12 marzo 2010

Le fragilità dell' impero americano

Per secoli gli storici, i teorici della politica, gli antropologi - ma anche la gente comune - hanno perlopiù pensato ai processi politici in termini ciclici. Le grandi potenze, come i grandi uomini, nascono, crescono, dominano e poi lentamente scompaiono. Il declino delle civiltà di solito si protrae per un lungo periodo. Anche le sfide che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sono spesso viste come processi graduali. È la tendenza costante del fattore demografico - che fa salire la quota dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi -, non una cattiva politica a condannare la finanza pubblica degli Stati Uniti a sprofondare nei debiti. È l' inesorabile crescita dell' economia cinese, non la stagnazione americana, a far sì che il Pil della Repubblica Popolare supererà quello degli Stati Uniti entro il 2027. Che cosa succederebbe, però, se la storia non fosse ciclica né si muovesse solo lentamente, ma avesse un andamento irregolare - a tratti quasi immobile, ma anche capace di improvvise accelerazioni? E se il crollo non si verificasse dopo secoli, ma arrivasse all' improvviso? Le grandi potenze sono sistemi complessi, fatti di un gran numero di componenti che interagiscono tra di loro. Il loro modo di funzionare si colloca tra l' ordine e il disordine. Per un certo periodo di tempo sembrano procedere in maniera stabile, sembrano aver trovato un equilibrio, ma in realtà continuano ad adattarsi. Poi arriva un momento in cui i sistemi complessi entrano in crisi. Una spinta anche modesta può innescare il passaggio da uno stato di proficuo equilibrio a uno di crisi. Poco dopo il verificarsi di una crisi del genere entrano in scena gli storici. Che però, nel decodificare questi eventi, spesso ne valutano male la complessità. Sono addestrati a spiegare le calamità ricercando cause di lungo periodo, magari lontane decenni. In realtà la maggior parte dei fenomeni anomali che gli storici studiano non sono il culmine di un processo lungo e deterministico, ma piuttosto sconvolgimenti, a volte il crollo completo, di sistemi complessi. Tutti i sistemi complessi hanno alcune caratteristiche in comune. In un sistema del genere, ad esempio, una minima variazione, uno shock relativamente piccolo, possono produrre cambiamenti enormi, spesso imprevisti. Perciò, quando in un sistema complesso le cose vanno male, l' entità dello sconvolgimento è quasi impossibile da prevedere. Tutte le grandi entità politiche sono sistemi complessi. La maggior parte degli imperi hanno un' autorità centrale nominale - un imperatore ereditario o un presidente eletto -, ma in realtà il potere di ogni singolo governante è funzione di una rete di relazioni economiche, sociali e politiche sulle quali lui o lei esercita il suo controllo. Sotto questo profilo gli imperi mostrano molte delle caratteristiche di altri sistemi complessi e adattabili, tra cui la tendenza a passare molto rapidamente dalla stabilità all' instabilità. L' esempio più recente e noto di rapido declino è il crollo dell' Unione Sovietica. Col senno del poi, gli storici hanno individuato ogni genere di marciume nel sistema sovietico, fino all' era Breznev e oltre. Allora però non sembrava fosse così. L' arsenale nucleare dei sovietici era più grande di quello degli Stati Uniti, e i governi di quello che allora era chiamato il Terzo Mondo in quasi tutti i 20 anni precedenti si erano schierati dalla parte dei sovietici. Eppure, meno di cinque anni dopo l' ascesa al potere di Gorbaciov, l' impero sovietico nell' Europa centro-orientale si sgretolò, e poco dopo, nel 1991, fu la volta della stessa Unione Sovietica. Se gli imperi sono sistemi complessi che prima o poi soccombono a crisi improvvise e catastrofiche, quali conseguenze dobbiamo trarne per gli Stati Uniti di oggi? Anzitutto che discutere degli stadi del declino è probabilmente una perdita di tempo. Uomini politici e cittadini dovrebbero preoccuparsi piuttosto di una caduta improvvisa e inaspettata. Inoltre, il crollo di un impero quasi sempre avviene in seguito a una crisi finanziaria. Quindi i campanelli d' allarme dovrebbero suonare molto forte visto che gli Stati Uniti prevedono di avere un deficit di più di 1.500 miliardi di dollari nel 2010, il più alto dopo la Seconda guerra mondiale. Questi numeri non sono buoni, ma nel campo della politica sono altrettanto importanti le percezioni. Nei periodi di crisi degli imperi non sono tanto le reali basi del potere a contare, quanto le attese sugli sviluppi futuri. Le cifre che abbiamo citato non possono da sole erodere la forza degli Stati Uniti, ma possono indebolire la fiducia che per tanto tempo gli americani hanno avuto nella capacità del loro Paese di superare qualsiasi crisi. Un giorno o l' altro una brutta notizia apparentemente casuale - magari un rapporto negativo di un' agenzia di rating - comparirà sulle prime pagine dei giornali in un periodo altrimenti abbastanza tranquillo, e all' improvviso non saranno più solo pochi addetti ai lavori a preoccuparsi della sostenibilità della politica fiscale degli Stati Uniti, ma chiunque, compresi gli investitori all' estero. È questo passaggio a essere fondamentale: un sistema complesso e adattabile è seriamente nei guai quando i suoi componenti perdono la fiducia nella sua capacità di rigenerarsi. La prossima fase della crisi attuale potrebbe incominciare quando la gente inizierà a mettere in discussione la credibilità delle radicali misure finanziarie e fiscali prese per risanare l' economia. Nessun tasso a interesse zero o stimolo finanziario potrà produrre un risanamento sostenibile se la gente, negli Stati Uniti e all' estero, deciderà collettivamente, da un giorno all' altro, che queste misure alla fine porteranno a tassi di inflazione molto più alti o a un vero e proprio crollo. Combattere una battaglia perdente sulle montagne dell' Hindu Kush è già stato il segno premonitore della caduta dell' impero sovietico. Quel che è avvenuto 20 anni fa dovrebbe ricordarci che gli imperi non nascono, si sviluppano, dominano, entrano in declino e cadono secondo un ciclo ricorrente e prevedibile. Gli imperi si comportano piuttosto come tutti i sistemi complessi adattabili. Restano per un certo periodo in apparente equilibrio e poi, improvvisamente, crollano. Washington, sei avvertita. (traduzione di Maria Sepa)

