30 luglio 2009

Il costo del “bailout” raggiunge la cifra di 24 trilioni di dollari


L’ultima volta che siamo stati in grado di ottenere una misura del costo totale del salvataggio, era pari a circa 8,5 trilioni di dollari. Passati otto mesi da quella linea, la cifra è quasi triplicata.

La cifra di 23,7 trilioni di dollari ricomprende «circa 50 iniziative e programmi stabiliti dalle amministrazioni Bush e Obama, nonché dalla Federal Reserve», secondo l’Associated Press.

In un documento di asseverazione che sarà consegnato alla supervisione della Camera e al Comitato governativo di riforma domani [21 luglio 2009, Ndt], Neil Barofsky, l'ispettore generale per il programma TARP, dirà al Congresso che «il Dipartimento del Tesoro ha ripetutamente omesso di adottare raccomandazioni volte a rendere il programma TARP più responsabile e trasparente ».

Secondo Barofsky, i contribuenti sono al buio su chi ha ricevuto il denaro e su quel che ne fanno.

Come abbiamo più volte sottolineato, la destinazione di circa 2mila miliardi di fondi TARP è stata oggetto di un’azione legale presentata da Bloomberg alla fine dello scorso anno dopo che la Fed aveva rifiutato di rivelare i destinatari. La causa è ancora in corso, giacché Bloomberg tenta di scoprire i nomi delle istituzioni finanziarie private che hanno ricevuto il denaro.

Sarà il popolo americano in ultima analisi a doversi accollare tutto visto che il dollaro è svalutato poiché la Fed presta il denaro dal proprio bilancio o essenzialmente stampa solo più denaro, come ha spiegato un articolo della San Francisco Chronicle l'anno scorso.

I salari non terranno il passo dell'inflazione e, se si aggiunge all'equazione la serie di nuove tasse introdotte dall’amministrazione Obama, le conseguenze sono evidenti: un abbassamento del tenore di vita per milioni di appartenenti alla classe media americana.

Nel frattempo, Henry Paulson, uno dei principali architetti del “bailout” nonché l'uomo che ha perpetrato del terrorismo finanziario all’atto di minacciare il Congresso con scenari di legge marziale e rivolte alimentari, qualora non avessero approvato il primo pacchetto TARP, sfacciatamente s’intasca 200milioni in profitti Goldman Sachs esentasse mentre distribuisce miliardi in guadagni illeciti ai suoi compari banchieri, tutto questo dopo aver tirato un'esca e passare a cambiare l'intero centro del salvataggio dall’acquisto dei titoli di debito tossico fino a dare il denaro direttamente alle istituzioni finanziarie.

Abbiamo paura di pensare a quali saranno le cifre del salvataggio fra altri otto mesi. Triplicheranno ancora fino a 70 trilioni di dollari? Che ne dite di 100 trilioni di dollari?

L'unica cosa che può porre fine allo sfrenato saccheggio è il disegno di legge di Ron Paul volto all’auditing della Fed, che ha ricevuto un sostegno in Parlamento ma è stato bloccato da traditori occasionali prezzolati al Senato, che avrebbero invece dovuto vedere una continuazione del grande furto, anziché la responsabilità e la trasparenza.

Articolo originale: Paul Joseph Watson, Cost Of Bailout Hits A Whopping $24 Trillion Dollars. $80,000 for every American, «Prison Planet», Monday, July 20, 2009.

27 luglio 2009

I «nuovi» profitti delle banche



La notizia che alcune grandi banche statunitensi hanno dichiarato profitti di eccezionale ampiezza non implica che il sistema bancario stia diventando più disponibile all'erogazione di credito per facilitare le imprese in difficoltà. Al contrario, le società finanziarie si stanno allontanando dal credito e si concentrano invece in attività lucrative interne ai meccanismi speculativi. Con la crisi che pervade il sistema delle imprese sono tornati di moda i titoli spazzatura e altra robaccia simile ed è su questo tipo di terreno che vengono individuate possibilità di guadagni speculativi. Un'azienda vera che non riesce a vendere non può che avere una copertura limitata delle proprie passività.

Fino a che punto possono infatti essere sottoscritte passività aziendali che derivano dall'accumulo di camice, piatti, pentole e auto invendute? In definitiva la copertura può continuare solo se lo Stato incamera la produzione invenduta, come ben fece notare oltre 47 anni fa James Meade, un economista di Cambridge nonchè premio Nobel. Invece le passività (liabilities) finanziarie delle banche rappresentate dalle cartacce senza valore sono state sottoscritte dallo Stato in forma illimitata. Inoltre, fatto candidamente ammesso da Ben Bernanke in una rarisssima intervista televisa concessa alla Cbs lo scorso marzo, i «prestiti» della Banca Federale alle banche private per rifornirle di liquidità altro non erano che delle erogazioni simili allo stampare moneta.

Citiamolo perchè Bernanke svela i meccanismi con cui nel corso della crisi sono state non solo salvate ma anche arricchite le banche. Alla domanda dell'intervistatore se gli aiuti della Fed fossero finanziati dai soldi dei contribuenti Bernanke risponde: «Non sono soldi delle tasse. Le banche hanno dei conti con la Fed esattamente come lei ha un conto con una banca commerciale. Quindi per prestare a una banca noi usiamo semplicemente il computer per incrementare la grandezza del conto che la banca ha presso la Fed. È molto più simile a stampare moneta che all'erogazione di un prestito». Nell'intervista il governatore della Fed annuncia che tale sostegno, tramite l'emissione di moneta direttamente nei conti delle banche, continuerà fintanto che perdureranno condizioni di fragiltà finanziaria.
Con una tale illimitata copertura delle passività, cosa impossibile per le aziende industriali, la ricerca di guadagni speculativi diventa un gioco soprattutto considerando che il salvataggio e l'arricchimento delle banche è avvenuto con una strategia diretta a rafforzare la concentrazione finanziaria. La Goldman Sachs, ad esempio, si è vista sollevata da tutte le perdite della società assicuratrice Aig, le cui passività sono state assunte dal governo. Tuttavia malgrado il clima istituzionalmente favorevole alla concentrazione bancaria e ai giochi speculativi contro il credito per gli investimenti, molti dei profitti dichiarati sono dovuti a operazioni una tantum, quale la vendita da parte della Bank of America della sua quota nella China Construction Bank.
La realtà della crisi in corso si manifesta anche nelle dichiarzioni dei dirigenti di tali istituti i quali sostengono che i profitti forniranno da cuscinetto per le perdite che si stanno accumulando nel campo dei credito al consumo dato l'aumento del numero delle famiglie i cui debiti vanno in protesto.

