05 febbraio 2011

L’esercito egiziano, Mubarak, gli Stati Uniti e il grano

Mubarak-Obama-mega


Curioso leggere in giro, questi giorni.

Una parte che dice, “Mubarak, lo sgherro degli americani“.

Una parte che dice, “complotto americano per rovesciare Mubarak“.

Il bello è che in qualche modo, possono essere vere entrambe le tesi.

Prima di tutto, la rivolta non è artificiale.

E’ ovvio che ciò che sta succedendo riflette un sentimento di quasi tutta la nazione, senza differenze di idee o di ceti sociali. Semplicemente, la grande maggioranza del popolo odia Hosni Mubarak, e a ragion veduta.

La domanda non è, quindi, se gli americani (semplifichiamo, intendiamo ovviamente coloro che negli Stati Uniti prendono le decisioni) abbiano creato una rivolta in un paese felice; ma se abbiano fatto qualcosa per dare fuoco alle già abbondanti polveri.

Come evidenza della rivolta indotta, si portano tre fattori, che non sono trascurabili: i media non demonizzano queste rivolte; Wikileaks dimostra che in anni passati, gli Stati Uniti hanno avuto contatti con qualcosa che loro chiamano “l’opposizione civile” e le hanno pure dato soldi; e c’è l’ingiunzione di Obama a “non sparare” e a “fare riforme”.

Però tutti e tre i fatti potrebbero avere anche una spiegazione più semplice: quando c’è un leone impazzito in giro, non gli dai addosso, ma dici, “ciao ciao, sono amico tuo!“, per rimetterlo in gabbia.

Insomma, nessuno vuole essere odiato da 80 milioni di egiziani, solo per lealtà verso un ottantaduenne che sta per andarsene comunque.

Ed è normale che gli americani cerchino alternative.

In parte, lo fanno attraverso ciò che loro chiamano la “società civile“, l’eterna chimera dei democratici americani a partire dai tempi del Vietnam: mi permetto di pubblicizzare, credo non per la prima volta, il vecchio capolavoro di Frances Fitzgerald, Fire in the Lake, di cui esiste anche una versione italiana (Il lago in fiamme. Storia della guerra in Vietnam 1974) – la studiosa americana ha dimostrato l’incredibile e fallimentare violenza con cui gli americani hanno cercato di distruggere la cultura contadina vietnamita per inventare una “società civile” basata sul “libero mercato”.

La ricetta è sempre quella: si pagano cifre spropositate a qualche think tank per scatenare un gruppo di giovani sociologi a caccia di gente che sembri condividere i Valori Americani – dei Giuliano Ferrara, per capirci.

Il gruppo target è sempre felice di aderire, visto che ci sono in ballo somme che loro non hanno mai visto; e i soldi in genere fanno la fine che si può ben immaginare, ma non è un grosso problema – il funzionario incaricato di spenderli deve solo dimostrare che lui ha fatto qualcosa, appunto spendendoli. E anzi, più spende, più è probabile che possa chiedere soldi da spendere la prossima volta.

Forse vedremo qualcuno di questi giovanotti sbarbati e Civili nel prossimo giorno egiziano; ma la vera questione è l’esercito egiziano.

Prendiamo la questione alla larga.

Gianluca Freda è un blogger colto e intelligente, di cui capisco le buone intenzioni, ma con cui spesso sono in disaccordo. Ieri ha pubblicato la traduzione di un articolo di Webster Tarpley, corredato da commenti propri, in cui sostiene che gli americani non gradirebbero le vecchie dinastie mediorientali (in Egitto, Libia, Tunisia, Siria); le vorrebbero destabilizzare, per instaurare degli staterelli deboli e manipolaboli contro Iran, Cina e Russia.

“Gli USA sono alla disperata ricerca di una nuova generazione di traballanti demagoghi “democratici”, più disponibili a guidare i propri paesi contro l’Iran di quanto abbia dimostrato di voler fare l’immobilismo dei regimi attuali. C’è poi la questione dell’espansione dell’economia cinese. Possiamo star certi che tutti i nuovi leader instaurati dagli USA includeranno nei propri programmi la rottura delle relazioni economiche con la Cina, a partire dalla riduzione delle esportazioni di petrolio e materie prime.”

Non sono d’accordo, per due motivi.

Il primo è questo:

“Nel luglio del 2010, furono pubblicati i risultati di un grande sondaggio internazionale riguardante l’opinione pubblica nel mondo arabo, con sondaggi in Egitto, Arabia Saudita, Marocco, Giordania, Libano e gli Emirati. Ecco alcuni dei risultati più notevoli: mentre Obama era stato accolto positivamente al suo ingresso in carica, con il 51% che esprimeva il proprio ottimismo riguardo alla politica statunitense nella regione, nella primavera del 2009, nell’estate del 2010, solo il 16% esprimeva ottimismo. Nel 2009, il 29% di quelli intervistati affermarono che un Iran dotato di armi nucleari sarebbe stato positivo per la regione; nel 2010, la cifra era salita al 57%, dimostrando un punto di vista molto diverso da quello dei propri governi”.

Mentre l’America, Israele e i leader delle nazioni arabe affermano che l’Iran è la più grande minaccia alla pace e alla stabilità in Medio Oriente, il popolo arabo non è d’accordo. In una domanda aperta su quali due paesi costituissero la minaccia più grave alla regione, l’88% ha risposto Israele, il 77% l’America e il 10% l’Iran.

Insomma, più un governo arabo sarà “democratico”, più sarà antisraeliano, antiamericano e filoiraniano.

E poi, non mi sembra che quello di Mubarak sia esattamente uno “Stato”.

Non somiglia, in questo, né all’Iran né alla Turchia.

Una ventina di anni fa, però, c’erano ancora tracce del tentativo che aveva fatto Nasser di costruire uno Stato. Ad esempio, la scolarizzazione di massa, che non arrivava dappertutto, ma coinvolgeva comunque innumerevoli milioni di giovani. Oppure la concessione automatica di un posto di lavoro statale a chiunque superasse il grande esame scolastico nazionale. Oppure, il prezzo calmierato del pane e gli speciali mercati sussidiati.

Non sono un esperto, ma mi risulta che il regime abbia poi smantellato buona parte di questo sistema, dietro precise istruzioni del Fondo Monetario Internazionale.

