22 marzo 2011

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini

20 marzo 2011

Viviamo in una democrazia?


http://www.cdt.ch/files/images/f_59873b658ce8a5c995219d424ea9a1c6.jpg

Signor De Benoist, a suo parere, oggi in Europa ed in occidente in generale, viviamo in una democrazia?
Tutto dipende ovviamente dal modo in cui si definisce la democrazia. I regimi di oggi nella maggior parte dei paesi occidentali sono democrazie parlamentari e liberali, cioè sistemi rappresentativi. Ma, sotto diversi aspetti, c'è una contraddizione di fondo tra la democrazia, il cui principio è l'uguaglianza politica dei cittadini, ed il liberalismo, che privilegia la libertà individuale e tende a mettere la sfera privata al di sopra dello spazio pubblico. La democrazia non è soltanto il regime politico dove la legittimità si basa sulla sovranità del popolo, è anche il regime che in maniera presuntiva dovrebbe mettere il popolo al potere, o almeno permettere al più grande numero dei suoi membri di partecipare agli affari pubblici. In tutta evidenza, non è il caso oggi, poiché vediamo un po' ovunque scavarsi un fossato tra il popolo e la nuova classe politico-mediatica. Carl Schmitt, fedele su questo punto all'opinione di Jean-Jacques Rousseau, riteneva che una democrazia è in egual misura meno democratica di quanto attribuisce importanza alla rappresentanza. In una democrazia rappresentativa, il popolo si disfa infatti della sua sovranità a profitto dei rappresentanti. Una vera democrazia è necessariamente una democrazia, non (soltanto) rappresentativa, ma partecipativa. Più che delle democrazie, i regimi politici occidentali attuali mi sembrano essere oligarchie finanziarie, sostenute da procedure gestionali e di “espertocrazie”.
2. A suo parere è giusto connotare il periodo storico che viviamo come globalizazzione, o sarebbe più corretto parlare di americanizzazione del mondo?
La globalizzazione, prima di tutto, va a vantaggio necessariamente delle potenze dominanti. Americanizzazione e globalizzazione non sono sinonimi, ma vanno oggi insieme: coloro che contestano la globalizzazione pur restando muti sull'americanizzazione farebbero meglio a tacere. Gli Stati Uniti sono oggi la principale base d’ancoraggio del sistema capitalista mondiale, sistema la cui portata va molto al di là della sola sfera economica, nella misura in cui la sua instaurazione su scala mondiale comporta un vero mutamento antropologico (la riduzione di qualsiasi valore al valore mercantile e l'impoverimento dell'immaginario simbolico che ne risulta). La globalizzazione, può definirsi come la trasformazione del pianeta in un mercato gigantesco. È ciò che ho chiamato il regno della forma-Capitale. Gli Stati Uniti sono loro stessi oggetto della forma-Capitale, ma ne sono anche il principale vettore ed i principali beneficiari. Non è dunque possibile denunciare la globalizzazione senza denunciare anche l’imperialismo americano.
3. Quali cambiamenti geopolitici possono delinearsi con la crisi economica in corso?
È ancora molto difficile sapere quali saranno le conseguenze della crisi di "subprimes". Si vede bene tuttavia che nell'epoca della globalizzazione, che è anche quella dell’autonomizzazione e della istantaneità dei trasferimenti finanziari, ogni crisi economica locale tende a propagarsi da un capo all'altro del mondo. Il capitalismo è conosciuto per la sua capacità di trionfare sulle sue crisi, ed anche di nutrirsi di esse. Non credo che questa capacità sia infinita. Il divorzio crescente dell'economia produttiva e dell'economia speculativa immateriale, la fuga in avanti del sistema del credito, l'approfondimento delle diseguaglianze economiche (tanto tra paesi che all'interno di ogni paese), l'incertezza sul futuro, tutto ciò fa sì che il sistema finanziario di oggi sia oggetto di una navigazione vista. La mia sensazione è che il sistema del denaro perirà con il denaro.
4. Lei è critico dell’occidentalismo e di ogni forma d'universalismo, mentre sostiene il politeismo relativistico, al contrario di filosofi come Preve, che sostengono una forma d'universalismo democratico. Potrebbe meglio spiegare le sue posizioni?
