30 gennaio 2011

La politica economica provoca povertà e disoccupazione in tutto il mondo

Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l'ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.

Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l'effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della "comunità internazionale".

Ma Ben Ali non era un "dittatore". I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
L'ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano "imposti" dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.

Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.
Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del "libero mercato".La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal "Washington Consensus".

Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una "sostituzione" del regime. L'instaurazione di un burattino politico assicura l'attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l'eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell'impoverimento di un'intera popolazione.


Il movimento di protesta

Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L'esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l'ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
Dall'inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l'imposizione delle riforme neoliberiste.
Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell'ingerenza straniera?
Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di "rompere con il passato", senza peraltro precisare se ciò significhi l'abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.


Cenni storici

I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del "dittatore"e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
La prima "rivolta del pane" in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L'eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
«Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell'esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la "rivolta del pane". La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l'aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread - TIME, gennaio 1984)

In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l'impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
L'agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all'inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento "per motivi di incompetenza", portando all'insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni '50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
Pochi mesi dopo l'insediamento di Ben Ali' a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull'istituzione di un regime di libero scambio con l'UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell'ordine di 0.75 euro all'ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l'Unione Europea.


Chi è il dittatore?

Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall'instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l'eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l'attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un'ondata di fallimenti.
A seguito di queste dislocazioni dell'economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall'Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell'ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.


L'aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

Nel settembre 2010, è stata raggiunta un'intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l'equilibrio fiscale:
«Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l'esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell'ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

Vale la pena notare che l'insistenza del FMI sull'austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell'agribusiness. Sono il risultato di un'autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell'impoverimento globale.

«I media hanno fuorviato l'opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l'attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l'offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell'aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una "put option" è una scommessa sul ribasso del prezzo, una "call option" è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l'instabilità che ne risulta incoraggia l' ulteriore attività speculativa.
I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

Dal 2006 al 2008, c'è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell'arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell' indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

«I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in "zona pericolosa".
Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente - del giugno 2008 - per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura con sede a Roma (la FAO), l'indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi
». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l'obiettivo dell' austerità fiscale.


Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

Un'atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell'UE):

«La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell'equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
L'aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell'aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani
». (Banca mondiale - Tunisia - Country Brief)

Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna "analisi" economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un'attenuazione della povertà. L'impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di "repressione" economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla "stima" della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell'ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell'urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell'intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all'istruzione primaria». (Michel Chossudovsky, Global Famine, op cit.)


Versione originale:
Michel Chossudovsky
Fonte: www.globalresearch.ca

29 gennaio 2011

L’ANP concede tutto, Israele vuole di più

pentagon-papers

Per oltre un decennio, fin dal fallimento dei colloqui negoziali di Camp David nel 2000, il mantra della politica di Israele è stato sempre lo stesso: «Non esiste alcun partner palestinese per la pace».

Questa settimana, la prima parte delle centinaia di documenti riservati palestinesi trapelati ha confermato i sospetti di un numero crescente di osservatori sul fatto che coloro che hanno un atteggiamento di rifiuto nel processo di pace sono da ricercarsi dal lato degli israeliani, non dei palestinesi.

Alcuni tra i documenti più rivelatori – pubblicati congiuntamente dalla televisione Al-Jazeera e dal quotidiano britannico Guardian – sono datati 2008, un periodo relativamente incoraggiante nei recenti negoziati tra Israele e i palestinesi.

A quel tempo, Ehud Olmert era primo ministro di Israele e si era pubblicamente impegnato a cercare di raggiungere un accordo per uno Stato palestinese. Era spalleggiato dall’amministrazione degli Stati Uniti di George W. Bush, che aveva ravvivato il processo di pace alla fine del 2007 ospitando la conferenza di Annapolis.

In tali circostanze favorevoli – come mostrano i documenti – Israele respingeva una serie di importanti concessioni che il team negoziale palestinese aveva offerto nel corso dei mesi successivi in merito alle questioni più delicate presenti nei colloqui.

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, ha cercato in maniera non convincente di negare l’autenticità di questi documenti, ma non gli ha giovato il fatto che i funzionari israeliani hanno fallito nel tentativo di correre in suo aiuto.

Secondo i documenti, il compromesso palestinese più significativo – o «svendita totale», come lo stanno definendo molti palestinesi – era su Gerusalemme.

