08 giugno 2011

Pornografia della vita quotidiana


Aggrediti quotidianamente dalla volgarità e dalla oscenità dei messaggi pubblicitari, lo siamo anche dai comportamenti abituali delle persone, primo fra tutti l’abbigliamento.
Vestirsi, o piuttosto svestirsi, in un certo modo, significa esercitare una forma di potere sul prossimo, specialmente se si è giovani e belli: il potere di imporgli la provocazione sessuale, di costringerlo o a voltare la testa dall’altra parte, per l’imbarazzo (e talvolta per il disgusto) o a guardare con desiderio, come un povero fesso, la merce che viene generosamente esposta, anzi, esibita ed ostentata, ma che non è in vendita.
Inutile parlare, ormai, di decoro o di buon gusto: se ne sono andati per sempre, spazzati via dalla grossolanità più sfacciata, dall’esibizionismo più becero.
Inutile parlare di rispetto di se stessi e di senso del pudore: che cosa sono mai questi concetti, se non reliquie di un passato morto e sepolto, che non può tornare?
Inutile, infine, fare appello allo stesso senso della libertà e della democrazia, facendo osservare che la prima finisce dove inizia quella altrui, e che la seconda si nutre del rispetto di tutti e di ciascuno, compresi quelli che vorrebbero andarsene per i fatti propri, senza essere provocati ad ogni passo e senza essere arruolati a forza tra il pubblico di uno spettacolo indecente.
Un preside di Trento, l’ennesimo, ci ha provato: ha proibito l’ingresso alle lezioni agli alunni che si presentano a scuola con i pantaloni a vita bassa, esibendo abbondantemente le nudità del ventre e del sedere, con tanto di mutandine e perizoma a vista.
Ma non è servito e non servirà a nulla, lo sappiamo benissimo.
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti la giunta comunale ha addirittura minacciato una multa di 500 dollari a chi se ne va in giro per la strada indossando pantaloni a vita bassa: con il solo risultato, presumibilmente, di coprirsi di ridicolo e di passare pure per razzista e oscurantista, di nemica della sacrosanta libertà dei cittadini.
Se uno vuol mostrare al mondo le proprie mutandine o, magari, l’assenza di mutandine; se vuol far vedere, ogni volta che si piega o che si siede, le sue chiappe, più o meno ben tornite, più o meno abbronzate, oppure, sul versante opposto, i suoi peli pubici: che male c’è?
Forse che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quella rovente estate del 1789, nonché la Dichiarazione dei diritti umani, proclamata sempre a Parigi, del 1948, sono state scritte per nulla?Forse che non valgono nemmeno la carta e l’inchiostro su cui furono vergate?
E allora, armiamoci e partiamo: giù le braghe, fuori le mutande: viva la marcia della libertà e crepino i vieti pregiudizi dell’Ancien Régime, il moralismo ipocrita dei bacchettoni, delle cariatidi borghesi!
Abbiamo combattuto per la libertà, sì o no? E dunque vogliamo indossare i pantaloni col cavallo sempre più basso, sfoggiare sempre più la biancheria intima: a colori sgargianti, giallo shocking, rosso fuoco; o a disegnini teneramente erotici: a fiorellini, a pois.
Ora che è arrivato il caldo, poi, si salvi chi può: quella di calare le braghe è diventata pure una necessità fisiologica; la pelle, si sa, deve poter respirare.
Sicché, quando un baldo giovanotto o una simpatica ragazza si siedono al bar o, semplicemente, sui banchi della scuola, magari sfogliando il vocabolario di latino, non c’è niente di più normale che godersi lo spettacolo dei loro sederini esposti all’aria per almeno una decina di centimetri al di sotto dell’osso sacro.
Non sempre è un bello spettacolo, perché non sempre i proprietari di quei fondoschiena possono vantare un fisico da modelli; ma il punto, ovviamente, non è questo: non si tratta di una questione estetica, ma etica.
Anche se quelli che ci vengono offerti alla vista fossero i sederi più belli del mondo, la loro esibizione estemporanea, nei momenti e nei luoghi meno opportuni, è pornografia allo stato puro: pornografia della vita quotidiana.
È una pornografia di massa, così come vi sono una società di massa, una comunicazione di massa, un turismo di massa; per cui ci dovremo abituare, piaccia o non piaccia, anche alle chiappe di massa, agli addomi di massa, ai tatuaggi di massa nelle zone pubiche.
