10 marzo 2010
Il più grande attacco valutario degli ultimi anni
La cena si è tenuta alla Townhouse, una sala privata ed esclusiva creata dal ristorante Park avenue winter al numero 100 sulla 63ª strada di Manhattan, quasi all'incrocio con Park avenue. In questa fascia dell'Upper east side, il quartiere prediletto dai miliardari newyorkesi, la sera si vedono solo domestici che portano a spasso cani che annusano le limousine nere parcheggiate in doppia fila.
Fuori si annuncia una tempesta di neve che, da lì a poche ore, immobilizzerà New York, ma dentro quella palazzina si progetta la tempesta finanziaria che nelle prossime settimane potrebbe sconvolgere ancora una volta l'economia globale.
Neppure Tom Wolfe, che nel Falò delle vanità fu il primo a raccontare i vezzi e la spietatezza dei raider di borsa americani, «i padroni dell'universo», come li chiamava lui, avrebbe mai potuto immaginare una cena come quella dello scorso lunedì 8 febbraio a New York.
Nella foto: La copertina del ”Der Spiegel” in edicola questa settimana
Sulle sedie color cioccolata siedono le migliori menti speculative americane, compresi gli emissari dei tre gestori di hedge fund più ricchi e potenti del mondo: George Soros, John Paulson e Steven Cohen. Ed è della loro prossima scommessa miliardaria che si discute mentre i camerieri fanno circolare lo champagne Krug e lo chef Craig Koketsu prepara il suo menu con pollo al limone e filet mignon.
Stavolta l'obiettivo è più grande del mercato immobiliare distrutto nel 2008. Per colpire la nuova preda nel mirino, l'euro, la moneta unica europea che tanti successi ha ottenuto durante la crisi internazionale contro il biglietto verde americano, ci vuole una strategia più sofisticata che permetta di giocare non solo sulla crisi della Grecia (300 miliardi di euro di debito sovrano e un deficit del 12,7 per cento rispetto al pil), ma anche su paesi di maggiore peso economico che i convitati giudicano vulnerabili. Il Portogallo, sì, ma è piccolo. L'Irlanda, va bene, ma siamo sempre lì.
La Spagna, certo, quella andrebbe bene. Già, sono i Pigs, maiali da mandare al macello, ridacchia qualcuno. E, perché no?, perché non provare ad azzannare addirittura l'Italia? Un paese finanziariamente più solido degli altri, ricorda uno dei commensali, ma politicamente così diviso che sarebbe facile da spolpare grazie a molti appoggi interni. Lì per lì, si inventa un nuovo acronimo Piigs (la doppia I sta per Irlanda e Italia). Già due giorni dopo, se ne approprierà la Cnn nel suo programma dedicato alla finanza.
Ai tavoli, dove, per accompagnare il filet mignon con costolettine brasate e verdure grigliate, è stato scelto un Montrachet d'annata, si approfondiscono strategie finanziarie come l'«Hong Kong double play». Sempre alla ricerca di riferimenti alle proprie imprese passate, i manager degli hedge fund si riferiscono alla doppia scommessa che tentarono durante la crisi delle economie asiatiche a cavallo tra il 1997 e il 1998.
Quella volta i raider fecero due scommesse contemporanee: una contro la borsa e l'altra contro il dollaro di Hong Kong, che sembrava resistere meglio alla crisi mentre, con effetto domino, si svalutavano tutte le monete della regione. Molti però ricordano bene che solo un intervento particolarmente tempestivo delle autorità di Hong Kong aveva sventato il loro tentativo di fare soldi abbattendo anche quella moneta.
Per portare l'euro alla parità col dollaro dalla soglia massima di dicembre di 1,51 euro contro 1 dollaro, in una discesa vertiginosa che potrebbe rappresentare il colpaccio di una vita, ristabilendo il primato finanziario degli Stati Uniti, dovrà essere usata una versione riveduta e aggiornata di quella stretta mortale. I lavori, per la verità, sono già in corso da tempo: a novembre i mercati davano la possibilità di una tale discesa del dollaro a 33 a 1.
Oggi le puntate vengono accettate a 14 a 1. Quello che agli occhi dei comuni mortali potrebbe sembrare un complotto, nel linguaggio dei manager degli hedge fund ha un nome molto più rispettabile: «Idea dinner», una sorta di brain storming della speculazione. Abbattere la moneta unica europea è infatti solo uno di 23 possibili spunti d'investimento messi nel menù della serata: si parla anche di scommettere sul rialzo del dollaro canadese e della Philip Morris, e di trafiggere con «put» al ribasso la Bank of America e la Wells Fargo.
Ma che la distruzione dell'euro non rappresenti un'idea qualunque lo dimostra il fatto che, una settimana dopo la cena, raccontata per la prima volta dal Wall Street Journal, il dipartimento della Giustizia americano ha chiesto ad alcuni dei fondi presenti di non distruggere alcuna transazione delle loro scommesse contro l'euro. Non si tratta ancora dell'apertura di un'indagine formale, ma quasi. A differenza di quel che si pensa, infatti, i raider degli hedge fund adorano scambiarsi informazioni, perlomeno quelle che non violano i segreti più inconfessati li, come gli algoritmi che governano i loro computer.
Il consenso, quasi sempre transatlantico fra Wall Street e la City londinese, può essere persino utile perché porta a un effetto cartello che aumenta in modo esponenziale le possibilità di guadagno. Tutti sanno che la vera bravura non sta nell'identificare il bersaglio, ma nel colpirlo e affondarlo.
Si fa presto a determinare che scommettendo sul ribasso dell'euro si può fare l'affare della propria vita, ma l'importante è come costruire la propria puntata e quando metterla sul tavolo. Che la finanza ad alto rischio sia un grande casinò nessuno lo sa meglio dei presenti, a partire da Andy Monness, fondatore della boutique della finanza Monness, Crespi, Hardt and Co., che ha organizzato la cena
Lui che negli anni Settanta è stato addirittura costretto a dichiarare bancarotta dopo un azzardo clamorosamente sbagliato sulla Levitz, un gruppo produttore di mobili, ora è resuscitato tanto da chiamare a raccolta i titani delle borse. Ci sono gli emergenti come Donald Morgan di Brigade capital e David Einhorn, il quarantenne presidente di Greenlight capital: fu lui che, a fine 2008, intuì che la Lehman Brothers aveva scarse possibilità di sopravvivere e quindi scommise sulla discesa del titolo, accelerandone il fallimento.