Durante una serie di incontri lungo l’estate del 2008, i negoziatori palestinesi avevano concesso l’annessione da parte di Israele di vaste aree di Gerusalemme Est, inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici della città e anche parti della Città Vecchia.

Risulta difficile immaginare in che modo il collage risultante di enclavi palestinesi presenti a Gerusalemme Est – circondati da insediamenti ebraici – avrebbe mai potuto funzionare come capitale del nuovo Stato palestinese.

Al momento dei precedenti colloqui di Camp David, in base ai documenti ufficiali israeliani fatti trapelare dal quotidiano Haaretz nel 2008, Israele aveva proposto qualcosa di molto simile per Gerusalemme: il controllo palestinese su quelle che venivano al tempo chiamate «bolle» territoriali.

Nei colloqui successivi, i palestinesi avevano altresì dimostrato la volontà di poter rinunciare alla loro rivendicazione di sovranità esclusiva su Haram al-Sharif, la polveriera della Città Vecchia, il complesso sacro che include la moschea di Al-Aqsa, fiancheggiato dal Muro del Pianto. Al suo posto fu invece proposto un comitato internazionale di supervisione dell’area.

Questa è probabilmente stata la più grande concessione tra tutte quelle elargite dai negoziatori palestinesi, laddove – secondo un funzionario israeliano che era presente – proprio il controllo di Haram aveva fatto “saltare” i colloqui di Camp David.

Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’OLP durante i colloqui, si dice abbia promesso ad Israele «la più grande Yerushalayim della storia» – usando la parola ebraica per Gerusalemme – da che il suo team aveva in effetti ceduto i diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

Le concessioni non finirono lì, in ogni caso. I palestinesi accettarono uno scambio di terra per ospitare il 70% del mezzo milione di coloni ebrei presenti in Cisgiordania compresa Gerusalemme Est e rinunciarono ai diritti di tutti, eccetto poche migliaia di rifugiati palestinesi.

Lo Stato palestinese doveva inoltre essere smilitarizzato.

In uno dei documenti registrati durante i negoziati nel maggio 2008, Erekat domanda ai negoziatori israeliani: «Senza considerare i vostri caccia nel mio cielo e il vostro esercito sul mio territorio, posso scegliere dove mettere al sicuro la mia difesa esterna?». La risposta israeliana fu un enfatico: «No».

È interessante notare che si dice che i negoziatori palestinesi abbiano accettato di riconoscere Israele come «Stato ebraico» – una concessione che adesso Israele sostiene sia uno dei principali ostacoli ad un accordo.

Israele aveva anche insistito affinché i palestinesi accettassero uno scambio di territori che avrebbe previsto la cessione di una piccola area di Israele al nuovo Stato palestinese insieme a ben un quinto dei 1,4 milioni di cittadini palestinesi israeliani. Questa pretesa riecheggia un controverso «trasferimento di popolazione» a lungo proposto da Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano di estrema destra.

I Palestine Papers, come ora vengono chiamati, esigono una seria ri-valutazione di due persistenti – ed erronee – ipotesi teorizzate da molti osservatori occidentali circa il processo di pace.

La prima attiene al ruolo degli Stati Uniti auto-proclamatosi quale mediatore imparziale. Quel che in verità viene svelato dai documenti è la riluttanza dei funzionari USA ad esercitare pressioni eque sui negoziatori israeliani, sebbene fosse lo stesso team palestinese a proporre importanti concessioni su questioni centrali. Invece, le “richieste” di Israele erano sempre trattate come fondamentali.

Il secondo è la considerazione secondo cui i colloqui di pace sono falliti primariamente a causa della vittoria, alle elezioni di circa due anni fa, del governo della destra israeliana guidato da Binyamin Netanyahu. Questi ha provocato delle critiche da parte della comunità internazionale per aver rifiutato di impegnarsi, se non con dichiarazioni di circostanza, a sostenere la costituzione di uno Stato palestinese.

Lo scopo degli americani - almeno agli esordi dell'amministrazione Netanyahu - era quello di esercitare su di lui una forte pressione per far entrare nella sua coalizione Tzipi Livni, leader del partito centrista di opposizione Kadima. È grandemente stimata come la più credibile personalità israeliana votata per la pace.

