05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei

04 giugno 2011

Dire la verità sui poteri forti







Più di un terzo dell’elettorato non ha votato: possiamo essere certi che si tratta in grande maggioranza di elettori del centro destra. L’astensione altissima alle provinciali segnala anche qualcosa di più: la protesta per la mancata abolizione delle province. Parto da questo punto per un’analisi dei motivi della sconfitta un po’ diversa da quelle prospettate fino adesso. Bisogna, infatti, che i politici berlusconiani guardino bene in faccia prima di tutto una realtà: i loro elettori non sono bambini cui offrire caramelle ma persone serissime, che conoscono in profondità i problemi dell’Italia e che hanno scelto l’occasione del voto amministrativo, proprio perché non è decisivo, per gridare a Berlusconi e a Bossi che la loro pazienza è finita e che, di conseguenza, debbono affrontare i problemi veri prima delle politiche.

Sebbene la battaglia elettorale sia stata accesissima, non è servita a rassicurare gli elettori del centro destra perché non è stata detta nessuna verità. Quali erano gli argomenti dei quali bisognava parlare e che avrebbero suscitato l’interesse critico in tutti? Prima di tutto il debito pubblico, la crisi dell’euro, il continuo richiamo della Banca centrale europea ai famosi “sacrifici”, sacrifici per i quali la cultura deve andare in malora … Crede, forse, Berlusconi, che i suoi elettori non sappiano che siamo chiusi nella prigione della mancanza di sovranità monetaria? Che è questo il motivo per il quale non si possono abbassare le tasse? Crede forse Berlusconi che gli elettori siano degli analfabeti che si occupano soltanto di calcio? Se non si discutono questi argomenti, se non se ne dimostrano le conseguenze negative in tutti i campi, si perdono i voti della propria parte e non si toglie neanche un voto alle sinistre perché l’europeismo, il mondialismo, l’internazionalismo, il mercato comune, la moneta comune sono i valori delle sinistre. I famosi “poteri forti” non se ne sono stati di certo a guardare.

E la guerra alla Libia? Di sicuro non è stata la sinistra a soffrire di un tale voltafaccia dato che i rapporti amichevoli con Gheddafi, i contratti per le aziende italiane, il freno all’emigrazione clandestina erano esclusivamente opera di Berlusconi. Perché non è stata detta una parola in proposito? Si pensa, forse, che non stiano a cuore ai Milanesi? Non parliamo, poi, dei leghisti, veri e propri esperti di questi problemi, abituati a discutere con disinvoltura della possibilità o della convenienza per l’Italia di uscire dall’euro, di sospendere il trattato di Schengen per poter fronteggiare l’immigrazione clandestina e che, viceversa, hanno assistito con stupore e con rabbia alle esitazioni, alle debolezze, ai cedimenti dei propri politici, incapaci di opporsi a poteri più che forti: fortissimi. Continuare a fingere di stare da tutte e due le parti serve soltanto a perdere.

Bisogna aggiungere a tutti questi aspetti negativi l’atmosfera grigia intellettualmente, culturalmente, artisticamente, creata dal centro destra e che è diventata con il passare del tempo tanto pesante da togliere il respiro. Manca qualsiasi sussulto critico, qualsiasi iniziativa dell’intelligenza, perfino nell’ambito religioso, dove tanti credenti, che pure votano per il centro destra, vorrebbero poter discutere il proprio disaccordo con le gerarchie, ma non trovano lo spazio adatto. Dove e come farlo, infatti? Nell’ambito politico Berlusconi e Bossi hanno accuratamente scartato qualsiasi persona che possedesse il minimo prestigio intellettuale e, per maggiore sicurezza, non hanno creato nessuno strumento dove l’intelligenza potesse fare capolino. Nel centro destra non esiste né una rivista né un programma televisivo di cultura: nulla. Sono state mortificate così le forze migliori, le uniche che potevano e forse possono ancora sconfiggere le sinistre. Berlusconi ha sempre detto che voleva salvare l’Italia dal comunismo: il mondialismo, il multiculturalismo, il primato dell’economia e del mercato sono figli di Marx, e sono “idee” prima di essere fatti. Non si possono vincere se non con altre idee e ingaggiando una durissima battaglia a viso aperto.
di Ida Magli