di Niall Ferguson

La guerra dei contadini

“La grande guerra dei contadini fu la prima rivoluzione sociale e nazionale della storia della Germania ma anche dell’Europa. I contadini tedeschi avevano anticipato i programmi rivoluzionari dei secoli seguenti. Avevano formulato la loro visione in un modo più ingenuo, ma anche più audace di quello che faranno le classi borghesi e proletarie dopo di loro. Avevano sollevato le fondamentali questioni dell’esistenza sociale e nazionale.”

W. Venohr, H. Diwald, S. Haffer in “Documente Deutschen Dasein: 1445 – 1945: 500 Jahre deutsche Nationalgeschichte“, Krefeld, Sinus Verlag, 1983.

I prodromi: la grande rivolta dei cavalieri

Si erano avuti diversi sintomi premonitori, come la predicazione del cosiddetto ‘Pifferaio di Niklashausen' del 1476; nel 1514 una rivolta della lega contadina dell'Armer Konrad (povero Corrado) viene sof­focata nel sangue da Ulrich von Württemberg . Già nel 1513 era nato nell’Alsazia meridionale il Bunschuh, letteralmente 'lega dello scapone’ - lo scarpone abbottonato dei contadini assurto a simbolo della rivolta che, iniziata come s’è detto in Alsazia, si propagherà nella Svevia,in Franconia, nella Germania centro-meridionale, nella Stiria, in Boemia e nel Tirolo. Ma i prodromi delle guerre contadine si hanno con la rivolta dei cavalieri, che decretò il colpo mortale per questo ceto ormai agonizzante.

Abbiamo già parlato della spaccatura che vede una parte della nobiltà schierarsi con i poveri e gli oppressi: è questo il caso della piccola aristocrazia rurale europea. In Italia essa è stata già piegata prima del 1500; nella Germania al principio del XVI secolo la piccola nobiltà era pronta a combattere per una radicale riforma della patria. Tutti quei nobili cavalieri che non avevano lasciato i loro castelli per mettersi al servizio dei vari potentati nei più svariati paesi, vivevano nella più grande povertà; come potevano assistere passi-al declino della loro influenza, alla miserevole vita che conducevano, mentre gli altri ceti - principi, grossi prelati e borghesi si arricchivano tirannegiando il contado? La storia medievale ci narra delle imprese dei cosiddetti Raubritter (cavalieri predoni) che in odio al clero e ai cittadini facoltosi, alla testa dei loro armigeri assaltavano e saccheggiavano conventi e cittadine sedi di ricchi mercati, imponendo pesanti balzelli ai mercanti che osavano far passare i loro carriaggi lungo le vie di comunicazicazione dominate dai loro castelli.

Ma l'unica speranza era un cambiamento radicale della società da attuarsi dopo la distruzione del ceto dominante e conseguente liberazione dell'Imperatore dall'influsso deleterio e dal parassitismo dei principi guelfi, del clero corrotto, degli usurai e dei vari Fugger, Welser, banchieri che tentavano già allora di monopolizzare il commercio; una salda cavalleria avrebbe difeso il nuovo Stato e costituito la sua classe dirigente.