A un tavolo, dove la scelta è caduta soprattutto sul pollo arrosto al profumo di limone, troneggiano gli uomini della Sac capital di Steven Cohen, 52 anni, l'eccentrico finanziere che tiene il suo trading floor alla temperatura costante di 21 gradi per impedire che qualcuno dei suoi 180 broker possa appisolarsi. Tra i maggiori collezionisti d'arte moderna, Cohen è famoso per avere comprato lo squalo in formaldeide di Damien Hirst, che ora ha prestato al Metropolitan Museum di New York. Tutt'altro stile è quello di John Paulson, il minuto ed enigmatico fondatore del Paulson and Co.
Dopo avere creato il suo fondo con 2 milioni di dollari nel 1994, Paulson lo ha portato a 12,5 miliardi all'inizio del 2007, che si sono trasformati in 32 miliardi ora: non c'è altro finanziere al mondo che abbia saputo approfittare meglio della recente grande crisi, anche grazie ai consigli del finanziere italiano Paolo Pellegrini, che fu il primo a prevedere l'imminente crollo del mercato immobiliare. Ora Paulson ha un patrimonio personale stimato attorno a 7 miliardi di dollari.
Ma gli occhi degli invitati sono tutti puntati sul manager che rappresenta George Soros, il quale ha sicuramente più dimestichezza di tutti nelle scommesse sulle valute: l'attacco del finanziere di origine ungherese alla sterlina nel 1992 gli portò in tasca 1 miliardo di dollari e costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi temporaneamente dallo Sme, il sistema monetario europeo. Nessuno crede realisticamente che Soros possa ripetere l'impresa con l'euro, la cui forza sul mercato è ben maggiore rispetto a quella della sterlina: circa 1.200 miliardi vengono scambiati ogni giorno nella moneta comune europea. Ma nella Banca centrale europea di Francoforte preoccupa, e non poco, la campagna di stampa che il vecchio finanziere sta conducendo contro l'euro (nello schema qui sopra i possibili effetti sui cittadini). In mancanza di una riforma politica, ha scritto Soros di recente sul Financial Times, ovvero se non si crea un Tesoro unico capace di agire sul piano fiscale a fianco della Bce, il dissolvimento della moneta unica europea è quasi certo.
Cosa che non significa necessariamente che lui punti per forza sul dollaro. Mentre a Davos, al World economic forum, parlava pubblicamente a fine gennaio dell'imminente bolla speculativa dell'oro, si è scoperto che nell'ultimo trimestre Soros ha raddoppiato le sue posizioni sul metallo giallo. Andy Cowen, il manager della Sac, è il primo a intervenire durante la cena dicendo che, secondo i suoi analisti, in qualsiasi modo finisca la crisi greca, l'euro è destinato comunque a uscirne indebolito.
Molti dei presenti hanno già fatto centinaia di milioni di dollari di guadagno sulla crisi di Atene comprando cds, i credit default swap, che rappresentano un'assicurazione sulla possibilità di bancarotta della Grecia. Ora quasi tutti hanno chiuso la loro esposizione sotto il Partenone e sono passati alla fase successiva della campagna di distruzione dell'economia europea, concentrandosi sulle incursioni contro l'euro.
«Voglio capire... voglio sapere chi ha fatto che cosa» ha detto al Financial Times il commissario Ue Michel Barnier. Pochi giorni dopo la cena alla Townhouse i future contro l'euro raggiungevano la cifra di 60 mila, la più alta mai toccata dal 1999. Ma nell'ultima settimana di febbraio anche quel record era già infranto. I future sono già più di 70 mila.
È guerra aperta: i fondi speculativi contro i governi dell'Eurozona. Più si fortificano le difese dell'Ue, più sfrontata diventa la sfida degli squali di Wall Street e della City londinese. Come nei conflitti armati vengono messi in azione per la prima vol- ta anche i servizi segreti.
Prima, l'Eyp greco, che svela la manovra congiunta degli hedge fund Brevan Howard, con sede a Londra, e di quelli americani Moore capital, Fidelity international, Pimco e soprattutto Paulson & Co. Anche a Madrid il governo socialista di José Luis Zapatero incarica il Cni di scoprire e neutralizzare chi punta a destabilizzare la Spagna. Suona l'allarme pure in largo Santa Susanna, a Roma, negli uffici romani del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza.
Proprio nell'ultima relazione al Parlamento sulle attività dell'intelligence italiana, resa nota a fine febbraio, il prefetto Gianni De Gennaro, direttore generale del Dis, ha messo nero su bianco a pagina 99: «Il dispositivo di intelligence sul versante economico-finanziario è stato significativamente potenziato, traducendosi in un volume di produzione informativa e di analisi secondo solo a quello sul terrorismo internazionale».
E mentre a Parigi il ministro del Tesoro Christine Lagarde afferma che «i derivati dovrebbero essere vigorosamente regolati o addirittura vietati», e in Lussemburgo il primo ministro Jean-Claude Junker, responsabile anche dell'Eurogruppo, minaccia di usare «strumenti di tortura» contro gli speculatori, a Berlino Angela Merkel ( che ha promesso di non dare neppure un euro alla Grecia) è fuori di sé dalla rabbia perché è convinta che anche le fughe di notizie sui progetti franco-tedesco- olandesi per salvare la Grecia (da 30 a 40 miliardi di euro) siano state pilotate dalle centrali speculative per mettere sotto pressione il governo tedesco portando nuovi soldi ai soliti noti.
A Roma, nei maestosi corridoi del ministero del Tesoro, nessuno sottovaluta le intenzioni degli speculatori tanto più che proprio Giulio Tremonti è stato il primo a sollevare già nel G8 di Osaka del 2008 la questione dei contratti speculativi richiedendo meccanismi obbligatori di controllo e di riequilibrio temporale delle posizioni di perdite e di guadagno così da limitare la formazione di bolle.
