23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

http://m2.paperblog.com/i/18/181453/lavidita-come-comportamento-anti-prosociale-L-RoedIW.jpeg



Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi

23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

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Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi