18 gennaio 2011

La Cina gioca la carta dell'Euro




Sepolto a pagina 3 della pagina economica del New York Times del 7 gennaio c'era un articolo che segnalava che la Cina si era impegnata ad acquistare bond spagnoli per un valore di 6 miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari). Quel che il giornalista non ha notato è l'ampia portata delle conseguenze politiche ed economiche che quest'evento potrebbe avere.

La Cina attualmente detiene 2700 miliardi di dollari in riserve valutarie, oltre 900 miliardi dei quali sotto forma di debiti del Tesoro americano. Per anni i critici della politica monetaria degli Stati Uniti hanno sostenuto che in risposta ai bassi rendimenti sui titoli del Tesoro statunitense e al rischio di un declino precipitoso del valore del dollaro la Cina potrebbe staccare la spina ai suoi investimenti sulla Tesoreria americana. Altri sostengono che ciò non accadrà mai perché l'economia cinese è così dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti che esse potrebbero cessare se la Cina con le proprie azioni dovesse innescare un collasso dell'economia statunitense.

Nel contempo, la Casa Bianca continua ad assillare la Cina riguardo al suo record (di violazione) dei diritti umani, oltre a sostenere che il valore della valuta cinese, lo yuan, sia gonfiato.
Quando la Cina si è rifiutata di permettere al Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo di andare ad Oslo per ricevere il premio è stata oggetto di numerose critiche da parte di Washington.

In una serie di recenti visite nelle capitali europee il vice primo ministro esecutivo cinese Li Keqiang ha promesso il sostegno cinese alle economie dell'Unione Europea. Promettendo di comprare obbligazioni per miliardi di euro e impegnandosi per altri miliardi in accordi economici con gli europei, Pechino potrebbe star avvisando Washington che la misura è colma. Investendo nelle economie europee, la Cina rafforza uno dei suoi altri mercati di esportazioni più importanti e si rende meno dipendente dagli Stati Uniti.

E' interessante il fatto che i bond spagnoli dovrebbero essere il primo investimento su Stati facenti parte dell'euro fatto dalla Cina. La Spagna è senza dubbio il paese più indipendente dell'Unione Europea. Il suo primo ministro, José Luis Rodriguez Zapatero, è l'unico leader in Europa che ha il coraggio di resistere a Washington, a Tel Aviv e al Vaticano. Il governo socialista spagnolo è anche il più orientato a sinistra nell'Europa di oggi.

La Spagna ha significative partecipazioni strategiche in America Latina e in Africa, due parti del mondo in cui la Cina vorrebbe espandere la sua influenza nel quadro della ricerca di petrolio e di altre risorse naturali. Giocare la carta spagnola è stato un colpo di genio da parte di Pechino.

Credo che ci siano due motivi per cui Washington non abbia ceduto alle pressioni israeliane per smantellare il programma nucleare iraniano. In primo luogo, la Russia potrebbe danneggiare gravemente l'economia europea se dovesse tagliare le forniture di gas naturale verso l'Europa per rappresaglia. In secondo luogo la Cina potrebbe accelerare il collasso dell'economia statunitense abbandonando i buoni del Tesoro americano. Intervenendo per aiutare salvare l'Unione europea, la Cina dimostra che la minaccia di staccare la spina sui propri investimenti in titoli del Tesoro USA è credibile.

L'unica cosa sorprendente della mossa della Cina sull'Europa è che essa non sia avvenuta prima.
Ma il messaggio di Pechino a Washington è forte e chiaro: "Non scherzate con noi, né con l'Iran."

di Thomas H. Naylor

Thomas H. Naylor è professore emerito di economia alla Duke University. E' co-autore di “Ridimensionare degli Stati Uniti” e “La generazione abbandonata: ripensare l'istruzione superiore” nonché co-fondatore dell'Istituto Middlebury.