L’agricoltura, che ben organizzata avrebbe dato da vivere al paese, si è sempre più concentrata sul cotone e sullo zucchero, e non su ciò che sfama le pance dei contadini. Il turismo è aumentato, ma è sempre concentrato in una decina di località tutte in mano ai soliti monopolisti legati al regime. Che ovviamente spendono più volentieri i loro guadagni a Londra che al Cairo.

Accanto alle forme di redistribuzione della ricchezza, Nasser aveva potenziato l’esercito. Che per tre anni prende i contadini più o meno analfabeti, fornendo loro una minima scolarizzazione. E siccome dà da mangiare – e poco altro – a innumerevoli schiere di giovani maschi affamati, l’esercito ha una qualche utilità nel ridurre il numero dei disoccupati.

Un esercito gestito con un criterio assai particolare – un mio amico, un ufficiale cristiano, aveva talmente tanti soldati semplici al suo personale servizio che ne aveva nominato uno solo per raccogliere le barzellette che giravano per l’accampamento. Lo stesso ufficiale mi raccontò anche che, durante le esercitazioni, erano normali perdite – cioè soldati morti per incidenti – anche del 10%. Ma la Grande Madre Nilo ha molti figli…

… come i soldati di guardia al Consolato greco di Alessandria che mendicavano i soldi per comprarsi un panino…

… come il dignitoso soldatino a Rosetta che ci offrì il tè, pur avendo la divisa così lisa che gli si sarebbero viste le mutande – se le avesse avute…

… come il soldato di guardia all’Università (sì, anche l’università è presidiata dall’esercito) che guadagnava qualcosa vendendo penne agli studenti…

Le gigantesche forze armate egiziane consistono per metà in un esercito e per metà in quelle che vengono definite “Forze centrali di sicurezza” e “Guardie di frontiere” – 400.000 uomini che non pretendono nemmeno di occuparsi della “difesa” del paese.

L’Egitto confina con un paese militarmente imbattibile – Israele – , con un paese con una popolazione molto piccola – la Libia – e con un paese-rottame, il Sudan.

Per quanto riguarda gli ultimi due, potrebbero quindi tranquillamente bastare dei vigili urbani.

Per quanto riguarda la guerra tra un esercito regolare e un altro tecnologicamente molto superiore come quello israeliano – nel 1991, il potentissimo esercito USA ha attaccato il potente esercito iracheno: 148 morti tra gli “alleati”, decine di migliaia tra gli iracheni.

Nel 2003, le perdite furono rispettivamente 139 e altre decine di migliaia.

Dopo il 2003, la resistenza irachena ha inflitto 4.o00 perdite agli statunitensi, spendendo probabilmente meno di quanto spendeva in una settimana il Ministero della Difesa di Saddam Hussein.

Quindi, nel caso di uno scontro con Israele, servirebbe un folto gruppo di portatori di bandiere bianche, strategicamente schierati, con nelle retrovie innumerevoli artigiani in gallabeya capaci di produrre esplosivi adoperando chiodi e fertilizzanti.

In questi giorni, poi, si sente definire l’esercito il “garante dell’unità nazionale“, con una di quelle curiose frasi fatte che i media riecheggiano. Suona bene finché non si pensa che è la stessa frase usata per giustificare decenni di strapotere militare in Turchia – solo che l’Egitto è già un paese del tutto unito.

L’esercito egiziano consuma dunque le scarse ricchezze nazionali per tre motivi: primo, mantenere se stesso; secondo, tenere sotto controllo il paese; terzo, agire su commissione.

E infatti l’esercito egiziano riceve più aiuti dagli Stati Uniti di qualunque altro paese al mondo, tranne Israele.

Innanzitutto, i tecnici americani addestrano l’esercito egiziano a costruire un muro sotterraneo di lastre di ferro per bloccare i tunnel con cui gli abitanti di Gaza cercano di sopravvivere. Nel gennaio del 2008, un certo Steve Israel, deputato democratico di New York, si incontrà personalmente con Hosni Mubarak: subito dopo, gli Stati Uniti assegnarono la somma di 23 milioni di dollari solo per la distruzione delle vie di rifornimento di Gaza.

Gli ufficiali dell’esercito poi fanno parte dell’immensa community - l’inglese lo usano loro, mica noi – degli ufficiali del pianeta. Gente che viaggia continuamente, un giorno sono in Italia per studiare, un altro negli Stati Uniti per ricevere ordini, un altro in Afghanistan o magari in Colombia.

E’ una casta sovranazionale, piena di terzomondiali promossi, che si conosceva già dagli anni Sessanta e Settanta, con la tremenda scuola di Fort Bragg.

Infine, i soldi che il Congresso degli Stati Uniti regala all’esercito egiziano vanno a finire, quasi sempre, in acquisti sul mercato delle armi statunitense. E quindi sia in posti di lavoro garantiti per gli elettori dei congressisti, sia in profitti favolosi per le aziende che finanziano le loro campagne elettorali.

In questo contesto, il denaro non costituisce un problema. Non è una cosa intuitiva né per noi che dobbiamo far contare ogni centesimo; e sembra contraddire ciò che leggiamo, quando sentiamo dire che “i soldi non bastano più” per pagare gli insegnanti a scuola e occorre quindi tagliare.

Riassumiamo il meccanismo, tagliando con l’accetta, ovviamente: fino alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non avevano un esercito serio, anche perché sarebbe stato guardato come una pericolosa ingerenza statale.

Il contributo principale degli Stati Uniti alla guerra non fu però in sangue, ma – letteralmente – in costosissimi prodotti usa-e-getta. Prodotti pagati dallo Stato, ma non con tasse, bensì con buoni del tesoro; mentre l’Inghilterra si svenava oppure regalava le proprie basi in giro per il mondo per mantenere le industrie statunitensi. Il sistema fu gestito da una commissione che metteva insieme imprenditori, finanzieri, militari e uomini del governo.

Essendosi raddoppiata più o meno l’economia, gli Stati Uniti decisero di non smobilitare più. Il resto è la storia del complesso militare industriale costituito da alcuni elementi fissi.

Un finanziamento attraverso buoni del tesoro e affini, all’inizio spacciati con minacce varie a paesi succubi, oggi in massima parte, credo, detenuti dalla Cina.

Più si spende, più guadagnano le imprese statunitensi che partecipano al complesso militare industriale.