Tuttavia, la Livni, che era stata precedentemente ministro degli Esteri di Olmert, nella documentazione riservata emerge come un'inflessibile negoziatrice, sprezzante delle enormi concessioni fatte dai palestinesi. Al punto cruciale della trattativa, rifiutò l'offerta palestinese dopo aver detto: «L'ho davvero apprezzata».

La questione decisiva per la la Livni fu il rifiuto dei negoziatori palestinesi di cedere a Israele una manciata di insediamenti nella Cisgiordania. I palestinesi si lamentarono a lungo del fatto che i due più significativi- l'insediamento fuori Gerusalemme, Maale Adumim, e quello di Ariel, vicino alla città palestinese di Nablus - avrebbero avuto l'effetto di scomporre la Cisgiordania in tre cantoni, togliendo speranza a qualsiasi chance di contiguità territoriale.

L'insistenza della Livni nel richiedere questi insediamenti - dopo tutti i compromessi prefigurati dai palestinesi - impone di pensare che non vi sia nessun leader israeliano preparato oppure in grado di portare a compimento un accordo di pace - a meno che, i palestinesi non cedano a qualsiasi richiesta israeliana e lascino da parte l'ambizione a uno Stato autonomo.

Uno dei "Palestine Papers" riferisce di un esasperato Erekat che un anno fa chiedeva ad un diplomatico USA: «Cosa posso dare di più?»

L'uomo con la risposta giusta potrebbe essere Lieberman, che, questa settimana, ha rivelato la sua mappa personale di un ipotetico Stato palestinese. In questa ipotesi veniva concesso uno statoprovvisorio che comprendesse meno della metà della Cisgiordania.

di Jonathan Cook - «The Electronic Intifada» - «The National».


28 gennaio 2011

La "sobrietà sostenibile" non è eresia


Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione. Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.» Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo. In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione. Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemice. «La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito». In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo». De Benoist è anche molto critico le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde. «All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento. Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato. L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati. Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno. E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti! Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura». È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura". Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»
Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»
«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio. L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".» Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà? Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio". Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità. In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»
di Alain de Benoist

30 gennaio 2011

La politica economica provoca povertà e disoccupazione in tutto il mondo

Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l'ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.

Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l'effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della "comunità internazionale".

Ma Ben Ali non era un "dittatore". I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economici occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
L'ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano "imposti" dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.

Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare l’economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.
Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del "libero mercato".La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal "Washington Consensus".

Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.
Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.
La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una "sostituzione" del regime. L'instaurazione di un burattino politico assicura l'attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l'eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell'impoverimento di un'intera popolazione.


Il movimento di protesta

Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L'esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l'ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.
Dall'inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l'imposizione delle riforme neoliberiste.
Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.
La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell'ingerenza straniera?
Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.
Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di "rompere con il passato", senza peraltro precisare se ciò significhi l'abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.


Cenni storici

I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del "dittatore"e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.
La prima "rivolta del pane" in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo rincaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia. L'eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:
«Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell'esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la "rivolta del pane". La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l'aumento dei prezzi». (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread - TIME, gennaio 1984)

In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l'impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
L'agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all'inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento "per motivi di incompetenza", portando all'insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni '50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.
Pochi mesi dopo l'insediamento di Ben Ali' a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull'istituzione di un regime di libero scambio con l'UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell'ordine di 0.75 euro all'ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l'Unione Europea.


Chi è il dittatore?

Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall'instaurazione di Ben Ali nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l'eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l'attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un'ondata di fallimenti.
A seguito di queste dislocazioni dell'economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall'Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell'ordine di 1,96 miliardi di dollari, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.


L'aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti

Nel settembre 2010, è stata raggiunta un'intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l'equilibrio fiscale:
«Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l'esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell'ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni…»
http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

Vale la pena notare che l'insistenza del FMI sull'austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago. Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell'agribusiness. Sono il risultato di un'autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell'impoverimento globale.

«I media hanno fuorviato l'opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l'attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l'offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell'aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una "put option" è una scommessa sul ribasso del prezzo, una "call option" è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l'instabilità che ne risulta incoraggia l' ulteriore attività speculativa.
I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti». (Michel Chossudovsky)
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

Dal 2006 al 2008, c'è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell'arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky,http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, ( http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell' indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

«I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in "zona pericolosa".
Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente - del giugno 2008 - per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura con sede a Roma (la FAO), l'indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi
». (The Guardian, 5 gennaio 2011)

Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l'obiettivo dell' austerità fiscale.


Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione

Un'atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.
Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell'UE):

«La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell'equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
L'aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell'aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani
». (Banca mondiale - Tunisia - Country Brief)

Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna "analisi" economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un'attenuazione della povertà. L'impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di "repressione" economica che è stato applicato universalmente in più di 150 paesi in via di sviluppo.
Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla "stima" della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell'ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell'urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

Più in generale, «la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell'intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all'istruzione primaria». (Michel Chossudovsky, Global Famine, op cit.)


Versione originale:
Michel Chossudovsky
Fonte: www.globalresearch.ca

29 gennaio 2011

L’ANP concede tutto, Israele vuole di più

pentagon-papers

Per oltre un decennio, fin dal fallimento dei colloqui negoziali di Camp David nel 2000, il mantra della politica di Israele è stato sempre lo stesso: «Non esiste alcun partner palestinese per la pace».

Questa settimana, la prima parte delle centinaia di documenti riservati palestinesi trapelati ha confermato i sospetti di un numero crescente di osservatori sul fatto che coloro che hanno un atteggiamento di rifiuto nel processo di pace sono da ricercarsi dal lato degli israeliani, non dei palestinesi.

Alcuni tra i documenti più rivelatori – pubblicati congiuntamente dalla televisione Al-Jazeera e dal quotidiano britannico Guardian – sono datati 2008, un periodo relativamente incoraggiante nei recenti negoziati tra Israele e i palestinesi.

A quel tempo, Ehud Olmert era primo ministro di Israele e si era pubblicamente impegnato a cercare di raggiungere un accordo per uno Stato palestinese. Era spalleggiato dall’amministrazione degli Stati Uniti di George W. Bush, che aveva ravvivato il processo di pace alla fine del 2007 ospitando la conferenza di Annapolis.

In tali circostanze favorevoli – come mostrano i documenti – Israele respingeva una serie di importanti concessioni che il team negoziale palestinese aveva offerto nel corso dei mesi successivi in merito alle questioni più delicate presenti nei colloqui.

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, ha cercato in maniera non convincente di negare l’autenticità di questi documenti, ma non gli ha giovato il fatto che i funzionari israeliani hanno fallito nel tentativo di correre in suo aiuto.

Secondo i documenti, il compromesso palestinese più significativo – o «svendita totale», come lo stanno definendo molti palestinesi – era su Gerusalemme.

Durante una serie di incontri lungo l’estate del 2008, i negoziatori palestinesi avevano concesso l’annessione da parte di Israele di vaste aree di Gerusalemme Est, inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici della città e anche parti della Città Vecchia.

Risulta difficile immaginare in che modo il collage risultante di enclavi palestinesi presenti a Gerusalemme Est – circondati da insediamenti ebraici – avrebbe mai potuto funzionare come capitale del nuovo Stato palestinese.

Al momento dei precedenti colloqui di Camp David, in base ai documenti ufficiali israeliani fatti trapelare dal quotidiano Haaretz nel 2008, Israele aveva proposto qualcosa di molto simile per Gerusalemme: il controllo palestinese su quelle che venivano al tempo chiamate «bolle» territoriali.

Nei colloqui successivi, i palestinesi avevano altresì dimostrato la volontà di poter rinunciare alla loro rivendicazione di sovranità esclusiva su Haram al-Sharif, la polveriera della Città Vecchia, il complesso sacro che include la moschea di Al-Aqsa, fiancheggiato dal Muro del Pianto. Al suo posto fu invece proposto un comitato internazionale di supervisione dell’area.

Questa è probabilmente stata la più grande concessione tra tutte quelle elargite dai negoziatori palestinesi, laddove – secondo un funzionario israeliano che era presente – proprio il controllo di Haram aveva fatto “saltare” i colloqui di Camp David.

Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’OLP durante i colloqui, si dice abbia promesso ad Israele «la più grande Yerushalayim della storia» – usando la parola ebraica per Gerusalemme – da che il suo team aveva in effetti ceduto i diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

Le concessioni non finirono lì, in ogni caso. I palestinesi accettarono uno scambio di terra per ospitare il 70% del mezzo milione di coloni ebrei presenti in Cisgiordania compresa Gerusalemme Est e rinunciarono ai diritti di tutti, eccetto poche migliaia di rifugiati palestinesi.