16 gennaio 2011

Gli Stati Uniti dichiarano una “guerra finanziaria” al mondo


Il noto economista Michael Hudson – da non confondere con il famoso giornalista investigativo, suo omonimo ma 22 anni più giovane e autore dell’importante libro inchiesta “The Monster”: come una banda di predatori prestatori e i loro banchieri di Wall Street spellarono (sic) gli Stati Uniti e crearono una crisi globale – ha collaborato come consulente ai massimi livelli con grandi banche di Wall Street, lavorando anche tramite il controverso Hudson Institute (legato alla Rand Corporation). Ha progettato nel 1990 il primo fondo del debito sovrano per il Terzo Mondo e aveva previsto con due anni di anticipo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (Harper’s, mayo de 2006).
Pochi conoscono come lui il sistema finanziario degli Stati Uniti dall’interno e oggi, dalla sua cattedra presso l’Università del Missuri (nel Kansas), sembra aver avuto una miracolosa conversione.
È l’autore del libro Superimperialismo: la strategia economica dell’impero americano, che rivela le macchinazioni geopolitiche dell’economia globale gestita dagli Stati Uniti. Il suo nuovo libro “Frattura Globale” tratta del nuovo ordine economico internazionale che verrà a crearsi con la divisione del mondo in blocchi commerciali e valutari, tesi coincidenti con quelle pubblicate nei nostri libri più recenti (www.alfredojalife.com).
Fatti
Lo tsunami finanziario globale provocato dall’israelo-statunitense Ben Shalom Bernanke, discusso governatore della Federal Reserve degli Stati Uniti (vedi Bajo la Lupa, 7 y 10/11/10), è stato pesantemente condannato dal resto del mondo e sembrerebbe destinato ad indebolire anche le vulnerabili finanze dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che per questo si sono già allarmati.
Michael Hudson sostiene che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova (sic) guerra finanziaria mondiale, che coinvolgerà praticamente tutti (CounterPunch, 11/10/10).
Dotato di una grande sensibilità geopolitica – non comune di solito negli economisti – sottolinea un aspetto poco seguito della guerra finanziaria (che comprende la guerra delle divise) quando gli Stati Uniti ottengono lo stesso obiettivo dei loro eserciti mediante la ricchezza monetaria e l’usurpazione dei beni semplicemente tramite operazioni finanziarie.
Questo perchè le armi e la finanza sono complementari: gli Stati Uniti – e in passato anche la Gran Bretagna – non potrebbe imporre una guerra finanziaria al mondo senza la copertura delle sue testate nucleari. Chi vince la guerra militare impone il suo doppio ordine, quello economico e quello finanziario.
Non è il momento di questionare con Michael Hudson, che si propone di esporre concetti esplosivi: come gli Stati Uniti stampino grosse quantità di carta straccia come moneta dagli schermi dei loro computer (prima 1,7 miliardi di dollari e ora altri 600 milioni di euro) per acquistare tutte le azioni e le obbligazioni del mondo, terreni ed altri beni in vendita, nella speranza di ottenerne guadagni in conto capitale rimborsando (sic) le differenze tramite l’emissione di prestiti ad un tasso inferiore all’1% di interesse. Così funziona il gioco oggi.
Sostiene che “la finanza è una nuova forma di guerra (...). È una gara nella creazione del credito per comprare risorse straniere, beni immobili, infrastrutture pubbliche e poi privatizzarle, obbligazioni societarie e azioni”. La chiave è quella di convincere le banche centrali ad accettare il credito elettronico.
Questo fino ad un certo punto, perchè oggi le banche centrali del BRIC e alcuni degli stati del G-7 (Germania e, in misura minore, la Francia) – con la rimarcabile eccezione del Messico, che resta controllato da un ex dipendente del FMI – si sono ribellati alla finanza globale, contro i furti del monetarismo vigente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: una vera dittatura delle banche centrali che sono riuscite a mettere da parte una classe politica che non capisce niente di quello che succede e che approva ogni tipo di violenza contro il bene comune, sempre quando le viene riconosciuta la liquidità per far fronte alle spese correnti.
Prima del clamoroso fallimento del G-20 di Seul – fallito a causa dell’effetto Bernanke e che non meritava nemmeno un epitaffio civile da Obama-, Michael Hudson questionava sul grado di masochismo dei Paesi nel soccombere alla finanza anglosassone delle banche centrali: “il mondo è stato costretto a scegliere tra l’anarchia finanziaria e la subordinazione al nuovo nazionalismo economico degli Stati Uniti, cosa che incoraggia i Paesi a creare un sistema finanziario alternativo, con la deludente eccezione del Messico calderonista, che non ha niente a che fare con il G-20 dove solo opera come schiavo degli Stati Uniti”.
Spiega che l’esperimento monetarista è già drammaticamente fallito in Giappone, dove troviamo una recessione e/o una crescita nulla da ormai due decenni. La Cina non è disposta a ripetere il suicidio del Giappone (la rivalutazione dello yen) per beneficiare in modo parassitario del dollaro.
Sostiene che il sistema finanziario internazionale premia la speculazione, che si traduce in stratosferici aumenti di prezzo per distorcere il commercio internazionale e allentare le relazioni di investimento.
A nostro avviso, il grave problema è che le banche degli Stati Uniti vanno verso un fallimento nascosto (la Bank of America è sull’orlo del fallimento ufficiale), non per l’attività del credito, ma perchè sono impegnate a ripulire i loro bilanci dalle poste negative dovute ad una speculazione frenetica.
Secondo Michael Hudson, il sistema è stato destabilizzato per le spese belliche dovute per mantenere l’immunità geopolitica della quale godono gli Stati Uniti. Critica la posizione (sic) dei media che sostengono che il deficit degli Stati Uniti sia in primo luogo commerciale, quando in realtà è ampiamente militare (super sic!). (Nota: la sola avventura di Bush in Iraq costò più di 3 bilioni di dollari, secondo Joseph Stiglitz, The Washington Post, 9/3/08).
Conclusione
Michael Hudson conclude che i paesi (soprattutto i BRIC, che hanno cominciato a creare un sistema parallelo, esteso alla Turchia, all’Argentina, e ad altri membri ribelli del moribondo G-20) possono prevenire la rivalutazione forzata delle loro divise contro la svalutazione forzata del dollaro, in tre modi: 1) raccolta di dollari investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti; 2) imporre controlli (super sic!) ai capitali; 3) evitare l’uso del dollaro o altro tipo di divisa utilizzato dagli speculatori.
Dopo un flirt con l’oro, Michael Hudson riferisce che si possono ripetere i sistemi che venivano applicati tra gli anni 30 e 50 utilizzando un diverso tasso di cambio a seconda che si trattasse di movimenti finanziari o commerciali. Questo porterebbe alla sparizione del FMI, del Banco Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con la nascita di nuove istituzioni che escluderebbero gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’eurozona.
Non sarebbe male.
Al di là del leggendario nichilismo anglosassone, sarà in discussione la capacità creativa del resto dei paesi – in particolare i BRIC e i paesi emergenti che non hanno perso il desiderio di riparare al danno del colonialismo – per ricostruire il mondo con un nuovo sistema economico e finanziario meno barbaro.
di Alfredo Jalife-Rahme