E quindi, più deputati e senatori si battono per aumentare le spese militari: non è un caso, né che le aziende militari abbiano localizzato le proprie fabbriche in modo tale da condizionare sistematicamente le elezioni, né che tanti politici vengano premiati con lauti stipendi in aziende private.

L’importante è che non aumentino le tasse: tanto, pagheranno le generazioni future – secondo il Congressional Budget Office, ogni bambino americano nato nel 2010 si porterà dietro un debito pubblico di 29.178 dollari, che all’età di trent’anni diventerà 166,500 dollari.

Noi abbiamo più volte sottolineato questo meccanismo, che ci sembra fondamentale e che viene trascurato spesso per altri meccanismi, ad esempio il petrolio o la lobby israeliana.

In realtà non c’è contraddizione. Le lobby si rafforzano a vicenda; e tutti questi meccanismi concorrono alla creazione del grande sistema guerrafondaio-paranoico. Vendere aerei inutili all’esercito egiziano comunque serve a tenersi amico un esercito che collabora con Israele e che si trova vicino ai pozzi petroliferi. Wikileaks ci offre un interessante scambio tra esecito statunitense ed esercito egiziano: il Pentagono accusa l’esercito egiziano di non voler “modernizzare“, che per loro significa “rifocalizzare per contrastare minacce asimmetriche come il terrorismo, il contrabbando di armi a Gaza e la pirateria, e sostenere la politica USA verso l’Iran”. Una definizione decisamente originale di “modernizzazione”.

I militari comunque volevano i loro giocattoloni – aerei e carri armati – e quindi il Pentagono non ha insistito, a dimostrazione di come l’utilità dell’esercito egiziano non sia affatto solo militare.

Adesso, gli Stati Uniti hanno detto a Mubarak di non sparare sulla folla.

Hosni Mubarak probabilmente farebbe sparare ugualmente,e dal suo punto di vista farebbe bene: non sparare significa arrendersi.

Ma si trova di fronte al dilemma della guardia pretoriana (ma lo aveva già spiegato Platone nella Repubblica).

Il Capo ruba al popolo. Per difendersi dal popolo, deve costruirsi una guardia. Che mangia a spese del popolo. E quindi bisogna rubare ancora di più al popolo.

Quando il popolo si ribella, la guardia depone il Capo, al grido di Viva il Popolo.

E continua a rubare al popolo.

Che mi sembra l’esito più probabile della rivolta egiziana, almeno al momento.

Ma qui sorge un dilemma anche per la guardia pretoriana: come fare le “riforme” ordinate da Obama, senza toccare le cause della catastrofe egiziana, cioè le Dure Leggi del Mercato Globale, gli Impegni Internazionali e la Guardia Pretoriana stessa?

Perché in Egitto, il problema è il pane: ‘aish, che vuol dire anche vita.

Sono un pessimo profeta, ma offro un’ipotesi: la cancellazione di un po’ di debiti che l’Egitto comunque non pagherebbe; un nuovo prestito con cui l’Egitto potrà comprare un bel po’ di grano dall’agribusiness statunitense.

Ricordiamo come un’unica società, la Cargill and Continental Grain – due aziende fuse in una con il permesso del democratico Presidente Clinton – controlla oltre il 50% delle esportazioni agricole dagli Stati Uniti. Ovviamente dopo aver distrutto gli agricoltori indipendenti americani.

Qui ad esempio, potete leggere un’esaltante descrizione del governo statunitense del muscolo egiziano nel mercato alimentare. La geniale capacità di inventare slogan: per muscolo intendono la voracità con cui l’Egitto, un tempo quasi autosufficiente, è costretta a comprare cibo da un altro continente. Come l’Iraq, che una volta addirittura esportava il cibo.

Il documento del governo americano spiega tutto della falsa coscienza con cui si nasconde la realtà dell’imperialismo, con un titolo nell’articolo: “”Egyptians Like U.S. Food”.

di Miguel Martinez

P.S. A proposito, leggete il drammatico post di Bousoufi su ciò che sta succedendo in Tunisia.

03 febbraio 2011

Alitalia... Ghe pensi mi...

Quando, correva l'anno 2008, l'Alitalia era in predicato per passare all'Air France, il governo Prodi aveva accettato di "chiudere" la vendita con la formula "visto e piaciuto" ... i francesi, cioè, si sarebbero accollati i 3 miliardi di debiti della nostra compagnia di bandiera ed i successivi costi di ristrutturazione, senza null'altro a pretendere.

L'Italia (ed in particolare il ministero dell'Economia, maggior azionista di Alitalia) sarebbe uscita da quel carrozzone sgangherato a costo zero, ed i francesi si impegnavano a non licenziare nessuno dei dipendenti.

Ma si era già in piena campagna elettorale e Silvio Berlusconi, in corsa per palazzo Chigi, agitò il "feticcio" dell'italianità della compagnia di bandiera: "l'Alitalia deve restare italiana ... e, una volta eletto presidente del consiglio, ghe pensi mi ...".

Arrivarono le elezioni, Berlusconi vinse con amplissimo margine e ... ci pensò lui: una cordata di imprenditori italiani guidati da Roberto Colaninno rilevò la "parte sana" dell'Alitalia, lasciando allo stato italiano i 3 miliardi di debiti e gli esuberi di personale.

"Ghe pensi mi" significò che, invece di uscire a costo zero (cedendo tutto ad Air France), lo Stato italiano ci rimise almeno 3 miliardi di euro (il conteggio, peraltro provvisorio, è del commissario liquidatore dell'Alitalia Augusto Fantozzi).

Quello fu il prezzo per mantenere italiana la compagnia di bandiera, ed il "pubblico pagante" (cioè Pantalone), nonostante l'alto costo del biglietto, applaudì calorosamente quell'operazione patriottica; i figli, si sa, 'so piezze 'e core e se hanno bisogno, non si bada a spese pur di preservarne l'onore e la dignità.

Applaudì anche la Lega, quella di Roma ladrona che, evidentemente, non riscontrò alcuna contraddizione tra il far pagare quei 3 miliardi anche ai suoi elettori del nord, e il mantenere "italiana" quella scassata compagnia aerea "romana". I leghisti, insomma, sull'altare di quella italianità che da anni predicavano di voler "frantumare", furono "lieti" di versare una parte cospicua di quei 3 miliardi. E lo fecero restando seri, senza che a nessuno passasse per la mente che era l'esatto contrario di quanto avevano fin li predicato (Roma ladrona, Padania indipendente ed Italia di merda). Gente furba e coerente questi leghisti.