Lo Stato palestinese doveva inoltre essere smilitarizzato.

In uno dei documenti registrati durante i negoziati nel maggio 2008, Erekat domanda ai negoziatori israeliani: «Senza considerare i vostri caccia nel mio cielo e il vostro esercito sul mio territorio, posso scegliere dove mettere al sicuro la mia difesa esterna?». La risposta israeliana fu un enfatico: «No».

È interessante notare che si dice che i negoziatori palestinesi abbiano accettato di riconoscere Israele come «Stato ebraico» – una concessione che adesso Israele sostiene sia uno dei principali ostacoli ad un accordo.

Israele aveva anche insistito affinché i palestinesi accettassero uno scambio di territori che avrebbe previsto la cessione di una piccola area di Israele al nuovo Stato palestinese insieme a ben un quinto dei 1,4 milioni di cittadini palestinesi israeliani. Questa pretesa riecheggia un controverso «trasferimento di popolazione» a lungo proposto da Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano di estrema destra.

I Palestine Papers, come ora vengono chiamati, esigono una seria ri-valutazione di due persistenti – ed erronee – ipotesi teorizzate da molti osservatori occidentali circa il processo di pace.

La prima attiene al ruolo degli Stati Uniti auto-proclamatosi quale mediatore imparziale. Quel che in verità viene svelato dai documenti è la riluttanza dei funzionari USA ad esercitare pressioni eque sui negoziatori israeliani, sebbene fosse lo stesso team palestinese a proporre importanti concessioni su questioni centrali. Invece, le “richieste” di Israele erano sempre trattate come fondamentali.

Il secondo è la considerazione secondo cui i colloqui di pace sono falliti primariamente a causa della vittoria, alle elezioni di circa due anni fa, del governo della destra israeliana guidato da Binyamin Netanyahu. Questi ha provocato delle critiche da parte della comunità internazionale per aver rifiutato di impegnarsi, se non con dichiarazioni di circostanza, a sostenere la costituzione di uno Stato palestinese.

Lo scopo degli americani - almeno agli esordi dell'amministrazione Netanyahu - era quello di esercitare su di lui una forte pressione per far entrare nella sua coalizione Tzipi Livni, leader del partito centrista di opposizione Kadima. È grandemente stimata come la più credibile personalità israeliana votata per la pace.

Tuttavia, la Livni, che era stata precedentemente ministro degli Esteri di Olmert, nella documentazione riservata emerge come un'inflessibile negoziatrice, sprezzante delle enormi concessioni fatte dai palestinesi. Al punto cruciale della trattativa, rifiutò l'offerta palestinese dopo aver detto: «L'ho davvero apprezzata».

La questione decisiva per la la Livni fu il rifiuto dei negoziatori palestinesi di cedere a Israele una manciata di insediamenti nella Cisgiordania. I palestinesi si lamentarono a lungo del fatto che i due più significativi- l'insediamento fuori Gerusalemme, Maale Adumim, e quello di Ariel, vicino alla città palestinese di Nablus - avrebbero avuto l'effetto di scomporre la Cisgiordania in tre cantoni, togliendo speranza a qualsiasi chance di contiguità territoriale.

L'insistenza della Livni nel richiedere questi insediamenti - dopo tutti i compromessi prefigurati dai palestinesi - impone di pensare che non vi sia nessun leader israeliano preparato oppure in grado di portare a compimento un accordo di pace - a meno che, i palestinesi non cedano a qualsiasi richiesta israeliana e lascino da parte l'ambizione a uno Stato autonomo.

Uno dei "Palestine Papers" riferisce di un esasperato Erekat che un anno fa chiedeva ad un diplomatico USA: «Cosa posso dare di più?»

L'uomo con la risposta giusta potrebbe essere Lieberman, che, questa settimana, ha rivelato la sua mappa personale di un ipotetico Stato palestinese. In questa ipotesi veniva concesso uno statoprovvisorio che comprendesse meno della metà della Cisgiordania.

di Jonathan Cook - «The Electronic Intifada» - «The National».


28 gennaio 2011

La "sobrietà sostenibile" non è eresia


Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione. Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.» Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo. In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione. Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemice. «La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito». In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo». De Benoist è anche molto critico le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde. «All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento. Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato. L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati. Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno. E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti! Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura». È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura". Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»
Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»
«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio. L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".» Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà? Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio". Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità. In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»
di Alain de Benoist