Già, i tatuaggi: sempre gli stessi, quelli sfoggiati dagli squallidi vip dei rotocalchi scandalistici o dei reality della tv spazzatura; sempre gli stessi angioletti, le stesse farfalle, gli stessi cuoricini; e sempre occhieggianti dagli stessi angoli intimi.
Essi rivelano una totale mancanza di personalità, oltre che di senso della decenza: perché, tranne che mostrare il culo, questi barbari della pornografia di massa non sono capaci di niente, nemmeno di essere creativi nella loro volgarità e nel loro sfrenato narcisismo; non sanno neppure essere pornografici in maniera personale, da esseri umani e non da pecore belanti.
Inutile dire come, in tutto questo, non vi sia neppure l’ombra, non diremo dell’erotismo, ma neanche della sensualità.
Per dirla tutta: non conosciamo nulla di più deprimente, nulla di più mortificante, nulla di meno eccitante di queste chiappe sbattute in faccia al primo che passa, a un tanto il chilo, come carne di qualità scadente; di questi ombelichi sparati addosso a chi preferirebbe non vederli, non trovandoli né belli, né invitanti, né desiderabili; a questi bacini, ora ossuti, ora cicciosi, sempre sgraziati e sommamente insulsi; di questi tatuaggi che fuoriescono dappertutto, a imitazione di qualche divetta da strapazzo, di qualche velina televisiva, di qualche straccetto di showgirl che non sa fare niente: né cantare, né ballare, e nemmeno parlare in un italiano decente o muoversi con un minimo di grazia e di naturalezza.
Tentazioni? No davvero.
Eppure, sempre più frequenti sono le situazioni in cui uno, letteralmente, non sa più dove girare lo sguardo; sui treni, sugli autobus, per la strada, nei supermercati, nelle scuole, negli uffici: ovunque è una esibizione quotidiana, implacabile, tristissima, di mercanzia corporea.
Ovunque si fa a gara per chi mostra qualche centimetro di pelle nuda in più, per chi ostenta la scollatura più audace, per chi abbassa un poco di più la cintura dei pantaloni: al punto che ti chiedi come fanno a non perderli per strada e a non restare tutti nudi, dalla vita in giù, come mamma li ha fatti, scarpe o stivaletti a parte.
Se entri in un negozio e chiedi un articolo che si trova in uno dei ripiani alti dello scaffale, la commessa, salendo con la scaletta, ti costringe ad ammirare tutto il suo pancino nudo, mentre la maglietta, già cortissima, si solleva di quasi mezzo metro al di sopra dei jeans, e l’immancabile farfallina tatuata ti ammicca dolcemente sopra l’inguine.
Se passeggi sulla pensilina in attesa del treno, puntualmente in ritardo, non puoi fare a meno di sbattere con lo sguardo, e quasi anche coi piedi, contro il roseo sedere dei ragazzi che, borse di scuola a tracolla e mascelle perennemente impegnate a ruminare gomma americana, siedono scompostamente sulle panchine, sui bordi delle aiole, sui libri stessi posati a terra: e ti chiedi se sia proprio naturale tutto quel piegarsi in avanti, tutto quel curvarsi sulla schiena, assumendo delle pose alquanto innaturali; o se non sia, piuttosto, una strategia lungamente studiata e messa a punto fin nei minimi dettagli, magari con l’aiuto e il consiglio degli amici.
Se, poi, stanco e sudato, stai facendo la fila all’ufficio postale e finalmente, armato del tuo bravo numero come al supermarket, arrivi allo sportello, ecco che ti devi sorbire lo show erotico dell’impiegata che, dovendo chinarsi per cercare la tua raccomandata inevasa, ti mostra più roba di quanta non ne facesse vedere Kim Basinger a Mickey Rourke in «Nove settimane e mezzo»; oppure, come direbbe il buon principe di Salina de «Il gattopardo» al suo confessore, più roba di quanto le mogli d’un tempo non ne mostrassero ai mariti, dopo una pluridecennale vita coniugale e dopo avere messo al mondo una intera nidiata di eredi.
E quando poi si volta, non sai nemmeno come affrontare il suo sguardo: ti domandi se ti possa leggere in viso l’effetto che il suo spettacolino ha provocato; ti senti colpevole come un ragazzino colto in fallo, anche se a tutto pensavi, quando hai raggiunto il sospirato sportello, tranne che a eccitarti sbirciando le grazie, magari discutibili, di questa sconosciuta che ora sembra ridacchiare del tuo imbarazzo o, peggio, fiutare le prove della tua malizia sporcacciona.