Sia come sia, la nuova Alitalia restò italiana ... almeno a chiacchiere, ovvero le solite palle per bambini scimuniti.

Si perché il 12 gennaio 2009, la stessa Air France di cui sopra, quella che l'anno prima avrebbe dovuto farsi carico dei 3 miliardi di debiti della vecchia Alitalia e di tutto il personale della stessa, acquisiva il 25% del capitale e, di fatto, diventava il maggior singolo azionista della neonata compagnia aerea (nuova Alitalia).

Invece di farsi carico dei famosi 3 miliardi e del personale tutto, i francesi versarono 325 milioni e, come detto, con il 25% del capitale diventarono i maggiori azionisti ... (immaginatevi lo stupore di quei francesi di fronte a cotanta abilità negoziale degli italiani ...).

Allo Stato italiano, dunque, restarono i 3 miliardi di debiti e tutti gli esuberi della vecchia Alitalia e, udite udite, anche le eccedenze della Nuova Alitalia ... già perché, siccome anche adesso gli affari vanno maluccio, i francesi e Colaninno hanno appena deciso di mettere 1000 dipendenti in cassa integrazione ... che naturalmente vanno, anche loro, a carico di Pantalone.

Fantastico, no?

Potevamo uscirne per sempre a costo zero e, invece, dopo aver "sganciato" 3 miliardi per il privilegio di avere una compagnia aerea di bandiera (cosa che, di fatto, non è più neanche vera), adesso ci tocca pure pagarne la cassa integrazione.

Adesso, considerate l'aspetto sensazionale della faccenda: sull'Alitalia, la ricostruzione dell'Aquila e la spazzatura di Napoli, il centro destra stravinse le elezioni del 2008 ...??!! In quale altro magnifico paese può avvenire una cosa simile?

Il grande "successo" della nuova Alitalia ci sta costando circa 3.5 miliardi (considerando i costi successivi che si stanno aggiungendo) ... e, decenza vorrebbe, che gli artefici di tale "colpo di genio" venissero (almeno) a scusarsi per quella maestosa cazzata fatta a ragion veduta (era chiarissimo che sarebbe andata a finire così) ... invece, glissano, traccheggiano, oscurano ...

Ed il pubblico pagante?

Beh, non applaude più, anzi, per la verità si comincia a sentire qualche timido fischio che, però, rimane ancora isolato nella distaccata indifferenza dei più. Del resto, si sa, al pubblico tocca pagare anche se lo spettacolo non è stato all'altezza del prezzo del biglietto e, comunque, ognuno poi tornerà a casa sua e dimenticherà quanto avrà visto e sentito.

Ma la compagnia teatrale dovrà prendere qualche provvedimento, perché se il pubblico non applaude, si corre il rischio di trovarsi il teatro vuoto la prossima volta. Sicché sta già pensando ad altri ... ghe pensi mi ... magari più plateale.

Ed è proprio questo il brivido che dovrebbe attraversarci: altri due o tre successoni tipo Alitalia e, se tutto va bene, siamo rovinati.

Naturalmente accetto qualsiasi smentita purché documentata da numeri e fatti. Gli slogan, è ovvio, sono per i bambini scimuniti.

di G. Migliorino

02 febbraio 2011

Multinazionali, le società che distruggono lavoro in patria per trasferirlo all'estero


Le imprese multinazionali creano più industria e posti di lavoro? Neanche per sogno. Per sfatare questo luogo comune basta elaborare alcuni dati pubblicati da R&S. Prendiamo il campione delle multinazionali europee costruito dalla società di ricerche e studi di Mediobanca e osserviamone l'andamento nel decennio compreso tra il 1999 e il 2008. Scopriamo che un settore ad alto tasso di innovazione come quello meccanico, che nel '99 ha rappresentato il 31,6% del fatturato aggregato del campione, nel 2008 è sceso al 24,7%, mentre il settore petrolifero è salito nello stesso periodo dal 18,3% al 32,6 per cento. Sono risultati in discesa anche i settori chimico-farmaceutico (dal 17,4% al 14,5%), alimentare e bevande (dal 7,3% al 6,7%), elettronica (dal 6,5% al 5%), servizi (4,7% all'1,9%), carta (dal 2,2% all1,8%) e gomma e cavi (dall'1,4% all'1,2%). A parte il settore petrolifero-energetico, segnano una crescita anche l'acciaio (dal 4,7% al 5,8% del fatturato totale del campione), il cemento e il vetro (dal 2,3% al 3,4%) e il tessile (dallo 0,4% allo 0,5%).

Attenzione, però: quelli che hanno registrato la più alta crescita percentuale di fatturato - il petrolifero e il chimico-farmaceutico - hanno anche avuto la maggiore flessione dell'occupazione, rispettivamente del 7,7% e del 7,4%, mentre il loro Roe (redditività del capitale netto) s'è attestato sul 25 per cento. Sono stati in sostanza più premiati, a livello di redditività, i settori industriali che hanno espulso dipendenti, mentre sono stati più penalizzati quelli che hanno imbarcato nuova occupazione. La meccanica, che tra il '99 e il 2008 ha accresciuto del 12,3% il numero degli addetti, ha avuto un Roe del 16%, e le costruzioni, a fronte di una crescita degli addetti del 53,5%, hanno avuto un Roe del 13,8 per cento.

Non solo: anche là dove s'è avuto un aumento dell'occupazione, questo è avvenuto a discapito del paese d'origine. In altre parole, le multinazionali creano lavoro ma quasi sempre all'esterno dei propri confini. Quelle francesi hanno ridotto l'occupazione in patria del 24,5%, aumentandola del 19,2% all'estero; quelle tedesche hanno registrato -12,5% in casa propria contro +20,8% al di fuori della Germania; e la crescita occupazionale estera delle multinazionali a capitale italiano è stata addirittura del 63,1% contro una contrazione del 12% su scala nazionale.

Analoga la tendenza in Nord America: a fronte di un calo occupazionale interno del 14,9%, le multinazionale americane hanno aumentato il numero dei dipendenti all'estero del 15,8 per cento. Insomma, il futuro dell'industria mondiale sembra dipendere in misura crescente dalle società petrolifere: aziende che generano costi ambientali elevati a carico della collettività, i cui profitti poggiano, più che sull'innovazione, sull'aumento dei prezzi del greggi.

di Giuseppe Oddo

05 febbraio 2011

L’esercito egiziano, Mubarak, gli Stati Uniti e il grano

Mubarak-Obama-mega


Curioso leggere in giro, questi giorni.