02 giugno 2011

Interrogazione al ministro delle Finanze sul signoraggio


Interrogazione a risposta scritta 4-12113
presentata da
ANTONIO DI PIETRO
lunedì 30 maggio 2011, seduta n.479

DI PIETRO. – Al Ministro dell’economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:

l’emissione della moneta è obbligatoriamente collegata alla generazione del signoraggio che è rappresentato dal guadagno e dal potere in mano al soggetto predisposto alla creazione della moneta. Il signoraggio, dunque, è l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta. Il premio Nobel Paul R. Krugman, nel testo di economia internazionale scritto con Maurice Obstfeld, lo definisce come il flusso di «risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi»;

storicamente, il signoraggio era il termine col quale si indicava il compenso richiesto dagli antichi sovrani per garantire, attraverso la propria effigie impressa sulla moneta, la purezza e il peso dell’oro e dell’argento;

oggi, invece, alcuni studiosi di economia imputano al moderno signoraggio una dimensione che va ben al di là di una semplice tassa, in quanto il reddito monetario di una banca di emissione è dato solo apparentemente dalla differenza tra la somma degli interessi percepiti sulla cartamoneta emessa e prestata allo Stato e alle banche minori e il costo infinitesimale di carta, inchiostro e stampa sostenuto per produrre denaro. Apparentemente, in quanto, de facto, il signoraggio moderno è eclissato nella contabilità dall’azione di dubbia legittimità della banca emittente che pone al passivo il valore nominale della banconota. In buona sostanza, la banca dichiara di sostenere per la produzione della carta moneta un costo pari al suo valore facciale (euro 100 per una banconota del taglio di 100 euro);

le Banche centrali sono le istituzioni che raccolgono sia la ricchezza, sia il profitto da signoraggio che dovrebbero essere trasferiti, una volta coperti i costi di coniatura, alla collettività rappresentata nello Stato;

tale signoraggio è il cosiddetto signoraggio primario poiché deriva dall’abilità che possiede la Banca centrale di emettere moneta stampandola e immettendola nel mercato. Si tratta del signoraggio che sta a monte di tutto il sistema monetario, poiché si colloca nel momento di emissione della moneta;

questo processo non è però l’unico che permette l’aumento della massa monetaria in circolazione nel circuito economico. Esiste, infatti, un secondo meccanismo attraverso il quale cresce la base monetaria in circolazione, il cosiddetto signoraggio secondario o credit creation;

il signoraggio secondario è il guadagno che le banche commerciali ricavano dal loro potere di aumentare l’offerta di moneta estendendo i loro prestiti sui quali ricevono interessi e, negli ultimi decenni, con l’introduzione di nuovi strumenti finanziari quali, ad esempio i derivati;

con riferimento al sistema monetario attuale, da anni si discute sia in ambito accademico sia in ambito sociale sulle incongruenze relative alla proprietà del valore della moneta al momento della sua emissione: un valore che, in buona sostanza, non verrebbe riconosciuto in capo al suo creatore, ovvero la collettività, il popolo, ma che piuttosto le verrebbe sottratto;

principio fermo di ogni democrazia è che la «sovranità» appartiene al popolo e la nostra Carta costituzionale sancisce chiaramente questo principio all’articolo 1;

ne consegue che derivazione diretta di tale sovranità è anche la sovranità monetaria, che determina il potere di chi detiene il controllo della moneta e del credito;

essendo il popolo a produrre, consumare e lavorare, la moneta, sin dal momento in cui viene emessa da una qualsiasi Banca centrale dovrebbe, in linea di principio, come affermato da molti studiosi, diventare proprietà di tutti i cittadini che costituiscono lo Stato, il quale però non detiene il potere di emettere moneta;

la distorsione alla base della sovranità monetaria è stata oggetto di uno studio da parte del procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini che sul punto ha scritto il libro La banca, la moneta e l’usura, edizione Controcorrente, Napoli, 2001. Secondo il procuratore generale Bruno Tarquini, lo Stato avrebbe avuto i mezzi tecnici per esercitare in concreto il potere di emettere moneta e per riappropriarsi di quella sovranità monetaria che avrebbe permesso di svolgere una politica socio-economica non limitata da influenze esterne, ma soprattutto liberandosi di ogni indebitamento;