Non credo che le mie posizioni a tale riguardo differiscano da quelle di Costanzo Preve. Non faccio l'errore, in particolare, di confondere l’universale con l’universalismo. L’universalismo politico mi sembra discutibile, poiché si basa sull'idea implicita che ciò che vale in un posto deve così necessariamente valere ovunque, senza considerazione dei contesti particolari. Occorrerebbe discutere nel dettaglio, ma ciò mi sembra essere un errore. L'universale non è per me l'opposto della singolarità. È al contrario a partire da una singolarità portata ad un certo grado d'eccellenza o d'intensità che si può raggiungere l'universale. Si potrebbe dire, ad esempio, che Dante è tanto più universale in quanto è prima di tutto italiano. Non dimentico neppure che la nozione d'umanità non è una nozione politica, e che inoltre nessuno appartiene all'umanità in modo immediato: apparteniamo all'umanità in maniera mediata, cioè con la mediazione di una cultura particolare. Le varie forme di universalismo politico mi sembrano essere semplici trasposizioni profane di credenze metafisiche o religiose.
5. È attualizzabile oggi in Europa una forma di democrazia diretta simile alla proposta degli anarchici di fine ottocento?
La democrazia diretta (o la democrazia partecipativa) mi sembra oggi completamente applicabile, a condizione non di cadere nell’angelico o aspettarci più di quello che ci può dare. Occorre qui concepire la globalizzazione come una dialettica: da un lato, omogeneizza ed unifica, dell'altro suscita, per reazione, frammentazioni nuove. L'epoca postmoderna è d'altra parte quella del deterioramento dello stato nazione e delle grandi istituzioni sospese ed astratte che avevano trionfato nell'epoca della modernità. Viviamo oggi in un mondo in cui le Comunità e le reti conoscono una rinnovata importanza. Lo sviluppo delle attività associative, l'emergenza lenta di un'economica più interdipendente, ridà un posto essenziale a tutto ciò che dipende dal localismo. È nelle piccole unità o Comunità locali che è più facile mettere in opera delle pratiche di democrazia diretta, cosa che permette allo stesso tempo di rimediare allo scollamento sociale ed alla scomparsa delle solidarietà organiche.
6. Praticamente ogni partito politico europeo sostiene il sionismo, o in qualunque caso il diritto d’Israele ad esistere benché sia uno stato fondato su basi etnico-religiose. Come può essere spiegata dal suo punto di vista l’adesione di massa al sionismo in Europa e nell’occidente in generale?
Le persecuzioni antisemite intraprese dalla Germania nazista hanno conferito al popolo ebreo un credito morale evidente. Il problema è che questo credito non può essere illimitato. Il conformismo, il peso dei gruppi di pressione, conducono molti ad approvare per principio tutto ciò che fa lo Stato d’Israele. I difensori di quest'ultimo non esitano, per parte loro, a tentare di intimidire i loro avversari presentando ogni forma di antisionismo o tutte le critiche allo Stato di Israele come "antisemite", cosa che è ovviamente assurda. Per quanto riguarda il sionismo come tale, sono personalmente agnostico. Riconosco volentieri al popolo ebreo il diritto di costituirsi in Stato. Il problema comincia soltanto quando questo Stato si stabilisce in un posto già occupato da altri. Occorrerebbe anche chiedersi se uno Stato "etnico" è ancora concepibile nel mondo attuale. Aggiungo che secondo me, non è esagerato parlare di fallimento del progetto sionista, nella misura in cui quest'ultimo si prefiggeva come primo obiettivo di raccogliere gli ebrei in un luogo in cui sarebbero infine stati al sicuro, mentre è evidente che proprio in Israele sono oggi in stato d'insicurezza. Quanto al conflitto Israeliano-palestinese, non vedo per il momento alcuna possibilità ragionevole di soluzione.
7. Quale è la sua opinione sul pensiero di Karl Marx, e sul neomarxismo di Lukacs, di Bloch o di Althusser?