Una parte che dice, “Mubarak, lo sgherro degli americani“.

Una parte che dice, “complotto americano per rovesciare Mubarak“.

Il bello è che in qualche modo, possono essere vere entrambe le tesi.

Prima di tutto, la rivolta non è artificiale.

E’ ovvio che ciò che sta succedendo riflette un sentimento di quasi tutta la nazione, senza differenze di idee o di ceti sociali. Semplicemente, la grande maggioranza del popolo odia Hosni Mubarak, e a ragion veduta.

La domanda non è, quindi, se gli americani (semplifichiamo, intendiamo ovviamente coloro che negli Stati Uniti prendono le decisioni) abbiano creato una rivolta in un paese felice; ma se abbiano fatto qualcosa per dare fuoco alle già abbondanti polveri.

Come evidenza della rivolta indotta, si portano tre fattori, che non sono trascurabili: i media non demonizzano queste rivolte; Wikileaks dimostra che in anni passati, gli Stati Uniti hanno avuto contatti con qualcosa che loro chiamano “l’opposizione civile” e le hanno pure dato soldi; e c’è l’ingiunzione di Obama a “non sparare” e a “fare riforme”.

Però tutti e tre i fatti potrebbero avere anche una spiegazione più semplice: quando c’è un leone impazzito in giro, non gli dai addosso, ma dici, “ciao ciao, sono amico tuo!“, per rimetterlo in gabbia.

Insomma, nessuno vuole essere odiato da 80 milioni di egiziani, solo per lealtà verso un ottantaduenne che sta per andarsene comunque.

Ed è normale che gli americani cerchino alternative.

In parte, lo fanno attraverso ciò che loro chiamano la “società civile“, l’eterna chimera dei democratici americani a partire dai tempi del Vietnam: mi permetto di pubblicizzare, credo non per la prima volta, il vecchio capolavoro di Frances Fitzgerald, Fire in the Lake, di cui esiste anche una versione italiana (Il lago in fiamme. Storia della guerra in Vietnam 1974) – la studiosa americana ha dimostrato l’incredibile e fallimentare violenza con cui gli americani hanno cercato di distruggere la cultura contadina vietnamita per inventare una “società civile” basata sul “libero mercato”.

La ricetta è sempre quella: si pagano cifre spropositate a qualche think tank per scatenare un gruppo di giovani sociologi a caccia di gente che sembri condividere i Valori Americani – dei Giuliano Ferrara, per capirci.

Il gruppo target è sempre felice di aderire, visto che ci sono in ballo somme che loro non hanno mai visto; e i soldi in genere fanno la fine che si può ben immaginare, ma non è un grosso problema – il funzionario incaricato di spenderli deve solo dimostrare che lui ha fatto qualcosa, appunto spendendoli. E anzi, più spende, più è probabile che possa chiedere soldi da spendere la prossima volta.

Forse vedremo qualcuno di questi giovanotti sbarbati e Civili nel prossimo giorno egiziano; ma la vera questione è l’esercito egiziano.

Prendiamo la questione alla larga.

Gianluca Freda è un blogger colto e intelligente, di cui capisco le buone intenzioni, ma con cui spesso sono in disaccordo. Ieri ha pubblicato la traduzione di un articolo di Webster Tarpley, corredato da commenti propri, in cui sostiene che gli americani non gradirebbero le vecchie dinastie mediorientali (in Egitto, Libia, Tunisia, Siria); le vorrebbero destabilizzare, per instaurare degli staterelli deboli e manipolaboli contro Iran, Cina e Russia.

“Gli USA sono alla disperata ricerca di una nuova generazione di traballanti demagoghi “democratici”, più disponibili a guidare i propri paesi contro l’Iran di quanto abbia dimostrato di voler fare l’immobilismo dei regimi attuali. C’è poi la questione dell’espansione dell’economia cinese. Possiamo star certi che tutti i nuovi leader instaurati dagli USA includeranno nei propri programmi la rottura delle relazioni economiche con la Cina, a partire dalla riduzione delle esportazioni di petrolio e materie prime.”

Non sono d’accordo, per due motivi.

Il primo è questo:

“Nel luglio del 2010, furono pubblicati i risultati di un grande sondaggio internazionale riguardante l’opinione pubblica nel mondo arabo, con sondaggi in Egitto, Arabia Saudita, Marocco, Giordania, Libano e gli Emirati. Ecco alcuni dei risultati più notevoli: mentre Obama era stato accolto positivamente al suo ingresso in carica, con il 51% che esprimeva il proprio ottimismo riguardo alla politica statunitense nella regione, nella primavera del 2009, nell’estate del 2010, solo il 16% esprimeva ottimismo. Nel 2009, il 29% di quelli intervistati affermarono che un Iran dotato di armi nucleari sarebbe stato positivo per la regione; nel 2010, la cifra era salita al 57%, dimostrando un punto di vista molto diverso da quello dei propri governi”.

Mentre l’America, Israele e i leader delle nazioni arabe affermano che l’Iran è la più grande minaccia alla pace e alla stabilità in Medio Oriente, il popolo arabo non è d’accordo. In una domanda aperta su quali due paesi costituissero la minaccia più grave alla regione, l’88% ha risposto Israele, il 77% l’America e il 10% l’Iran.

Insomma, più un governo arabo sarà “democratico”, più sarà antisraeliano, antiamericano e filoiraniano.

E poi, non mi sembra che quello di Mubarak sia esattamente uno “Stato”.

Non somiglia, in questo, né all’Iran né alla Turchia.

Una ventina di anni fa, però, c’erano ancora tracce del tentativo che aveva fatto Nasser di costruire uno Stato. Ad esempio, la scolarizzazione di massa, che non arrivava dappertutto, ma coinvolgeva comunque innumerevoli milioni di giovani. Oppure la concessione automatica di un posto di lavoro statale a chiunque superasse il grande esame scolastico nazionale. Oppure, il prezzo calmierato del pane e gli speciali mercati sussidiati.

Non sono un esperto, ma mi risulta che il regime abbia poi smantellato buona parte di questo sistema, dietro precise istruzioni del Fondo Monetario Internazionale.