Ma a confortare il governo sono i più recenti rapporti delle grandi banche di affari e delle agenzie di rating che esprimono giudizi positivi sulla tenuta dei conti italiani. Non solo: contro coloro che agiscono per affossare l'euro Tremonti fa valere quello che ripete spesso in questi giorni: «Sulla base delle mie informazioni non esiste affatto una strategia imperiale del dollaro contro l'euro. Semmai una precisa strategia di Barack Obama contro le banche». Come dire che quella cena prima o poi potrebbe risultare più che indigesta.
di Pino Buongiorno e Marco De Martino
Quei politici pagati dalle banche
La scorsa settimana un’inchiesta del giornale Das Magazine ha denunciato che personaggi politici svizzeri fanno parte di commissioni bancarie che si riuniscono una o due volte l’anno e per le quali percepiscono anche 70 mila euro l’anno. Ma non si tratta di un compenso, piuttosto è un investimento che la banca fa per assicurarsi che costoro difendano, quando ce ne sia bisogno, i propri interessi in parlamento. Lo stesso fenomeno si riscontra un po’ dovunque in occidente, membri del parlamento britannico sono direttori onorari del consiglio d’amministrazione di molte banche. Negli Stati Uniti poi è normale che le cariche di stato più alte, come il ministro del tesoro ed il governatore della Riserva Federale, vadano ad ex banchieri di Wall Street, gente con alle spalle una brillante carriera nel settore privato. Naturalmente ciò crea un conflitto d’interessi che però, sebbene tutti conoscano, nessuno ha il coraggio di denunciare.
Il pericolo peggiore prodotto dal rapporto incestuoso tra settore privato e politica non è però la corruzione, che sicuramente esiste, nè il conflitto d’interessi, di cui abbiamo avuto prova con il crollo della Lehman Brothers ed il salvataggio della Aig, ma la perdita da parte dello stato di quella posizione di organismo super partes dalla quale perseguiva gli interessi della comunità e non quelli dei singoli gruppi. Gran parte degli squilibri economici degli ultimi vent’anni sono sicuramente relazionati a questo fenomeno. Basta ricordare la storia della Enron che pagò una grossa fetta della campagna elettorale di George W. Bush. In cambio ottenne la deregulation dell’industria elettrica in California. La speculazione selvaggia che seguì, però, porto questo stato sull’orlo della bancarotta e segnò la fine della Enron. Gli interessi delle lobby finanziarie molto spesso non coincidono con quelli delle nazioni perchè queste non hanno una visione di grand’angolo dell’economia come dovrebbero avere i politici, questa la lezione del fallimento della Enron.
Ci troviamo di fronte ad una situazione analoga, le lobby finanziarie occidentali sono riuscite ad evitare una riforma conservatrice della deregulation sfruttando quei legami “professionali” che hanno sapientemente creato con i politici negli ultimi vent’anni. Ciò significa che nulla è stato fatto per evitare che si formi un’altra bolla simile a quella dei muti subprime. Lo ha ricordato questa settimana l’ex braccio desto di Henry Paulson, Paolo Pellegrini, quando ha affermato che i problemi strutturali che hanno creato la grande recessione rimangono tutti irrisolti. Essenzialmente li abbiamo messi da parte indebitandoci ulteriormente. Per il momento la Cina sostiene la ripresa mondiale ma fino a quando potrà esportare in un mercato ormai saturo di prodotti? Lo squilibrio, secondo Pellegrini, continua a poggiare su un assunto surreale: l’occidente si indebita e consuma mentre ad oriente si risparmia e si produce. Se le cose non cambiano, dunque, dobbiamo prepararci per un’altra grande depressione.
di Loretta Napoleoni
09 marzo 2010
Sta per saltare il tappo
Nel Granducato di Curlandia stan succedendo delle cose assai curiose. Dei veri misteri gaudiosi. Ha cominciato un paio di mesi fa Pier Ferdinando Casini, politico di lungo corso, vecchia volpe, il quale, prendendo spunto dalla richiesta di arresto del sottosegretario Cosentino, poi puntualmente negata dalla Camera, aveva affermato: "La Prima Repubblica non è stata uccisa dai giudici di Mani Pulite, era già morta molto prima, quando si era chiusa in una difesa cieca della propria classe politica. Nel clima tempestoso di questi giorni una difesa assoluta e corporativa di tutto e di tutti ci metterà, prima o poi, in una situazione insostenibile nei confronti dell’opinione pubblica”.
Era un improvviso dietro front perché fino ad allora, da parte di tutto il centrodestra, le inchieste di Mani Pulite erano state considerate l’infamia delle infamie, colpevoli di "aver abbattuto, per via giudiziaria, un’intera classe politica" cui lo stesso Casini apparteneva. E Berlusconi, seguito da tutti i suoi, aveva addirittura dichiarato che Mani Pulite era stata "una guerra civile".
Adesso invece si ammette, da parte di Casini, che quelle inchieste avevano scoperchiato un marciume che ad un certo punto era diventato intollerabile per i cittadini. Pochi giorni fa il mellifluo Paolo Mieli ha dichiarato ad Annozero: "Come alla vigilia del 1992 sta per saltare il tappo".
Giuseppe Pisanu (Pdl), presidente dell’Antimafia ha detto: "La corruzione è dilagante, l’Italia può restarne schiacciata". Su Il Giornale Marcello Veneziani in un editoriale intitolato "Questione morale: pazienza (quasi) finita" scrive: "Ultima chiamata prima del baratro". E persino il vilissimo Vespa nella trasmissione di lunedì dedicata all’inchiesta di Firenze è stato un po’, solo un pochino, meno paraculo col Potere del suo solito.
Le più impressionanti sono le conversioni a U di Paolo Mieli e di Marcello Veneziani, due intellettuali che in questi quindici anni hanno avvallato tutte le Cirielli, le Cirami, le leggi “ad personam” e “ad personas”, i lodi Schifani e Alfani, il dimezzamento della prescrizione, per i reati di “lorsignori”, proprio mentre la durata dei processi, grazie anche alle leggi cosiddette “garantiste”, si allungavano e sono stati protagonisti di quella quotidiana, capillare, costante e devastante delegittimazione della magistratura italiana che ha finito per togliere ai rappresentanti della nostra classe dirigente, politica, amministrativa, imprenditoriale, quel poco di senso della legalità che gli era rimasto.