Marx non è stato soltanto uno dei primi ad esporre in modo convincente come il capitalismo organizza l'espropriazione dei produttori sul quale si fonda, è stato soprattutto colui che, in modo veramente brillante, ha capito che il sistema capitalista è un sistema antropologico più ancora che un sistema puramente economico. Le pagine insuperabili che ha dedicato al "feticismo della merce", dalle quali Georg Lukács ha potuto formulare nel 1923 il concetto di "reificazione" (Verdinglichung), illustrano perfettamente il modo in cui l'appropriazione della Terra con il capitale introduce una vera "cosificazione" delle relazioni sociali, dove l'uomo stesso non è soltanto sottoposto alla merce, ma si trasforma in merce. Questo dispositivo di aggiustamento enorme ricorda ciò che Heidegger ha scritto a proposito della Gestell, come sistema di fuga in avanti nell'illimitato. Accanto a ciò, Marx tende a sopra valorizzare la sola economia, cosa che porta ad attendere l’avvento di un'altra forma d'organizzazione economica, anziché mettere in dubbio l'economia stessa come valore (è un punto sul quale, attraverso Ricardo, resta dipendente della scuola classica). Egli vuole anche liberare il lavoro, dove sarebbe stato necessario prevedere di liberarsi dal lavoro stesso. Sviluppa una filosofia lineare della storia che è soltanto una trasposizione profana dello storicismo cristiano. Sottolinea giustamente la realtà delle lotte di classe, ma ha il torto di fare di esse il solo motore della storia umana. Ha molto ben capito che la borghesia, detentrice del capitale - ed alla quale riconosce di avere liquidato il sistema feudale perché vi vede in ciò un presupposto indispensabile per l’avvento di una società senza classi -, trova nell'accumulazione di questo capitale la fonte del suo potere e che le forze produttive si sviluppano nella scia della sua sovranità di classe. Ma ha avuto torto nel caratterizzare la borghesia soltanto come la classe detentrice dei mezzi di produzione, senza vedere che era anche e soprattutto portatrice di valori nuovi. Quanto a Lukács, Bloch ed Althusser, essi sono ovviamente fra i suoi interpreti più importanti.
8. Lei è un sostenitore della decrescita e sostiene che ciò non significa ritornare al passato quanto pensare ad sistema economico che si equilibri con la natura. Tuttavia alcuni pensatori, tra i quali Professor La Grassa, sostengono che se l'Italia o l'Europa intraprendessero la decrescita sarebbero schiacciate militarmente degli USA ed economicamente della Cina. È possibile secondo lei conciliare geopolitica e decrescita?
La potenza non passa soltanto per la crescita. Se, per non essere schiacciati militarmente dagli Stati Uniti o economicamente dalla Cina, occorre impegnarsi in una corsa senza fine verso sempre più armamenti e sempre più crescita, non penso che saremo mai vincenti. Vivremo soltanto in un mondo che diventerà ancora più intollerabile. La teoria della decrescita si fonda sulla presa in considerazione della nozione dei limiti, ed in particolare su questa constatazione che non si può avere una crescita materiale infinita in un mondo finito. Di fronte al capitalismo, l'obiettivo non è di ottenere migliori risultati rispetto ai concorrenti restando nello stesso sistema, ma al contrario di uscire da questo sistema. Piuttosto che rientrare nella rivalità mimetica, sono dunque favorevole ad una strategia di rottura. Essere "più forte" degli Stati Uniti, deve significare in primo luogo: essere capaci di opporre loro un altro modello di società e di civilizzazione.
9. Qual è la sua opinione sul razzismo e la xenofobia?
Ho pubblicato numerosi scritti contro il razzismo e contro la xenofobia. Detto ciò, esprimere sul razzismo un giudizio morale non mi interessa. Trovo più proficuo smontare i preconcetti e farne apparire gli errori intellettuali o teorici. Il razzismo è una forma di alter-fobia, cioè di rifiuto di ammettere, non soltanto l'altro, ma la nozione anche di diversità. Ci sono secondo me due forme di razzismo, molto diverse ma convergenti. La prima è quella del razzismo classico, brutale e discriminatorio, che mira a dividere, a predominare, o sradicare gli altri per la sola ragione che sono diversi. La seconda, più sottile, consiste nel non ammettere l’Altro fino a che non sia stato riportato allo “Stesso”. Dire che "gli uomini sono tutti gli stessi", che ci sono "soltanto uomini come gli altri", può sembrare generoso. È effettivamente soltanto un modo di mostrare che si è incapaci di comprendere e riconoscere la diversità. Il punto comune di questi due razzismi è l'allergia alla differenza.