L’agricoltura, che ben organizzata avrebbe dato da vivere al paese, si è sempre più concentrata sul cotone e sullo zucchero, e non su ciò che sfama le pance dei contadini. Il turismo è aumentato, ma è sempre concentrato in una decina di località tutte in mano ai soliti monopolisti legati al regime. Che ovviamente spendono più volentieri i loro guadagni a Londra che al Cairo.

Accanto alle forme di redistribuzione della ricchezza, Nasser aveva potenziato l’esercito. Che per tre anni prende i contadini più o meno analfabeti, fornendo loro una minima scolarizzazione. E siccome dà da mangiare – e poco altro – a innumerevoli schiere di giovani maschi affamati, l’esercito ha una qualche utilità nel ridurre il numero dei disoccupati.

Un esercito gestito con un criterio assai particolare – un mio amico, un ufficiale cristiano, aveva talmente tanti soldati semplici al suo personale servizio che ne aveva nominato uno solo per raccogliere le barzellette che giravano per l’accampamento. Lo stesso ufficiale mi raccontò anche che, durante le esercitazioni, erano normali perdite – cioè soldati morti per incidenti – anche del 10%. Ma la Grande Madre Nilo ha molti figli…

… come i soldati di guardia al Consolato greco di Alessandria che mendicavano i soldi per comprarsi un panino…

… come il dignitoso soldatino a Rosetta che ci offrì il tè, pur avendo la divisa così lisa che gli si sarebbero viste le mutande – se le avesse avute…

… come il soldato di guardia all’Università (sì, anche l’università è presidiata dall’esercito) che guadagnava qualcosa vendendo penne agli studenti…

Le gigantesche forze armate egiziane consistono per metà in un esercito e per metà in quelle che vengono definite “Forze centrali di sicurezza” e “Guardie di frontiere” – 400.000 uomini che non pretendono nemmeno di occuparsi della “difesa” del paese.

L’Egitto confina con un paese militarmente imbattibile – Israele – , con un paese con una popolazione molto piccola – la Libia – e con un paese-rottame, il Sudan.

Per quanto riguarda gli ultimi due, potrebbero quindi tranquillamente bastare dei vigili urbani.

Per quanto riguarda la guerra tra un esercito regolare e un altro tecnologicamente molto superiore come quello israeliano – nel 1991, il potentissimo esercito USA ha attaccato il potente esercito iracheno: 148 morti tra gli “alleati”, decine di migliaia tra gli iracheni.

Nel 2003, le perdite furono rispettivamente 139 e altre decine di migliaia.

Dopo il 2003, la resistenza irachena ha inflitto 4.o00 perdite agli statunitensi, spendendo probabilmente meno di quanto spendeva in una settimana il Ministero della Difesa di Saddam Hussein.

Quindi, nel caso di uno scontro con Israele, servirebbe un folto gruppo di portatori di bandiere bianche, strategicamente schierati, con nelle retrovie innumerevoli artigiani in gallabeya capaci di produrre esplosivi adoperando chiodi e fertilizzanti.

In questi giorni, poi, si sente definire l’esercito il “garante dell’unità nazionale“, con una di quelle curiose frasi fatte che i media riecheggiano. Suona bene finché non si pensa che è la stessa frase usata per giustificare decenni di strapotere militare in Turchia – solo che l’Egitto è già un paese del tutto unito.

L’esercito egiziano consuma dunque le scarse ricchezze nazionali per tre motivi: primo, mantenere se stesso; secondo, tenere sotto controllo il paese; terzo, agire su commissione.

E infatti l’esercito egiziano riceve più aiuti dagli Stati Uniti di qualunque altro paese al mondo, tranne Israele.

Innanzitutto, i tecnici americani addestrano l’esercito egiziano a costruire un muro sotterraneo di lastre di ferro per bloccare i tunnel con cui gli abitanti di Gaza cercano di sopravvivere. Nel gennaio del 2008, un certo Steve Israel, deputato democratico di New York, si incontrà personalmente con Hosni Mubarak: subito dopo, gli Stati Uniti assegnarono la somma di 23 milioni di dollari solo per la distruzione delle vie di rifornimento di Gaza.

Gli ufficiali dell’esercito poi fanno parte dell’immensa community - l’inglese lo usano loro, mica noi – degli ufficiali del pianeta. Gente che viaggia continuamente, un giorno sono in Italia per studiare, un altro negli Stati Uniti per ricevere ordini, un altro in Afghanistan o magari in Colombia.

E’ una casta sovranazionale, piena di terzomondiali promossi, che si conosceva già dagli anni Sessanta e Settanta, con la tremenda scuola di Fort Bragg.

Infine, i soldi che il Congresso degli Stati Uniti regala all’esercito egiziano vanno a finire, quasi sempre, in acquisti sul mercato delle armi statunitense. E quindi sia in posti di lavoro garantiti per gli elettori dei congressisti, sia in profitti favolosi per le aziende che finanziano le loro campagne elettorali.

In questo contesto, il denaro non costituisce un problema. Non è una cosa intuitiva né per noi che dobbiamo far contare ogni centesimo; e sembra contraddire ciò che leggiamo, quando sentiamo dire che “i soldi non bastano più” per pagare gli insegnanti a scuola e occorre quindi tagliare.

Riassumiamo il meccanismo, tagliando con l’accetta, ovviamente: fino alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non avevano un esercito serio, anche perché sarebbe stato guardato come una pericolosa ingerenza statale.

Il contributo principale degli Stati Uniti alla guerra non fu però in sangue, ma – letteralmente – in costosissimi prodotti usa-e-getta. Prodotti pagati dallo Stato, ma non con tasse, bensì con buoni del tesoro; mentre l’Inghilterra si svenava oppure regalava le proprie basi in giro per il mondo per mantenere le industrie statunitensi. Il sistema fu gestito da una commissione che metteva insieme imprenditori, finanzieri, militari e uomini del governo.

Essendosi raddoppiata più o meno l’economia, gli Stati Uniti decisero di non smobilitare più. Il resto è la storia del complesso militare industriale costituito da alcuni elementi fissi.

Un finanziamento attraverso buoni del tesoro e affini, all’inizio spacciati con minacce varie a paesi succubi, oggi in massima parte, credo, detenuti dalla Cina.

Più si spende, più guadagnano le imprese statunitensi che partecipano al complesso militare industriale.

