23 gennaio 2010
La bancarotta potrebbe giovare agli Stati Uniti
In una storia di Winnie-the-Pooh c’è un momento in cui viene chiesto all’orsetto se preferisca spalmare sulla sua fetta di pane il miele o latte condensato e lui risponde “tutti e due”, una questione non poi così importante per uno dei personaggi più amati dai bambini ma che diventa ben più problematica se una grande nazione inizia a comportarsi in modo altrettanto infantile: infatti, quando è stato chiesto agli americani cosa volessero, se meno tasse, un tenore di vita più alto o il miglior esercito al mondo, la risposta unanime è stata “tutto”.
Come risultato hanno ottenuto un considerevole aumento del debito pubblico e una diminuzione del prodotto interno lordo pari al 12% come normale reazione subito dopo una grande crisi come quella che li ha colpiti nel 2008. Ma quello che dovrebbe preoccupare gli americani è che, con le possibili ricadute sulla parte di azioni che riguarda settori pubblici come la sanità, non esiste un piano credibile per mantenere il deficit sotto controllo nel medio termine.
Gli Stati Uniti hanno formidabili forze economiche che permetteranno al suo governo di impegnare molti soldi e per più tempo rispetto ad altre nazioni, cosa che permetterà loro molto probabilmente di cavarsela ma, continuando a far aumentare il proprio debito pubblico, presto o tardi il paese inizierà a rischiare la bancarotta. Stranamente questo potrebbe essere un bene, cioè che la crisi arrivi subito piuttosto che tra un po’ di tempo perché per un sorprendente numero di paesi l’esaurirsi della moneta si è tradotto in un inizio di rinnovamento.
La liberalizzazione del mercato cinese introdotta da Dengxiaoping nel 1978 è stata causata sia da una crisi fiscale che del mercato delle esportazioni. Ritrovatosi senza soldi il governo cinese ha dovuto abbracciare un principio economico del tutto diverso per poter crescere velocemente ed avere alte entrate. Il resto è storia.
La stessa cosa è successa in India con la riforma economica del 1991. Il governo indiano si era ritrovato ad avere una liquidità che sarebbe bastata per pagare due settimane d’importazioni. Per risolvere la situazione il governo ha dovuto inviare a Londra parte del proprio oro a garanzia di un prestito del Fondo Monetario Internazionale, ma Manmohan Singh, allora ministro delle finanze e ora primo ministro, ha contemporaneamente spronato i suoi colleghi a “trasformare questa crisi un una opportunità per costruire una nuova India” riuscendoci trionfalmente.
Lo stesso vale per l’America latina nel 1982. Quando il Messico, non più in grado di pagare i propri debiti, ha innescato una crisi economica in tutto il continente sudamericano, le conseguenze a lungo termine sono state positive. Come ha sottolineato Michael Reid, storico contemporaneo, “I regimi dittatoriali crollano sotto il loro fallimento economico”. Così la junta argentina cadde nel 1983 e il Brasile ebbe una spinta democratica a partire dal 1985.
Problemi disastrosi con la gestione della finanza hanno anche giocato un grande ruolo nella riforma dell’Unione Sovietica. Quando Michail Gorbaciov sali al potere a Mosca si trovò a dover fronteggiare un debito pubblico quasi raddoppiato negli ultimi tre anni e sono state proprio le pressioni finanziarie a persuaderlo che una riforma economica, la perestroika, era assolutamente necessaria.
Infatti nel 1989 l’intero blocco sovietico lottava sotto il peso di un rapido aumento del debito estero. Per questo motivo la Germania dell’est non sparò ai dimostranti nell’Ottobre del 1989, perché non se lo poteva permettere: da un lato sfiorava la bancarotta e dall’altro stava negoziando disperatamente un prestito dalla Germania dell’ovest.
Questi salutari avvicinamenti alla bancarotta non sono accaduti soltanto nelle nazioni sottosviluppate dell’Asia, in scalcinati regimi dittatoriali dell’America latina o nei fatiscenti regimi comunisti. Gli inglesi tremano ancora oggi al ricordo del governo inglese che “cappello alla mano” si presentò al Fondo Monetario Internazionale nel 1976. Un fatto umiliante ma che è servito a qualcosa: il governo inglese vicino alla bancarotta convinse i cittadini che le cose dovevano cambiare, ponendo le basi per il tatcherismo. La Francia ha avuto un’esperienza simile all’inizio degli anni Ottanta, quando grandi somme di denaro uscirono dal paese e il collasso delle entrate relative a quei capitali hanno obbligato il governo Mitterand ad abbandonare la politica del pugno di ferro.
