba essere “salvato” dall’influenza dei neoliberisti, grazie ai suggerimenti di qualche socialdemocratico. Io non la penso così.



Lei infatti è sempre stato lontano dalle posizioni “social-democratiche” di quanti immaginano sia possibile “umanizzare” la globalizzazione. Ha scritto: «il compito urgente che ci troviamo di fronte non è quello di orientare la globalizzazione guidata dalle corporation in una direzione “social-democratica”, ma fare in modo di ritirarci dalla globalizzazione». Perché ritiene che sia impossibile “umanizzare” la globalizzazione?

Perché l’integrazione globale dei mercati e delle società è guidata dalle dinamiche capitalistiche, dunque dal profitto, e non invece da una necessità radicata nei bisogni dell’uomo. Non si vede dove sia scritto che le economie debbano essere così strettamente intrecciate le une alle altre. Non è certo nella natura dell’uomo una cosa del genere, ma è un semplice strumento creato per cercare di risolvere una crisi di una certa economia, che contraddice i bisogni dell’uomo proprio perché è disumanizzante.

La rapida integrazione dei mercati è inoltre assolutamente controproducente, poiché elimina quelle barriere tra le economie che permetterebbero a ognuna di essere più indipendente e dunque più sana perché meno vulnerabile alle crisi delle altre: una grave crisi all’interno di un’economia non si tradurrebbe come accade oggi in una grave crisi per tutte le altre.

Per ora invece la globalizzazione ci ha assicurato che quando una delle principali economie mondiali entra in crisi la seguono anche le altre. La terza ragione è che la globalizzazione è guidata da pochi centri di potere dominanti, e risponde perfettamente alla logica del capitalismo di ridurre le dinamiche dell’economia a una manciata di centri di potere. Quelli che sostengono «la globalizzazione è irreversibile, dobbiamo soltanto umanizzarla» si illudono: è impossibile umanizzare la globalizzazione, dovremmo piuttosto capovolgerla.



Secondo la sua analisi, dovremmo passare dunque per un processo di “deglobalizzazione”, come scrive in modo argomentato nel suo omonimo libro. Ma com’è possibile ottenere uno «spostamento radicale verso un sistema della governance economica globale che sia decentralizzato e pluralistico» e che «sviluppi e rafforzi, anziché distruggerle, le economie nazionali»?

Quel che sta accadendo da qualche mese a questa parte dimostra che siamo parte di una catena “letale”, che ci strangola, e che l’integrazione economica può non essere così benefica come ci avevano promesso. La gente comune e gli stessi governi sembra si stiano finalmente rendendo conto che questo tipo di integrazione non funziona, anche perché, oltre a legare il destino di un’economia a quello delle altre, subordina la produzione locale alle dinamiche globali, costringendoci ad affidarci a un cibo che proviene da migliaia di chilometri di distanza, piuttosto che dai cortili vicino casa.

Sappiamo bene che i produttori locali, con bassi margini di profitto, sono stati strangolati dalla produzione delle grandi corporation, e pian piano sta diventando sempre più evidente come la globalizzazione sia servita soprattutto per promuovere gli interessi di queste corporation.

Mi sembra dunque che molte cose ci suggeriscano di puntare verso una minore integrazione dell’economia a livello globale, cercando invece un’integrazione di carattere nazionale.

Al tempo stesso, è importante sostenere il nuovo orientamento di quei paesi che riconoscono l’importanza del coordinamento regionale, come dimostra il caso dell’“Alba”, l’Alternativa bolivariana per le Americhe. La crisi della globalizzazione e della forzata integrazione globale porta alla riscoperta del nazionale e del regionale.



Restiamo sul tema della “deglobalizzazione”: qualcuno potrebbe facilmente obiettare che sia anacronistico, oltre che controproducente, pensare a una forma di autarchia economica. Lei però ha spesso sottolineato come la “deglobalizzazione” che propone non abbia niente a che fare con il ripiegamento autarchico, e rimandi piuttosto al «capovolgimento dei processi omogeneizzanti della globalizzazione neoliberista caratterizzati dalla produzione orientata all’esportazione, dalla privatizzazione e dalla deregulation». Dovremmo, per riprendere Karl Polanyi, reintegrare l’economia nella società?

Per prima cosa “deglobalizzazione” non significa ritirarsi dall’economia internazionale, ma istituire con essa una relazione che possa accrescere le capacità di ognuno anziché soffocarle o distruggerle.

Il vero problema del libero mercato e della globalizzazione guidata dalle corporation è che, nel processo di integrazione, le economie locali e le capacità nazionali vengono distrutte sotto il peso della presunta razionalità della divisione del lavoro, che nei fatti annienta ogni diversità.

Mi sembra però che ci stiamo avvicinando a comprendere che la diversità è essenziale anche per lo stato di salute dell’economia.

L’idea che il principale criterio di misura dell’economia debba essere quello della riduzione del costo unitario, o in altri termini l’efficienza, non può più essere sostenuta. Il criterio dell’efficienza contraddice il benessere generale. Piuttosto che di efficienza avremmo bisogno di efficacia, perché laddove si parla di efficacia si parla anche degli strumenti economici più adatti per assicurare la solidarietà sociale e per creare un sistema economico che sia subordinato ai valori e ai bisogni della società, non viceversa.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi e degli anni che li hanno preceduti hanno spinto molti a interrogarsi sulla razionalità di un sistema che subordina i valori della società al mercato: dovremmo approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivendicare la necessità di abbracciare la logica della solidarietà sociale. Quando si parla di economia internazionale dovremmo intendere non un liberato mercato esteso all’economia globale, ma un’economia che partecipi al sistema internazionale in modo tale da favorire le capacità di ogni attore anziché impedirne lo sviluppo e il rafforzamento. Si tratta dunque di promuovere il commercio dei popoli, o, come ha sostenuto il presidente venezuelano Hugo Chávez, una vera cooperazione economica, al cui interno il trattamento preferenziale sia riservato ai partner più vulnerabili, non a quelli più potenti. E’ ovvio che tutto questo contesta e contraddice la logica del capitalismo, e rimanda alla logica della solidarietà sociale. E’ a questo logica che dovremmo subordinare il commercio. Non sono l’unico che la pensa in questo modo. Anzi. È il momento giusto per affermarla con più convinzione. […]
di Walden Bello - Giuliano Battiston -

25 luglio 2009

Ritornano le minacce di fallimento?