E quindi, più deputati e senatori si battono per aumentare le spese militari: non è un caso, né che le aziende militari abbiano localizzato le proprie fabbriche in modo tale da condizionare sistematicamente le elezioni, né che tanti politici vengano premiati con lauti stipendi in aziende private.

L’importante è che non aumentino le tasse: tanto, pagheranno le generazioni future – secondo il Congressional Budget Office, ogni bambino americano nato nel 2010 si porterà dietro un debito pubblico di 29.178 dollari, che all’età di trent’anni diventerà 166,500 dollari.

Noi abbiamo più volte sottolineato questo meccanismo, che ci sembra fondamentale e che viene trascurato spesso per altri meccanismi, ad esempio il petrolio o la lobby israeliana.

In realtà non c’è contraddizione. Le lobby si rafforzano a vicenda; e tutti questi meccanismi concorrono alla creazione del grande sistema guerrafondaio-paranoico. Vendere aerei inutili all’esercito egiziano comunque serve a tenersi amico un esercito che collabora con Israele e che si trova vicino ai pozzi petroliferi. Wikileaks ci offre un interessante scambio tra esecito statunitense ed esercito egiziano: il Pentagono accusa l’esercito egiziano di non voler “modernizzare“, che per loro significa “rifocalizzare per contrastare minacce asimmetriche come il terrorismo, il contrabbando di armi a Gaza e la pirateria, e sostenere la politica USA verso l’Iran”. Una definizione decisamente originale di “modernizzazione”.

I militari comunque volevano i loro giocattoloni – aerei e carri armati – e quindi il Pentagono non ha insistito, a dimostrazione di come l’utilità dell’esercito egiziano non sia affatto solo militare.

Adesso, gli Stati Uniti hanno detto a Mubarak di non sparare sulla folla.

Hosni Mubarak probabilmente farebbe sparare ugualmente,e dal suo punto di vista farebbe bene: non sparare significa arrendersi.

Ma si trova di fronte al dilemma della guardia pretoriana (ma lo aveva già spiegato Platone nella Repubblica).

Il Capo ruba al popolo. Per difendersi dal popolo, deve costruirsi una guardia. Che mangia a spese del popolo. E quindi bisogna rubare ancora di più al popolo.

Quando il popolo si ribella, la guardia depone il Capo, al grido di Viva il Popolo.

E continua a rubare al popolo.

Che mi sembra l’esito più probabile della rivolta egiziana, almeno al momento.

Ma qui sorge un dilemma anche per la guardia pretoriana: come fare le “riforme” ordinate da Obama, senza toccare le cause della catastrofe egiziana, cioè le Dure Leggi del Mercato Globale, gli Impegni Internazionali e la Guardia Pretoriana stessa?

Perché in Egitto, il problema è il pane: ‘aish, che vuol dire anche vita.

Sono un pessimo profeta, ma offro un’ipotesi: la cancellazione di un po’ di debiti che l’Egitto comunque non pagherebbe; un nuovo prestito con cui l’Egitto potrà comprare un bel po’ di grano dall’agribusiness statunitense.

Ricordiamo come un’unica società, la Cargill and Continental Grain – due aziende fuse in una con il permesso del democratico Presidente Clinton – controlla oltre il 50% delle esportazioni agricole dagli Stati Uniti. Ovviamente dopo aver distrutto gli agricoltori indipendenti americani.

Qui ad esempio, potete leggere un’esaltante descrizione del governo statunitense del muscolo egiziano nel mercato alimentare. La geniale capacità di inventare slogan: per muscolo intendono la voracità con cui l’Egitto, un tempo quasi autosufficiente, è costretta a comprare cibo da un altro continente. Come l’Iraq, che una volta addirittura esportava il cibo.

Il documento del governo americano spiega tutto della falsa coscienza con cui si nasconde la realtà dell’imperialismo, con un titolo nell’articolo: “”Egyptians Like U.S. Food”.

di Miguel Martinez

P.S. A proposito, leggete il drammatico post di Bousoufi su ciò che sta succedendo in Tunisia.

03 febbraio 2011

Alitalia... Ghe pensi mi...

Quando, correva l'anno 2008, l'Alitalia era in predicato per passare all'Air France, il governo Prodi aveva accettato di "chiudere" la vendita con la formula "visto e piaciuto" ... i francesi, cioè, si sarebbero accollati i 3 miliardi di debiti della nostra compagnia di bandiera ed i successivi costi di ristrutturazione, senza null'altro a pretendere.

L'Italia (ed in particolare il ministero dell'Economia, maggior azionista di Alitalia) sarebbe uscita da quel carrozzone sgangherato a costo zero, ed i francesi si impegnavano a non licenziare nessuno dei dipendenti.

Ma si era già in piena campagna elettorale e Silvio Berlusconi, in corsa per palazzo Chigi, agitò il "feticcio" dell'italianità della compagnia di bandiera: "l'Alitalia deve restare italiana ... e, una volta eletto presidente del consiglio, ghe pensi mi ...".

Arrivarono le elezioni, Berlusconi vinse con amplissimo margine e ... ci pensò lui: una cordata di imprenditori italiani guidati da Roberto Colaninno rilevò la "parte sana" dell'Alitalia, lasciando allo stato italiano i 3 miliardi di debiti e gli esuberi di personale.

"Ghe pensi mi" significò che, invece di uscire a costo zero (cedendo tutto ad Air France), lo Stato italiano ci rimise almeno 3 miliardi di euro (il conteggio, peraltro provvisorio, è del commissario liquidatore dell'Alitalia Augusto Fantozzi).

Quello fu il prezzo per mantenere italiana la compagnia di bandiera, ed il "pubblico pagante" (cioè Pantalone), nonostante l'alto costo del biglietto, applaudì calorosamente quell'operazione patriottica; i figli, si sa, 'so piezze 'e core e se hanno bisogno, non si bada a spese pur di preservarne l'onore e la dignità.

Applaudì anche la Lega, quella di Roma ladrona che, evidentemente, non riscontrò alcuna contraddizione tra il far pagare quei 3 miliardi anche ai suoi elettori del nord, e il mantenere "italiana" quella scassata compagnia aerea "romana". I leghisti, insomma, sull'altare di quella italianità che da anni predicavano di voler "frantumare", furono "lieti" di versare una parte cospicua di quei 3 miliardi. E lo fecero restando seri, senza che a nessuno passasse per la mente che era l'esatto contrario di quanto avevano fin li predicato (Roma ladrona, Padania indipendente ed Italia di merda). Gente furba e coerente questi leghisti.