Probabilmente la frase più memorabile è stata pronunciata qualche tempo fa da un funzionario dell’amministrazione Obama, Rham Emanuel, responsabile dello staff della Casa Bianca, che disse: “ Non possiamo sprecare una crisi come questa”. Emanuel per questa frase è stato accusato di superficialità e cinismo, ma ad un esame della storia globale degli ultimi trent’anni probabilmente ci ha azzeccato. I così discussi paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina (i cosiddetti Brics) hanno avuto bisogno di una grossa crisi fiscale per intraprendere la via delle riforme economiche e risorgere. Un giorno gli Stati Uniti potrebbero essere abbastanza fortunati da essere in grado di fare tesoro della loro crisi finanziaria. Speriamo che questa speranza non sia vana.
Titolo originale: "Bankruptcy could be good for America"
di Gideon Rachman
22 gennaio 2010
E' in crisi è la relazione tra uomini e donne
In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia. In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia».
Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie.
Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni.
Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti.
A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film.
Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato.
Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo).
Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre.
Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro.
Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.
di Claudio Risé
21 gennaio 2010
Il sistema è più in bancarotta che mai
Nel primo Angelus domenicale del 2010, recitato il 3 gennaio, Papa Benedetto XVI ha esortato i fedeli a non ascoltare i maghi e gli economisti. Non dobbiamo fare affidamento "su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti", ha affermato il Pontefice. Il futuro dell'uomo dipende dalla capacità di ciascuno di "collaborare con la grazia di Dio". Egli ha poi integrato queste affermazioni il giorno dell'Epifania, descrivendo i Re Magi come degli "uomini di scienza in un senso ampio, che osservavano il cosmo ritenendolo quasi un grande libro pieno di segni e di messaggi divini per l’uomo".
Benedetto XVI ha perciò condannato la falsa scienza degli economisti accademici, che basano le loro previsioni su modelli matematici riduzionistici, e ha indicato nella scienza dell'universo fisico, le cui radici affondano nella tradizione pitagorica delle Sferiche, il sentiero della vera conoscenza. È quanto Lyndon LaRouche, l'unico economista che abbia previsto la natura della crisi negli ultimi 40 anni, ha definito la scienza della "dinamica".
Nell'anno trascorso, gli economisti (compresi i banchieri centrali e quelli privati), che sono stati incapaci di accorgersi dello sviluppo della crisi, hanno sostenuto che "il peggio è passato", che "è stato salvato il sistema" e che "la ripresa è in arrivo". Niente è più lontano dalla verità. Il sistema non è stato salvato, la ripresa non è in vista e il peggio deve ancora arrivare. Il recente rapporto del Comptroller of the Currency degli Stati Uniti conferma che il sistema finanziario è oggi più in bancarotta di quanto lo fosse allo scoppio della crisi nel 2007. Solo gli sciocchi e gli economisti lo negano.
Secondo il rapporto, nel terzo trimestre 2009 il valore nominale dei contratti derivati delle banche americane ammontava a 204 trilioni di dollari, che è 14 volte il PIL degli Stati Uniti. Nel giugno 2007, ammontavano "solo" a 152 trilioni. Il 97% dei 204 trilioni è posseduto dalle cinque principali banche americane: JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank e Wells Fargo.
Per coloro che sostengono che il valore nozionale dei derivati è fittizio, si guardi al livello di esposizione (ciò che tradizionalmente è considerato il rischio): nel terzo trimestre del 2009, era 484 miliardi di dollari, ben più del doppio dell'ammontare del giugno 2007 (199 miliardi). L'esposizione in derivati delle quattro principali banche USA ammonta al 371% del loro capitale.
Le banche europee non navigano in acque migliori. Nel terzo trimestre 2009, il 16% del reddito delle 20 principali banche europee proveniva dal trading, mentre nello stesso periodo del 2008 era solo il 3%. E questo, mentre il credito alle imprese veniva tagliato.
Alla Goldman Sachs, il deus ex machina della politica dei salvataggi americana, il rapporto derivati/attivi era di 40 a 1,6 nel marzo 2009, e di 42 a 1,1 nel settembre dello stesso anno. Queste cifre mostrano chiaramente che il prossimo collasso finanziario è dietro l'angolo. Mentre l'economia fisica si è ridotta di un terzo dal 2007, l'economia del debito è aumentata, grazie ai trilioni di dollari dei salvataggi messi in atto dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla BCE.