Che bella situazione: colpevole di niente, eppure sospettato, quanto meno, di cattivi pensieri (perché il maschio, si sa, nella cultura post-femminista, è sempre un porcaccione); provocato e, forse, un po’ turbato, senza aver mosso un dito per arrivare a tanto; costretto, infine, a mostrare urbanità e naturalezza, persino indifferenza, insomma a non fare una piega, quando hai dovuto subire da quella perfetta sconosciuta un comportamento non meno pesante ed invasivo delle persecuzioni sessuali che tante donne lamentano da parte di colleghi e capiufficio.
Ma l’uomo è quello che pensa sempre male, la donna no; se la donna mostra il suo corpo, lo fa per caso, con innocenza, senza intenzione; mentre se l’uomo guarda, allora vuol dire che è un porco, un selvaggio, un potenziale stupratore.
E comunque, qualsiasi cosa lui faccia, sbaglia: se si mostra emozionato, allora la donna lo guarda di traverso, immaginando che lui abbia immaginato cose sporche e irriferibili proprio su di lei («Ma come si permette quello lì, che nemmeno lo conosco!»); se, viceversa, ostenta nonchalance, allora c’è il caso che lei lo guardi ancora più di traverso, ferita a sangue nella sua vanità femminile («Ma guarda che razza di impotente, possibile che io valga così poco?; no, non è impossibile: quello non è nemmeno un impotente, è proprio un gran finocchio!»).
Ironia di una situazione senza sbocchi, assurdamente circolare e punitiva: ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Intanto, le chiappe trionfano e, se qualcuno pensa male, peggio per lui: vuol dire che ci mette la malizia; è un problema suo, povero guardone frustrato.
Qualcun altro, comunque, ci sta facendo sopra un bel guadagno: un bel guadagno economico, vogliamo dire, con tanti, tanti zeri.
Sarà un caso che emergano così prepotentemente, dai tenebrosi abissi della zona corporea proibita, proprio i marchi della biancheria intima, proprio i filetti del perizoma, come se ci fosse lo zampino di un segreto e inconfessabile accordo pubblicitario fra produttore e consumatore, trasformato, quest’ultimo, in volonteroso modello ed in solerte agente propagandistico a costo zero, anzi, addirittura pagante?
Quando mai i modelli devono pagare il produttore per fargli la pubblicità? Eppure è proprio questo che sta accadendo: milioni di consumatori e di consumatrici comprano la merce a caro prezzo e poi fanno i modelli, gratuitamente, assiduamente, giorno e notte, per strada e sul lavoro, tra un poco li vedremo pure in chiesa.
Anzi, a dire il vero, quest’ultima eventualità si è già presentata, e non da ieri: ma, anche qui, la battaglia che qualche prete isolato ha intrapreso contro i pantaloni a vita bassa delle parrocchiane è destinata, come quella dei presidi delle scuole medie, a finire nel grottesco e nel ridicolo, se non addirittura sulla stampa e nelle aule dei tribunali.
Come si permette, quell’arrogante ministro di Dio, di rifiutare la comunione alla ragazza che gli si presenta davanti con l’ombelico al vento? Certamente deve trattarsi di un abietto seguace di monsignor Lefebvre, di un arnese da museo che non sa stare al passo con questi nostri tempi, giovanili e democratici, dove (come direbbe Tasso) «s’ei piace, ei lice».
Così stanno le cose: non ci si difende dalla pornografia di massa; bisogna rassegnarsi a subirla, e questo è tutto.
Dalla pornografia d’un tempo, ci si poteva ancora difendere, almeno in qualche misura: si poteva cambiar canale o spegnere il televisore; si poteva non comprare quel giornale o, magari, strappar via le pagine più oscene e fastidiose.
Certo, era più difficile difendersi dalla pubblicità murale: da quei metri e metri di cartelloni da cui ammiccavano già ventri e sederi, ma di graziosissime modelle.
Oggi, ventri e sederi si sono democraticamente moltiplicati e sono quelli della commessa, dell’impiegata, dello studente, della ragazzina e del ragazzino della porta accanto.
Perciò, mi raccomando, l’importante è non scomporsi: se ti turbi, allora sei colpevole; e sei finito.