di Alain de Benoist - Giacomo Repaci -

22 marzo 2011

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini

20 marzo 2011

Viviamo in una democrazia?


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Signor De Benoist, a suo parere, oggi in Europa ed in occidente in generale, viviamo in una democrazia?
Tutto dipende ovviamente dal modo in cui si definisce la democrazia. I regimi di oggi nella maggior parte dei paesi occidentali sono democrazie parlamentari e liberali, cioè sistemi rappresentativi. Ma, sotto diversi aspetti, c'è una contraddizione di fondo tra la democrazia, il cui principio è l'uguaglianza politica dei cittadini, ed il liberalismo, che privilegia la libertà individuale e tende a mettere la sfera privata al di sopra dello spazio pubblico. La democrazia non è soltanto il regime politico dove la legittimità si basa sulla sovranità del popolo, è anche il regime che in maniera presuntiva dovrebbe mettere il popolo al potere, o almeno permettere al più grande numero dei suoi membri di partecipare agli affari pubblici. In tutta evidenza, non è il caso oggi, poiché vediamo un po' ovunque scavarsi un fossato tra il popolo e la nuova classe politico-mediatica. Carl Schmitt, fedele su questo punto all'opinione di Jean-Jacques Rousseau, riteneva che una democrazia è in egual misura meno democratica di quanto attribuisce importanza alla rappresentanza. In una democrazia rappresentativa, il popolo si disfa infatti della sua sovranità a profitto dei rappresentanti. Una vera democrazia è necessariamente una democrazia, non (soltanto) rappresentativa, ma partecipativa. Più che delle democrazie, i regimi politici occidentali attuali mi sembrano essere oligarchie finanziarie, sostenute da procedure gestionali e di “espertocrazie”.
2. A suo parere è giusto connotare il periodo storico che viviamo come globalizazzione, o sarebbe più corretto parlare di americanizzazione del mondo?
La globalizzazione, prima di tutto, va a vantaggio necessariamente delle potenze dominanti. Americanizzazione e globalizzazione non sono sinonimi, ma vanno oggi insieme: coloro che contestano la globalizzazione pur restando muti sull'americanizzazione farebbero meglio a tacere. Gli Stati Uniti sono oggi la principale base d’ancoraggio del sistema capitalista mondiale, sistema la cui portata va molto al di là della sola sfera economica, nella misura in cui la sua instaurazione su scala mondiale comporta un vero mutamento antropologico (la riduzione di qualsiasi valore al valore mercantile e l'impoverimento dell'immaginario simbolico che ne risulta). La globalizzazione, può definirsi come la trasformazione del pianeta in un mercato gigantesco. È ciò che ho chiamato il regno della forma-Capitale. Gli Stati Uniti sono loro stessi oggetto della forma-Capitale, ma ne sono anche il principale vettore ed i principali beneficiari. Non è dunque possibile denunciare la globalizzazione senza denunciare anche l’imperialismo americano.
3. Quali cambiamenti geopolitici possono delinearsi con la crisi economica in corso?
È ancora molto difficile sapere quali saranno le conseguenze della crisi di "subprimes". Si vede bene tuttavia che nell'epoca della globalizzazione, che è anche quella dell’autonomizzazione e della istantaneità dei trasferimenti finanziari, ogni crisi economica locale tende a propagarsi da un capo all'altro del mondo. Il capitalismo è conosciuto per la sua capacità di trionfare sulle sue crisi, ed anche di nutrirsi di esse. Non credo che questa capacità sia infinita. Il divorzio crescente dell'economia produttiva e dell'economia speculativa immateriale, la fuga in avanti del sistema del credito, l'approfondimento delle diseguaglianze economiche (tanto tra paesi che all'interno di ogni paese), l'incertezza sul futuro, tutto ciò fa sì che il sistema finanziario di oggi sia oggetto di una navigazione vista. La mia sensazione è che il sistema del denaro perirà con il denaro.
4. Lei è critico dell’occidentalismo e di ogni forma d'universalismo, mentre sostiene il politeismo relativistico, al contrario di filosofi come Preve, che sostengono una forma d'universalismo democratico. Potrebbe meglio spiegare le sue posizioni?