L'ambizioso progetto crede di trovare in Martin Lutero ideologica dopo la pubblicazione del suo appello alla nobiltà tedesca (An den christlichen Adel deutscher Nation) , ma gli eventi vanificheranno anche quella speranza. Il tentativo dei cavalieri di sollevarsi contro i principi in nome d i tutto il popolo tedesco, del Vangelo e del Protestantesimo naufragragherà sanguinosamente per la défaillance dell'Imperatore, dell’alta nobiltà, della borghesia cittadina e non ultimo per il voltafaccia di Lutero che rimane abbarbicato al potere.

A guidare la rivolta troviamo il cavaliere-poeta Ulrich von Hutten e il suo amico Franz von Sickingen. Nell'estate del 1522 raccolgono un esercito di 5.000 fanti e 1.500 cavalieri, col quale battere i mercenari dei Vescovi di Treviri, Magonza e Colonia. Sickingen capiva che, senza una sollevazione popolare all'interno delle città, poco poteva contro le guarnite mura; ma la sua fiducia nei cittadini angariati dal regime curiale venne delusa durante l'assedio di Treviri. I borghesi dei ricchi centri commerciali avevano capito che i loro interessi si identificavano con quelli della cricca dominante e non lesinarono gli aiuti in danaro che permisero 1'arruolamento di altri mercenari, mentre i contadini che avevano seguito i cavalieri cominciavano a tornarsene ai cascinali. A Sickingen non rimase altra alternativa che quella di rinchiudersi nel suo castello di Landsstuhl, nell’illusoria speranza che altri rivoltosi accorressero in suo aiuto dalla Boemia e dalla Svizzera, ma invano. Nella primavera del 1523 un grande esercito con moderni cannoni sottopose ad un massiccio bombardamento i bastioni della cittadella che vennero sbriciolati da oltre 500 palle di pietra: lo stesso Sickingen venne mortalmente ferito e fece in tempo ad assistere alla capitolazione del suo maniero prima di spirare. Altri 26 castelli e borghi dei cavalieri rivoluzionari furono distrutti nei giorni successivi. Hutten si salvò con la fuga in Svizzera, ospitato da un certo Zwingli (che troveremo tra gli ideologi del movimento) e morì il 29 agosto 1523.

La guerra dei contadini del 1524-1526

Negli anni 1524-1526 si registrano numerose rivolte contadine in Germania che sfociano, all'inizio del 1525, in una vera guerra delle schiere contadine, contro gli eserciti mercenari dei diversi principati tedeschi.

Lutero mettendo alla berlina i preti indegni, aveva dato il segnale della rivolta; alcuni suoi seguaci, quali il predicatore Thomas Müntzer, Sebastian Lotzer, Ulrich Zwingli e altri, tengono prediche infuocate nei villaggi. Si formano le prime leghe contadine come quelle della Svevia che nel febbraio del 1525 sforna i “dodici articoli” nei quali si richiede la libera elezione dei parroci nei comuni rurali, la consegna delle decime in natura direttamente alle parrocchie locali, una riforma della giustizia che consenta la reintroduzione nei processi giudiziari dell’antico diritto germanico e l’abolizione dell’incomprensibile diritto romano, infine la restituzione ai contadini, da parte dei Signori, dei terreni comunitari costituenti l’Allmende. Si costituiscono bande armate come l'Odenwälder Hau,fèn organizzata dall’oste Georg Metzler e comandata da Wendel Hipler, ex segretario di corte del Principe Hohenhohe, lo Schwarzer Haufen (il battaglione nero) guidato dall’ex condottiero di lanzichenecchi Florian Geyer; nella zona di Francoforte operava un gruppo capitanato dal celebre cavaliere Götz von Berlichingen; l'intera Turingia era nelle mani delle bande condotte da Thomas Müntzer.

In Alsazia e nel monastero di Bamberga i 12 articoli vennero accettati, altrove vengono imposti con la forza: conventi, chiese, borghi e città subiscono saccheggi ma, tranne che nella cittadella di Weisberg che aveva resistito a lungo, non ci furono eccessi da parte dei rivoltosi; la città di Heillbronn si consegna spontaneamente. Un contemporaneo dell'epoca informa da Trento che 300.000 contadini avevano aderito alle leghe, ma tra loro militavano pure minatori, proletari cittadini, nobili spiantati, lanzichenecchi, preti spretati e monaci smonacati. «Un odio quasi incomprensile per tutto ciò che finora è stato sacro per loro, un furore bestiale di distruzione verso chiostri e chiese, la profanazione delle suppellettili e degli usi liturgici, la derisione e il maltrattamento di preti, monaci e monache, inoltre la distruzione delle biblioteche - tutto _ mostra come i contadini considerino questa antica civiltà, in cui sono vissuti per secoli, come qualcosa di estraneo, a loro nemico”. Rimane l'infantile fiducia nella figura dell'Imperatore che ormai è troppo debole per imporre una pacificazione fra i principi e i suoi sudditi.