di Francesco Lamendola

Da Pound ad Auriti. Un’altra economia

L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.

LE PREMESSE RECENTI

A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.

LA QUESTIONE DEL SIGNORAGGIO BANCARIO

Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.

LE RISERVE BANCARIE

Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.

L’INTROMISSIONE DEI GRUPPI FINANZIARI

Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico, finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.

LE RISPOSTE

A questo antico problema, vari studiosi e pensatori fuori dal coro generale hanno cercato di trovare una soluzione; tra questi in primis Ezra Pound, seguito in tempi più recenti dall’italiano Giacinto Auriti. Per incredibile che possa sembrare, a proporre una soluzione “forte” ad un problema apparentemente inestricabile sarà, a partire dai primi anni del secolo un poeta e un uomo di lettere, legato ad uno dei movimenti d’avanguardia d’inizio secolo, rappresentato dal vorticismo di John Wyndham. Pound tratta di questo argomento nel canto XLV dei Cantos, ma anche negli scritti ABC dell’economia ed in Lavoro ed usura. Principio cardine che muove tutta la polemica poundiana è la lotta senza quartiere alla mercificazione dell’uomo. Il denaro è anzitutto, a detta di Pound, una convenzione sociale, non una merce. A fondamento della ricchezza dei popoli sta, in secondo luogo, il lavoro che non è una merce. Distribuire lavoro significa, quindi, distribuire ricchezza. In terzo luogo, lo Stato ha il pieno potere di disporre del credito, non ha quindi bisogno di indebitarsi con le banche private. Partendo da questi presupposti ideologici, Pound ritiene che lo Stato dovrebbe applicare su ogni banconota circolante una tassa pari ad 1/100 del valore nominale di quest’ultima, senza tassare i cittadini produttori. In tal modo allo Stato verrebbe garantito un reddito annuale pari al 12% della massa monetaria circolante, esente tra l’altro, da qualunque rischio di evasione fiscale. Le banche tornerebbero ad interpretare il ruolo per cui erano state inizialmente costituite, ovverosia quello di intermediari finanziari, poiché in caso contrario, continuando a detenere per sé il denaro, lo perderebbero in un tempo stimato in 100 mesi, perché corroso dalla tassazione. Non solo. In questo modo lo Stato potrebbe garantire un’adeguata emissione valutaria, ripristinando la propria sovranità monetaria. Della stessa impostazione sono le proposte formulate da Domenico De Simone, da Giuseppe Bellia, dall’associazione AFIMO e da Giacinto Auriti. Derivante dalle teorizzazioni di Clifford Hugh Douglas e Silvio Gesell, questa scuola di pensiero fa propria l’idea di spostare la tassazione dai redditi da lavoro e da consumo, direttamente ai redditi finanziari (creati dal risparmio, dalla speculazione finanziaria, etc.), liberando i cittadini-consumatori da una gabella che ne depaupera il potere d’acquisto. Non solo, a detta di questa scuola, mentre la tassazione sui redditi da lavoro e da consumo fa sì che lo Stato ricorra al debito pubblico per ripagare alle banche interessi che la leva fiscale da sola non può assolutamente coprire, tramite la fiscalità monetaria questo problema verrebbe ovviamente superato, agganciandolo