Non credo che le mie posizioni a tale riguardo differiscano da quelle di Costanzo Preve. Non faccio l'errore, in particolare, di confondere l’universale con l’universalismo. L’universalismo politico mi sembra discutibile, poiché si basa sull'idea implicita che ciò che vale in un posto deve così necessariamente valere ovunque, senza considerazione dei contesti particolari. Occorrerebbe discutere nel dettaglio, ma ciò mi sembra essere un errore. L'universale non è per me l'opposto della singolarità. È al contrario a partire da una singolarità portata ad un certo grado d'eccellenza o d'intensità che si può raggiungere l'universale. Si potrebbe dire, ad esempio, che Dante è tanto più universale in quanto è prima di tutto italiano. Non dimentico neppure che la nozione d'umanità non è una nozione politica, e che inoltre nessuno appartiene all'umanità in modo immediato: apparteniamo all'umanità in maniera mediata, cioè con la mediazione di una cultura particolare. Le varie forme di universalismo politico mi sembrano essere semplici trasposizioni profane di credenze metafisiche o religiose.
5. È attualizzabile oggi in Europa una forma di democrazia diretta simile alla proposta degli anarchici di fine ottocento?
La democrazia diretta (o la democrazia partecipativa) mi sembra oggi completamente applicabile, a condizione non di cadere nell’angelico o aspettarci più di quello che ci può dare. Occorre qui concepire la globalizzazione come una dialettica: da un lato, omogeneizza ed unifica, dell'altro suscita, per reazione, frammentazioni nuove. L'epoca postmoderna è d'altra parte quella del deterioramento dello stato nazione e delle grandi istituzioni sospese ed astratte che avevano trionfato nell'epoca della modernità. Viviamo oggi in un mondo in cui le Comunità e le reti conoscono una rinnovata importanza. Lo sviluppo delle attività associative, l'emergenza lenta di un'economica più interdipendente, ridà un posto essenziale a tutto ciò che dipende dal localismo. È nelle piccole unità o Comunità locali che è più facile mettere in opera delle pratiche di democrazia diretta, cosa che permette allo stesso tempo di rimediare allo scollamento sociale ed alla scomparsa delle solidarietà organiche.
6. Praticamente ogni partito politico europeo sostiene il sionismo, o in qualunque caso il diritto d’Israele ad esistere benché sia uno stato fondato su basi etnico-religiose. Come può essere spiegata dal suo punto di vista l’adesione di massa al sionismo in Europa e nell’occidente in generale?
Le persecuzioni antisemite intraprese dalla Germania nazista hanno conferito al popolo ebreo un credito morale evidente. Il problema è che questo credito non può essere illimitato. Il conformismo, il peso dei gruppi di pressione, conducono molti ad approvare per principio tutto ciò che fa lo Stato d’Israele. I difensori di quest'ultimo non esitano, per parte loro, a tentare di intimidire i loro avversari presentando ogni forma di antisionismo o tutte le critiche allo Stato di Israele come "antisemite", cosa che è ovviamente assurda. Per quanto riguarda il sionismo come tale, sono personalmente agnostico. Riconosco volentieri al popolo ebreo il diritto di costituirsi in Stato. Il problema comincia soltanto quando questo Stato si stabilisce in un posto già occupato da altri. Occorrerebbe anche chiedersi se uno Stato "etnico" è ancora concepibile nel mondo attuale. Aggiungo che secondo me, non è esagerato parlare di fallimento del progetto sionista, nella misura in cui quest'ultimo si prefiggeva come primo obiettivo di raccogliere gli ebrei in un luogo in cui sarebbero infine stati al sicuro, mentre è evidente che proprio in Israele sono oggi in stato d'insicurezza. Quanto al conflitto Israeliano-palestinese, non vedo per il momento alcuna possibilità ragionevole di soluzione.
7. Quale è la sua opinione sul pensiero di Karl Marx, e sul neomarxismo di Lukacs, di Bloch o di Althusser?