Tanto sapevano che, grazie ai vari marchingegni, non avrebbero mai pagato pegno, né penale né sociale. Mieli è stato complice attraverso i suoi editorialisti di punta, Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, scatenati contro i magistrati, "l’uso politico della giustizia", il "giustizialismo" (termine che, come il suo contraltare, il "garantismo", non ha alcun senso se riferito a un magistrato: il quale non può applicare la legge né in senso giustizialista né garantista, semplicemente la applica e se non lo fa, per dolo o colpa grave, va denunciato alla Procura della Repubblica competente).
Panebianco è arrivato a scrivere sul Corriere diretto da Mieli: "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" (Corriere, 16/3/95). Marcello Veneziani è stato protagonista in prima persona militando nel Pdl per designazione del quale, e non certo per le sue preclare virtù, ha acchiappato un posto di consigliere di amministrazione della Rai, per cui è grottesco che adesso faccia le lagne sui meriti mortificati, sulle affiliazioni partitiche, sul clientelismo. Chi sperano, costoro, di prendere per il culo? Tuttavia i contorsionismi di Mieli, di Veneziani e degli altri sono estremamente significativi.
Vuol dire che si stan rendendo conto che la gente che va in ufficio o in fabbrica o alza la claire della bottega alle sette del mattino e torna a casa la sera, più o meno alla stessa ora, stanca e scazzata, non ne può più, quale che sia il suo credo politico e ammesso che ce l’abbia (perché c’è un buon 30% di italiani che non si sente rappresentato da nessuno) comincia a non poterne più della corruzione, delle ruberie, dei soprusi, degli abusi, degli arbitri, della sistematica grassazione del denaro della collettività ad opera del sistema dei partiti, di destra e di sinistra, con i loro addentellati amministrativi e imprenditoriali proprio mentre la crisi economica la costringe a stringere la cinghia.
Non ne può più di vedere costoro che piazzano figli, nipoti e cognati in impieghi remunerativi mentre i loro figli fanno una fatica boia a trovarne uno a bassissimo reddito o non ce l’hanno. Ed è anche esasperata dalla pretesa di immunità che questa classe dirigente, Berlusconi in testa ma non solo, avanza per sé e che vuole rafforzare con la reintroduzione dell’immunità parlamentare, il divieto delle intercettazioni telefoniche, la truffa del "processo breve", i "legittimi impedimenti". Quindi i vari Mieli, Veneziani and company cercano di smarcarsi per tempo o, forse, fuori tempo massimo. Anche coloro che, soprattutto nel Pdl, affermano che non è una “nuova Tangentopoli” dimostrano di avere paura che ci sia, come nel 1992-94, una nuova esplosione del furore popolare. Naturalmente mentre qualcuno cerca di defilarsi e di mettere le mani avanti, altri non rinunciano ai soliti espedienti.
Berlusconi, dopo aver affermato che i magistrati di Firenze “dovrebbero vergognarsi”, ha definito “birbanti” gli inquisiti e gli arrestati di questa mandata (che è l’equivalente del “mariuolo” affibbiato da Craxi a Mario Chiesa, per dar ad intendere che si trattava di una mela marcia in un cesto di mele sanissime). Altri ancora parlano di singoli episodi mentre il professor Ernesto Galli della Loggia, nell’ennesimo tentativo di salvare i partiti, ha scritto su Il Corriere: “Non crederemo davvero che la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? La verità è che è l’Italia la causa della corruzione”.
È il collaudato trucco del “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”. In ogni caso la corruzione non sale dalla società verso i partiti, come sostiene il Galli della Loggia, ma è vero il contrario. In una democrazia corrotta i partiti comprano il consenso. E per comprarlo hanno bisogno di soldi, di corruzione, di tangenti, dell’uso a tappeto del clientelismo e dell’affiliazione paramafiosa. È così che la corruzione, discendendo giù per i rami, arriva alla società e la inquina. Il Galli della Loggia scova le radici della corruzione italiana "nella nostra storia profonda" e, dopo aver vissuto per settant’anni sulla luna e senza aver mai mosso un dito per contrastare l’andazzo, scopre "che cosa è diventato questo paese".
Per la verità senza andare a pescare nelle “radici della nostra storia profonda”, io ricordo, non dovendo andare poi troppo lontano, anche un’altra Italia che dovrebbe essere nota anche al Galli della Loggia che è più anziano di me. Nell’Italia dei Cinquanta e dei Sessanta l’onestà era un valore per tutti. Per la borghesia se non altro perché dava credito. Per il mondo contadino dove la classica stretta di mano valeva più di un contratto. E per il proletariato. E chi violava questi codici veniva inesorabilmente emarginato dalla propria comunità. E comunque se l’Italia si è ridotta come si è ridotta è anche grazie al professor Ernesto Galli della Loggia e a tutti gli intellettuali azzeccagarbugli che invece di cercare di chiarire le idee alla gente gliele confondono. La classe dirigente di questo paese sta ballando sull’orlo di un vulcano. E qualcuno se ne sta rendendo conto.
Non so se, alla fine, il vulcano erutterà. Non so nemmeno se augurarmelo. Perché ho il fondato sospetto che se ci fosse una nuova “rivoluzione italiana” finirebbe, come dopo Mani Pulite, che a coglierne i frutti non sarebbero coloro che si sono battuti per realizzarla, ma gli eterni Mieli, Veneziani, Galli della Loggia, Pisanu, Cicchitto, Casini o i loro discendenti politici, intellettuali o carnali. E come adesso ci tocca gridare, per disperazione, “aridatece Forlani”, allora saremo costretti a gridare, sempre per disperazione “aridatece Berlusconi”. Che almeno ci metteva la faccia e ogni tanto trovava anche qualcuno che gliela spaccava.
di Massimo Fini
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10 marzo 2010
Il più grande attacco valutario degli ultimi anni
La cena si è tenuta alla Townhouse, una sala privata ed esclusiva creata dal ristorante Park avenue winter al numero 100 sulla 63ª strada di Manhattan, quasi all'incrocio con Park avenue. In questa fascia dell'Upper east side, il quartiere prediletto dai miliardari newyorkesi, la sera si vedono solo domestici che portano a spasso cani che annusano le limousine nere parcheggiate in doppia fila.
Fuori si annuncia una tempesta di neve che, da lì a poche ore, immobilizzerà New York, ma dentro quella palazzina si progetta la tempesta finanziaria che nelle prossime settimane potrebbe sconvolgere ancora una volta l'economia globale.
Neppure Tom Wolfe, che nel Falò delle vanità fu il primo a raccontare i vezzi e la spietatezza dei raider di borsa americani, «i padroni dell'universo», come li chiamava lui, avrebbe mai potuto immaginare una cena come quella dello scorso lunedì 8 febbraio a New York.
Nella foto: La copertina del ”Der Spiegel” in edicola questa settimana
Sulle sedie color cioccolata siedono le migliori menti speculative americane, compresi gli emissari dei tre gestori di hedge fund più ricchi e potenti del mondo: George Soros, John Paulson e Steven Cohen. Ed è della loro prossima scommessa miliardaria che si discute mentre i camerieri fanno circolare lo champagne Krug e lo chef Craig Koketsu prepara il suo menu con pollo al limone e filet mignon.
Stavolta l'obiettivo è più grande del mercato immobiliare distrutto nel 2008. Per colpire la nuova preda nel mirino, l'euro, la moneta unica europea che tanti successi ha ottenuto durante la crisi internazionale contro il biglietto verde americano, ci vuole una strategia più sofisticata che permetta di giocare non solo sulla crisi della Grecia (300 miliardi di euro di debito sovrano e un deficit del 12,7 per cento rispetto al pil), ma anche su paesi di maggiore peso economico che i convitati giudicano vulnerabili. Il Portogallo, sì, ma è piccolo. L'Irlanda, va bene, ma siamo sempre lì.
La Spagna, certo, quella andrebbe bene. Già, sono i Pigs, maiali da mandare al macello, ridacchia qualcuno. E, perché no?, perché non provare ad azzannare addirittura l'Italia? Un paese finanziariamente più solido degli altri, ricorda uno dei commensali, ma politicamente così diviso che sarebbe facile da spolpare grazie a molti appoggi interni. Lì per lì, si inventa un nuovo acronimo Piigs (la doppia I sta per Irlanda e Italia). Già due giorni dopo, se ne approprierà la Cnn nel suo programma dedicato alla finanza.
Ai tavoli, dove, per accompagnare il filet mignon con costolettine brasate e verdure grigliate, è stato scelto un Montrachet d'annata, si approfondiscono strategie finanziarie come l'«Hong Kong double play». Sempre alla ricerca di riferimenti alle proprie imprese passate, i manager degli hedge fund si riferiscono alla doppia scommessa che tentarono durante la crisi delle economie asiatiche a cavallo tra il 1997 e il 1998.
Quella volta i raider fecero due scommesse contemporanee: una contro la borsa e l'altra contro il dollaro di Hong Kong, che sembrava resistere meglio alla crisi mentre, con effetto domino, si svalutavano tutte le monete della regione. Molti però ricordano bene che solo un intervento particolarmente tempestivo delle autorità di Hong Kong aveva sventato il loro tentativo di fare soldi abbattendo anche quella moneta.
Per portare l'euro alla parità col dollaro dalla soglia massima di dicembre di 1,51 euro contro 1 dollaro, in una discesa vertiginosa che potrebbe rappresentare il colpaccio di una vita, ristabilendo il primato finanziario degli Stati Uniti, dovrà essere usata una versione riveduta e aggiornata di quella stretta mortale. I lavori, per la verità, sono già in corso da tempo: a novembre i mercati davano la possibilità di una tale discesa del dollaro a 33 a 1.
Oggi le puntate vengono accettate a 14 a 1. Quello che agli occhi dei comuni mortali potrebbe sembrare un complotto, nel linguaggio dei manager degli hedge fund ha un nome molto più rispettabile: «Idea dinner», una sorta di brain storming della speculazione. Abbattere la moneta unica europea è infatti solo uno di 23 possibili spunti d'investimento messi nel menù della serata: si parla anche di scommettere sul rialzo del dollaro canadese e della Philip Morris, e di trafiggere con «put» al ribasso la Bank of America e la Wells Fargo.
Ma che la distruzione dell'euro non rappresenti un'idea qualunque lo dimostra il fatto che, una settimana dopo la cena, raccontata per la prima volta dal Wall Street Journal, il dipartimento della Giustizia americano ha chiesto ad alcuni dei fondi presenti di non distruggere alcuna transazione delle loro scommesse contro l'euro. Non si tratta ancora dell'apertura di un'indagine formale, ma quasi. A differenza di quel che si pensa, infatti, i raider degli hedge fund adorano scambiarsi informazioni, perlomeno quelle che non violano i segreti più inconfessati li, come gli algoritmi che governano i loro computer.
Il consenso, quasi sempre transatlantico fra Wall Street e la City londinese, può essere persino utile perché porta a un effetto cartello che aumenta in modo esponenziale le possibilità di guadagno. Tutti sanno che la vera bravura non sta nell'identificare il bersaglio, ma nel colpirlo e affondarlo.
Si fa presto a determinare che scommettendo sul ribasso dell'euro si può fare l'affare della propria vita, ma l'importante è come costruire la propria puntata e quando metterla sul tavolo. Che la finanza ad alto rischio sia un grande casinò nessuno lo sa meglio dei presenti, a partire da Andy Monness, fondatore della boutique della finanza Monness, Crespi, Hardt and Co., che ha organizzato la cena
Lui che negli anni Settanta è stato addirittura costretto a dichiarare bancarotta dopo un azzardo clamorosamente sbagliato sulla Levitz, un gruppo produttore di mobili, ora è resuscitato tanto da chiamare a raccolta i titani delle borse. Ci sono gli emergenti come Donald Morgan di Brigade capital e David Einhorn, il quarantenne presidente di Greenlight capital: fu lui che, a fine 2008, intuì che la Lehman Brothers aveva scarse possibilità di sopravvivere e quindi scommise sulla discesa del titolo, accelerandone il fallimento.