tra l’altro, ad una proposta di reddito di cittadinanza. Queste proposte di sicuro interesse presentano però dei punti deboli. L’affermare che, per esempio la tassazione sui redditi da lavoro possa essere la causa principe dell’innalzamento dei costi di produzione e dell’inflazione, è pericolosamente semplicistica, perché non tiene conto di tutta una serie di fattori legati a tale problema, in primis l’intento volto alla mera speculazione ed all’arricchimento individuale che caratterizza il detentore del mezzo di produzione e che, rientrando nella sfera dell’umana istintualità, non può trovare correttivi in delle mere misure economiche, bensì in differenti indirizzi etici ed educativi. Non solo. Proviamo solo un momento ad immaginare cosa accadrebbe in un paese di grandi risparmiatori come l’Italia. Risparmio ed economia reale hanno qui da noi costituito da sempre una barriera a protezione dalla speculazione finanziaria pura. Lo stesso reddito di cittadinanza potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio: da forte misura di tutela sociale, a strumento capace di aumentare pericolosamente la spirale debitoria dello stato, dando nuovamente spazio a tutte le scuole di impostazione ultra liberista. Per questo motivo, la lotta al signoraggio bancario, la stessa proposta di fiscalità monetaria, nella giustezza della loro intuizione, debbono essere formulate e rapportate all’attuale contesto senza cedere alla facile tentazione dell’utopismo. Il processo per addivenire alla sovranità monetaria, non può non passare attraverso l’uscita dall’Euro o, quanto meno, dal suo accantonamento al ruolo subordinato di moneta per gli scambi con l’estero, o addirittura per le sole manovre di contabilità internazionale, laddove per gli scambi commerciali si potrebbe optare per un ritorno alla Lira. D’altronde l’esperienza di quanto avvenuto nel secolo 19° negli USA, dove più stati adottarono una doppia monetazione per favorire una più rapida crescita economica, dovrebbe servire da memoria e da incentivo per quanto qui proposto. Diciamo che la tassa sul circolante di poundiana memoria potrebbe costituire una valida soluzione, solo se accompagnata da provvedimenti di tipo strutturale, quali la nazionalizzazione di Bankitalia con il conseguente obbligo di devoluzione alla cosa pubblica dei naturali proventi del signoraggio. Questi provvedimenti però, necessiterebbero di un riaggiustamento i cui tempi e le cui modalità non lascerebbero sperare per una realizzazione nell’immediato. Molto più facile sarebbe, a tal punto, bypassare il problema, attraverso l’emanazione di un apposito decreto legge che imponga l’immediato versamento dei frutti del signoraggio bancario nelle casse dello Stato, senza passare per altre mani; il tutto attraverso l’istituzione di una commissione di vigilanza istituita ad hoc. Strumento principe per scelte del genere dovrebbe essere l’istituzione referendaria. In tal modo, verrebbe inequivocabilmente sancito il diritto popolare all’intervento diretto su questioni di importanza strategica, così sottratte alla sfera di competenza di un ceto politico, troppo spesso legato mani e piedi ai poteri forti della finanza, i cui interessi, come si può ben vedere, non collimano assolutamente con quelli della gente comune.