anche il professor Giacinto Auriti, docente fondatore della facoltà di giurisprudenza di Teramo, ha compiuto numerosi studi sulla sovranità monetaria e sul fenomeno del signoraggio;

in particolare, il professor Giacinto Auriti ha sostenuto che l’emissione di moneta senza riserve e titoli di Stato a garanzia per la realizzazione di opere pubbliche non creerebbe inflazione in quanto corrisposto da un eguale aumento della ricchezza reale, e che le Banche centrali ricaverebbero profitti indebiti dal signoraggio sulla cartamoneta, dando origine in tal modo al debito pubblico;

altra denuncia compiuta dal professor Giacinto Auriti è quella relativa alla totale assenza al livello giuridico di una norma che stabilisca in maniera univoca di chi sia la proprietà dell’euro all’atto della sua emissione. Per tali ragioni, ad avviso del professor Auriti, risulterebbe impossibile individuare chi sia creditore e chi debitore nella fase della circolazione della moneta e i popoli europei non sapranno mai se siano «creditori» (in quanto proprietari) o «debitori» (in quanto non proprietari) per un valore pari a tutto l’euro che viene messo in circolazione -:

se alla luce di quanto descritto in premessa il Governo non intenda intervenire, anche nelle competenti sedi europee, per verificare la compatibilità delle teorie elaborate dal procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini e dal professor Giacinto Auriti con i Trattati dell’Unione europea e il principio costituzionale della sovranità monetaria, anche al fine chiarire di chi sia la proprietà dell’euro al momento della sua emissione, quale sia la natura giuridica della moneta emessa dalle banche commerciali e, infine, quale sia la reale efficacia degli strumenti di controllo a disposizione della Banca centrale sulla massa monetaria messa in circolazione dalle banche commerciali.
di Nicoletta Forcheri

05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei

04 giugno 2011

Dire la verità sui poteri forti







Più di un terzo dell’elettorato non ha votato: possiamo essere certi che si tratta in grande maggioranza di elettori del centro destra. L’astensione altissima alle provinciali segnala anche qualcosa di più: la protesta per la mancata abolizione delle province. Parto da questo punto per un’analisi dei motivi della sconfitta un po’ diversa da quelle prospettate fino adesso. Bisogna, infatti, che i politici berlusconiani guardino bene in faccia prima di tutto una realtà: i loro elettori non sono bambini cui offrire caramelle ma persone serissime, che conoscono in profondità i problemi dell’Italia e che hanno scelto l’occasione del voto amministrativo, proprio perché non è decisivo, per gridare a Berlusconi e a Bossi che la loro pazienza è finita e che, di conseguenza, debbono affrontare i problemi veri prima delle politiche.

Sebbene la battaglia elettorale sia stata accesissima, non è servita a rassicurare gli elettori del centro destra perché non è stata detta nessuna verità. Quali erano gli argomenti dei quali bisognava parlare e che avrebbero suscitato l’interesse critico in tutti? Prima di tutto il debito pubblico, la crisi dell’euro, il continuo richiamo della Banca centrale europea ai famosi “sacrifici”, sacrifici per i quali la cultura deve andare in malora … Crede, forse, Berlusconi, che i suoi elettori non sappiano che siamo chiusi nella prigione della mancanza di sovranità monetaria? Che è questo il motivo per il quale non si possono abbassare le tasse? Crede forse Berlusconi che gli elettori siano degli analfabeti che si occupano soltanto di calcio? Se non si discutono questi argomenti, se non se ne dimostrano le conseguenze negative in tutti i campi, si perdono i voti della propria parte e non si toglie neanche un voto alle sinistre perché l’europeismo, il mondialismo, l’internazionalismo, il mercato comune, la moneta comune sono i valori delle sinistre. I famosi “poteri forti” non se ne sono stati di certo a guardare.