Sia come sia, la nuova Alitalia restò italiana ... almeno a chiacchiere, ovvero le solite palle per bambini scimuniti.

Si perché il 12 gennaio 2009, la stessa Air France di cui sopra, quella che l'anno prima avrebbe dovuto farsi carico dei 3 miliardi di debiti della vecchia Alitalia e di tutto il personale della stessa, acquisiva il 25% del capitale e, di fatto, diventava il maggior singolo azionista della neonata compagnia aerea (nuova Alitalia).

Invece di farsi carico dei famosi 3 miliardi e del personale tutto, i francesi versarono 325 milioni e, come detto, con il 25% del capitale diventarono i maggiori azionisti ... (immaginatevi lo stupore di quei francesi di fronte a cotanta abilità negoziale degli italiani ...).

Allo Stato italiano, dunque, restarono i 3 miliardi di debiti e tutti gli esuberi della vecchia Alitalia e, udite udite, anche le eccedenze della Nuova Alitalia ... già perché, siccome anche adesso gli affari vanno maluccio, i francesi e Colaninno hanno appena deciso di mettere 1000 dipendenti in cassa integrazione ... che naturalmente vanno, anche loro, a carico di Pantalone.

Fantastico, no?

Potevamo uscirne per sempre a costo zero e, invece, dopo aver "sganciato" 3 miliardi per il privilegio di avere una compagnia aerea di bandiera (cosa che, di fatto, non è più neanche vera), adesso ci tocca pure pagarne la cassa integrazione.

Adesso, considerate l'aspetto sensazionale della faccenda: sull'Alitalia, la ricostruzione dell'Aquila e la spazzatura di Napoli, il centro destra stravinse le elezioni del 2008 ...??!! In quale altro magnifico paese può avvenire una cosa simile?

Il grande "successo" della nuova Alitalia ci sta costando circa 3.5 miliardi (considerando i costi successivi che si stanno aggiungendo) ... e, decenza vorrebbe, che gli artefici di tale "colpo di genio" venissero (almeno) a scusarsi per quella maestosa cazzata fatta a ragion veduta (era chiarissimo che sarebbe andata a finire così) ... invece, glissano, traccheggiano, oscurano ...

Ed il pubblico pagante?

Beh, non applaude più, anzi, per la verità si comincia a sentire qualche timido fischio che, però, rimane ancora isolato nella distaccata indifferenza dei più. Del resto, si sa, al pubblico tocca pagare anche se lo spettacolo non è stato all'altezza del prezzo del biglietto e, comunque, ognuno poi tornerà a casa sua e dimenticherà quanto avrà visto e sentito.

Ma la compagnia teatrale dovrà prendere qualche provvedimento, perché se il pubblico non applaude, si corre il rischio di trovarsi il teatro vuoto la prossima volta. Sicché sta già pensando ad altri ... ghe pensi mi ... magari più plateale.

Ed è proprio questo il brivido che dovrebbe attraversarci: altri due o tre successoni tipo Alitalia e, se tutto va bene, siamo rovinati.

Naturalmente accetto qualsiasi smentita purché documentata da numeri e fatti. Gli slogan, è ovvio, sono per i bambini scimuniti.

di G. Migliorino

02 febbraio 2011

Multinazionali, le società che distruggono lavoro in patria per trasferirlo all'estero


Le imprese multinazionali creano più industria e posti di lavoro? Neanche per sogno. Per sfatare questo luogo comune basta elaborare alcuni dati pubblicati da R&S. Prendiamo il campione delle multinazionali europee costruito dalla società di ricerche e studi di Mediobanca e osserviamone l'andamento nel decennio compreso tra il 1999 e il 2008. Scopriamo che un settore ad alto tasso di innovazione come quello meccanico, che nel '99 ha rappresentato il 31,6% del fatturato aggregato del campione, nel 2008 è sceso al 24,7%, mentre il settore petrolifero è salito nello stesso periodo dal 18,3% al 32,6 per cento. Sono risultati in discesa anche i settori chimico-farmaceutico (dal 17,4% al 14,5%), alimentare e bevande (dal 7,3% al 6,7%), elettronica (dal 6,5% al 5%), servizi (4,7% all'1,9%), carta (dal 2,2% all1,8%) e gomma e cavi (dall'1,4% all'1,2%). A parte il settore petrolifero-energetico, segnano una crescita anche l'acciaio (dal 4,7% al 5,8% del fatturato totale del campione), il cemento e il vetro (dal 2,3% al 3,4%) e il tessile (dallo 0,4% allo 0,5%).

Attenzione, però: quelli che hanno registrato la più alta crescita percentuale di fatturato - il petrolifero e il chimico-farmaceutico - hanno anche avuto la maggiore flessione dell'occupazione, rispettivamente del 7,7% e del 7,4%, mentre il loro Roe (redditività del capitale netto) s'è attestato sul 25 per cento. Sono stati in sostanza più premiati, a livello di redditività, i settori industriali che hanno espulso dipendenti, mentre sono stati più penalizzati quelli che hanno imbarcato nuova occupazione. La meccanica, che tra il '99 e il 2008 ha accresciuto del 12,3% il numero degli addetti, ha avuto un Roe del 16%, e le costruzioni, a fronte di una crescita degli addetti del 53,5%, hanno avuto un Roe del 13,8 per cento.

Non solo: anche là dove s'è avuto un aumento dell'occupazione, questo è avvenuto a discapito del paese d'origine. In altre parole, le multinazionali creano lavoro ma quasi sempre all'esterno dei propri confini. Quelle francesi hanno ridotto l'occupazione in patria del 24,5%, aumentandola del 19,2% all'estero; quelle tedesche hanno registrato -12,5% in casa propria contro +20,8% al di fuori della Germania; e la crescita occupazionale estera delle multinazionali a capitale italiano è stata addirittura del 63,1% contro una contrazione del 12% su scala nazionale.

Analoga la tendenza in Nord America: a fronte di un calo occupazionale interno del 14,9%, le multinazionale americane hanno aumentato il numero dei dipendenti all'estero del 15,8 per cento. Insomma, il futuro dell'industria mondiale sembra dipendere in misura crescente dalle società petrolifere: aziende che generano costi ambientali elevati a carico della collettività, i cui profitti poggiano, più che sull'innovazione, sull'aumento dei prezzi del greggi.

di Giuseppe Oddo