Traduzione a cura
di Erika Steiner
per italiasociale.net

15 gennaio 2011

Lo shopping europeo di Pechino




Uno degli argomenti che, all’incirca dalla metà del 2003, hanno popolato gli incubi di molti degli studenti universitari della facoltà di economia ed affini, era quello del cosiddetto “ritorno a Bretton Woods”. Per i non addetti ai lavori, ricordiamo che Bretton Woods è il nome della località in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, vennero stabilite le regole economiche internazionali per far rispettare ai paesi un tasso di cambio fisso con il dollaro, onde limitare le fluttuazioni valutarie e tenere sotto controllo le eventuali possibilità di shock letali per un sistema ancora scosso dal secondo conflitto planetario.

Il sistema fu abbandonato alla fine degli anni ’70 per la sua insostenibilità, per cause esterne e per la mancata intenzione da parte degli attori economici di mantenere vivo un tale apparato. Questo almeno fino a pochi anni fa, quando degli economisti della Deutsche Bank affibbiarono questo nome al “tacito accordo” tra Cina e Stati Uniti, per il quale la Tigre Asiatica si “impegnava” - per così dire - a finanziare il debito estero americano con lo scopo di mantenere la propria valuta stabile.

Ci si è interrogati a lungo sull’eventuale sostenibilità di lungo periodo di un tale sistema. Accumulare quantità vergognosamente alte del debito di uno stesso Paese è un atto che espone a notevoli rischi: in poche parole, un crollo del valore dei titoli del Paese in questione porterebbe il creditore ad avere una banca centrale piena solo di carta senza valore. Da qui molteplici ipotesi di vari espertoni del settore sul quando i cinesi si fossero decisi a diversificare i loro crediti, possibilmente in euro, dando a questa moneta il peso di una nuova valuta di riserva internazionale.

Ebbene, pare che il momento che analisti e parrucconi del genere tanto attendevano vada sempre più vicino ad avverarsi appieno: il vice-governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha dato, in data 7 gennaio corrente anno, la conferma delle intenzioni del suo paese di mettere l’Europa al centro delle attenzioni della strategia cinese di acquisto di riserve internazionali.

Tale affermazione ha trovato anche conferma nelle parole del vice premier Li Keqiang - impegnato di recente in un “tour europeo” per promuovere accordi economici - che ha espresso fiducia nei mercati finanziari spagnoli ed ha appoggiato ulteriori acquisti di debito del paese iberico. Venendo in “aiuto” delle economie europee, la Cina potrebbe favorire le condizioni della domanda in un’area che corrisponde al maggior mercato per le esportazioni, senza dimenticare che questo gioverebbe anche al valore dei suoi asset denominati in euro.