A un tavolo, dove la scelta è caduta soprattutto sul pollo arrosto al profumo di limone, troneggiano gli uomini della Sac capital di Steven Cohen, 52 anni, l'eccentrico finanziere che tiene il suo trading floor alla temperatura costante di 21 gradi per impedire che qualcuno dei suoi 180 broker possa appisolarsi. Tra i maggiori collezionisti d'arte moderna, Cohen è famoso per avere comprato lo squalo in formaldeide di Damien Hirst, che ora ha prestato al Metropolitan Museum di New York. Tutt'altro stile è quello di John Paulson, il minuto ed enigmatico fondatore del Paulson and Co.
Dopo avere creato il suo fondo con 2 milioni di dollari nel 1994, Paulson lo ha portato a 12,5 miliardi all'inizio del 2007, che si sono trasformati in 32 miliardi ora: non c'è altro finanziere al mondo che abbia saputo approfittare meglio della recente grande crisi, anche grazie ai consigli del finanziere italiano Paolo Pellegrini, che fu il primo a prevedere l'imminente crollo del mercato immobiliare. Ora Paulson ha un patrimonio personale stimato attorno a 7 miliardi di dollari.
Ma gli occhi degli invitati sono tutti puntati sul manager che rappresenta George Soros, il quale ha sicuramente più dimestichezza di tutti nelle scommesse sulle valute: l'attacco del finanziere di origine ungherese alla sterlina nel 1992 gli portò in tasca 1 miliardo di dollari e costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi temporaneamente dallo Sme, il sistema monetario europeo. Nessuno crede realisticamente che Soros possa ripetere l'impresa con l'euro, la cui forza sul mercato è ben maggiore rispetto a quella della sterlina: circa 1.200 miliardi vengono scambiati ogni giorno nella moneta comune europea. Ma nella Banca centrale europea di Francoforte preoccupa, e non poco, la campagna di stampa che il vecchio finanziere sta conducendo contro l'euro (nello schema qui sopra i possibili effetti sui cittadini). In mancanza di una riforma politica, ha scritto Soros di recente sul Financial Times, ovvero se non si crea un Tesoro unico capace di agire sul piano fiscale a fianco della Bce, il dissolvimento della moneta unica europea è quasi certo.
Cosa che non significa necessariamente che lui punti per forza sul dollaro. Mentre a Davos, al World economic forum, parlava pubblicamente a fine gennaio dell'imminente bolla speculativa dell'oro, si è scoperto che nell'ultimo trimestre Soros ha raddoppiato le sue posizioni sul metallo giallo. Andy Cowen, il manager della Sac, è il primo a intervenire durante la cena dicendo che, secondo i suoi analisti, in qualsiasi modo finisca la crisi greca, l'euro è destinato comunque a uscirne indebolito.
Molti dei presenti hanno già fatto centinaia di milioni di dollari di guadagno sulla crisi di Atene comprando cds, i credit default swap, che rappresentano un'assicurazione sulla possibilità di bancarotta della Grecia. Ora quasi tutti hanno chiuso la loro esposizione sotto il Partenone e sono passati alla fase successiva della campagna di distruzione dell'economia europea, concentrandosi sulle incursioni contro l'euro.
«Voglio capire... voglio sapere chi ha fatto che cosa» ha detto al Financial Times il commissario Ue Michel Barnier. Pochi giorni dopo la cena alla Townhouse i future contro l'euro raggiungevano la cifra di 60 mila, la più alta mai toccata dal 1999. Ma nell'ultima settimana di febbraio anche quel record era già infranto. I future sono già più di 70 mila.
È guerra aperta: i fondi speculativi contro i governi dell'Eurozona. Più si fortificano le difese dell'Ue, più sfrontata diventa la sfida degli squali di Wall Street e della City londinese. Come nei conflitti armati vengono messi in azione per la prima vol- ta anche i servizi segreti.
Prima, l'Eyp greco, che svela la manovra congiunta degli hedge fund Brevan Howard, con sede a Londra, e di quelli americani Moore capital, Fidelity international, Pimco e soprattutto Paulson & Co. Anche a Madrid il governo socialista di José Luis Zapatero incarica il Cni di scoprire e neutralizzare chi punta a destabilizzare la Spagna. Suona l'allarme pure in largo Santa Susanna, a Roma, negli uffici romani del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza.
Proprio nell'ultima relazione al Parlamento sulle attività dell'intelligence italiana, resa nota a fine febbraio, il prefetto Gianni De Gennaro, direttore generale del Dis, ha messo nero su bianco a pagina 99: «Il dispositivo di intelligence sul versante economico-finanziario è stato significativamente potenziato, traducendosi in un volume di produzione informativa e di analisi secondo solo a quello sul terrorismo internazionale».
E mentre a Parigi il ministro del Tesoro Christine Lagarde afferma che «i derivati dovrebbero essere vigorosamente regolati o addirittura vietati», e in Lussemburgo il primo ministro Jean-Claude Junker, responsabile anche dell'Eurogruppo, minaccia di usare «strumenti di tortura» contro gli speculatori, a Berlino Angela Merkel ( che ha promesso di non dare neppure un euro alla Grecia) è fuori di sé dalla rabbia perché è convinta che anche le fughe di notizie sui progetti franco-tedesco- olandesi per salvare la Grecia (da 30 a 40 miliardi di euro) siano state pilotate dalle centrali speculative per mettere sotto pressione il governo tedesco portando nuovi soldi ai soliti noti.
A Roma, nei maestosi corridoi del ministero del Tesoro, nessuno sottovaluta le intenzioni degli speculatori tanto più che proprio Giulio Tremonti è stato il primo a sollevare già nel G8 di Osaka del 2008 la questione dei contratti speculativi richiedendo meccanismi obbligatori di controllo e di riequilibrio temporale delle posizioni di perdite e di guadagno così da limitare la formazione di bolle.