La reazione non si fece attendere: vennero arruolati anche mer­cenari stranieri - croati, ungheresi e perfino albanesi e si scatenò la vendetta dell'alto clero e dell'aristocrazia guelfa. I contadini, inferiori per armamento e addestramento, vengono sconfitti dai soldati di professione, anche per la frantumazione e la scarsa coordinazione delle bande ribelli. Nella battaglia di Frankenhausen in Turingia, combattuta il 15 maggio 1525, fu catturato Thomas Müntzer e subito eliminato. Altre battaglie perdute dalle bande contadine: quella del 12 maggio a Sindelfingen, a Zabern (Austria), il 16 maggio, a Königshofen in Franconia il 2 giugno, a Schwaz in Tirolo nel 1526; Florian Geyer muore presso Schwäbischhall, ma il suo nome rivive in numerose ballate e marce militari. In un anno la rivolta contadina della Germania meridionale fu soffocata nel sangue, con inumana ferocia, con distruzioni e saccheggi, con la tipica spietatezza che caratterizza gli anni della ‘Santa Inquisizione’. Queste le cifre: 80.000 giustiziati, 50.000 tagli della mano con la quale i villici avevano giurato, 35.000 accecati; istruttivo l’onorario presentato da un boia della Franconia per le sue ‘prestazioni’: 80 decapitazioni, 165 accecamenti, 532 tagli della mano! Si strapparono pure molte lingue a quanti avevano fatto propaganda rivoluzionaria.

Le cause

Dall’evoluzione del sistema feudale si andavano formando i primi elementi dell'economia capitalistica per un elevato grado di accumulazione di capitale commerciale e di capitale usuraio. Si assiste in quegli anni alla riapertura delle miniere e al tentativo di grandi società minerarie bavaresi capitanate dai Fugger, dai Welser, dagli Hochstetter e dai Baumgartner, di assicurarsene lo sfruttamento. La ricchezza cresce in misura mai vista, ma essa è nelle mani della grossa nobiltà e del ceto mercantile cittadino; nelle campagne invece, accanto a pochi contadini benestanti crescono quelli poveri e i non liberi ma soprattutto si accresce la massa dei senza terra che sotto l’incalzare dell'usura delle città hanno perduto i campi che una volta coltivavano: gli espropri ai danni dei contadini e la miseria dei piccoli artigiani crea grandi proprietari da un lato e declassati dall'altro; accanto a questo fenomeno vi è l'impoverimento della nobiltà rurale minore, erede della primitiva aristocrazia germanica e dei cavalieri, molti dei quali si mettono alla testa dei rustici in rivolta. Se a ciò si aggiunge la corruzione del clero romano che porta alla crisi confessionale, sfociata nella ribellione di Lutero, si comprenderanno appieno i motivi che portano alla più grande rivolta del XVI secolo. L’adesione formale dei e dei contadini al Protestantesimo è solo l'accentuazione del tentativo di liberarsi dalla tutela del Vaticano e soprattutto dall’aborrito Diritto Romano: il Los von Rom di allora era causato dall’identificazione del Diritto Romano e del Cattolicesimo corrotto e intollerante, con i suoi corollari di papismo, clericalismo e gesuitismo con la ‘Romanità’.

La condanna delle rivolte contadine da parte di Lutero si articola fra il 1523 e il 1525, in un profluvio di libelli e opuscoli tra cui le Lettere ai Principi di Sassonia sullo spirito sedizioso del luglio 1524; l’Esortazione alla pace in risposta ai dodici articoli dei contadini svevi dell’aprile del 1525; ed infine lo scritto Contro le bande omicide e saccheggiatrici dei contadini del maggio 1525, nel quale spicca un invocazione tanto violenta e decisa da non lasciar adito a dubbi sulla sua interpretazione: “Signori, liberateci, sterminate, e colui che ha il potere agisca.” Con questa esortazione sanguinaria il luteranesimo consolida la propria alleanza con i principi territoriali tedeschi.

Da G. Ciola, A. Colla, C. Mutti, T. Mudry “Rivolte e guerre contadine” Società Editrice Barbarossa, Milano, 1994



di Harm Wulf

11 marzo 2010

Il potere irresponsabile


Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.


Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
di MASSIMO GIANNINI

12 marzo 2010

Le fragilità dell' impero americano

Per secoli gli storici, i teorici della politica, gli antropologi - ma anche la gente comune - hanno perlopiù pensato ai processi politici in termini ciclici. Le grandi potenze, come i grandi uomini, nascono, crescono, dominano e poi lentamente scompaiono. Il declino delle civiltà di solito si protrae per un lungo periodo. Anche le sfide che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sono spesso viste come processi graduali. È la tendenza costante del fattore demografico - che fa salire la quota dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi -, non una cattiva politica a condannare la finanza pubblica degli Stati Uniti a sprofondare nei debiti. È l' inesorabile crescita dell' economia cinese, non la stagnazione americana, a far sì che il Pil della Repubblica Popolare supererà quello degli Stati Uniti entro il 2027. Che cosa succederebbe, però, se la storia non fosse ciclica né si muovesse solo lentamente, ma avesse un andamento irregolare - a tratti quasi immobile, ma anche capace di improvvise accelerazioni? E se il crollo non si verificasse dopo secoli, ma arrivasse all' improvviso? Le grandi potenze sono sistemi complessi, fatti di un gran numero di componenti che interagiscono tra di loro. Il loro modo di funzionare si colloca tra l' ordine e il disordine. Per un certo periodo di tempo sembrano procedere in maniera stabile, sembrano aver trovato un equilibrio, ma in realtà continuano ad adattarsi. Poi arriva un momento in cui i sistemi complessi entrano in crisi. Una spinta anche modesta può innescare il passaggio da uno stato di proficuo equilibrio a uno di crisi. Poco dopo il verificarsi di una crisi del genere entrano in scena gli storici. Che però, nel decodificare questi eventi, spesso ne valutano male la complessità. Sono addestrati a spiegare le calamità ricercando cause di lungo periodo, magari lontane decenni. In realtà la maggior parte dei fenomeni anomali che gli storici studiano non sono il culmine di un processo lungo e deterministico, ma piuttosto sconvolgimenti, a volte il crollo completo, di sistemi complessi. Tutti i sistemi complessi hanno alcune caratteristiche in comune. In un sistema del genere, ad esempio, una minima variazione, uno shock relativamente piccolo, possono produrre cambiamenti enormi, spesso imprevisti. Perciò, quando in un sistema complesso le cose vanno male, l' entità dello sconvolgimento è quasi impossibile da prevedere. Tutte le grandi entità politiche sono sistemi complessi. La maggior parte degli imperi hanno un' autorità centrale nominale - un imperatore ereditario o un presidente eletto -, ma in realtà il potere di ogni singolo governante è funzione di una rete di relazioni economiche, sociali e politiche sulle quali lui o lei esercita il suo controllo. Sotto questo profilo gli imperi mostrano molte delle caratteristiche di altri sistemi complessi e adattabili, tra cui la tendenza a passare molto rapidamente dalla stabilità all' instabilità. L' esempio più recente e noto di rapido declino è il crollo dell' Unione Sovietica. Col senno del poi, gli storici hanno individuato ogni genere di marciume nel sistema sovietico, fino all' era Breznev e oltre. Allora però non sembrava fosse così. L' arsenale nucleare dei sovietici era più grande di quello degli Stati Uniti, e i governi di quello che allora era chiamato il Terzo Mondo in quasi tutti i 20 anni precedenti si erano schierati dalla parte dei sovietici. Eppure, meno di cinque anni dopo l' ascesa al potere di Gorbaciov, l' impero sovietico nell' Europa centro-orientale si sgretolò, e poco dopo, nel 1991, fu la volta della stessa Unione Sovietica. Se gli imperi sono sistemi complessi che prima o poi soccombono a crisi improvvise e catastrofiche, quali conseguenze dobbiamo trarne per gli Stati Uniti di oggi? Anzitutto che discutere degli stadi del declino è probabilmente una perdita di tempo. Uomini politici e cittadini dovrebbero preoccuparsi piuttosto di una caduta improvvisa e inaspettata. Inoltre, il crollo di un impero quasi sempre avviene in seguito a una crisi finanziaria. Quindi i campanelli d' allarme dovrebbero suonare molto forte visto che gli Stati Uniti prevedono di avere un deficit di più di 1.500 miliardi di dollari nel 2010, il più alto dopo la Seconda guerra mondiale. Questi numeri non sono buoni, ma nel campo della politica sono altrettanto importanti le percezioni. Nei periodi di crisi degli imperi non sono tanto le reali basi del potere a contare, quanto le attese sugli sviluppi futuri. Le cifre che abbiamo citato non possono da sole erodere la forza degli Stati Uniti, ma possono indebolire la fiducia che per tanto tempo gli americani hanno avuto nella capacità del loro Paese di superare qualsiasi crisi. Un giorno o l' altro una brutta notizia apparentemente casuale - magari un rapporto negativo di un' agenzia di rating - comparirà sulle prime pagine dei giornali in un periodo altrimenti abbastanza tranquillo, e all' improvviso non saranno più solo pochi addetti ai lavori a preoccuparsi della sostenibilità della politica fiscale degli Stati Uniti, ma chiunque, compresi gli investitori all' estero. È questo passaggio a essere fondamentale: un sistema complesso e adattabile è seriamente nei guai quando i suoi componenti perdono la fiducia nella sua capacità di rigenerarsi. La prossima fase della crisi attuale potrebbe incominciare quando la gente inizierà a mettere in discussione la credibilità delle radicali misure finanziarie e fiscali prese per risanare l' economia. Nessun tasso a interesse zero o stimolo finanziario potrà produrre un risanamento sostenibile se la gente, negli Stati Uniti e all' estero, deciderà collettivamente, da un giorno all' altro, che queste misure alla fine porteranno a tassi di inflazione molto più alti o a un vero e proprio crollo. Combattere una battaglia perdente sulle montagne dell' Hindu Kush è già stato il segno premonitore della caduta dell' impero sovietico. Quel che è avvenuto 20 anni fa dovrebbe ricordarci che gli imperi non nascono, si sviluppano, dominano, entrano in declino e cadono secondo un ciclo ricorrente e prevedibile. Gli imperi si comportano piuttosto come tutti i sistemi complessi adattabili. Restano per un certo periodo in apparente equilibrio e poi, improvvisamente, crollano. Washington, sei avvertita. (traduzione di Maria Sepa)