Sulla validità di questa manovra è intervenuto ancora Yi Gang: il vice governatore ha sottolineato come il principio della diversificazione sia alla base di questa strategia, per poi aggiungere che l’acquisto di debito europeo non solo gioverà alla stabilità finanziaria del vecchio continente ed al mercato globale in generale, ma garantirà alla Cina profitti consistenti. Interessante notare come abbia preferito parlare prima dei vantaggi “per noi” invece di quelli “per loro”. Gli fa nuovamente eco Li dalle pagine della Sueddeutsche Zeitung, che riferisce come la Cina “supporti l’Unione Europea ed i suoi membri affinché escano dalle crisi debitorie per contribuire alla ripresa economica ed alla crescita stabile”.

Un notevole impegno sociale e patriottico da parte dei policy makers dagli occhi a mandorla, che sono riusciti a promuovere efficacemente, almeno di sicuro dal punto di vista mediatico, la loro campagna per la “conquista” dell’Europa. La Cina aveva già dichiarato lo scorso anno di voler supportare Grecia e Portogallo acquistando i loro bonds, ed ora sembra venire il turno della Spagna: i politici cinesi ancora si contengono, ma le voci degli insiders che hanno trovato spazio sul quotidiano El Pais vedono un acquisto di bonds per circa 6 miliardi di euro.

Non solo la cifra è ingente, ma si tratterebbe finalmente di un numero tangibile da avere in mano, dopo le tante dichiarazioni apparentemente campate in aria riguardo l’acquisto di debito di altri paesi. Questa grande operazione economica si inquadrerebbe in una serie di accordi volti all’aumento dell’apertura - e dell’influenza - della Cina verso l’economia europea. Si parla infatti di un contratto da 19 milioni di euro con la spagnola Indra per il traffico aereo, un accordo di cooperazione tra la Banca Cinese per lo Sviluppo, la Banca di Bilbao ed un gruppo sudamericano.

Restando sempre e solo in Spagna, la Sinopec ha comprato il 40% della sussidiaria brasiliana della Repsol. Se vogliamo cambiare nazione, ma non settore economico, la PetroChina ha di recente dichiarato investimenti in raffinerie britanniche, onde approfittare della possibile ondata di vendite di strutture di Royal Dutch Shell e BP. Resterà da vedere in che misura anche la mittel Europa sarà nei piani di Pechino, visto che Li dovrà incontrare la Merkel il prossimo venerdì. Si vocifera inoltre che la cancelliera voglia sfruttare questo incontro per riuscire ad interpretare come si deve la strategia cinese dell’acquisto dei bonds europei. Conoscendo la furbizia economico-strategica dell’ex professoressa crucca, sarà un miracolo se troverà da sola la porta della sala riunioni.

Veniamo dunque ad alcune riflessioni che possono essere fatte sulla base dei pochi fatti attualmente noti. In primo luogo, resta da capire in che misura i cinesi si decideranno ad acquistare debito europeo. La cosa sembra quasi certa, visto il giro d’affari che Pechino è prossima ad imbastire con Madrid: molto meno certo è invece il risultato che tale evento potrà avere sulle condizioni di salute dell’economia europea e dell’euro, visto che proprio in questo periodo la valuta europea ha raggiunto il minimo valore fatto segnare negli ultimi 4 mesi nel cambio col dollaro. Ed ancora più incerto è il fatto che la Cina continui a sobbarcarsi i debiti di stati sulla deprimente via del default, a fronte di accordi economici vantaggiosi. Questo nuovo “doppio ingresso” cinese - a livello dei bonds e, parallelamente, a livello di accordi economici per beni e servizi - è ancora in divenire, con gli eventuali accordi chiave ancora da marcare come “fatti” sull’agenda.

In secondo luogo, il problema della composizione delle riserve cinesi: bisognerà vedere come le acquisizioni di debito europeo spiazzeranno quelle di debito americano e, soprattutto, con quale velocità accadrà questo procedimento. Allo stato attuale dei fatti non è possibile conoscere le proporzioni di questo eventuale shift nell’acquisizione di riserve, proprio perché è ancora tutto ad un livello eccessivamente embrionale.

Per ora sappiamo solo che la Cina sta riuscendo a strappare ottimi accordi economici all’Europa, complice il suo intento di supportare il vecchio continente in un periodo di crisi profonda tramite l’acquisto di bonds: non rimane che attivare qualche campanello d’allarme nelle teste dei nostri politici ed economisti di stato per non eccedere in generosità con quello che non è solo un grande partner commerciale, ma anche una grande potenza concorrente. Il resto, allo stato attuale dei fatti, è fantaeconomia.

di Giuliano Luongo

18 gennaio 2011

La Cina gioca la carta dell'Euro




Sepolto a pagina 3 della pagina economica del New York Times del 7 gennaio c'era un articolo che segnalava che la Cina si era impegnata ad acquistare bond spagnoli per un valore di 6 miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari). Quel che il giornalista non ha notato è l'ampia portata delle conseguenze politiche ed economiche che quest'evento potrebbe avere.