L’Aquila è stato purtroppo un G8 veramente interlocutorio, una fermata di passaggio tra il G20 di Londra, dove le nuove regole della finanza sono state indicate senza però sfidare il peso e il modus operandi delle banche che ci hanno portato alla crisi globale, e il summit di Pittsburgh di fine settembre che rischia di sancire la superiorità del vecchio modello finanziario con “meno regole e meno stato”. Quello della City e di Wall Street!

Nonostante il fatto che i governi siano diventati con i soldi pubblici i creditori di ultima istanza di un sistema in bancarotta, nella partita tra l’autorità degli stati e le banche sono ancora le seconde a dettare le regole del gioco.

Anche Berlusconi, tra le esaltazioni del successo del summit, ha fatto una dichiarazione che merita una più attenta riflessione. “Si è manifestato il disappunto sul fatto che - ha detto nella conferenza stampa finale - sono riprese le speculazioni internazionali sugli hedge fund, sul petrolio come su altre materie prime, e anche per questo abbiamo dato mandato agli organi i internazionali di studiare un modo per intervenire”. In altre parole si ammette che dopo un anno, nonostante summit, decaloghi, tavole di condotta e quant’altro, certa finanza speculativa non ha mai cambiato comportamento e marcia speditamente verso una seconda fase della crisi.

Il Comptroller of the Currency, l’autority Americana che supervisiona anche il comportamento del sistema bancario, ha pubblicato recentemente il rapporto sugli andamenti finanziari del primo trimestre del 2009 in cui evidenzia che, nonostante la crisi e le annunciate misure antispeculative, i derivati over the counter (OTC) sottoscritti dalle banche USA sono saliti a 202.000 miliardi di dollari a fine marzo 2009, cioè 2.000 miliardi in più della fine del dicembre precedente.

Oltre il 90% di questa bolla è in mano solamente a 4 banche: la JP Morgan Chase, la Citi Bank, la Bank of America e la Goldman Sachs.

Ed è stata proprio quest’ultima, che vanta storiche amicizie e alleanze anche a casa nostra, a guidare questa ripresa speculativa nei prodotti derivati, portando la sua quota da 30 a 40.000 miliardi in solo tre mesi!

Da parte sua, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha pubblicato a fine giugno il suo rapporto semestrale in cui riporta che il valore nozionale dei derivati a livello globale nel secondo semestre del 2008 era invece sceso di ben 100.000 miliardi di dollari, assestandosi comunque sempre intorno all’impressionante livello di quasi 600.000 miliardi.

La BRI si premura anche di sottolineare che, mentre il valore nozionale diminuiva, saliva invece di 5.000 miliardi quello del Gross Market Value, cioè il costo per rimpiazzare tutti i contratti esistenti ad un dato momento. Il significativo aumento di questo indice dimostra che la volatilità e i rischi delle operazioni in derivati finanziari nel periodo di crisi e di collassi bancari sono aumentati drammaticamente e con essi i costi, i premi da pagare, per i derivati stessi.

Questi dati rivelano che particolarmente in America, nell’epicentro della crisi finanziaria, il comportamento speculativo non è cambiato affatto, nonostante il gran parlare di nuove regole e di controlli più stringenti.

La stampa ha poi presentato come un sensazionale risultato del G8 dell’Aquila l’aver concordato un impegno di 20 miliardi di dollari a sostegno dell’Africa nella lotta contro la fame e contro le emergenze sanitarie. Certamente ogni aiuto allo sviluppo dell’Africa è una cosa buona e doverosa, anche se per il momento si tratta solo di numeri sulla carta.

Noi vorremmo, però, far notare la sproporzione fra gli aiuti per l’intero continente africano e i 182,5 miliardi di dollari messi a disposizione lo scorso settembre per il salvataggio del gigante americano delle assicurazioni AIG.

Certo che il suo fallimento avrebbe portato con sé l’interno sistema assicurativo e pensionistico americano, ma la differenza è davvero enorme.

Inoltre, proprio mentre si prometteva il sostegno all’Africa, l’AIG subiva un tracollo in borsa tanto da far ventilare una nuova minaccia di fallimento.

A questo proposito ricordiamo che in gioco c’è anche la “bomba” da 193 miliardi di dollari in CDS (credit default swaps, una sorta di polizze di assicurazione per obbligazioni ad alto rischio) che l’AIG ha venduto soprattutto in Europa e il cui vero valore è tutto da stabilire.

Perciò concordiamo pienamente con il presidente Giorgio Napolitano, che, parlando ai capi di stato e ad altri dirigenti internazionali a L’Aquila, ha sottolineato l’importanza e l’urgenza di una nuova Bretton Woods. Non solo – ha detto il presidente – per avere “un complesso di più esigenti regole e standard internazionali per la conduzione delle attività finanziarie ed economiche” ma per definire soprattutto un modello di società più giusta e lungimirante che si può esprimere “nella cooperazione fra civiltà”.
di Mario Lettieri - Paolo Raimondi -

24 luglio 2009

La crisi della “società del possesso” e la rinascita dell’umano


Oggi il mondo ha perso il gusto ad un reale rinnovamento, perché questo implica un dono di sé all’altro, ed una messa in discussione dell’Ego, e di ciò che si “possiede”. Quali sono le conseguenze nella nostra società di un tale atteggiamento caratterizzato da chiusura, difficoltà di relazione e scarsa lungimiranza?
Ne discutiamo con Claudio Risé, psicanalista e scrittore, che ha appena pubblicato il libro La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo Ed., 2009), un’opera che tratta i temi della nascita e della necessaria rinascita e trasformazione nel corso della vita dell’uomo, condizioni che portano ad un autentico rinnovamento e sviluppo nel mondo stesso.

Prof. Risé, la prima domanda sorge spontanea: esiste una relazione tra l’importante crisi economica che stiamo vivendo e il carattere di una società, come la nostra, che nel suo nuovo libro lei ha definito “società del possesso”? Quali sono le vie di uscita da questa stagnazione?
La società del possesso produce fatalmente crisi, proprio perché in essa importanti risorse, prodotte dalla genialità umana, dallo sviluppo economico, dalla ricerca scientifica e tecnologica, vengono continuamente sequestrate dalle categorie più avide, che finiscono col distruggerle in un folle gioco alla moltiplicazione dei guadagni e dei patrimoni individuali.
L’attuale crisi è nata dalla distruzione di enormi ricchezze, ad opera dall’alleanza tra l’avidità di risparmiatori convinti di poter aumentare a dismisura i propri patrimoni sia immobiliari che mobiliari, e fasce di finanza spregiudicata che lo lasciava credere possibile, per amministrarne le risorse.
Questa distruzione di energie nuove ha riprodotto, in campo finanziario ed economico, quella distruzione di vita nuova in nome della difesa e incremento degli interessi e possessi individuali, che io pongo nel mio libro alla base dell’attuale “crisi del dono”, e delle pratiche e legislazioni abortiste.
Da tutto ciò si esce tutelando lo sviluppo della nuova vita (nuove idee, visioni, saperi e tecniche), rispetto alla sua riduzione materialistica in possessi e guadagni immediati.