di Niall Ferguson

La guerra dei contadini

“La grande guerra dei contadini fu la prima rivoluzione sociale e nazionale della storia della Germania ma anche dell’Europa. I contadini tedeschi avevano anticipato i programmi rivoluzionari dei secoli seguenti. Avevano formulato la loro visione in un modo più ingenuo, ma anche più audace di quello che faranno le classi borghesi e proletarie dopo di loro. Avevano sollevato le fondamentali questioni dell’esistenza sociale e nazionale.”

W. Venohr, H. Diwald, S. Haffer in “Documente Deutschen Dasein: 1445 – 1945: 500 Jahre deutsche Nationalgeschichte“, Krefeld, Sinus Verlag, 1983.

I prodromi: la grande rivolta dei cavalieri

Si erano avuti diversi sintomi premonitori, come la predicazione del cosiddetto ‘Pifferaio di Niklashausen' del 1476; nel 1514 una rivolta della lega contadina dell'Armer Konrad (povero Corrado) viene sof­focata nel sangue da Ulrich von Württemberg . Già nel 1513 era nato nell’Alsazia meridionale il Bunschuh, letteralmente 'lega dello scapone’ - lo scarpone abbottonato dei contadini assurto a simbolo della rivolta che, iniziata come s’è detto in Alsazia, si propagherà nella Svevia,in Franconia, nella Germania centro-meridionale, nella Stiria, in Boemia e nel Tirolo. Ma i prodromi delle guerre contadine si hanno con la rivolta dei cavalieri, che decretò il colpo mortale per questo ceto ormai agonizzante.

Abbiamo già parlato della spaccatura che vede una parte della nobiltà schierarsi con i poveri e gli oppressi: è questo il caso della piccola aristocrazia rurale europea. In Italia essa è stata già piegata prima del 1500; nella Germania al principio del XVI secolo la piccola nobiltà era pronta a combattere per una radicale riforma della patria. Tutti quei nobili cavalieri che non avevano lasciato i loro castelli per mettersi al servizio dei vari potentati nei più svariati paesi, vivevano nella più grande povertà; come potevano assistere passi-al declino della loro influenza, alla miserevole vita che conducevano, mentre gli altri ceti - principi, grossi prelati e borghesi si arricchivano tirannegiando il contado? La storia medievale ci narra delle imprese dei cosiddetti Raubritter (cavalieri predoni) che in odio al clero e ai cittadini facoltosi, alla testa dei loro armigeri assaltavano e saccheggiavano conventi e cittadine sedi di ricchi mercati, imponendo pesanti balzelli ai mercanti che osavano far passare i loro carriaggi lungo le vie di comunicazicazione dominate dai loro castelli.

Ma l'unica speranza era un cambiamento radicale della società da attuarsi dopo la distruzione del ceto dominante e conseguente liberazione dell'Imperatore dall'influsso deleterio e dal parassitismo dei principi guelfi, del clero corrotto, degli usurai e dei vari Fugger, Welser, banchieri che tentavano già allora di monopolizzare il commercio; una salda cavalleria avrebbe difeso il nuovo Stato e costituito la sua classe dirigente.