La Cina attualmente detiene 2700 miliardi di dollari in riserve valutarie, oltre 900 miliardi dei quali sotto forma di debiti del Tesoro americano. Per anni i critici della politica monetaria degli Stati Uniti hanno sostenuto che in risposta ai bassi rendimenti sui titoli del Tesoro statunitense e al rischio di un declino precipitoso del valore del dollaro la Cina potrebbe staccare la spina ai suoi investimenti sulla Tesoreria americana. Altri sostengono che ciò non accadrà mai perché l'economia cinese è così dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti che esse potrebbero cessare se la Cina con le proprie azioni dovesse innescare un collasso dell'economia statunitense.

Nel contempo, la Casa Bianca continua ad assillare la Cina riguardo al suo record (di violazione) dei diritti umani, oltre a sostenere che il valore della valuta cinese, lo yuan, sia gonfiato.
Quando la Cina si è rifiutata di permettere al Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo di andare ad Oslo per ricevere il premio è stata oggetto di numerose critiche da parte di Washington.

In una serie di recenti visite nelle capitali europee il vice primo ministro esecutivo cinese Li Keqiang ha promesso il sostegno cinese alle economie dell'Unione Europea. Promettendo di comprare obbligazioni per miliardi di euro e impegnandosi per altri miliardi in accordi economici con gli europei, Pechino potrebbe star avvisando Washington che la misura è colma. Investendo nelle economie europee, la Cina rafforza uno dei suoi altri mercati di esportazioni più importanti e si rende meno dipendente dagli Stati Uniti.

E' interessante il fatto che i bond spagnoli dovrebbero essere il primo investimento su Stati facenti parte dell'euro fatto dalla Cina. La Spagna è senza dubbio il paese più indipendente dell'Unione Europea. Il suo primo ministro, José Luis Rodriguez Zapatero, è l'unico leader in Europa che ha il coraggio di resistere a Washington, a Tel Aviv e al Vaticano. Il governo socialista spagnolo è anche il più orientato a sinistra nell'Europa di oggi.

La Spagna ha significative partecipazioni strategiche in America Latina e in Africa, due parti del mondo in cui la Cina vorrebbe espandere la sua influenza nel quadro della ricerca di petrolio e di altre risorse naturali. Giocare la carta spagnola è stato un colpo di genio da parte di Pechino.

Credo che ci siano due motivi per cui Washington non abbia ceduto alle pressioni israeliane per smantellare il programma nucleare iraniano. In primo luogo, la Russia potrebbe danneggiare gravemente l'economia europea se dovesse tagliare le forniture di gas naturale verso l'Europa per rappresaglia. In secondo luogo la Cina potrebbe accelerare il collasso dell'economia statunitense abbandonando i buoni del Tesoro americano. Intervenendo per aiutare salvare l'Unione europea, la Cina dimostra che la minaccia di staccare la spina sui propri investimenti in titoli del Tesoro USA è credibile.

L'unica cosa sorprendente della mossa della Cina sull'Europa è che essa non sia avvenuta prima.
Ma il messaggio di Pechino a Washington è forte e chiaro: "Non scherzate con noi, né con l'Iran."

di Thomas H. Naylor

Thomas H. Naylor è professore emerito di economia alla Duke University. E' co-autore di “Ridimensionare degli Stati Uniti” e “La generazione abbandonata: ripensare l'istruzione superiore” nonché co-fondatore dell'Istituto Middlebury.