Nelle sue pagine è tracciato un itinerario che esamina le immagini riguardanti la nascita, accolta o rifiutata, presenti nell’inconscio, nel mito, e nella tradizione ebraico cristiana. Si tratta di un’impostazione piuttosto inusuale, soprattutto per quei lettori interessati a comprendere con immediatezza e concretezza i fenomeni della società in cui viviamo. Questo studio cosa ci spiega dell’oggi? E cosa ci insegna?
L’inconscio collettivo, espresso (come ha mostrato Carl Gustav Jung e la sua scuola) nei miti e nei cicli leggendari delle varie culture, come anche nella storia delle religioni, mostra gli aspetti invarianti, archetipici, della psiche umana. Per questo, come osservava la frase di Pasolini che riporto in esergo, non c’è niente di più concreto e attuale del mito: parlando di mille anni fa, svela con sorprendente precisione l’animo dell’uomo di oggi.
D’altra parte, l’inconscio collettivo registra anche (e anche questo Jung l’ha visto) i mutamenti manifestatisi nello psichismo umano dopo l’avvenimento cristiano, e la modifica da esso consentita e richiesta nei rapporti personali, nel sentimento di amore per l’altro, e di offerta di sé.
Il rinnovamento antropologico portato dal cristianesimo ha al proprio centro una nascita ed un dono, quello di Dio fatto uomo, destinato a provocare il rinnovamento del mondo, e di ogni singolo uomo, nella sua vita personale. Da allora in poi ogni uomo, ed ogni società, può scegliere tra il rinnovamento e la trasformazione di sé (la rinascita che Gesù indica a Nicodemo), o la difesa dell’esistente. Questa seconda soluzione, l’osservazione clinica lo mostra bene, innesca in realtà un processo regressivo, e di distruzione di vita.

Parlare di rinnovamento e rinascita significa parlare anche di bambini. Lei cita in esergo un passaggio di Elie Wiesel: “Hai paura di diventare grande? Sì, paura di diventare grande in un mondo che a dispetto delle sue magniloquenti dichiarazioni, non ama i bambini; ne fa piuttosto i bersagli del suo dispetto, della sua mancanza di fiducia in se stesso, della sua vendetta”.
Effettivamente lo stesso Wiesel, accompagnando Barak Obama nella visita di Buchenwald (5 giugno 2009), ha affermato che nonostante gli orrori della guerra il mondo non ha ancora imparato a garantire la dignità della vita umana. Condivide queste parole di Wiesel?

Assolutamente. La riduzione dell’essere umano ad oggetto, e l’annichilimento della sua dignità, continua ad essere la grande tentazione cui l’uomo è sottoposto, e spesso soggiace.
Le categorie linguistiche e retoriche del “politicamente corretto” sono funzionali alla copertura e al mascheramento di questa realtà drammatica. L’uomo è pronto ad uccidere l’altro uomo, il bambino che nasce, le idee, la personalità, o il carattere di un’altra persona (come quotidianamente accade nella lotta politica), pur di non cambiare, per affermare quello che ritiene il proprio interesse.

Trattando il tema della relazione tra uomini e donne Lei afferma che il bambino che nasce è una figura decisiva per lo sviluppo pieno dell’amore nella coppia. In che senso?
L’amore tra i due richiede sempre l’apertura ad un “terzo” per dispiegarsi completamente. Dal punto di vista trascendente si tratta, naturalmente, di Dio, che istituisce l’amore stesso, con il suo amore creativo, a cui occorre restare aperti, e rivolti. Nella dinamica della coppia il terzo è però anche il bambino (i bambini), e può estendersi ai figli simbolici della coppia: le idee, le iniziative, le opere.

Da quanto Lei dice nella sua opera il processo di secolarizzazione ha avuto un ruolo negativo nella relazione d’amore tra l’uomo e la donna, e in particolare sul matrimonio. Una domanda provocatoria: in un mondo senza Dio non è davvero possibile l’amore tra gli individui?
Il fatto è che, per fortuna, non basta negarlo, per fare sparire Dio. Molti atei fanno in realtà riferimento ad un principio superiore, di bene, che interiormente è vissuto come la personalità religiosa vive Dio.
Certo quando la negazione diventa sistemica, come è accaduto nei totalitarismi comunista e nazista, l’amore tra le persone tende a diventare problematico, e ad essere sostituito dall’obbedienza al Partito. Ciò continua ancora oggi, per certi versi, nelle sottoculture politiche che fanno riferimento a quelle realtà.

Secondo quanto Lei riporta nel libro La crisi del dono, molte donne, che diedero vita al movimento femminista negli anni ’70, si stanno oggi accorgendo della necessità di una rinnovata relazione tra uomo e donna. Non solo: anche il movimento degli uomini, presente in diverse forme anche in Italia, si sarebbe messo alla ricerca di una nuova visione. Quali sono i motivi di queste tendenze? E quali i possibili esiti?
Sia il disincanto femminista, che documento attraverso una serie di testi e posizioni note e autorevoli, sia il movimento degli uomini, cui ho sempre dedicato molta attenzione, sono realtà ormai affermatesi fin dagli anni ‘90. Per cui più che di tendenze parlerei di trasformazioni in corso da tempo, anche se meno visibili anche per via del prevalente silenzio loro riservato dalle comunicazioni di massa. Che preferiscono il mostro (o la star) in prima pagina, piuttosto che l’informazione sulla sottile e profonda trasformazione delle coscienze, inquietante anche per gli stessi operatori della comunicazione di massa, in gran parte devoti proprio a quella società secolarizzata del possesso, di cui appunto stiamo parlando.