La crisi attuale, nel cui ambito i comportamenti delle istituzioni finanziarie hanno avuto un ruolo aggravante, sta producendo un effetto opposto a quello della crisi del 1929-32. Allora venne creata la Federal Deposit Insurance Corporation con ampi poteri di intervento e di nazionalizzazione che portò ad una separazione tra mercato azuonario e sistema bancario commerciale. Oggi gli stessi colpevoli vengono rafforzati con le grandi multinazionali della contabilità finanziaria e le inaffidabili e squalificate agenzie di rating, incaricate di stilare le riforme stesse.
Non vi è un ritorno all'economia reale. Quest'ultima sta in Cina, il resto è un sottoinsieme del capitale finanziario che determina in forma preponderante sia le politiche correnti che le regole istituzionali.
di Joseph Halevi

26 luglio 2009

Deglobalizzare il pianeta

Nel 1991, sei anni prima che la crisi finanziaria investisse con devastante irruenza il sistema economico, apparentemente solidissimo, delle “tigri asiatiche”, con conseguenze catastrofiche per milioni di cittadini, Walden Bello mandava alle stampe Dragons in Distress. Asia’s Miracle Economies in Crisis, un testo che annunciava l’inevitabile tracollo di quel sistema.

Già allora infatti il fondatore (nel 1995) e direttore esecutivo dell’associazione Focus on the Global South si diceva convinto, come avrebbe ribadito in Domination. La fine di un’era (Nuovi Mondi Media, 2005), «che l’economia globale è ormai alla fine dell’onda lunga di espansione del capitalismo durata cinquant’anni, e all’inizio del suo declino», e che «uno dei sintomi della condizione patologica in cui versa l’economia è il peso preponderante assunto dal capitale finanziario».

Una condizione patologica che oggi appare in tutta la sua evidenza, e che alcuni, come questo attivista e sociologo filippino, già direttore dell’Institute for Food and Development Policy (Food First) di Oakland, California, oggi membro del Transnational Institute di Amsterdam e dell’International Forum on Globalisation, analizzano da tempo.



Nato a Manila nel 1945, docente di sociologia e pubblica amministrazione presso l’Università delle Filippine di Diliman, già visiting professor alle Università di Los Angeles, Irvine e Santa Barbara, Walden Bello ha cominciato ad accorgersi delle patologie del sistema politico-economico internazionale a metà degli anni Settanta, quando assunse un ruolo centrale nel movimento che si batteva contro la dittatura del presidente filippino Ferdinando Marcos, coordinando dagli Stati Uniti la coalizione Anti-Martial Law.

Fu allora infatti che, nel corso delle ricerche per le campagne per la promozione dei diritti umani nel suo paese, scoprì che il regime di Marcos era appoggiato finanziariamente da istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Per dimostrarlo, entrò illegalmente nel quartier generale della Banca mondiale, “recuperando” tremila pagine di documenti confidenziali che avrebbero costituito la base per il suo Development Debacle (1982).



Da allora, non ha mai smesso di dedicarsi all’analisi delle diseguaglianze generate dal sistema capitalistico, alla critica del finto multilateralismo delle istituzioni di Bretton Woods-WTO e alla denuncia dei progetti egemonici degli Stati Uniti. Vincitore nel 2003 del Right Livelihood Award (il premio Nobel alternativo), critico radicale del capitalismo e dell’imperialismo a stelle e strisce, Walden Bello ha fatto della combinazione tra la ricerca intellettuale e la militanza politica una vera e propria cifra distintiva, dando alle stampe diversi saggi, tra cui ricordiamo Il futuro incerto: globalizzazione e nuova resistenza e Deglobalizzazione (entrambi editi da Baldini Castoldi Dalai, rispettivamente nel 2002 e nel 2004), testi in cui ha trasferito «le lezioni apprese dai paesi in via di sviluppo negli ultimi 25 anni: che la politica commerciale deve essere subordinata allo sviluppo; che la tecnologia deve essere liberata dalla rigida normativa della proprietà intellettuale; che sono necessari controlli sui movimenti di capitali; che lo sviluppo richiede non meno, ma più intervento dello stato; e, soprattutto, che i deboli devono restare uniti perché da soli vanno a finire male».



Nel libro Domination. La fine di un’era, lei identifica tre elementi che segnalerebbero la fine dell’egemonia americana: una crisi da sovrapproduzione (dimensione economica), una crisi da sovraesposizione (dimensione strategico-militare) e una di legittimità (dimensione politico-ideologica). Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?

La crisi economica a cui stiamo assistendo da alcuni mesi può essere meglio compresa proprio se la intendiamo come crisi da sovrapproduzione, e deriva dalla straordinaria capacità produttiva del sistema capitalistico che supera e contraddice la limitata capacità di consumo e d’acquisto della popolazione, causata dalle continue e crescenti disuguaglianze nell’ambito della sfrenata competizione tra attori capitalisti.

La mia tesi, che ovviamente condivido con altri, è che a partire dalla metà degli anni Settanta questa crisi abbia raggiunto un livello tale da spingere il capitale a ricorrere a tre vie d’uscita: la ristrutturazione neoliberista, la globalizzazione e la “finanziarizzazione”.

Strumenti che però non hanno funzionato, e anziché risolverla o mitigarla hanno aggravato la crisi da sovrapproduzione. Oggi assistiamo alla dimostrazione plateale di questo fallimento.