E la guerra alla Libia? Di sicuro non è stata la sinistra a soffrire di un tale voltafaccia dato che i rapporti amichevoli con Gheddafi, i contratti per le aziende italiane, il freno all’emigrazione clandestina erano esclusivamente opera di Berlusconi. Perché non è stata detta una parola in proposito? Si pensa, forse, che non stiano a cuore ai Milanesi? Non parliamo, poi, dei leghisti, veri e propri esperti di questi problemi, abituati a discutere con disinvoltura della possibilità o della convenienza per l’Italia di uscire dall’euro, di sospendere il trattato di Schengen per poter fronteggiare l’immigrazione clandestina e che, viceversa, hanno assistito con stupore e con rabbia alle esitazioni, alle debolezze, ai cedimenti dei propri politici, incapaci di opporsi a poteri più che forti: fortissimi. Continuare a fingere di stare da tutte e due le parti serve soltanto a perdere.

Bisogna aggiungere a tutti questi aspetti negativi l’atmosfera grigia intellettualmente, culturalmente, artisticamente, creata dal centro destra e che è diventata con il passare del tempo tanto pesante da togliere il respiro. Manca qualsiasi sussulto critico, qualsiasi iniziativa dell’intelligenza, perfino nell’ambito religioso, dove tanti credenti, che pure votano per il centro destra, vorrebbero poter discutere il proprio disaccordo con le gerarchie, ma non trovano lo spazio adatto. Dove e come farlo, infatti? Nell’ambito politico Berlusconi e Bossi hanno accuratamente scartato qualsiasi persona che possedesse il minimo prestigio intellettuale e, per maggiore sicurezza, non hanno creato nessuno strumento dove l’intelligenza potesse fare capolino. Nel centro destra non esiste né una rivista né un programma televisivo di cultura: nulla. Sono state mortificate così le forze migliori, le uniche che potevano e forse possono ancora sconfiggere le sinistre. Berlusconi ha sempre detto che voleva salvare l’Italia dal comunismo: il mondialismo, il multiculturalismo, il primato dell’economia e del mercato sono figli di Marx, e sono “idee” prima di essere fatti. Non si possono vincere se non con altre idee e ingaggiando una durissima battaglia a viso aperto.
di Ida Magli

02 giugno 2011

Interrogazione al ministro delle Finanze sul signoraggio


Interrogazione a risposta scritta 4-12113
presentata da
ANTONIO DI PIETRO
lunedì 30 maggio 2011, seduta n.479

DI PIETRO. – Al Ministro dell’economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:

l’emissione della moneta è obbligatoriamente collegata alla generazione del signoraggio che è rappresentato dal guadagno e dal potere in mano al soggetto predisposto alla creazione della moneta. Il signoraggio, dunque, è l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta. Il premio Nobel Paul R. Krugman, nel testo di economia internazionale scritto con Maurice Obstfeld, lo definisce come il flusso di «risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi»;

storicamente, il signoraggio era il termine col quale si indicava il compenso richiesto dagli antichi sovrani per garantire, attraverso la propria effigie impressa sulla moneta, la purezza e il peso dell’oro e dell’argento;

oggi, invece, alcuni studiosi di economia imputano al moderno signoraggio una dimensione che va ben al di là di una semplice tassa, in quanto il reddito monetario di una banca di emissione è dato solo apparentemente dalla differenza tra la somma degli interessi percepiti sulla cartamoneta emessa e prestata allo Stato e alle banche minori e il costo infinitesimale di carta, inchiostro e stampa sostenuto per produrre denaro. Apparentemente, in quanto, de facto, il signoraggio moderno è eclissato nella contabilità dall’azione di dubbia legittimità della banca emittente che pone al passivo il valore nominale della banconota. In buona sostanza, la banca dichiara di sostenere per la produzione della carta moneta un costo pari al suo valore facciale (euro 100 per una banconota del taglio di 100 euro);

le Banche centrali sono le istituzioni che raccolgono sia la ricchezza, sia il profitto da signoraggio che dovrebbero essere trasferiti, una volta coperti i costi di coniatura, alla collettività rappresentata nello Stato;