16 gennaio 2011

Gli Stati Uniti dichiarano una “guerra finanziaria” al mondo


Il noto economista Michael Hudson – da non confondere con il famoso giornalista investigativo, suo omonimo ma 22 anni più giovane e autore dell’importante libro inchiesta “The Monster”: come una banda di predatori prestatori e i loro banchieri di Wall Street spellarono (sic) gli Stati Uniti e crearono una crisi globale – ha collaborato come consulente ai massimi livelli con grandi banche di Wall Street, lavorando anche tramite il controverso Hudson Institute (legato alla Rand Corporation). Ha progettato nel 1990 il primo fondo del debito sovrano per il Terzo Mondo e aveva previsto con due anni di anticipo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (Harper’s, mayo de 2006).
Pochi conoscono come lui il sistema finanziario degli Stati Uniti dall’interno e oggi, dalla sua cattedra presso l’Università del Missuri (nel Kansas), sembra aver avuto una miracolosa conversione.
È l’autore del libro Superimperialismo: la strategia economica dell’impero americano, che rivela le macchinazioni geopolitiche dell’economia globale gestita dagli Stati Uniti. Il suo nuovo libro “Frattura Globale” tratta del nuovo ordine economico internazionale che verrà a crearsi con la divisione del mondo in blocchi commerciali e valutari, tesi coincidenti con quelle pubblicate nei nostri libri più recenti (www.alfredojalife.com).
Fatti
Lo tsunami finanziario globale provocato dall’israelo-statunitense Ben Shalom Bernanke, discusso governatore della Federal Reserve degli Stati Uniti (vedi Bajo la Lupa, 7 y 10/11/10), è stato pesantemente condannato dal resto del mondo e sembrerebbe destinato ad indebolire anche le vulnerabili finanze dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che per questo si sono già allarmati.
Michael Hudson sostiene che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova (sic) guerra finanziaria mondiale, che coinvolgerà praticamente tutti (CounterPunch, 11/10/10).
Dotato di una grande sensibilità geopolitica – non comune di solito negli economisti – sottolinea un aspetto poco seguito della guerra finanziaria (che comprende la guerra delle divise) quando gli Stati Uniti ottengono lo stesso obiettivo dei loro eserciti mediante la ricchezza monetaria e l’usurpazione dei beni semplicemente tramite operazioni finanziarie.
Questo perchè le armi e la finanza sono complementari: gli Stati Uniti – e in passato anche la Gran Bretagna – non potrebbe imporre una guerra finanziaria al mondo senza la copertura delle sue testate nucleari. Chi vince la guerra militare impone il suo doppio ordine, quello economico e quello finanziario.
Non è il momento di questionare con Michael Hudson, che si propone di esporre concetti esplosivi: come gli Stati Uniti stampino grosse quantità di carta straccia come moneta dagli schermi dei loro computer (prima 1,7 miliardi di dollari e ora altri 600 milioni di euro) per acquistare tutte le azioni e le obbligazioni del mondo, terreni ed altri beni in vendita, nella speranza di ottenerne guadagni in conto capitale rimborsando (sic) le differenze tramite l’emissione di prestiti ad un tasso inferiore all’1% di interesse. Così funziona il gioco oggi.
Sostiene che “la finanza è una nuova forma di guerra (...). È una gara nella creazione del credito per comprare risorse straniere, beni immobili, infrastrutture pubbliche e poi privatizzarle, obbligazioni societarie e azioni”. La chiave è quella di convincere le banche centrali ad accettare il credito elettronico.
Questo fino ad un certo punto, perchè oggi le banche centrali del BRIC e alcuni degli stati del G-7 (Germania e, in misura minore, la Francia) – con la rimarcabile eccezione del Messico, che resta controllato da un ex dipendente del FMI – si sono ribellati alla finanza globale, contro i furti del monetarismo vigente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: una vera dittatura delle banche centrali che sono riuscite a mettere da parte una classe politica che non capisce niente di quello che succede e che approva ogni tipo di violenza contro il bene comune, sempre quando le viene riconosciuta la liquidità per far fronte alle spese correnti.
Prima del clamoroso fallimento del G-20 di Seul – fallito a causa dell’effetto Bernanke e che non meritava nemmeno un epitaffio civile da Obama-, Michael Hudson questionava sul grado di masochismo dei Paesi nel soccombere alla finanza anglosassone delle banche centrali: “il mondo è stato costretto a scegliere tra l’anarchia finanziaria e la subordinazione al nuovo nazionalismo economico degli Stati Uniti, cosa che incoraggia i Paesi a creare un sistema finanziario alternativo, con la deludente eccezione del Messico calderonista, che non ha niente a che fare con il G-20 dove solo opera come schiavo degli Stati Uniti”.
Spiega che l’esperimento monetarista è già drammaticamente fallito in Giappone, dove troviamo una recessione e/o una crescita nulla da ormai due decenni. La Cina non è disposta a ripetere il suicidio del Giappone (la rivalutazione dello yen) per beneficiare in modo parassitario del dollaro.
Sostiene che il sistema finanziario internazionale premia la speculazione, che si traduce in stratosferici aumenti di prezzo per distorcere il commercio internazionale e allentare le relazioni di investimento.
A nostro avviso, il grave problema è che le banche degli Stati Uniti vanno verso un fallimento nascosto (la Bank of America è sull’orlo del fallimento ufficiale), non per l’attività del credito, ma perchè sono impegnate a ripulire i loro bilanci dalle poste negative dovute ad una speculazione frenetica.
Secondo Michael Hudson, il sistema è stato destabilizzato per le spese belliche dovute per mantenere l’immunità geopolitica della quale godono gli Stati Uniti. Critica la posizione (sic) dei media che sostengono che il deficit degli Stati Uniti sia in primo luogo commerciale, quando in realtà è ampiamente militare (super sic!). (Nota: la sola avventura di Bush in Iraq costò più di 3 bilioni di dollari, secondo Joseph Stiglitz, The Washington Post, 9/3/08).
Conclusione
Michael Hudson conclude che i paesi (soprattutto i BRIC, che hanno cominciato a creare un sistema parallelo, esteso alla Turchia, all’Argentina, e ad altri membri ribelli del moribondo G-20) possono prevenire la rivalutazione forzata delle loro divise contro la svalutazione forzata del dollaro, in tre modi: 1) raccolta di dollari investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti; 2) imporre controlli (super sic!) ai capitali; 3) evitare l’uso del dollaro o altro tipo di divisa utilizzato dagli speculatori.
Dopo un flirt con l’oro, Michael Hudson riferisce che si possono ripetere i sistemi che venivano applicati tra gli anni 30 e 50 utilizzando un diverso tasso di cambio a seconda che si trattasse di movimenti finanziari o commerciali. Questo porterebbe alla sparizione del FMI, del Banco Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con la nascita di nuove istituzioni che escluderebbero gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’eurozona.
Non sarebbe male.
Al di là del leggendario nichilismo anglosassone, sarà in discussione la capacità creativa del resto dei paesi – in particolare i BRIC e i paesi emergenti che non hanno perso il desiderio di riparare al danno del colonialismo – per ricostruire il mondo con un nuovo sistema economico e finanziario meno barbaro.
di Alfredo Jalife-Rahme