L’altra dimensione è la crisi da sovraesposizione, che si situa al livello dello Stato e riguarda la sua capacità di “proiettare” potere; sin dalla guerra in Afghanistan abbiamo sostenuto che gli Stati Uniti si stessero sovraesponendo, rendendo manifesto lo scarto tra gli obiettivi del sistema imperiale e la mancanza delle risorse per ottenerli. Non è un caso che sia stato facile prevedere, da parte mia e di altri, quel che oggi accade in Iraq e in Afghanistan.

La terza dimensione è quella della legittimità, senza la quale tutti i sistemi sono destinati al fallimento. Credo che il sistema democratico liberale, la cui diffusione è stata fortemente promossa dagli Stati Uniti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, sia oggi ampiamente discreditato a causa del modo in cui gli USA hanno usato la democrazia per promuovere i propri interessi strategici. Lo stesso è accaduto con le istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio, che aspirano a presentarsi come democraticamente rispondenti ai diversi membri che le compongono, ma che continuano a servire alcuni, particolari e circoscritti interessi.

Credo che l’uso della democrazia e delle istituzioni multilaterali per promuovere e imporre obiettivi unilaterali abbiamo fortemente contribuito alla crisi di legittimità dell’impero americano. Se poi si mettono insieme tutti e tre gli elementi critici di cui abbiamo parlato, e a questi si aggiunge la crisi ambientale, si avrà di fronte l’immagine di una formidabile tempesta. Quella che ha ereditato Obama.



Secondo la sua analisi, dunque, la crisi attuale, più che come il risultato di una mancata regolamentazione del settore finanziario, andrebbe interpretata come l’incancrenirsi di una delle contraddizioni centrali del capitalismo globale…

È proprio così: la mancata regolamentazione è soltanto parte della risposta, così come l’avidità dimostrata dagli attori economici, mentre la parte più rilevante della risposta va individuata nella crisi del sistema in quanto tale, e nel fallimento del tentativo di superare la crisi dei profitti, che deriva dalla crisi da sovrapproduzione, attraverso le tre risposte a cui abbiamo accennato prima. In particolare, poi, la “finanziarizzazione”, attuata nella speranza di poter assorbire il surplus e creare profitto, ci ha piombati nel bel mezzo della crisi attuale. Una crisi che ci deve indurre a guardarci indietro, per capire che essa non investe semplicemente una questione di regole non rispettate, ma ha a che fare con la specifica dinamica del sistema capitalistico.



Come da anni critica i pericoli della “finanziarizzazione”, così da molto tempo sostiene anche che «ci sarebbe sicuramente bisogno di controlli sul movimento dei capitali, sia a livello regionale che locale». Eppure continua a dirsi scettico sull’istituzione di un’autorità monetaria mondiale. Perché ritiene che anche un’istituzione del genere possa essere controproducente?

Perché ritengo che le istituzioni centralizzate, anche laddove si suppone che operino per il multilateralismo, finiscano spesso sotto il controllo dei poteri dominanti. Questa è una delle ragioni per cui mi sono sempre opposto alla sostituzione di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio con un’unica istituzione che gestisca la politica monetaria mondiale. Le istituzioni centralizzate hanno due difetti principali: il primo è che acquisiscono presto una sorta di vita propria, e tendono a soddisfare i propri interessi anziché rispondere ai bisogni di coloro ai quali dovrebbero offrire i propri servizi. L’altro è invece che, per il modo stesso in cui operano, i poteri dominanti trovano molto facilmente il modo di sovvertirne gli obiettivi, prendendone la direzione e orientandone il funzionamento verso la soddisfazione dei propri, particolaristici interessi anziché verso quelli della totalità dei paesi. Per questo credo che la risposta alla crisi del sistema multilaterale non vada cercata nella creazione di un nuovo gruppo di istituzioni centralizzate, ma nella promozione di un processo di decentralizzazione e regionalizzazione e nell’edificazione di un sistema di “checks and balances” fra istituzioni non eccessivamente potenti, che si possano controllare reciprocamente. Ciò di cui si ha bisogno per realizzare uno sviluppo sostenibile è lo spazio per i paesi più piccoli e deboli: le grandi istituzioni centralizzate non solo non creano spazio per le persone e per i paesi più vulnerabili, ma spesso finiscono per sottrarglielo.



Torniamo alla sua lettura della crisi attuale e, più in generale, del suo significato all’interno del sistema capitalistico contemporaneo. Ci può spiegare perché ritiene che la globalizzazione debba essere intesa come «il tentativo disperato del capitale globale di scappare dalla stagnazione e dai disequilibri caratteristici dell’economia globale negli anni Settanta e Ottanta» piuttosto che come una nuova fase nello sviluppo del capitalismo?

Mi capita spesso di ricordare che la mia analisi è fortemente debitrice delle tesi sviluppate da Rosa Luxemburg in quel libro lucido ed essenziale che è L’accumulazione del capitale, dove si sostiene che per estendere i tassi di profitto il capitalismo abbia bisogno di incorporare nel sistema sempre nuove aree del mondo, che siano semi-capitalistiche, non-capitalistiche o pre-capitalistiche. In questo senso io credo che la globalizzazione e la continua integrazione nel sistema capitalistico di nuove parti del mondo sia da intendere come una risposta alla crisi da sovrapproduzione piuttosto che una nuova e qualitativamente più elevata fase del capitalismo.

Insisto nel dire che la globalizzazione è una via d’uscita - fallimentare - alla crisi del capitalismo piuttosto che una sua nuova espressione.

Proprio su questo punto sono nati moltissimi errori all’interno del movimento progressista, perché si è creduto che i processi di globalizzazione fossero irreversibili. Invece sono del tutto reversibili.

Oggi molti, sulla scia di Stiglitz, sostengono che il processo irreversibile della globalizzazione debba essere “salvato” dall’influenza dei neoliberisti, grazie ai suggerimenti di qualche socialdemocratico. Io non la penso così.