Quegli stessi banchieri centrali non nascondono il nervosismo. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha convocato un conclave di tre giorni a Basilea lo scorso weekend per discutere dei "rischi eccessivi" incorsi dalle banche sui mercati finanziari. In linguaggio che più esplicito non si può per i banchieri centrali, si è constatato che "si stanno ricreando le condizioni che hanno portato allo scoppio della crisi finanziaria". Ma anche se vedono arrivare il treno in corsa, i banchieri centrali non sono in grado di fermarlo, perché incapaci di rinunciare all'attuale sistema della globalizzazione.
by (MoviSol)
23 gennaio 2010
La bancarotta potrebbe giovare agli Stati Uniti
In una storia di Winnie-the-Pooh c’è un momento in cui viene chiesto all’orsetto se preferisca spalmare sulla sua fetta di pane il miele o latte condensato e lui risponde “tutti e due”, una questione non poi così importante per uno dei personaggi più amati dai bambini ma che diventa ben più problematica se una grande nazione inizia a comportarsi in modo altrettanto infantile: infatti, quando è stato chiesto agli americani cosa volessero, se meno tasse, un tenore di vita più alto o il miglior esercito al mondo, la risposta unanime è stata “tutto”.
Come risultato hanno ottenuto un considerevole aumento del debito pubblico e una diminuzione del prodotto interno lordo pari al 12% come normale reazione subito dopo una grande crisi come quella che li ha colpiti nel 2008. Ma quello che dovrebbe preoccupare gli americani è che, con le possibili ricadute sulla parte di azioni che riguarda settori pubblici come la sanità, non esiste un piano credibile per mantenere il deficit sotto controllo nel medio termine.
Gli Stati Uniti hanno formidabili forze economiche che permetteranno al suo governo di impegnare molti soldi e per più tempo rispetto ad altre nazioni, cosa che permetterà loro molto probabilmente di cavarsela ma, continuando a far aumentare il proprio debito pubblico, presto o tardi il paese inizierà a rischiare la bancarotta. Stranamente questo potrebbe essere un bene, cioè che la crisi arrivi subito piuttosto che tra un po’ di tempo perché per un sorprendente numero di paesi l’esaurirsi della moneta si è tradotto in un inizio di rinnovamento.
La liberalizzazione del mercato cinese introdotta da Dengxiaoping nel 1978 è stata causata sia da una crisi fiscale che del mercato delle esportazioni. Ritrovatosi senza soldi il governo cinese ha dovuto abbracciare un principio economico del tutto diverso per poter crescere velocemente ed avere alte entrate. Il resto è storia.
La stessa cosa è successa in India con la riforma economica del 1991. Il governo indiano si era ritrovato ad avere una liquidità che sarebbe bastata per pagare due settimane d’importazioni. Per risolvere la situazione il governo ha dovuto inviare a Londra parte del proprio oro a garanzia di un prestito del Fondo Monetario Internazionale, ma Manmohan Singh, allora ministro delle finanze e ora primo ministro, ha contemporaneamente spronato i suoi colleghi a “trasformare questa crisi un una opportunità per costruire una nuova India” riuscendoci trionfalmente.
Lo stesso vale per l’America latina nel 1982. Quando il Messico, non più in grado di pagare i propri debiti, ha innescato una crisi economica in tutto il continente sudamericano, le conseguenze a lungo termine sono state positive. Come ha sottolineato Michael Reid, storico contemporaneo, “I regimi dittatoriali crollano sotto il loro fallimento economico”. Così la junta argentina cadde nel 1983 e il Brasile ebbe una spinta democratica a partire dal 1985.
Problemi disastrosi con la gestione della finanza hanno anche giocato un grande ruolo nella riforma dell’Unione Sovietica. Quando Michail Gorbaciov sali al potere a Mosca si trovò a dover fronteggiare un debito pubblico quasi raddoppiato negli ultimi tre anni e sono state proprio le pressioni finanziarie a persuaderlo che una riforma economica, la perestroika, era assolutamente necessaria.
Infatti nel 1989 l’intero blocco sovietico lottava sotto il peso di un rapido aumento del debito estero. Per questo motivo la Germania dell’est non sparò ai dimostranti nell’Ottobre del 1989, perché non se lo poteva permettere: da un lato sfiorava la bancarotta e dall’altro stava negoziando disperatamente un prestito dalla Germania dell’ovest.
Questi salutari avvicinamenti alla bancarotta non sono accaduti soltanto nelle nazioni sottosviluppate dell’Asia, in scalcinati regimi dittatoriali dell’America latina o nei fatiscenti regimi comunisti. Gli inglesi tremano ancora oggi al ricordo del governo inglese che “cappello alla mano” si presentò al Fondo Monetario Internazionale nel 1976. Un fatto umiliante ma che è servito a qualcosa: il governo inglese vicino alla bancarotta convinse i cittadini che le cose dovevano cambiare, ponendo le basi per il tatcherismo. La Francia ha avuto un’esperienza simile all’inizio degli anni Ottanta, quando grandi somme di denaro uscirono dal paese e il collasso delle entrate relative a quei capitali hanno obbligato il governo Mitterand ad abbandonare la politica del pugno di ferro.