L'ambizioso progetto crede di trovare in Martin Lutero ideologica dopo la pubblicazione del suo appello alla nobiltà tedesca (An den christlichen Adel deutscher Nation) , ma gli eventi vanificheranno anche quella speranza. Il tentativo dei cavalieri di sollevarsi contro i principi in nome d i tutto il popolo tedesco, del Vangelo e del Protestantesimo naufragragherà sanguinosamente per la défaillance dell'Imperatore, dell’alta nobiltà, della borghesia cittadina e non ultimo per il voltafaccia di Lutero che rimane abbarbicato al potere.

A guidare la rivolta troviamo il cavaliere-poeta Ulrich von Hutten e il suo amico Franz von Sickingen. Nell'estate del 1522 raccolgono un esercito di 5.000 fanti e 1.500 cavalieri, col quale battere i mercenari dei Vescovi di Treviri, Magonza e Colonia. Sickingen capiva che, senza una sollevazione popolare all'interno delle città, poco poteva contro le guarnite mura; ma la sua fiducia nei cittadini angariati dal regime curiale venne delusa durante l'assedio di Treviri. I borghesi dei ricchi centri commerciali avevano capito che i loro interessi si identificavano con quelli della cricca dominante e non lesinarono gli aiuti in danaro che permisero 1'arruolamento di altri mercenari, mentre i contadini che avevano seguito i cavalieri cominciavano a tornarsene ai cascinali. A Sickingen non rimase altra alternativa che quella di rinchiudersi nel suo castello di Landsstuhl, nell’illusoria speranza che altri rivoltosi accorressero in suo aiuto dalla Boemia e dalla Svizzera, ma invano. Nella primavera del 1523 un grande esercito con moderni cannoni sottopose ad un massiccio bombardamento i bastioni della cittadella che vennero sbriciolati da oltre 500 palle di pietra: lo stesso Sickingen venne mortalmente ferito e fece in tempo ad assistere alla capitolazione del suo maniero prima di spirare. Altri 26 castelli e borghi dei cavalieri rivoluzionari furono distrutti nei giorni successivi. Hutten si salvò con la fuga in Svizzera, ospitato da un certo Zwingli (che troveremo tra gli ideologi del movimento) e morì il 29 agosto 1523.

La guerra dei contadini del 1524-1526

Negli anni 1524-1526 si registrano numerose rivolte contadine in Germania che sfociano, all'inizio del 1525, in una vera guerra delle schiere contadine, contro gli eserciti mercenari dei diversi principati tedeschi.

Lutero mettendo alla berlina i preti indegni, aveva dato il segnale della rivolta; alcuni suoi seguaci, quali il predicatore Thomas Müntzer, Sebastian Lotzer, Ulrich Zwingli e altri, tengono prediche infuocate nei villaggi. Si formano le prime leghe contadine come quelle della Svevia che nel febbraio del 1525 sforna i “dodici articoli” nei quali si richiede la libera elezione dei parroci nei comuni rurali, la consegna delle decime in natura direttamente alle parrocchie locali, una riforma della giustizia che consenta la reintroduzione nei processi giudiziari dell’antico diritto germanico e l’abolizione dell’incomprensibile diritto romano, infine la restituzione ai contadini, da parte dei Signori, dei terreni comunitari costituenti l’Allmende. Si costituiscono bande armate come l'Odenwälder Hau,fèn organizzata dall’oste Georg Metzler e comandata da Wendel Hipler, ex segretario di corte del Principe Hohenhohe, lo Schwarzer Haufen (il battaglione nero) guidato dall’ex condottiero di lanzichenecchi Florian Geyer; nella zona di Francoforte operava un gruppo capitanato dal celebre cavaliere Götz von Berlichingen; l'intera Turingia era nelle mani delle bande condotte da Thomas Müntzer.

In Alsazia e nel monastero di Bamberga i 12 articoli vennero accettati, altrove vengono imposti con la forza: conventi, chiese, borghi e città subiscono saccheggi ma, tranne che nella cittadella di Weisberg che aveva resistito a lungo, non ci furono eccessi da parte dei rivoltosi; la città di Heillbronn si consegna spontaneamente. Un contemporaneo dell'epoca informa da Trento che 300.000 contadini avevano aderito alle leghe, ma tra loro militavano pure minatori, proletari cittadini, nobili spiantati, lanzichenecchi, preti spretati e monaci smonacati. «Un odio quasi incomprensile per tutto ciò che finora è stato sacro per loro, un furore bestiale di distruzione verso chiostri e chiese, la profanazione delle suppellettili e degli usi liturgici, la derisione e il maltrattamento di preti, monaci e monache, inoltre la distruzione delle biblioteche - tutto _ mostra come i contadini considerino questa antica civiltà, in cui sono vissuti per secoli, come qualcosa di estraneo, a loro nemico”. Rimane l'infantile fiducia nella figura dell'Imperatore che ormai è troppo debole per imporre una pacificazione fra i principi e i suoi sudditi.