Lei infatti è sempre stato lontano dalle posizioni “social-democratiche” di quanti immaginano sia possibile “umanizzare” la globalizzazione. Ha scritto: «il compito urgente che ci troviamo di fronte non è quello di orientare la globalizzazione guidata dalle corporation in una direzione “social-democratica”, ma fare in modo di ritirarci dalla globalizzazione». Perché ritiene che sia impossibile “umanizzare” la globalizzazione?

Perché l’integrazione globale dei mercati e delle società è guidata dalle dinamiche capitalistiche, dunque dal profitto, e non invece da una necessità radicata nei bisogni dell’uomo. Non si vede dove sia scritto che le economie debbano essere così strettamente intrecciate le une alle altre. Non è certo nella natura dell’uomo una cosa del genere, ma è un semplice strumento creato per cercare di risolvere una crisi di una certa economia, che contraddice i bisogni dell’uomo proprio perché è disumanizzante.

La rapida integrazione dei mercati è inoltre assolutamente controproducente, poiché elimina quelle barriere tra le economie che permetterebbero a ognuna di essere più indipendente e dunque più sana perché meno vulnerabile alle crisi delle altre: una grave crisi all’interno di un’economia non si tradurrebbe come accade oggi in una grave crisi per tutte le altre.

Per ora invece la globalizzazione ci ha assicurato che quando una delle principali economie mondiali entra in crisi la seguono anche le altre. La terza ragione è che la globalizzazione è guidata da pochi centri di potere dominanti, e risponde perfettamente alla logica del capitalismo di ridurre le dinamiche dell’economia a una manciata di centri di potere. Quelli che sostengono «la globalizzazione è irreversibile, dobbiamo soltanto umanizzarla» si illudono: è impossibile umanizzare la globalizzazione, dovremmo piuttosto capovolgerla.



Secondo la sua analisi, dovremmo passare dunque per un processo di “deglobalizzazione”, come scrive in modo argomentato nel suo omonimo libro. Ma com’è possibile ottenere uno «spostamento radicale verso un sistema della governance economica globale che sia decentralizzato e pluralistico» e che «sviluppi e rafforzi, anziché distruggerle, le economie nazionali»?

Quel che sta accadendo da qualche mese a questa parte dimostra che siamo parte di una catena “letale”, che ci strangola, e che l’integrazione economica può non essere così benefica come ci avevano promesso. La gente comune e gli stessi governi sembra si stiano finalmente rendendo conto che questo tipo di integrazione non funziona, anche perché, oltre a legare il destino di un’economia a quello delle altre, subordina la produzione locale alle dinamiche globali, costringendoci ad affidarci a un cibo che proviene da migliaia di chilometri di distanza, piuttosto che dai cortili vicino casa.

Sappiamo bene che i produttori locali, con bassi margini di profitto, sono stati strangolati dalla produzione delle grandi corporation, e pian piano sta diventando sempre più evidente come la globalizzazione sia servita soprattutto per promuovere gli interessi di queste corporation.

Mi sembra dunque che molte cose ci suggeriscano di puntare verso una minore integrazione dell’economia a livello globale, cercando invece un’integrazione di carattere nazionale.

Al tempo stesso, è importante sostenere il nuovo orientamento di quei paesi che riconoscono l’importanza del coordinamento regionale, come dimostra il caso dell’“Alba”, l’Alternativa bolivariana per le Americhe. La crisi della globalizzazione e della forzata integrazione globale porta alla riscoperta del nazionale e del regionale.



Restiamo sul tema della “deglobalizzazione”: qualcuno potrebbe facilmente obiettare che sia anacronistico, oltre che controproducente, pensare a una forma di autarchia economica. Lei però ha spesso sottolineato come la “deglobalizzazione” che propone non abbia niente a che fare con il ripiegamento autarchico, e rimandi piuttosto al «capovolgimento dei processi omogeneizzanti della globalizzazione neoliberista caratterizzati dalla produzione orientata all’esportazione, dalla privatizzazione e dalla deregulation». Dovremmo, per riprendere Karl Polanyi, reintegrare l’economia nella società?

Per prima cosa “deglobalizzazione” non significa ritirarsi dall’economia internazionale, ma istituire con essa una relazione che possa accrescere le capacità di ognuno anziché soffocarle o distruggerle.

Il vero problema del libero mercato e della globalizzazione guidata dalle corporation è che, nel processo di integrazione, le economie locali e le capacità nazionali vengono distrutte sotto il peso della presunta razionalità della divisione del lavoro, che nei fatti annienta ogni diversità.

Mi sembra però che ci stiamo avvicinando a comprendere che la diversità è essenziale anche per lo stato di salute dell’economia.

L’idea che il principale criterio di misura dell’economia debba essere quello della riduzione del costo unitario, o in altri termini l’efficienza, non può più essere sostenuta. Il criterio dell’efficienza contraddice il benessere generale. Piuttosto che di efficienza avremmo bisogno di efficacia, perché laddove si parla di efficacia si parla anche degli strumenti economici più adatti per assicurare la solidarietà sociale e per creare un sistema economico che sia subordinato ai valori e ai bisogni della società, non viceversa.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi e degli anni che li hanno preceduti hanno spinto molti a interrogarsi sulla razionalità di un sistema che subordina i valori della società al mercato: dovremmo approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivendicare la necessità di abbracciare la logica della solidarietà sociale. Quando si parla di economia internazionale dovremmo intendere non un liberato mercato esteso all’economia globale, ma un’economia che partecipi al sistema internazionale in modo tale da favorire le capacità di ogni attore anziché impedirne lo sviluppo e il rafforzamento. Si tratta dunque di promuovere il commercio dei popoli, o, come ha sostenuto il presidente venezuelano Hugo Chávez, una vera cooperazione economica, al cui interno il trattamento preferenziale sia riservato ai partner più vulnerabili, non a quelli più potenti. E’ ovvio che tutto questo contesta e contraddice la logica del capitalismo, e rimanda alla logica della solidarietà sociale. E’ a questo logica che dovremmo subordinare il commercio. Non sono l’unico che la pensa in questo modo. Anzi. È il momento giusto per affermarla con più convinzione. […]
di Walden Bello - Giuliano Battiston -

30 luglio 2009

Il costo del “bailout” raggiunge la cifra di 24 trilioni di dollari


L’ultima volta che siamo stati in grado di ottenere una misura del costo totale del salvataggio, era pari a circa 8,5 trilioni di dollari. Passati otto mesi da quella linea, la cifra è quasi triplicata.