In un suo precedente libro Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro (Sperling & Kupfer, 2004) ha osservato che le principali vittime della società del possesso sono i giovani “costantemente impauriti dalla rappresentazione del mondo come penuria” sottolineata spesso dal sistema mediatico. Quali consigli darebbe a questi giovani, che non di rado esprimono le loro paure anche nei temi svolti nelle aule scolastiche?
“Non abbiate paura”, come non a caso hanno più volte ripetuto gli ultimi due Papi. La sete di possesso si nutre della cultura (assai diffusa anche in ambienti cattolici, perché d’“effetto”) che sottolinea il bisogno rispetto al dono, la penuria rispetto alle risorse, la paura rispetto alla fiducia, il malessere rispetto al piacere.
Gesù è grato e felice che il vaso con l’olio prezioso venga versato ai suoi piedi, è il dono che aumenta le nostre risorse, è spargere il vaso che ne assicura il continuo riempimento. Siate generosi: ogni piacere profondo comincia, e continua, nel dono.

Non mancano comunque i giovani che si impegnano con convinzione per difendere una visione della vita portatrice di rinnovamento, dignità e felicità. Basta pensare a tutti coloro che si danno da fare nell’ambito dei movimenti pro-life. A tutti questi giovani quale strada suggerisce per una migliore riuscita nei loro traguardi?
Mi sembrano già sulla strada, magari più di me! La difesa della vita è una strada, che sprigiona potenti forze di rinnovamento. Da nutrire sempre, con la devozione all’amore, ed alla bellezza.

*(Intervista a Claudio Risé, a cura di Antonello Vanni, da “Il Sussidiario”, 13 luglio 2009)

26 luglio 2009

Deglobalizzare il pianeta

Nel 1991, sei anni prima che la crisi finanziaria investisse con devastante irruenza il sistema economico, apparentemente solidissimo, delle “tigri asiatiche”, con conseguenze catastrofiche per milioni di cittadini, Walden Bello mandava alle stampe Dragons in Distress. Asia’s Miracle Economies in Crisis, un testo che annunciava l’inevitabile tracollo di quel sistema.

Già allora infatti il fondatore (nel 1995) e direttore esecutivo dell’associazione Focus on the Global South si diceva convinto, come avrebbe ribadito in Domination. La fine di un’era (Nuovi Mondi Media, 2005), «che l’economia globale è ormai alla fine dell’onda lunga di espansione del capitalismo durata cinquant’anni, e all’inizio del suo declino», e che «uno dei sintomi della condizione patologica in cui versa l’economia è il peso preponderante assunto dal capitale finanziario».

Una condizione patologica che oggi appare in tutta la sua evidenza, e che alcuni, come questo attivista e sociologo filippino, già direttore dell’Institute for Food and Development Policy (Food First) di Oakland, California, oggi membro del Transnational Institute di Amsterdam e dell’International Forum on Globalisation, analizzano da tempo.



Nato a Manila nel 1945, docente di sociologia e pubblica amministrazione presso l’Università delle Filippine di Diliman, già visiting professor alle Università di Los Angeles, Irvine e Santa Barbara, Walden Bello ha cominciato ad accorgersi delle patologie del sistema politico-economico internazionale a metà degli anni Settanta, quando assunse un ruolo centrale nel movimento che si batteva contro la dittatura del presidente filippino Ferdinando Marcos, coordinando dagli Stati Uniti la coalizione Anti-Martial Law.

Fu allora infatti che, nel corso delle ricerche per le campagne per la promozione dei diritti umani nel suo paese, scoprì che il regime di Marcos era appoggiato finanziariamente da istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Per dimostrarlo, entrò illegalmente nel quartier generale della Banca mondiale, “recuperando” tremila pagine di documenti confidenziali che avrebbero costituito la base per il suo Development Debacle (1982).



Da allora, non ha mai smesso di dedicarsi all’analisi delle diseguaglianze generate dal sistema capitalistico, alla critica del finto multilateralismo delle istituzioni di Bretton Woods-WTO e alla denuncia dei progetti egemonici degli Stati Uniti. Vincitore nel 2003 del Right Livelihood Award (il premio Nobel alternativo), critico radicale del capitalismo e dell’imperialismo a stelle e strisce, Walden Bello ha fatto della combinazione tra la ricerca intellettuale e la militanza politica una vera e propria cifra distintiva, dando alle stampe diversi saggi, tra cui ricordiamo Il futuro incerto: globalizzazione e nuova resistenza e Deglobalizzazione (entrambi editi da Baldini Castoldi Dalai, rispettivamente nel 2002 e nel 2004), testi in cui ha trasferito «le lezioni apprese dai paesi in via di sviluppo negli ultimi 25 anni: che la politica commerciale deve essere subordinata allo sviluppo; che la tecnologia deve essere liberata dalla rigida normativa della proprietà intellettuale; che sono necessari controlli sui movimenti di capitali; che lo sviluppo richiede non meno, ma più intervento dello stato; e, soprattutto, che i deboli devono restare uniti perché da soli vanno a finire male».



Nel libro Domination. La fine di un’era, lei identifica tre elementi che segnalerebbero la fine dell’egemonia americana: una crisi da sovrapproduzione (dimensione economica), una crisi da sovraesposizione (dimensione strategico-militare) e una di legittimità (dimensione politico-ideologica). Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?

La crisi economica a cui stiamo assistendo da alcuni mesi può essere meglio compresa proprio se la intendiamo come crisi da sovrapproduzione, e deriva dalla straordinaria capacità produttiva del sistema capitalistico che supera e contraddice la limitata capacità di consumo e d’acquisto della popolazione, causata dalle continue e crescenti disuguaglianze nell’ambito della sfrenata competizione tra attori capitalisti.

La mia tesi, che ovviamente condivido con altri, è che a partire dalla metà degli anni Settanta questa crisi abbia raggiunto un livello tale da spingere il capitale a ricorrere a tre vie d’uscita: la ristrutturazione neoliberista, la globalizzazione e la “finanziarizzazione”.

Strumenti che però non hanno funzionato, e anziché risolverla o mitigarla hanno aggravato la crisi da sovrapproduzione. Oggi assistiamo alla dimostrazione plateale di questo fallimento.

L’altra dimensione è la crisi da sovraesposizione, che si situa al livello dello Stato e riguarda la sua capacità di “proiettare” potere; sin dalla guerra in Afghanistan abbiamo sostenuto che gli Stati Uniti si stessero sovraesponendo, rendendo manifesto lo scarto tra gli obiettivi del sistema imperiale e la mancanza delle risorse per ottenerli. Non è un caso che sia stato facile prevedere, da parte mia e di altri, quel che oggi accade in Iraq e in Afghanistan.