La reazione non si fece attendere: vennero arruolati anche mer­cenari stranieri - croati, ungheresi e perfino albanesi e si scatenò la vendetta dell'alto clero e dell'aristocrazia guelfa. I contadini, inferiori per armamento e addestramento, vengono sconfitti dai soldati di professione, anche per la frantumazione e la scarsa coordinazione delle bande ribelli. Nella battaglia di Frankenhausen in Turingia, combattuta il 15 maggio 1525, fu catturato Thomas Müntzer e subito eliminato. Altre battaglie perdute dalle bande contadine: quella del 12 maggio a Sindelfingen, a Zabern (Austria), il 16 maggio, a Königshofen in Franconia il 2 giugno, a Schwaz in Tirolo nel 1526; Florian Geyer muore presso Schwäbischhall, ma il suo nome rivive in numerose ballate e marce militari. In un anno la rivolta contadina della Germania meridionale fu soffocata nel sangue, con inumana ferocia, con distruzioni e saccheggi, con la tipica spietatezza che caratterizza gli anni della ‘Santa Inquisizione’. Queste le cifre: 80.000 giustiziati, 50.000 tagli della mano con la quale i villici avevano giurato, 35.000 accecati; istruttivo l’onorario presentato da un boia della Franconia per le sue ‘prestazioni’: 80 decapitazioni, 165 accecamenti, 532 tagli della mano! Si strapparono pure molte lingue a quanti avevano fatto propaganda rivoluzionaria.

Le cause

Dall’evoluzione del sistema feudale si andavano formando i primi elementi dell'economia capitalistica per un elevato grado di accumulazione di capitale commerciale e di capitale usuraio. Si assiste in quegli anni alla riapertura delle miniere e al tentativo di grandi società minerarie bavaresi capitanate dai Fugger, dai Welser, dagli Hochstetter e dai Baumgartner, di assicurarsene lo sfruttamento. La ricchezza cresce in misura mai vista, ma essa è nelle mani della grossa nobiltà e del ceto mercantile cittadino; nelle campagne invece, accanto a pochi contadini benestanti crescono quelli poveri e i non liberi ma soprattutto si accresce la massa dei senza terra che sotto l’incalzare dell'usura delle città hanno perduto i campi che una volta coltivavano: gli espropri ai danni dei contadini e la miseria dei piccoli artigiani crea grandi proprietari da un lato e declassati dall'altro; accanto a questo fenomeno vi è l'impoverimento della nobiltà rurale minore, erede della primitiva aristocrazia germanica e dei cavalieri, molti dei quali si mettono alla testa dei rustici in rivolta. Se a ciò si aggiunge la corruzione del clero romano che porta alla crisi confessionale, sfociata nella ribellione di Lutero, si comprenderanno appieno i motivi che portano alla più grande rivolta del XVI secolo. L’adesione formale dei e dei contadini al Protestantesimo è solo l'accentuazione del tentativo di liberarsi dalla tutela del Vaticano e soprattutto dall’aborrito Diritto Romano: il Los von Rom di allora era causato dall’identificazione del Diritto Romano e del Cattolicesimo corrotto e intollerante, con i suoi corollari di papismo, clericalismo e gesuitismo con la ‘Romanità’.

La condanna delle rivolte contadine da parte di Lutero si articola fra il 1523 e il 1525, in un profluvio di libelli e opuscoli tra cui le Lettere ai Principi di Sassonia sullo spirito sedizioso del luglio 1524; l’Esortazione alla pace in risposta ai dodici articoli dei contadini svevi dell’aprile del 1525; ed infine lo scritto Contro le bande omicide e saccheggiatrici dei contadini del maggio 1525, nel quale spicca un invocazione tanto violenta e decisa da non lasciar adito a dubbi sulla sua interpretazione: “Signori, liberateci, sterminate, e colui che ha il potere agisca.” Con questa esortazione sanguinaria il luteranesimo consolida la propria alleanza con i principi territoriali tedeschi.

Da G. Ciola, A. Colla, C. Mutti, T. Mudry “Rivolte e guerre contadine” Società Editrice Barbarossa, Milano, 1994



di Harm Wulf

11 marzo 2010

Il potere irresponsabile


Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.


Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
di MASSIMO GIANNINI