Traduzione a cura
di Erika Steiner
per italiasociale.net

15 gennaio 2011

Lo shopping europeo di Pechino




Uno degli argomenti che, all’incirca dalla metà del 2003, hanno popolato gli incubi di molti degli studenti universitari della facoltà di economia ed affini, era quello del cosiddetto “ritorno a Bretton Woods”. Per i non addetti ai lavori, ricordiamo che Bretton Woods è il nome della località in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, vennero stabilite le regole economiche internazionali per far rispettare ai paesi un tasso di cambio fisso con il dollaro, onde limitare le fluttuazioni valutarie e tenere sotto controllo le eventuali possibilità di shock letali per un sistema ancora scosso dal secondo conflitto planetario.

Il sistema fu abbandonato alla fine degli anni ’70 per la sua insostenibilità, per cause esterne e per la mancata intenzione da parte degli attori economici di mantenere vivo un tale apparato. Questo almeno fino a pochi anni fa, quando degli economisti della Deutsche Bank affibbiarono questo nome al “tacito accordo” tra Cina e Stati Uniti, per il quale la Tigre Asiatica si “impegnava” - per così dire - a finanziare il debito estero americano con lo scopo di mantenere la propria valuta stabile.

Ci si è interrogati a lungo sull’eventuale sostenibilità di lungo periodo di un tale sistema. Accumulare quantità vergognosamente alte del debito di uno stesso Paese è un atto che espone a notevoli rischi: in poche parole, un crollo del valore dei titoli del Paese in questione porterebbe il creditore ad avere una banca centrale piena solo di carta senza valore. Da qui molteplici ipotesi di vari espertoni del settore sul quando i cinesi si fossero decisi a diversificare i loro crediti, possibilmente in euro, dando a questa moneta il peso di una nuova valuta di riserva internazionale.

Ebbene, pare che il momento che analisti e parrucconi del genere tanto attendevano vada sempre più vicino ad avverarsi appieno: il vice-governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha dato, in data 7 gennaio corrente anno, la conferma delle intenzioni del suo paese di mettere l’Europa al centro delle attenzioni della strategia cinese di acquisto di riserve internazionali.

Tale affermazione ha trovato anche conferma nelle parole del vice premier Li Keqiang - impegnato di recente in un “tour europeo” per promuovere accordi economici - che ha espresso fiducia nei mercati finanziari spagnoli ed ha appoggiato ulteriori acquisti di debito del paese iberico. Venendo in “aiuto” delle economie europee, la Cina potrebbe favorire le condizioni della domanda in un’area che corrisponde al maggior mercato per le esportazioni, senza dimenticare che questo gioverebbe anche al valore dei suoi asset denominati in euro.