La terza dimensione è quella della legittimità, senza la quale tutti i sistemi sono destinati al fallimento. Credo che il sistema democratico liberale, la cui diffusione è stata fortemente promossa dagli Stati Uniti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, sia oggi ampiamente discreditato a causa del modo in cui gli USA hanno usato la democrazia per promuovere i propri interessi strategici. Lo stesso è accaduto con le istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio, che aspirano a presentarsi come democraticamente rispondenti ai diversi membri che le compongono, ma che continuano a servire alcuni, particolari e circoscritti interessi.

Credo che l’uso della democrazia e delle istituzioni multilaterali per promuovere e imporre obiettivi unilaterali abbiamo fortemente contribuito alla crisi di legittimità dell’impero americano. Se poi si mettono insieme tutti e tre gli elementi critici di cui abbiamo parlato, e a questi si aggiunge la crisi ambientale, si avrà di fronte l’immagine di una formidabile tempesta. Quella che ha ereditato Obama.



Secondo la sua analisi, dunque, la crisi attuale, più che come il risultato di una mancata regolamentazione del settore finanziario, andrebbe interpretata come l’incancrenirsi di una delle contraddizioni centrali del capitalismo globale…

È proprio così: la mancata regolamentazione è soltanto parte della risposta, così come l’avidità dimostrata dagli attori economici, mentre la parte più rilevante della risposta va individuata nella crisi del sistema in quanto tale, e nel fallimento del tentativo di superare la crisi dei profitti, che deriva dalla crisi da sovrapproduzione, attraverso le tre risposte a cui abbiamo accennato prima. In particolare, poi, la “finanziarizzazione”, attuata nella speranza di poter assorbire il surplus e creare profitto, ci ha piombati nel bel mezzo della crisi attuale. Una crisi che ci deve indurre a guardarci indietro, per capire che essa non investe semplicemente una questione di regole non rispettate, ma ha a che fare con la specifica dinamica del sistema capitalistico.



Come da anni critica i pericoli della “finanziarizzazione”, così da molto tempo sostiene anche che «ci sarebbe sicuramente bisogno di controlli sul movimento dei capitali, sia a livello regionale che locale». Eppure continua a dirsi scettico sull’istituzione di un’autorità monetaria mondiale. Perché ritiene che anche un’istituzione del genere possa essere controproducente?

Perché ritengo che le istituzioni centralizzate, anche laddove si suppone che operino per il multilateralismo, finiscano spesso sotto il controllo dei poteri dominanti. Questa è una delle ragioni per cui mi sono sempre opposto alla sostituzione di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio con un’unica istituzione che gestisca la politica monetaria mondiale. Le istituzioni centralizzate hanno due difetti principali: il primo è che acquisiscono presto una sorta di vita propria, e tendono a soddisfare i propri interessi anziché rispondere ai bisogni di coloro ai quali dovrebbero offrire i propri servizi. L’altro è invece che, per il modo stesso in cui operano, i poteri dominanti trovano molto facilmente il modo di sovvertirne gli obiettivi, prendendone la direzione e orientandone il funzionamento verso la soddisfazione dei propri, particolaristici interessi anziché verso quelli della totalità dei paesi. Per questo credo che la risposta alla crisi del sistema multilaterale non vada cercata nella creazione di un nuovo gruppo di istituzioni centralizzate, ma nella promozione di un processo di decentralizzazione e regionalizzazione e nell’edificazione di un sistema di “checks and balances” fra istituzioni non eccessivamente potenti, che si possano controllare reciprocamente. Ciò di cui si ha bisogno per realizzare uno sviluppo sostenibile è lo spazio per i paesi più piccoli e deboli: le grandi istituzioni centralizzate non solo non creano spazio per le persone e per i paesi più vulnerabili, ma spesso finiscono per sottrarglielo.



Torniamo alla sua lettura della crisi attuale e, più in generale, del suo significato all’interno del sistema capitalistico contemporaneo. Ci può spiegare perché ritiene che la globalizzazione debba essere intesa come «il tentativo disperato del capitale globale di scappare dalla stagnazione e dai disequilibri caratteristici dell’economia globale negli anni Settanta e Ottanta» piuttosto che come una nuova fase nello sviluppo del capitalismo?

Mi capita spesso di ricordare che la mia analisi è fortemente debitrice delle tesi sviluppate da Rosa Luxemburg in quel libro lucido ed essenziale che è L’accumulazione del capitale, dove si sostiene che per estendere i tassi di profitto il capitalismo abbia bisogno di incorporare nel sistema sempre nuove aree del mondo, che siano semi-capitalistiche, non-capitalistiche o pre-capitalistiche. In questo senso io credo che la globalizzazione e la continua integrazione nel sistema capitalistico di nuove parti del mondo sia da intendere come una risposta alla crisi da sovrapproduzione piuttosto che una nuova e qualitativamente più elevata fase del capitalismo.

Insisto nel dire che la globalizzazione è una via d’uscita - fallimentare - alla crisi del capitalismo piuttosto che una sua nuova espressione.

Proprio su questo punto sono nati moltissimi errori all’interno del movimento progressista, perché si è creduto che i processi di globalizzazione fossero irreversibili. Invece sono del tutto reversibili.

Oggi molti, sulla scia di Stiglitz, sostengono che il processo irreversibile della globalizzazione debba essere “salvato” dall’influenza dei neoliberisti, grazie ai suggerimenti di qualche socialdemocratico. Io non la penso così.



Lei infatti è sempre stato lontano dalle posizioni “social-democratiche” di quanti immaginano sia possibile “umanizzare” la globalizzazione. Ha scritto: «il compito urgente che ci troviamo di fronte non è quello di orientare la globalizzazione guidata dalle corporation in una direzione “social-democratica”, ma fare in modo di ritirarci dalla globalizzazione». Perché ritiene che sia impossibile “umanizzare” la globalizzazione?

Perché l’integrazione globale dei mercati e delle società è guidata dalle dinamiche capitalistiche, dunque dal profitto, e non invece da una necessità radicata nei bisogni dell’uomo. Non si vede dove sia scritto che le economie debbano essere così strettamente intrecciate le une alle altre. Non è certo nella natura dell’uomo una cosa del genere, ma è un semplice strumento creato per cercare di risolvere una crisi di una certa economia, che contraddice i bisogni dell’uomo proprio perché è disumanizzante.

La rapida integrazione dei mercati è inoltre assolutamente controproducente, poiché elimina quelle barriere tra le economie che permetterebbero a ognuna di essere più indipendente e dunque più sana perché meno vulnerabile alle crisi delle altre: una grave crisi all’interno di un’economia non si tradurrebbe come accade oggi in una grave crisi per tutte le altre.