tale signoraggio è il cosiddetto signoraggio primario poiché deriva dall’abilità che possiede la Banca centrale di emettere moneta stampandola e immettendola nel mercato. Si tratta del signoraggio che sta a monte di tutto il sistema monetario, poiché si colloca nel momento di emissione della moneta;

questo processo non è però l’unico che permette l’aumento della massa monetaria in circolazione nel circuito economico. Esiste, infatti, un secondo meccanismo attraverso il quale cresce la base monetaria in circolazione, il cosiddetto signoraggio secondario o credit creation;

il signoraggio secondario è il guadagno che le banche commerciali ricavano dal loro potere di aumentare l’offerta di moneta estendendo i loro prestiti sui quali ricevono interessi e, negli ultimi decenni, con l’introduzione di nuovi strumenti finanziari quali, ad esempio i derivati;

con riferimento al sistema monetario attuale, da anni si discute sia in ambito accademico sia in ambito sociale sulle incongruenze relative alla proprietà del valore della moneta al momento della sua emissione: un valore che, in buona sostanza, non verrebbe riconosciuto in capo al suo creatore, ovvero la collettività, il popolo, ma che piuttosto le verrebbe sottratto;

principio fermo di ogni democrazia è che la «sovranità» appartiene al popolo e la nostra Carta costituzionale sancisce chiaramente questo principio all’articolo 1;

ne consegue che derivazione diretta di tale sovranità è anche la sovranità monetaria, che determina il potere di chi detiene il controllo della moneta e del credito;

essendo il popolo a produrre, consumare e lavorare, la moneta, sin dal momento in cui viene emessa da una qualsiasi Banca centrale dovrebbe, in linea di principio, come affermato da molti studiosi, diventare proprietà di tutti i cittadini che costituiscono lo Stato, il quale però non detiene il potere di emettere moneta;

la distorsione alla base della sovranità monetaria è stata oggetto di uno studio da parte del procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini che sul punto ha scritto il libro La banca, la moneta e l’usura, edizione Controcorrente, Napoli, 2001. Secondo il procuratore generale Bruno Tarquini, lo Stato avrebbe avuto i mezzi tecnici per esercitare in concreto il potere di emettere moneta e per riappropriarsi di quella sovranità monetaria che avrebbe permesso di svolgere una politica socio-economica non limitata da influenze esterne, ma soprattutto liberandosi di ogni indebitamento;

anche il professor Giacinto Auriti, docente fondatore della facoltà di giurisprudenza di Teramo, ha compiuto numerosi studi sulla sovranità monetaria e sul fenomeno del signoraggio;

in particolare, il professor Giacinto Auriti ha sostenuto che l’emissione di moneta senza riserve e titoli di Stato a garanzia per la realizzazione di opere pubbliche non creerebbe inflazione in quanto corrisposto da un eguale aumento della ricchezza reale, e che le Banche centrali ricaverebbero profitti indebiti dal signoraggio sulla cartamoneta, dando origine in tal modo al debito pubblico;

altra denuncia compiuta dal professor Giacinto Auriti è quella relativa alla totale assenza al livello giuridico di una norma che stabilisca in maniera univoca di chi sia la proprietà dell’euro all’atto della sua emissione. Per tali ragioni, ad avviso del professor Auriti, risulterebbe impossibile individuare chi sia creditore e chi debitore nella fase della circolazione della moneta e i popoli europei non sapranno mai se siano «creditori» (in quanto proprietari) o «debitori» (in quanto non proprietari) per un valore pari a tutto l’euro che viene messo in circolazione -:

se alla luce di quanto descritto in premessa il Governo non intenda intervenire, anche nelle competenti sedi europee, per verificare la compatibilità delle teorie elaborate dal procuratore generale della Repubblica Bruno Tarquini e dal professor Giacinto Auriti con i Trattati dell’Unione europea e il principio costituzionale della sovranità monetaria, anche al fine chiarire di chi sia la proprietà dell’euro al momento della sua emissione, quale sia la natura giuridica della moneta emessa dalle banche commerciali e, infine, quale sia la reale efficacia degli strumenti di controllo a disposizione della Banca centrale sulla massa monetaria messa in circolazione dalle banche commerciali.
di Nicoletta Forcheri