Sulla validità di questa manovra è intervenuto ancora Yi Gang: il vice governatore ha sottolineato come il principio della diversificazione sia alla base di questa strategia, per poi aggiungere che l’acquisto di debito europeo non solo gioverà alla stabilità finanziaria del vecchio continente ed al mercato globale in generale, ma garantirà alla Cina profitti consistenti. Interessante notare come abbia preferito parlare prima dei vantaggi “per noi” invece di quelli “per loro”. Gli fa nuovamente eco Li dalle pagine della Sueddeutsche Zeitung, che riferisce come la Cina “supporti l’Unione Europea ed i suoi membri affinché escano dalle crisi debitorie per contribuire alla ripresa economica ed alla crescita stabile”.

Un notevole impegno sociale e patriottico da parte dei policy makers dagli occhi a mandorla, che sono riusciti a promuovere efficacemente, almeno di sicuro dal punto di vista mediatico, la loro campagna per la “conquista” dell’Europa. La Cina aveva già dichiarato lo scorso anno di voler supportare Grecia e Portogallo acquistando i loro bonds, ed ora sembra venire il turno della Spagna: i politici cinesi ancora si contengono, ma le voci degli insiders che hanno trovato spazio sul quotidiano El Pais vedono un acquisto di bonds per circa 6 miliardi di euro.

Non solo la cifra è ingente, ma si tratterebbe finalmente di un numero tangibile da avere in mano, dopo le tante dichiarazioni apparentemente campate in aria riguardo l’acquisto di debito di altri paesi. Questa grande operazione economica si inquadrerebbe in una serie di accordi volti all’aumento dell’apertura - e dell’influenza - della Cina verso l’economia europea. Si parla infatti di un contratto da 19 milioni di euro con la spagnola Indra per il traffico aereo, un accordo di cooperazione tra la Banca Cinese per lo Sviluppo, la Banca di Bilbao ed un gruppo sudamericano.

Restando sempre e solo in Spagna, la Sinopec ha comprato il 40% della sussidiaria brasiliana della Repsol. Se vogliamo cambiare nazione, ma non settore economico, la PetroChina ha di recente dichiarato investimenti in raffinerie britanniche, onde approfittare della possibile ondata di vendite di strutture di Royal Dutch Shell e BP. Resterà da vedere in che misura anche la mittel Europa sarà nei piani di Pechino, visto che Li dovrà incontrare la Merkel il prossimo venerdì. Si vocifera inoltre che la cancelliera voglia sfruttare questo incontro per riuscire ad interpretare come si deve la strategia cinese dell’acquisto dei bonds europei. Conoscendo la furbizia economico-strategica dell’ex professoressa crucca, sarà un miracolo se troverà da sola la porta della sala riunioni.

Veniamo dunque ad alcune riflessioni che possono essere fatte sulla base dei pochi fatti attualmente noti. In primo luogo, resta da capire in che misura i cinesi si decideranno ad acquistare debito europeo. La cosa sembra quasi certa, visto il giro d’affari che Pechino è prossima ad imbastire con Madrid: molto meno certo è invece il risultato che tale evento potrà avere sulle condizioni di salute dell’economia europea e dell’euro, visto che proprio in questo periodo la valuta europea ha raggiunto il minimo valore fatto segnare negli ultimi 4 mesi nel cambio col dollaro. Ed ancora più incerto è il fatto che la Cina continui a sobbarcarsi i debiti di stati sulla deprimente via del default, a fronte di accordi economici vantaggiosi. Questo nuovo “doppio ingresso” cinese - a livello dei bonds e, parallelamente, a livello di accordi economici per beni e servizi - è ancora in divenire, con gli eventuali accordi chiave ancora da marcare come “fatti” sull’agenda.

In secondo luogo, il problema della composizione delle riserve cinesi: bisognerà vedere come le acquisizioni di debito europeo spiazzeranno quelle di debito americano e, soprattutto, con quale velocità accadrà questo procedimento. Allo stato attuale dei fatti non è possibile conoscere le proporzioni di questo eventuale shift nell’acquisizione di riserve, proprio perché è ancora tutto ad un livello eccessivamente embrionale.

Per ora sappiamo solo che la Cina sta riuscendo a strappare ottimi accordi economici all’Europa, complice il suo intento di supportare il vecchio continente in un periodo di crisi profonda tramite l’acquisto di bonds: non rimane che attivare qualche campanello d’allarme nelle teste dei nostri politici ed economisti di stato per non eccedere in generosità con quello che non è solo un grande partner commerciale, ma anche una grande potenza concorrente. Il resto, allo stato attuale dei fatti, è fantaeconomia.

di Giuliano Luongo