Per ora invece la globalizzazione ci ha assicurato che quando una delle principali economie mondiali entra in crisi la seguono anche le altre. La terza ragione è che la globalizzazione è guidata da pochi centri di potere dominanti, e risponde perfettamente alla logica del capitalismo di ridurre le dinamiche dell’economia a una manciata di centri di potere. Quelli che sostengono «la globalizzazione è irreversibile, dobbiamo soltanto umanizzarla» si illudono: è impossibile umanizzare la globalizzazione, dovremmo piuttosto capovolgerla.



Secondo la sua analisi, dovremmo passare dunque per un processo di “deglobalizzazione”, come scrive in modo argomentato nel suo omonimo libro. Ma com’è possibile ottenere uno «spostamento radicale verso un sistema della governance economica globale che sia decentralizzato e pluralistico» e che «sviluppi e rafforzi, anziché distruggerle, le economie nazionali»?

Quel che sta accadendo da qualche mese a questa parte dimostra che siamo parte di una catena “letale”, che ci strangola, e che l’integrazione economica può non essere così benefica come ci avevano promesso. La gente comune e gli stessi governi sembra si stiano finalmente rendendo conto che questo tipo di integrazione non funziona, anche perché, oltre a legare il destino di un’economia a quello delle altre, subordina la produzione locale alle dinamiche globali, costringendoci ad affidarci a un cibo che proviene da migliaia di chilometri di distanza, piuttosto che dai cortili vicino casa.

Sappiamo bene che i produttori locali, con bassi margini di profitto, sono stati strangolati dalla produzione delle grandi corporation, e pian piano sta diventando sempre più evidente come la globalizzazione sia servita soprattutto per promuovere gli interessi di queste corporation.

Mi sembra dunque che molte cose ci suggeriscano di puntare verso una minore integrazione dell’economia a livello globale, cercando invece un’integrazione di carattere nazionale.

Al tempo stesso, è importante sostenere il nuovo orientamento di quei paesi che riconoscono l’importanza del coordinamento regionale, come dimostra il caso dell’“Alba”, l’Alternativa bolivariana per le Americhe. La crisi della globalizzazione e della forzata integrazione globale porta alla riscoperta del nazionale e del regionale.



Restiamo sul tema della “deglobalizzazione”: qualcuno potrebbe facilmente obiettare che sia anacronistico, oltre che controproducente, pensare a una forma di autarchia economica. Lei però ha spesso sottolineato come la “deglobalizzazione” che propone non abbia niente a che fare con il ripiegamento autarchico, e rimandi piuttosto al «capovolgimento dei processi omogeneizzanti della globalizzazione neoliberista caratterizzati dalla produzione orientata all’esportazione, dalla privatizzazione e dalla deregulation». Dovremmo, per riprendere Karl Polanyi, reintegrare l’economia nella società?

Per prima cosa “deglobalizzazione” non significa ritirarsi dall’economia internazionale, ma istituire con essa una relazione che possa accrescere le capacità di ognuno anziché soffocarle o distruggerle.

Il vero problema del libero mercato e della globalizzazione guidata dalle corporation è che, nel processo di integrazione, le economie locali e le capacità nazionali vengono distrutte sotto il peso della presunta razionalità della divisione del lavoro, che nei fatti annienta ogni diversità.

Mi sembra però che ci stiamo avvicinando a comprendere che la diversità è essenziale anche per lo stato di salute dell’economia.

L’idea che il principale criterio di misura dell’economia debba essere quello della riduzione del costo unitario, o in altri termini l’efficienza, non può più essere sostenuta. Il criterio dell’efficienza contraddice il benessere generale. Piuttosto che di efficienza avremmo bisogno di efficacia, perché laddove si parla di efficacia si parla anche degli strumenti economici più adatti per assicurare la solidarietà sociale e per creare un sistema economico che sia subordinato ai valori e ai bisogni della società, non viceversa.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi e degli anni che li hanno preceduti hanno spinto molti a interrogarsi sulla razionalità di un sistema che subordina i valori della società al mercato: dovremmo approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivendicare la necessità di abbracciare la logica della solidarietà sociale. Quando si parla di economia internazionale dovremmo intendere non un liberato mercato esteso all’economia globale, ma un’economia che partecipi al sistema internazionale in modo tale da favorire le capacità di ogni attore anziché impedirne lo sviluppo e il rafforzamento. Si tratta dunque di promuovere il commercio dei popoli, o, come ha sostenuto il presidente venezuelano Hugo Chávez, una vera cooperazione economica, al cui interno il trattamento preferenziale sia riservato ai partner più vulnerabili, non a quelli più potenti. E’ ovvio che tutto questo contesta e contraddice la logica del capitalismo, e rimanda alla logica della solidarietà sociale. E’ a questo logica che dovremmo subordinare il commercio. Non sono l’unico che la pensa in questo modo. Anzi. È il momento giusto per affermarla con più convinzione. […]
di Walden Bello - Giuliano Battiston -

25 luglio 2009

Ritornano le minacce di fallimento?

L’Aquila è stato purtroppo un G8 veramente interlocutorio, una fermata di passaggio tra il G20 di Londra, dove le nuove regole della finanza sono state indicate senza però sfidare il peso e il modus operandi delle banche che ci hanno portato alla crisi globale, e il summit di Pittsburgh di fine settembre che rischia di sancire la superiorità del vecchio modello finanziario con “meno regole e meno stato”. Quello della City e di Wall Street!

Nonostante il fatto che i governi siano diventati con i soldi pubblici i creditori di ultima istanza di un sistema in bancarotta, nella partita tra l’autorità degli stati e le banche sono ancora le seconde a dettare le regole del gioco.

Anche Berlusconi, tra le esaltazioni del successo del summit, ha fatto una dichiarazione che merita una più attenta riflessione. “Si è manifestato il disappunto sul fatto che - ha detto nella conferenza stampa finale - sono riprese le speculazioni internazionali sugli hedge fund, sul petrolio come su altre materie prime, e anche per questo abbiamo dato mandato agli organi i internazionali di studiare un modo per intervenire”. In altre parole si ammette che dopo un anno, nonostante summit, decaloghi, tavole di condotta e quant’altro, certa finanza speculativa non ha mai cambiato comportamento e marcia speditamente verso una seconda fase della crisi.