La cifra di 23,7 trilioni di dollari ricomprende «circa 50 iniziative e programmi stabiliti dalle amministrazioni Bush e Obama, nonché dalla Federal Reserve», secondo l’Associated Press.

In un documento di asseverazione che sarà consegnato alla supervisione della Camera e al Comitato governativo di riforma domani [21 luglio 2009, Ndt], Neil Barofsky, l'ispettore generale per il programma TARP, dirà al Congresso che «il Dipartimento del Tesoro ha ripetutamente omesso di adottare raccomandazioni volte a rendere il programma TARP più responsabile e trasparente ».

Secondo Barofsky, i contribuenti sono al buio su chi ha ricevuto il denaro e su quel che ne fanno.

Come abbiamo più volte sottolineato, la destinazione di circa 2mila miliardi di fondi TARP è stata oggetto di un’azione legale presentata da Bloomberg alla fine dello scorso anno dopo che la Fed aveva rifiutato di rivelare i destinatari. La causa è ancora in corso, giacché Bloomberg tenta di scoprire i nomi delle istituzioni finanziarie private che hanno ricevuto il denaro.

Sarà il popolo americano in ultima analisi a doversi accollare tutto visto che il dollaro è svalutato poiché la Fed presta il denaro dal proprio bilancio o essenzialmente stampa solo più denaro, come ha spiegato un articolo della San Francisco Chronicle l'anno scorso.

I salari non terranno il passo dell'inflazione e, se si aggiunge all'equazione la serie di nuove tasse introdotte dall’amministrazione Obama, le conseguenze sono evidenti: un abbassamento del tenore di vita per milioni di appartenenti alla classe media americana.

Nel frattempo, Henry Paulson, uno dei principali architetti del “bailout” nonché l'uomo che ha perpetrato del terrorismo finanziario all’atto di minacciare il Congresso con scenari di legge marziale e rivolte alimentari, qualora non avessero approvato il primo pacchetto TARP, sfacciatamente s’intasca 200milioni in profitti Goldman Sachs esentasse mentre distribuisce miliardi in guadagni illeciti ai suoi compari banchieri, tutto questo dopo aver tirato un'esca e passare a cambiare l'intero centro del salvataggio dall’acquisto dei titoli di debito tossico fino a dare il denaro direttamente alle istituzioni finanziarie.

Abbiamo paura di pensare a quali saranno le cifre del salvataggio fra altri otto mesi. Triplicheranno ancora fino a 70 trilioni di dollari? Che ne dite di 100 trilioni di dollari?

L'unica cosa che può porre fine allo sfrenato saccheggio è il disegno di legge di Ron Paul volto all’auditing della Fed, che ha ricevuto un sostegno in Parlamento ma è stato bloccato da traditori occasionali prezzolati al Senato, che avrebbero invece dovuto vedere una continuazione del grande furto, anziché la responsabilità e la trasparenza.

Articolo originale: Paul Joseph Watson, Cost Of Bailout Hits A Whopping $24 Trillion Dollars. $80,000 for every American, «Prison Planet», Monday, July 20, 2009.

27 luglio 2009

I «nuovi» profitti delle banche



La notizia che alcune grandi banche statunitensi hanno dichiarato profitti di eccezionale ampiezza non implica che il sistema bancario stia diventando più disponibile all'erogazione di credito per facilitare le imprese in difficoltà. Al contrario, le società finanziarie si stanno allontanando dal credito e si concentrano invece in attività lucrative interne ai meccanismi speculativi. Con la crisi che pervade il sistema delle imprese sono tornati di moda i titoli spazzatura e altra robaccia simile ed è su questo tipo di terreno che vengono individuate possibilità di guadagni speculativi. Un'azienda vera che non riesce a vendere non può che avere una copertura limitata delle proprie passività.

Fino a che punto possono infatti essere sottoscritte passività aziendali che derivano dall'accumulo di camice, piatti, pentole e auto invendute? In definitiva la copertura può continuare solo se lo Stato incamera la produzione invenduta, come ben fece notare oltre 47 anni fa James Meade, un economista di Cambridge nonchè premio Nobel. Invece le passività (liabilities) finanziarie delle banche rappresentate dalle cartacce senza valore sono state sottoscritte dallo Stato in forma illimitata. Inoltre, fatto candidamente ammesso da Ben Bernanke in una rarisssima intervista televisa concessa alla Cbs lo scorso marzo, i «prestiti» della Banca Federale alle banche private per rifornirle di liquidità altro non erano che delle erogazioni simili allo stampare moneta.

Citiamolo perchè Bernanke svela i meccanismi con cui nel corso della crisi sono state non solo salvate ma anche arricchite le banche. Alla domanda dell'intervistatore se gli aiuti della Fed fossero finanziati dai soldi dei contribuenti Bernanke risponde: «Non sono soldi delle tasse. Le banche hanno dei conti con la Fed esattamente come lei ha un conto con una banca commerciale. Quindi per prestare a una banca noi usiamo semplicemente il computer per incrementare la grandezza del conto che la banca ha presso la Fed. È molto più simile a stampare moneta che all'erogazione di un prestito». Nell'intervista il governatore della Fed annuncia che tale sostegno, tramite l'emissione di moneta direttamente nei conti delle banche, continuerà fintanto che perdureranno condizioni di fragiltà finanziaria.
Con una tale illimitata copertura delle passività, cosa impossibile per le aziende industriali, la ricerca di guadagni speculativi diventa un gioco soprattutto considerando che il salvataggio e l'arricchimento delle banche è avvenuto con una strategia diretta a rafforzare la concentrazione finanziaria. La Goldman Sachs, ad esempio, si è vista sollevata da tutte le perdite della società assicuratrice Aig, le cui passività sono state assunte dal governo. Tuttavia malgrado il clima istituzionalmente favorevole alla concentrazione bancaria e ai giochi speculativi contro il credito per gli investimenti, molti dei profitti dichiarati sono dovuti a operazioni una tantum, quale la vendita da parte della Bank of America della sua quota nella China Construction Bank.
La realtà della crisi in corso si manifesta anche nelle dichiarzioni dei dirigenti di tali istituti i quali sostengono che i profitti forniranno da cuscinetto per le perdite che si stanno accumulando nel campo dei credito al consumo dato l'aumento del numero delle famiglie i cui debiti vanno in protesto.