Ma a confortare il governo sono i più recenti rapporti delle grandi banche di affari e delle agenzie di rating che esprimono giudizi positivi sulla tenuta dei conti italiani. Non solo: contro coloro che agiscono per affossare l'euro Tremonti fa valere quello che ripete spesso in questi giorni: «Sulla base delle mie informazioni non esiste affatto una strategia imperiale del dollaro contro l'euro. Semmai una precisa strategia di Barack Obama contro le banche». Come dire che quella cena prima o poi potrebbe risultare più che indigesta.
di Pino Buongiorno e Marco De Martino
Quei politici pagati dalle banche
La scorsa settimana un’inchiesta del giornale Das Magazine ha denunciato che personaggi politici svizzeri fanno parte di commissioni bancarie che si riuniscono una o due volte l’anno e per le quali percepiscono anche 70 mila euro l’anno. Ma non si tratta di un compenso, piuttosto è un investimento che la banca fa per assicurarsi che costoro difendano, quando ce ne sia bisogno, i propri interessi in parlamento. Lo stesso fenomeno si riscontra un po’ dovunque in occidente, membri del parlamento britannico sono direttori onorari del consiglio d’amministrazione di molte banche. Negli Stati Uniti poi è normale che le cariche di stato più alte, come il ministro del tesoro ed il governatore della Riserva Federale, vadano ad ex banchieri di Wall Street, gente con alle spalle una brillante carriera nel settore privato. Naturalmente ciò crea un conflitto d’interessi che però, sebbene tutti conoscano, nessuno ha il coraggio di denunciare.
Il pericolo peggiore prodotto dal rapporto incestuoso tra settore privato e politica non è però la corruzione, che sicuramente esiste, nè il conflitto d’interessi, di cui abbiamo avuto prova con il crollo della Lehman Brothers ed il salvataggio della Aig, ma la perdita da parte dello stato di quella posizione di organismo super partes dalla quale perseguiva gli interessi della comunità e non quelli dei singoli gruppi. Gran parte degli squilibri economici degli ultimi vent’anni sono sicuramente relazionati a questo fenomeno. Basta ricordare la storia della Enron che pagò una grossa fetta della campagna elettorale di George W. Bush. In cambio ottenne la deregulation dell’industria elettrica in California. La speculazione selvaggia che seguì, però, porto questo stato sull’orlo della bancarotta e segnò la fine della Enron. Gli interessi delle lobby finanziarie molto spesso non coincidono con quelli delle nazioni perchè queste non hanno una visione di grand’angolo dell’economia come dovrebbero avere i politici, questa la lezione del fallimento della Enron.
Ci troviamo di fronte ad una situazione analoga, le lobby finanziarie occidentali sono riuscite ad evitare una riforma conservatrice della deregulation sfruttando quei legami “professionali” che hanno sapientemente creato con i politici negli ultimi vent’anni. Ciò significa che nulla è stato fatto per evitare che si formi un’altra bolla simile a quella dei muti subprime. Lo ha ricordato questa settimana l’ex braccio desto di Henry Paulson, Paolo Pellegrini, quando ha affermato che i problemi strutturali che hanno creato la grande recessione rimangono tutti irrisolti. Essenzialmente li abbiamo messi da parte indebitandoci ulteriormente. Per il momento la Cina sostiene la ripresa mondiale ma fino a quando potrà esportare in un mercato ormai saturo di prodotti? Lo squilibrio, secondo Pellegrini, continua a poggiare su un assunto surreale: l’occidente si indebita e consuma mentre ad oriente si risparmia e si produce. Se le cose non cambiano, dunque, dobbiamo prepararci per un’altra grande depressione.
di Loretta Napoleoni
09 marzo 2010
Sta per saltare il tappo
Nel Granducato di Curlandia stan succedendo delle cose assai curiose. Dei veri misteri gaudiosi. Ha cominciato un paio di mesi fa Pier Ferdinando Casini, politico di lungo corso, vecchia volpe, il quale, prendendo spunto dalla richiesta di arresto del sottosegretario Cosentino, poi puntualmente negata dalla Camera, aveva affermato: "La Prima Repubblica non è stata uccisa dai giudici di Mani Pulite, era già morta molto prima, quando si era chiusa in una difesa cieca della propria classe politica. Nel clima tempestoso di questi giorni una difesa assoluta e corporativa di tutto e di tutti ci metterà, prima o poi, in una situazione insostenibile nei confronti dell’opinione pubblica”.
Era un improvviso dietro front perché fino ad allora, da parte di tutto il centrodestra, le inchieste di Mani Pulite erano state considerate l’infamia delle infamie, colpevoli di "aver abbattuto, per via giudiziaria, un’intera classe politica" cui lo stesso Casini apparteneva. E Berlusconi, seguito da tutti i suoi, aveva addirittura dichiarato che Mani Pulite era stata "una guerra civile".
Adesso invece si ammette, da parte di Casini, che quelle inchieste avevano scoperchiato un marciume che ad un certo punto era diventato intollerabile per i cittadini. Pochi giorni fa il mellifluo Paolo Mieli ha dichiarato ad Annozero: "Come alla vigilia del 1992 sta per saltare il tappo".
Giuseppe Pisanu (Pdl), presidente dell’Antimafia ha detto: "La corruzione è dilagante, l’Italia può restarne schiacciata". Su Il Giornale Marcello Veneziani in un editoriale intitolato "Questione morale: pazienza (quasi) finita" scrive: "Ultima chiamata prima del baratro". E persino il vilissimo Vespa nella trasmissione di lunedì dedicata all’inchiesta di Firenze è stato un po’, solo un pochino, meno paraculo col Potere del suo solito.
Le più impressionanti sono le conversioni a U di Paolo Mieli e di Marcello Veneziani, due intellettuali che in questi quindici anni hanno avvallato tutte le Cirielli, le Cirami, le leggi “ad personam” e “ad personas”, i lodi Schifani e Alfani, il dimezzamento della prescrizione, per i reati di “lorsignori”, proprio mentre la durata dei processi, grazie anche alle leggi cosiddette “garantiste”, si allungavano e sono stati protagonisti di quella quotidiana, capillare, costante e devastante delegittimazione della magistratura italiana che ha finito per togliere ai rappresentanti della nostra classe dirigente, politica, amministrativa, imprenditoriale, quel poco di senso della legalità che gli era rimasto.