Probabilmente la frase più memorabile è stata pronunciata qualche tempo fa da un funzionario dell’amministrazione Obama, Rham Emanuel, responsabile dello staff della Casa Bianca, che disse: “ Non possiamo sprecare una crisi come questa”. Emanuel per questa frase è stato accusato di superficialità e cinismo, ma ad un esame della storia globale degli ultimi trent’anni probabilmente ci ha azzeccato. I così discussi paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina (i cosiddetti Brics) hanno avuto bisogno di una grossa crisi fiscale per intraprendere la via delle riforme economiche e risorgere. Un giorno gli Stati Uniti potrebbero essere abbastanza fortunati da essere in grado di fare tesoro della loro crisi finanziaria. Speriamo che questa speranza non sia vana.
Titolo originale: "Bankruptcy could be good for America"
di Gideon Rachman
22 gennaio 2010
E' in crisi è la relazione tra uomini e donne
In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia. In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia».
Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie.
Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni.
Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti.
A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film.
Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato.
Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo).
Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre.
Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro.
Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.
di Claudio Risé
21 gennaio 2010
Il sistema è più in bancarotta che mai
Nel primo Angelus domenicale del 2010, recitato il 3 gennaio, Papa Benedetto XVI ha esortato i fedeli a non ascoltare i maghi e gli economisti. Non dobbiamo fare affidamento "su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti", ha affermato il Pontefice. Il futuro dell'uomo dipende dalla capacità di ciascuno di "collaborare con la grazia di Dio". Egli ha poi integrato queste affermazioni il giorno dell'Epifania, descrivendo i Re Magi come degli "uomini di scienza in un senso ampio, che osservavano il cosmo ritenendolo quasi un grande libro pieno di segni e di messaggi divini per l’uomo".
Benedetto XVI ha perciò condannato la falsa scienza degli economisti accademici, che basano le loro previsioni su modelli matematici riduzionistici, e ha indicato nella scienza dell'universo fisico, le cui radici affondano nella tradizione pitagorica delle Sferiche, il sentiero della vera conoscenza. È quanto Lyndon LaRouche, l'unico economista che abbia previsto la natura della crisi negli ultimi 40 anni, ha definito la scienza della "dinamica".
Nell'anno trascorso, gli economisti (compresi i banchieri centrali e quelli privati), che sono stati incapaci di accorgersi dello sviluppo della crisi, hanno sostenuto che "il peggio è passato", che "è stato salvato il sistema" e che "la ripresa è in arrivo". Niente è più lontano dalla verità. Il sistema non è stato salvato, la ripresa non è in vista e il peggio deve ancora arrivare. Il recente rapporto del Comptroller of the Currency degli Stati Uniti conferma che il sistema finanziario è oggi più in bancarotta di quanto lo fosse allo scoppio della crisi nel 2007. Solo gli sciocchi e gli economisti lo negano.
Secondo il rapporto, nel terzo trimestre 2009 il valore nominale dei contratti derivati delle banche americane ammontava a 204 trilioni di dollari, che è 14 volte il PIL degli Stati Uniti. Nel giugno 2007, ammontavano "solo" a 152 trilioni. Il 97% dei 204 trilioni è posseduto dalle cinque principali banche americane: JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank e Wells Fargo.
Per coloro che sostengono che il valore nozionale dei derivati è fittizio, si guardi al livello di esposizione (ciò che tradizionalmente è considerato il rischio): nel terzo trimestre del 2009, era 484 miliardi di dollari, ben più del doppio dell'ammontare del giugno 2007 (199 miliardi). L'esposizione in derivati delle quattro principali banche USA ammonta al 371% del loro capitale.
Le banche europee non navigano in acque migliori. Nel terzo trimestre 2009, il 16% del reddito delle 20 principali banche europee proveniva dal trading, mentre nello stesso periodo del 2008 era solo il 3%. E questo, mentre il credito alle imprese veniva tagliato.
Alla Goldman Sachs, il deus ex machina della politica dei salvataggi americana, il rapporto derivati/attivi era di 40 a 1,6 nel marzo 2009, e di 42 a 1,1 nel settembre dello stesso anno. Queste cifre mostrano chiaramente che il prossimo collasso finanziario è dietro l'angolo. Mentre l'economia fisica si è ridotta di un terzo dal 2007, l'economia del debito è aumentata, grazie ai trilioni di dollari dei salvataggi messi in atto dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla BCE.
Quegli stessi banchieri centrali non nascondono il nervosismo. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha convocato un conclave di tre giorni a Basilea lo scorso weekend per discutere dei "rischi eccessivi" incorsi dalle banche sui mercati finanziari. In linguaggio che più esplicito non si può per i banchieri centrali, si è constatato che "si stanno ricreando le condizioni che hanno portato allo scoppio della crisi finanziaria". Ma anche se vedono arrivare il treno in corsa, i banchieri centrali non sono in grado di fermarlo, perché incapaci di rinunciare all'attuale sistema della globalizzazione.
by (MoviSol)