La crisi attuale, nel cui ambito i comportamenti delle istituzioni finanziarie hanno avuto un ruolo aggravante, sta producendo un effetto opposto a quello della crisi del 1929-32. Allora venne creata la Federal Deposit Insurance Corporation con ampi poteri di intervento e di nazionalizzazione che portò ad una separazione tra mercato azuonario e sistema bancario commerciale. Oggi gli stessi colpevoli vengono rafforzati con le grandi multinazionali della contabilità finanziaria e le inaffidabili e squalificate agenzie di rating, incaricate di stilare le riforme stesse.
Non vi è un ritorno all'economia reale. Quest'ultima sta in Cina, il resto è un sottoinsieme del capitale finanziario che determina in forma preponderante sia le politiche correnti che le regole istituzionali.
di Joseph Halevi

26 luglio 2009

Deglobalizzare il pianeta

Nel 1991, sei anni prima che la crisi finanziaria investisse con devastante irruenza il sistema economico, apparentemente solidissimo, delle “tigri asiatiche”, con conseguenze catastrofiche per milioni di cittadini, Walden Bello mandava alle stampe Dragons in Distress. Asia’s Miracle Economies in Crisis, un testo che annunciava l’inevitabile tracollo di quel sistema.

Già allora infatti il fondatore (nel 1995) e direttore esecutivo dell’associazione Focus on the Global South si diceva convinto, come avrebbe ribadito in Domination. La fine di un’era (Nuovi Mondi Media, 2005), «che l’economia globale è ormai alla fine dell’onda lunga di espansione del capitalismo durata cinquant’anni, e all’inizio del suo declino», e che «uno dei sintomi della condizione patologica in cui versa l’economia è il peso preponderante assunto dal capitale finanziario».

Una condizione patologica che oggi appare in tutta la sua evidenza, e che alcuni, come questo attivista e sociologo filippino, già direttore dell’Institute for Food and Development Policy (Food First) di Oakland, California, oggi membro del Transnational Institute di Amsterdam e dell’International Forum on Globalisation, analizzano da tempo.



Nato a Manila nel 1945, docente di sociologia e pubblica amministrazione presso l’Università delle Filippine di Diliman, già visiting professor alle Università di Los Angeles, Irvine e Santa Barbara, Walden Bello ha cominciato ad accorgersi delle patologie del sistema politico-economico internazionale a metà degli anni Settanta, quando assunse un ruolo centrale nel movimento che si batteva contro la dittatura del presidente filippino Ferdinando Marcos, coordinando dagli Stati Uniti la coalizione Anti-Martial Law.

Fu allora infatti che, nel corso delle ricerche per le campagne per la promozione dei diritti umani nel suo paese, scoprì che il regime di Marcos era appoggiato finanziariamente da istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Per dimostrarlo, entrò illegalmente nel quartier generale della Banca mondiale, “recuperando” tremila pagine di documenti confidenziali che avrebbero costituito la base per il suo Development Debacle (1982).



Da allora, non ha mai smesso di dedicarsi all’analisi delle diseguaglianze generate dal sistema capitalistico, alla critica del finto multilateralismo delle istituzioni di Bretton Woods-WTO e alla denuncia dei progetti egemonici degli Stati Uniti. Vincitore nel 2003 del Right Livelihood Award (il premio Nobel alternativo), critico radicale del capitalismo e dell’imperialismo a stelle e strisce, Walden Bello ha fatto della combinazione tra la ricerca intellettuale e la militanza politica una vera e propria cifra distintiva, dando alle stampe diversi saggi, tra cui ricordiamo Il futuro incerto: globalizzazione e nuova resistenza e Deglobalizzazione (entrambi editi da Baldini Castoldi Dalai, rispettivamente nel 2002 e nel 2004), testi in cui ha trasferito «le lezioni apprese dai paesi in via di sviluppo negli ultimi 25 anni: che la politica commerciale deve essere subordinata allo sviluppo; che la tecnologia deve essere liberata dalla rigida normativa della proprietà intellettuale; che sono necessari controlli sui movimenti di capitali; che lo sviluppo richiede non meno, ma più intervento dello stato; e, soprattutto, che i deboli devono restare uniti perché da soli vanno a finire male».



Nel libro Domination. La fine di un’era, lei identifica tre elementi che segnalerebbero la fine dell’egemonia americana: una crisi da sovrapproduzione (dimensione economica), una crisi da sovraesposizione (dimensione strategico-militare) e una di legittimità (dimensione politico-ideologica). Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?

La crisi economica a cui stiamo assistendo da alcuni mesi può essere meglio compresa proprio se la intendiamo come crisi da sovrapproduzione, e deriva dalla straordinaria capacità produttiva del sistema capitalistico che supera e contraddice la limitata capacità di consumo e d’acquisto della popolazione, causata dalle continue e crescenti disuguaglianze nell’ambito della sfrenata competizione tra attori capitalisti.

La mia tesi, che ovviamente condivido con altri, è che a partire dalla metà degli anni Settanta questa crisi abbia raggiunto un livello tale da spingere il capitale a ricorrere a tre vie d’uscita: la ristrutturazione neoliberista, la globalizzazione e la “finanziarizzazione”.

Strumenti che però non hanno funzionato, e anziché risolverla o mitigarla hanno aggravato la crisi da sovrapproduzione. Oggi assistiamo alla dimostrazione plateale di questo fallimento.