Il Comptroller of the Currency, l’autority Americana che supervisiona anche il comportamento del sistema bancario, ha pubblicato recentemente il rapporto sugli andamenti finanziari del primo trimestre del 2009 in cui evidenzia che, nonostante la crisi e le annunciate misure antispeculative, i derivati over the counter (OTC) sottoscritti dalle banche USA sono saliti a 202.000 miliardi di dollari a fine marzo 2009, cioè 2.000 miliardi in più della fine del dicembre precedente.

Oltre il 90% di questa bolla è in mano solamente a 4 banche: la JP Morgan Chase, la Citi Bank, la Bank of America e la Goldman Sachs.

Ed è stata proprio quest’ultima, che vanta storiche amicizie e alleanze anche a casa nostra, a guidare questa ripresa speculativa nei prodotti derivati, portando la sua quota da 30 a 40.000 miliardi in solo tre mesi!

Da parte sua, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha pubblicato a fine giugno il suo rapporto semestrale in cui riporta che il valore nozionale dei derivati a livello globale nel secondo semestre del 2008 era invece sceso di ben 100.000 miliardi di dollari, assestandosi comunque sempre intorno all’impressionante livello di quasi 600.000 miliardi.

La BRI si premura anche di sottolineare che, mentre il valore nozionale diminuiva, saliva invece di 5.000 miliardi quello del Gross Market Value, cioè il costo per rimpiazzare tutti i contratti esistenti ad un dato momento. Il significativo aumento di questo indice dimostra che la volatilità e i rischi delle operazioni in derivati finanziari nel periodo di crisi e di collassi bancari sono aumentati drammaticamente e con essi i costi, i premi da pagare, per i derivati stessi.

Questi dati rivelano che particolarmente in America, nell’epicentro della crisi finanziaria, il comportamento speculativo non è cambiato affatto, nonostante il gran parlare di nuove regole e di controlli più stringenti.

La stampa ha poi presentato come un sensazionale risultato del G8 dell’Aquila l’aver concordato un impegno di 20 miliardi di dollari a sostegno dell’Africa nella lotta contro la fame e contro le emergenze sanitarie. Certamente ogni aiuto allo sviluppo dell’Africa è una cosa buona e doverosa, anche se per il momento si tratta solo di numeri sulla carta.

Noi vorremmo, però, far notare la sproporzione fra gli aiuti per l’intero continente africano e i 182,5 miliardi di dollari messi a disposizione lo scorso settembre per il salvataggio del gigante americano delle assicurazioni AIG.

Certo che il suo fallimento avrebbe portato con sé l’interno sistema assicurativo e pensionistico americano, ma la differenza è davvero enorme.

Inoltre, proprio mentre si prometteva il sostegno all’Africa, l’AIG subiva un tracollo in borsa tanto da far ventilare una nuova minaccia di fallimento.

A questo proposito ricordiamo che in gioco c’è anche la “bomba” da 193 miliardi di dollari in CDS (credit default swaps, una sorta di polizze di assicurazione per obbligazioni ad alto rischio) che l’AIG ha venduto soprattutto in Europa e il cui vero valore è tutto da stabilire.

Perciò concordiamo pienamente con il presidente Giorgio Napolitano, che, parlando ai capi di stato e ad altri dirigenti internazionali a L’Aquila, ha sottolineato l’importanza e l’urgenza di una nuova Bretton Woods. Non solo – ha detto il presidente – per avere “un complesso di più esigenti regole e standard internazionali per la conduzione delle attività finanziarie ed economiche” ma per definire soprattutto un modello di società più giusta e lungimirante che si può esprimere “nella cooperazione fra civiltà”.
di Mario Lettieri - Paolo Raimondi -

24 luglio 2009

La crisi della “società del possesso” e la rinascita dell’umano


Oggi il mondo ha perso il gusto ad un reale rinnovamento, perché questo implica un dono di sé all’altro, ed una messa in discussione dell’Ego, e di ciò che si “possiede”. Quali sono le conseguenze nella nostra società di un tale atteggiamento caratterizzato da chiusura, difficoltà di relazione e scarsa lungimiranza?
Ne discutiamo con Claudio Risé, psicanalista e scrittore, che ha appena pubblicato il libro La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo Ed., 2009), un’opera che tratta i temi della nascita e della necessaria rinascita e trasformazione nel corso della vita dell’uomo, condizioni che portano ad un autentico rinnovamento e sviluppo nel mondo stesso.

Prof. Risé, la prima domanda sorge spontanea: esiste una relazione tra l’importante crisi economica che stiamo vivendo e il carattere di una società, come la nostra, che nel suo nuovo libro lei ha definito “società del possesso”? Quali sono le vie di uscita da questa stagnazione?
La società del possesso produce fatalmente crisi, proprio perché in essa importanti risorse, prodotte dalla genialità umana, dallo sviluppo economico, dalla ricerca scientifica e tecnologica, vengono continuamente sequestrate dalle categorie più avide, che finiscono col distruggerle in un folle gioco alla moltiplicazione dei guadagni e dei patrimoni individuali.
L’attuale crisi è nata dalla distruzione di enormi ricchezze, ad opera dall’alleanza tra l’avidità di risparmiatori convinti di poter aumentare a dismisura i propri patrimoni sia immobiliari che mobiliari, e fasce di finanza spregiudicata che lo lasciava credere possibile, per amministrarne le risorse.
Questa distruzione di energie nuove ha riprodotto, in campo finanziario ed economico, quella distruzione di vita nuova in nome della difesa e incremento degli interessi e possessi individuali, che io pongo nel mio libro alla base dell’attuale “crisi del dono”, e delle pratiche e legislazioni abortiste.
Da tutto ciò si esce tutelando lo sviluppo della nuova vita (nuove idee, visioni, saperi e tecniche), rispetto alla sua riduzione materialistica in possessi e guadagni immediati.