Tanto sapevano che, grazie ai vari marchingegni, non avrebbero mai pagato pegno, né penale né sociale. Mieli è stato complice attraverso i suoi editorialisti di punta, Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, scatenati contro i magistrati, "l’uso politico della giustizia", il "giustizialismo" (termine che, come il suo contraltare, il "garantismo", non ha alcun senso se riferito a un magistrato: il quale non può applicare la legge né in senso giustizialista né garantista, semplicemente la applica e se non lo fa, per dolo o colpa grave, va denunciato alla Procura della Repubblica competente).
Panebianco è arrivato a scrivere sul Corriere diretto da Mieli: "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" (Corriere, 16/3/95). Marcello Veneziani è stato protagonista in prima persona militando nel Pdl per designazione del quale, e non certo per le sue preclare virtù, ha acchiappato un posto di consigliere di amministrazione della Rai, per cui è grottesco che adesso faccia le lagne sui meriti mortificati, sulle affiliazioni partitiche, sul clientelismo. Chi sperano, costoro, di prendere per il culo? Tuttavia i contorsionismi di Mieli, di Veneziani e degli altri sono estremamente significativi.
Vuol dire che si stan rendendo conto che la gente che va in ufficio o in fabbrica o alza la claire della bottega alle sette del mattino e torna a casa la sera, più o meno alla stessa ora, stanca e scazzata, non ne può più, quale che sia il suo credo politico e ammesso che ce l’abbia (perché c’è un buon 30% di italiani che non si sente rappresentato da nessuno) comincia a non poterne più della corruzione, delle ruberie, dei soprusi, degli abusi, degli arbitri, della sistematica grassazione del denaro della collettività ad opera del sistema dei partiti, di destra e di sinistra, con i loro addentellati amministrativi e imprenditoriali proprio mentre la crisi economica la costringe a stringere la cinghia.
Non ne può più di vedere costoro che piazzano figli, nipoti e cognati in impieghi remunerativi mentre i loro figli fanno una fatica boia a trovarne uno a bassissimo reddito o non ce l’hanno. Ed è anche esasperata dalla pretesa di immunità che questa classe dirigente, Berlusconi in testa ma non solo, avanza per sé e che vuole rafforzare con la reintroduzione dell’immunità parlamentare, il divieto delle intercettazioni telefoniche, la truffa del "processo breve", i "legittimi impedimenti". Quindi i vari Mieli, Veneziani and company cercano di smarcarsi per tempo o, forse, fuori tempo massimo. Anche coloro che, soprattutto nel Pdl, affermano che non è una “nuova Tangentopoli” dimostrano di avere paura che ci sia, come nel 1992-94, una nuova esplosione del furore popolare. Naturalmente mentre qualcuno cerca di defilarsi e di mettere le mani avanti, altri non rinunciano ai soliti espedienti.
Berlusconi, dopo aver affermato che i magistrati di Firenze “dovrebbero vergognarsi”, ha definito “birbanti” gli inquisiti e gli arrestati di questa mandata (che è l’equivalente del “mariuolo” affibbiato da Craxi a Mario Chiesa, per dar ad intendere che si trattava di una mela marcia in un cesto di mele sanissime). Altri ancora parlano di singoli episodi mentre il professor Ernesto Galli della Loggia, nell’ennesimo tentativo di salvare i partiti, ha scritto su Il Corriere: “Non crederemo davvero che la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? La verità è che è l’Italia la causa della corruzione”.
È il collaudato trucco del “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”. In ogni caso la corruzione non sale dalla società verso i partiti, come sostiene il Galli della Loggia, ma è vero il contrario. In una democrazia corrotta i partiti comprano il consenso. E per comprarlo hanno bisogno di soldi, di corruzione, di tangenti, dell’uso a tappeto del clientelismo e dell’affiliazione paramafiosa. È così che la corruzione, discendendo giù per i rami, arriva alla società e la inquina. Il Galli della Loggia scova le radici della corruzione italiana "nella nostra storia profonda" e, dopo aver vissuto per settant’anni sulla luna e senza aver mai mosso un dito per contrastare l’andazzo, scopre "che cosa è diventato questo paese".
Per la verità senza andare a pescare nelle “radici della nostra storia profonda”, io ricordo, non dovendo andare poi troppo lontano, anche un’altra Italia che dovrebbe essere nota anche al Galli della Loggia che è più anziano di me. Nell’Italia dei Cinquanta e dei Sessanta l’onestà era un valore per tutti. Per la borghesia se non altro perché dava credito. Per il mondo contadino dove la classica stretta di mano valeva più di un contratto. E per il proletariato. E chi violava questi codici veniva inesorabilmente emarginato dalla propria comunità. E comunque se l’Italia si è ridotta come si è ridotta è anche grazie al professor Ernesto Galli della Loggia e a tutti gli intellettuali azzeccagarbugli che invece di cercare di chiarire le idee alla gente gliele confondono. La classe dirigente di questo paese sta ballando sull’orlo di un vulcano. E qualcuno se ne sta rendendo conto.
Non so se, alla fine, il vulcano erutterà. Non so nemmeno se augurarmelo. Perché ho il fondato sospetto che se ci fosse una nuova “rivoluzione italiana” finirebbe, come dopo Mani Pulite, che a coglierne i frutti non sarebbero coloro che si sono battuti per realizzarla, ma gli eterni Mieli, Veneziani, Galli della Loggia, Pisanu, Cicchitto, Casini o i loro discendenti politici, intellettuali o carnali. E come adesso ci tocca gridare, per disperazione, “aridatece Forlani”, allora saremo costretti a gridare, sempre per disperazione “aridatece Berlusconi”. Che almeno ci metteva la faccia e ogni tanto trovava anche qualcuno che gliela spaccava.
di Massimo Fini
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