L’altra dimensione è la crisi da sovraesposizione, che si situa al livello dello Stato e riguarda la sua capacità di “proiettare” potere; sin dalla guerra in Afghanistan abbiamo sostenuto che gli Stati Uniti si stessero sovraesponendo, rendendo manifesto lo scarto tra gli obiettivi del sistema imperiale e la mancanza delle risorse per ottenerli. Non è un caso che sia stato facile prevedere, da parte mia e di altri, quel che oggi accade in Iraq e in Afghanistan.

La terza dimensione è quella della legittimità, senza la quale tutti i sistemi sono destinati al fallimento. Credo che il sistema democratico liberale, la cui diffusione è stata fortemente promossa dagli Stati Uniti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, sia oggi ampiamente discreditato a causa del modo in cui gli USA hanno usato la democrazia per promuovere i propri interessi strategici. Lo stesso è accaduto con le istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio, che aspirano a presentarsi come democraticamente rispondenti ai diversi membri che le compongono, ma che continuano a servire alcuni, particolari e circoscritti interessi.

Credo che l’uso della democrazia e delle istituzioni multilaterali per promuovere e imporre obiettivi unilaterali abbiamo fortemente contribuito alla crisi di legittimità dell’impero americano. Se poi si mettono insieme tutti e tre gli elementi critici di cui abbiamo parlato, e a questi si aggiunge la crisi ambientale, si avrà di fronte l’immagine di una formidabile tempesta. Quella che ha ereditato Obama.



Secondo la sua analisi, dunque, la crisi attuale, più che come il risultato di una mancata regolamentazione del settore finanziario, andrebbe interpretata come l’incancrenirsi di una delle contraddizioni centrali del capitalismo globale…

È proprio così: la mancata regolamentazione è soltanto parte della risposta, così come l’avidità dimostrata dagli attori economici, mentre la parte più rilevante della risposta va individuata nella crisi del sistema in quanto tale, e nel fallimento del tentativo di superare la crisi dei profitti, che deriva dalla crisi da sovrapproduzione, attraverso le tre risposte a cui abbiamo accennato prima. In particolare, poi, la “finanziarizzazione”, attuata nella speranza di poter assorbire il surplus e creare profitto, ci ha piombati nel bel mezzo della crisi attuale. Una crisi che ci deve indurre a guardarci indietro, per capire che essa non investe semplicemente una questione di regole non rispettate, ma ha a che fare con la specifica dinamica del sistema capitalistico.



Come da anni critica i pericoli della “finanziarizzazione”, così da molto tempo sostiene anche che «ci sarebbe sicuramente bisogno di controlli sul movimento dei capitali, sia a livello regionale che locale». Eppure continua a dirsi scettico sull’istituzione di un’autorità monetaria mondiale. Perché ritiene che anche un’istituzione del genere possa essere controproducente?

Perché ritengo che le istituzioni centralizzate, anche laddove si suppone che operino per il multilateralismo, finiscano spesso sotto il controllo dei poteri dominanti. Questa è una delle ragioni per cui mi sono sempre opposto alla sostituzione di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale del commercio con un’unica istituzione che gestisca la politica monetaria mondiale. Le istituzioni centralizzate hanno due difetti principali: il primo è che acquisiscono presto una sorta di vita propria, e tendono a soddisfare i propri interessi anziché rispondere ai bisogni di coloro ai quali dovrebbero offrire i propri servizi. L’altro è invece che, per il modo stesso in cui operano, i poteri dominanti trovano molto facilmente il modo di sovvertirne gli obiettivi, prendendone la direzione e orientandone il funzionamento verso la soddisfazione dei propri, particolaristici interessi anziché verso quelli della totalità dei paesi. Per questo credo che la risposta alla crisi del sistema multilaterale non vada cercata nella creazione di un nuovo gruppo di istituzioni centralizzate, ma nella promozione di un processo di decentralizzazione e regionalizzazione e nell’edificazione di un sistema di “checks and balances” fra istituzioni non eccessivamente potenti, che si possano controllare reciprocamente. Ciò di cui si ha bisogno per realizzare uno sviluppo sostenibile è lo spazio per i paesi più piccoli e deboli: le grandi istituzioni centralizzate non solo non creano spazio per le persone e per i paesi più vulnerabili, ma spesso finiscono per sottrarglielo.



Torniamo alla sua lettura della crisi attuale e, più in generale, del suo significato all’interno del sistema capitalistico contemporaneo. Ci può spiegare perché ritiene che la globalizzazione debba essere intesa come «il tentativo disperato del capitale globale di scappare dalla stagnazione e dai disequilibri caratteristici dell’economia globale negli anni Settanta e Ottanta» piuttosto che come una nuova fase nello sviluppo del capitalismo?

Mi capita spesso di ricordare che la mia analisi è fortemente debitrice delle tesi sviluppate da Rosa Luxemburg in quel libro lucido ed essenziale che è L’accumulazione del capitale, dove si sostiene che per estendere i tassi di profitto il capitalismo abbia bisogno di incorporare nel sistema sempre nuove aree del mondo, che siano semi-capitalistiche, non-capitalistiche o pre-capitalistiche. In questo senso io credo che la globalizzazione e la continua integrazione nel sistema capitalistico di nuove parti del mondo sia da intendere come una risposta alla crisi da sovrapproduzione piuttosto che una nuova e qualitativamente più elevata fase del capitalismo.

Insisto nel dire che la globalizzazione è una via d’uscita - fallimentare - alla crisi del capitalismo piuttosto che una sua nuova espressione.

Proprio su questo punto sono nati moltissimi errori all’interno del movimento progressista, perché si è creduto che i processi di globalizzazione fossero irreversibili. Invece sono del tutto reversibili.

Oggi molti, sulla scia di Stiglitz, sostengono che il processo irreversibile della globalizzazione debba essere “salvato” dall’influenza dei neoliberisti, grazie ai suggerimenti di qualche socialdemocratico. Io non la penso così.