Marx non è stato soltanto uno dei primi ad esporre in modo convincente come il capitalismo organizza l'espropriazione dei produttori sul quale si fonda, è stato soprattutto colui che, in modo veramente brillante, ha capito che il sistema capitalista è un sistema antropologico più ancora che un sistema puramente economico. Le pagine insuperabili che ha dedicato al "feticismo della merce", dalle quali Georg Lukács ha potuto formulare nel 1923 il concetto di "reificazione" (Verdinglichung), illustrano perfettamente il modo in cui l'appropriazione della Terra con il capitale introduce una vera "cosificazione" delle relazioni sociali, dove l'uomo stesso non è soltanto sottoposto alla merce, ma si trasforma in merce. Questo dispositivo di aggiustamento enorme ricorda ciò che Heidegger ha scritto a proposito della Gestell, come sistema di fuga in avanti nell'illimitato. Accanto a ciò, Marx tende a sopra valorizzare la sola economia, cosa che porta ad attendere l’avvento di un'altra forma d'organizzazione economica, anziché mettere in dubbio l'economia stessa come valore (è un punto sul quale, attraverso Ricardo, resta dipendente della scuola classica). Egli vuole anche liberare il lavoro, dove sarebbe stato necessario prevedere di liberarsi dal lavoro stesso. Sviluppa una filosofia lineare della storia che è soltanto una trasposizione profana dello storicismo cristiano. Sottolinea giustamente la realtà delle lotte di classe, ma ha il torto di fare di esse il solo motore della storia umana. Ha molto ben capito che la borghesia, detentrice del capitale - ed alla quale riconosce di avere liquidato il sistema feudale perché vi vede in ciò un presupposto indispensabile per l’avvento di una società senza classi -, trova nell'accumulazione di questo capitale la fonte del suo potere e che le forze produttive si sviluppano nella scia della sua sovranità di classe. Ma ha avuto torto nel caratterizzare la borghesia soltanto come la classe detentrice dei mezzi di produzione, senza vedere che era anche e soprattutto portatrice di valori nuovi. Quanto a Lukács, Bloch ed Althusser, essi sono ovviamente fra i suoi interpreti più importanti.
8. Lei è un sostenitore della decrescita e sostiene che ciò non significa ritornare al passato quanto pensare ad sistema economico che si equilibri con la natura. Tuttavia alcuni pensatori, tra i quali Professor La Grassa, sostengono che se l'Italia o l'Europa intraprendessero la decrescita sarebbero schiacciate militarmente degli USA ed economicamente della Cina. È possibile secondo lei conciliare geopolitica e decrescita?
La potenza non passa soltanto per la crescita. Se, per non essere schiacciati militarmente dagli Stati Uniti o economicamente dalla Cina, occorre impegnarsi in una corsa senza fine verso sempre più armamenti e sempre più crescita, non penso che saremo mai vincenti. Vivremo soltanto in un mondo che diventerà ancora più intollerabile. La teoria della decrescita si fonda sulla presa in considerazione della nozione dei limiti, ed in particolare su questa constatazione che non si può avere una crescita materiale infinita in un mondo finito. Di fronte al capitalismo, l'obiettivo non è di ottenere migliori risultati rispetto ai concorrenti restando nello stesso sistema, ma al contrario di uscire da questo sistema. Piuttosto che rientrare nella rivalità mimetica, sono dunque favorevole ad una strategia di rottura. Essere "più forte" degli Stati Uniti, deve significare in primo luogo: essere capaci di opporre loro un altro modello di società e di civilizzazione.
9. Qual è la sua opinione sul razzismo e la xenofobia?
Ho pubblicato numerosi scritti contro il razzismo e contro la xenofobia. Detto ciò, esprimere sul razzismo un giudizio morale non mi interessa. Trovo più proficuo smontare i preconcetti e farne apparire gli errori intellettuali o teorici. Il razzismo è una forma di alter-fobia, cioè di rifiuto di ammettere, non soltanto l'altro, ma la nozione anche di diversità. Ci sono secondo me due forme di razzismo, molto diverse ma convergenti. La prima è quella del razzismo classico, brutale e discriminatorio, che mira a dividere, a predominare, o sradicare gli altri per la sola ragione che sono diversi. La seconda, più sottile, consiste nel non ammettere l’Altro fino a che non sia stato riportato allo “Stesso”. Dire che "gli uomini sono tutti gli stessi", che ci sono "soltanto uomini come gli altri", può sembrare generoso. È effettivamente soltanto un modo di mostrare che si è incapaci di comprendere e riconoscere la diversità. Il punto comune di questi due razzismi è l'allergia alla differenza.

di Alain de Benoist - Giacomo Repaci -