Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano
La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».
Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.
Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).
L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.
di Alessio Mannino