Lei infatti è sempre stato lontano dalle posizioni “social-democratiche” di quanti immaginano sia possibile “umanizzare” la globalizzazione. Ha scritto: «il compito urgente che ci troviamo di fronte non è quello di orientare la globalizzazione guidata dalle corporation in una direzione “social-democratica”, ma fare in modo di ritirarci dalla globalizzazione». Perché ritiene che sia impossibile “umanizzare” la globalizzazione?

Perché l’integrazione globale dei mercati e delle società è guidata dalle dinamiche capitalistiche, dunque dal profitto, e non invece da una necessità radicata nei bisogni dell’uomo. Non si vede dove sia scritto che le economie debbano essere così strettamente intrecciate le une alle altre. Non è certo nella natura dell’uomo una cosa del genere, ma è un semplice strumento creato per cercare di risolvere una crisi di una certa economia, che contraddice i bisogni dell’uomo proprio perché è disumanizzante.

La rapida integrazione dei mercati è inoltre assolutamente controproducente, poiché elimina quelle barriere tra le economie che permetterebbero a ognuna di essere più indipendente e dunque più sana perché meno vulnerabile alle crisi delle altre: una grave crisi all’interno di un’economia non si tradurrebbe come accade oggi in una grave crisi per tutte le altre.

Per ora invece la globalizzazione ci ha assicurato che quando una delle principali economie mondiali entra in crisi la seguono anche le altre. La terza ragione è che la globalizzazione è guidata da pochi centri di potere dominanti, e risponde perfettamente alla logica del capitalismo di ridurre le dinamiche dell’economia a una manciata di centri di potere. Quelli che sostengono «la globalizzazione è irreversibile, dobbiamo soltanto umanizzarla» si illudono: è impossibile umanizzare la globalizzazione, dovremmo piuttosto capovolgerla.



Secondo la sua analisi, dovremmo passare dunque per un processo di “deglobalizzazione”, come scrive in modo argomentato nel suo omonimo libro. Ma com’è possibile ottenere uno «spostamento radicale verso un sistema della governance economica globale che sia decentralizzato e pluralistico» e che «sviluppi e rafforzi, anziché distruggerle, le economie nazionali»?

Quel che sta accadendo da qualche mese a questa parte dimostra che siamo parte di una catena “letale”, che ci strangola, e che l’integrazione economica può non essere così benefica come ci avevano promesso. La gente comune e gli stessi governi sembra si stiano finalmente rendendo conto che questo tipo di integrazione non funziona, anche perché, oltre a legare il destino di un’economia a quello delle altre, subordina la produzione locale alle dinamiche globali, costringendoci ad affidarci a un cibo che proviene da migliaia di chilometri di distanza, piuttosto che dai cortili vicino casa.

Sappiamo bene che i produttori locali, con bassi margini di profitto, sono stati strangolati dalla produzione delle grandi corporation, e pian piano sta diventando sempre più evidente come la globalizzazione sia servita soprattutto per promuovere gli interessi di queste corporation.

Mi sembra dunque che molte cose ci suggeriscano di puntare verso una minore integrazione dell’economia a livello globale, cercando invece un’integrazione di carattere nazionale.

Al tempo stesso, è importante sostenere il nuovo orientamento di quei paesi che riconoscono l’importanza del coordinamento regionale, come dimostra il caso dell’“Alba”, l’Alternativa bolivariana per le Americhe. La crisi della globalizzazione e della forzata integrazione globale porta alla riscoperta del nazionale e del regionale.



Restiamo sul tema della “deglobalizzazione”: qualcuno potrebbe facilmente obiettare che sia anacronistico, oltre che controproducente, pensare a una forma di autarchia economica. Lei però ha spesso sottolineato come la “deglobalizzazione” che propone non abbia niente a che fare con il ripiegamento autarchico, e rimandi piuttosto al «capovolgimento dei processi omogeneizzanti della globalizzazione neoliberista caratterizzati dalla produzione orientata all’esportazione, dalla privatizzazione e dalla deregulation». Dovremmo, per riprendere Karl Polanyi, reintegrare l’economia nella società?

Per prima cosa “deglobalizzazione” non significa ritirarsi dall’economia internazionale, ma istituire con essa una relazione che possa accrescere le capacità di ognuno anziché soffocarle o distruggerle.

Il vero problema del libero mercato e della globalizzazione guidata dalle corporation è che, nel processo di integrazione, le economie locali e le capacità nazionali vengono distrutte sotto il peso della presunta razionalità della divisione del lavoro, che nei fatti annienta ogni diversità.

Mi sembra però che ci stiamo avvicinando a comprendere che la diversità è essenziale anche per lo stato di salute dell’economia.

L’idea che il principale criterio di misura dell’economia debba essere quello della riduzione del costo unitario, o in altri termini l’efficienza, non può più essere sostenuta. Il criterio dell’efficienza contraddice il benessere generale. Piuttosto che di efficienza avremmo bisogno di efficacia, perché laddove si parla di efficacia si parla anche degli strumenti economici più adatti per assicurare la solidarietà sociale e per creare un sistema economico che sia subordinato ai valori e ai bisogni della società, non viceversa.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi e degli anni che li hanno preceduti hanno spinto molti a interrogarsi sulla razionalità di un sistema che subordina i valori della società al mercato: dovremmo approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivendicare la necessità di abbracciare la logica della solidarietà sociale. Quando si parla di economia internazionale dovremmo intendere non un liberato mercato esteso all’economia globale, ma un’economia che partecipi al sistema internazionale in modo tale da favorire le capacità di ogni attore anziché impedirne lo sviluppo e il rafforzamento. Si tratta dunque di promuovere il commercio dei popoli, o, come ha sostenuto il presidente venezuelano Hugo Chávez, una vera cooperazione economica, al cui interno il trattamento preferenziale sia riservato ai partner più vulnerabili, non a quelli più potenti. E’ ovvio che tutto questo contesta e contraddice la logica del capitalismo, e rimanda alla logica della solidarietà sociale. E’ a questo logica che dovremmo subordinare il commercio. Non sono l’unico che la pensa in questo modo. Anzi. È il momento giusto per affermarla con più convinzione. […]
di Walden Bello - Giuliano Battiston -