Nelle sue pagine è tracciato un itinerario che esamina le immagini riguardanti la nascita, accolta o rifiutata, presenti nell’inconscio, nel mito, e nella tradizione ebraico cristiana. Si tratta di un’impostazione piuttosto inusuale, soprattutto per quei lettori interessati a comprendere con immediatezza e concretezza i fenomeni della società in cui viviamo. Questo studio cosa ci spiega dell’oggi? E cosa ci insegna?
L’inconscio collettivo, espresso (come ha mostrato Carl Gustav Jung e la sua scuola) nei miti e nei cicli leggendari delle varie culture, come anche nella storia delle religioni, mostra gli aspetti invarianti, archetipici, della psiche umana. Per questo, come osservava la frase di Pasolini che riporto in esergo, non c’è niente di più concreto e attuale del mito: parlando di mille anni fa, svela con sorprendente precisione l’animo dell’uomo di oggi.
D’altra parte, l’inconscio collettivo registra anche (e anche questo Jung l’ha visto) i mutamenti manifestatisi nello psichismo umano dopo l’avvenimento cristiano, e la modifica da esso consentita e richiesta nei rapporti personali, nel sentimento di amore per l’altro, e di offerta di sé.
Il rinnovamento antropologico portato dal cristianesimo ha al proprio centro una nascita ed un dono, quello di Dio fatto uomo, destinato a provocare il rinnovamento del mondo, e di ogni singolo uomo, nella sua vita personale. Da allora in poi ogni uomo, ed ogni società, può scegliere tra il rinnovamento e la trasformazione di sé (la rinascita che Gesù indica a Nicodemo), o la difesa dell’esistente. Questa seconda soluzione, l’osservazione clinica lo mostra bene, innesca in realtà un processo regressivo, e di distruzione di vita.

Parlare di rinnovamento e rinascita significa parlare anche di bambini. Lei cita in esergo un passaggio di Elie Wiesel: “Hai paura di diventare grande? Sì, paura di diventare grande in un mondo che a dispetto delle sue magniloquenti dichiarazioni, non ama i bambini; ne fa piuttosto i bersagli del suo dispetto, della sua mancanza di fiducia in se stesso, della sua vendetta”.
Effettivamente lo stesso Wiesel, accompagnando Barak Obama nella visita di Buchenwald (5 giugno 2009), ha affermato che nonostante gli orrori della guerra il mondo non ha ancora imparato a garantire la dignità della vita umana. Condivide queste parole di Wiesel?

Assolutamente. La riduzione dell’essere umano ad oggetto, e l’annichilimento della sua dignità, continua ad essere la grande tentazione cui l’uomo è sottoposto, e spesso soggiace.
Le categorie linguistiche e retoriche del “politicamente corretto” sono funzionali alla copertura e al mascheramento di questa realtà drammatica. L’uomo è pronto ad uccidere l’altro uomo, il bambino che nasce, le idee, la personalità, o il carattere di un’altra persona (come quotidianamente accade nella lotta politica), pur di non cambiare, per affermare quello che ritiene il proprio interesse.

Trattando il tema della relazione tra uomini e donne Lei afferma che il bambino che nasce è una figura decisiva per lo sviluppo pieno dell’amore nella coppia. In che senso?
L’amore tra i due richiede sempre l’apertura ad un “terzo” per dispiegarsi completamente. Dal punto di vista trascendente si tratta, naturalmente, di Dio, che istituisce l’amore stesso, con il suo amore creativo, a cui occorre restare aperti, e rivolti. Nella dinamica della coppia il terzo è però anche il bambino (i bambini), e può estendersi ai figli simbolici della coppia: le idee, le iniziative, le opere.

Da quanto Lei dice nella sua opera il processo di secolarizzazione ha avuto un ruolo negativo nella relazione d’amore tra l’uomo e la donna, e in particolare sul matrimonio. Una domanda provocatoria: in un mondo senza Dio non è davvero possibile l’amore tra gli individui?
Il fatto è che, per fortuna, non basta negarlo, per fare sparire Dio. Molti atei fanno in realtà riferimento ad un principio superiore, di bene, che interiormente è vissuto come la personalità religiosa vive Dio.
Certo quando la negazione diventa sistemica, come è accaduto nei totalitarismi comunista e nazista, l’amore tra le persone tende a diventare problematico, e ad essere sostituito dall’obbedienza al Partito. Ciò continua ancora oggi, per certi versi, nelle sottoculture politiche che fanno riferimento a quelle realtà.

Secondo quanto Lei riporta nel libro La crisi del dono, molte donne, che diedero vita al movimento femminista negli anni ’70, si stanno oggi accorgendo della necessità di una rinnovata relazione tra uomo e donna. Non solo: anche il movimento degli uomini, presente in diverse forme anche in Italia, si sarebbe messo alla ricerca di una nuova visione. Quali sono i motivi di queste tendenze? E quali i possibili esiti?
Sia il disincanto femminista, che documento attraverso una serie di testi e posizioni note e autorevoli, sia il movimento degli uomini, cui ho sempre dedicato molta attenzione, sono realtà ormai affermatesi fin dagli anni ‘90. Per cui più che di tendenze parlerei di trasformazioni in corso da tempo, anche se meno visibili anche per via del prevalente silenzio loro riservato dalle comunicazioni di massa. Che preferiscono il mostro (o la star) in prima pagina, piuttosto che l’informazione sulla sottile e profonda trasformazione delle coscienze, inquietante anche per gli stessi operatori della comunicazione di massa, in gran parte devoti proprio a quella società secolarizzata del possesso, di cui appunto stiamo parlando.

In un suo precedente libro Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro (Sperling & Kupfer, 2004) ha osservato che le principali vittime della società del possesso sono i giovani “costantemente impauriti dalla rappresentazione del mondo come penuria” sottolineata spesso dal sistema mediatico. Quali consigli darebbe a questi giovani, che non di rado esprimono le loro paure anche nei temi svolti nelle aule scolastiche?
“Non abbiate paura”, come non a caso hanno più volte ripetuto gli ultimi due Papi. La sete di possesso si nutre della cultura (assai diffusa anche in ambienti cattolici, perché d’“effetto”) che sottolinea il bisogno rispetto al dono, la penuria rispetto alle risorse, la paura rispetto alla fiducia, il malessere rispetto al piacere.
Gesù è grato e felice che il vaso con l’olio prezioso venga versato ai suoi piedi, è il dono che aumenta le nostre risorse, è spargere il vaso che ne assicura il continuo riempimento. Siate generosi: ogni piacere profondo comincia, e continua, nel dono.

Non mancano comunque i giovani che si impegnano con convinzione per difendere una visione della vita portatrice di rinnovamento, dignità e felicità. Basta pensare a tutti coloro che si danno da fare nell’ambito dei movimenti pro-life. A tutti questi giovani quale strada suggerisce per una migliore riuscita nei loro traguardi?
Mi sembrano già sulla strada, magari più di me! La difesa della vita è una strada, che sprigiona potenti forze di rinnovamento. Da nutrire sempre, con la devozione all’amore, ed alla bellezza.

*(Intervista a Claudio Risé, a cura di Antonello Vanni, da “Il Sussidiario”, 13 luglio 2009)