di Umberto Bianchi

06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino

08 giugno 2011

Pornografia della vita quotidiana


Aggrediti quotidianamente dalla volgarità e dalla oscenità dei messaggi pubblicitari, lo siamo anche dai comportamenti abituali delle persone, primo fra tutti l’abbigliamento.
Vestirsi, o piuttosto svestirsi, in un certo modo, significa esercitare una forma di potere sul prossimo, specialmente se si è giovani e belli: il potere di imporgli la provocazione sessuale, di costringerlo o a voltare la testa dall’altra parte, per l’imbarazzo (e talvolta per il disgusto) o a guardare con desiderio, come un povero fesso, la merce che viene generosamente esposta, anzi, esibita ed ostentata, ma che non è in vendita.
Inutile parlare, ormai, di decoro o di buon gusto: se ne sono andati per sempre, spazzati via dalla grossolanità più sfacciata, dall’esibizionismo più becero.
Inutile parlare di rispetto di se stessi e di senso del pudore: che cosa sono mai questi concetti, se non reliquie di un passato morto e sepolto, che non può tornare?
Inutile, infine, fare appello allo stesso senso della libertà e della democrazia, facendo osservare che la prima finisce dove inizia quella altrui, e che la seconda si nutre del rispetto di tutti e di ciascuno, compresi quelli che vorrebbero andarsene per i fatti propri, senza essere provocati ad ogni passo e senza essere arruolati a forza tra il pubblico di uno spettacolo indecente.
Un preside di Trento, l’ennesimo, ci ha provato: ha proibito l’ingresso alle lezioni agli alunni che si presentano a scuola con i pantaloni a vita bassa, esibendo abbondantemente le nudità del ventre e del sedere, con tanto di mutandine e perizoma a vista.
Ma non è servito e non servirà a nulla, lo sappiamo benissimo.
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti la giunta comunale ha addirittura minacciato una multa di 500 dollari a chi se ne va in giro per la strada indossando pantaloni a vita bassa: con il solo risultato, presumibilmente, di coprirsi di ridicolo e di passare pure per razzista e oscurantista, di nemica della sacrosanta libertà dei cittadini.
Se uno vuol mostrare al mondo le proprie mutandine o, magari, l’assenza di mutandine; se vuol far vedere, ogni volta che si piega o che si siede, le sue chiappe, più o meno ben tornite, più o meno abbronzate, oppure, sul versante opposto, i suoi peli pubici: che male c’è?
Forse che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quella rovente estate del 1789, nonché la Dichiarazione dei diritti umani, proclamata sempre a Parigi, del 1948, sono state scritte per nulla?Forse che non valgono nemmeno la carta e l’inchiostro su cui furono vergate?
E allora, armiamoci e partiamo: giù le braghe, fuori le mutande: viva la marcia della libertà e crepino i vieti pregiudizi dell’Ancien Régime, il moralismo ipocrita dei bacchettoni, delle cariatidi borghesi!
Abbiamo combattuto per la libertà, sì o no? E dunque vogliamo indossare i pantaloni col cavallo sempre più basso, sfoggiare sempre più la biancheria intima: a colori sgargianti, giallo shocking, rosso fuoco; o a disegnini teneramente erotici: a fiorellini, a pois.
Ora che è arrivato il caldo, poi, si salvi chi può: quella di calare le braghe è diventata pure una necessità fisiologica; la pelle, si sa, deve poter respirare.
Sicché, quando un baldo giovanotto o una simpatica ragazza si siedono al bar o, semplicemente, sui banchi della scuola, magari sfogliando il vocabolario di latino, non c’è niente di più normale che godersi lo spettacolo dei loro sederini esposti all’aria per almeno una decina di centimetri al di sotto dell’osso sacro.
Non sempre è un bello spettacolo, perché non sempre i proprietari di quei fondoschiena possono vantare un fisico da modelli; ma il punto, ovviamente, non è questo: non si tratta di una questione estetica, ma etica.
Anche se quelli che ci vengono offerti alla vista fossero i sederi più belli del mondo, la loro esibizione estemporanea, nei momenti e nei luoghi meno opportuni, è pornografia allo stato puro: pornografia della vita quotidiana.
È una pornografia di massa, così come vi sono una società di massa, una comunicazione di massa, un turismo di massa; per cui ci dovremo abituare, piaccia o non piaccia, anche alle chiappe di massa, agli addomi di massa, ai tatuaggi di massa nelle zone pubiche.
Già, i tatuaggi: sempre gli stessi, quelli sfoggiati dagli squallidi vip dei rotocalchi scandalistici o dei reality della tv spazzatura; sempre gli stessi angioletti, le stesse farfalle, gli stessi cuoricini; e sempre occhieggianti dagli stessi angoli intimi.
Essi rivelano una totale mancanza di personalità, oltre che di senso della decenza: perché, tranne che mostrare il culo, questi barbari della pornografia di massa non sono capaci di niente, nemmeno di essere creativi nella loro volgarità e nel loro sfrenato narcisismo; non sanno neppure essere pornografici in maniera personale, da esseri umani e non da pecore belanti.
Inutile dire come, in tutto questo, non vi sia neppure l’ombra, non diremo dell’erotismo, ma neanche della sensualità.
Per dirla tutta: non conosciamo nulla di più deprimente, nulla di più mortificante, nulla di meno eccitante di queste chiappe sbattute in faccia al primo che passa, a un tanto il chilo, come carne di qualità scadente; di questi ombelichi sparati addosso a chi preferirebbe non vederli, non trovandoli né belli, né invitanti, né desiderabili; a questi bacini, ora ossuti, ora cicciosi, sempre sgraziati e sommamente insulsi; di questi tatuaggi che fuoriescono dappertutto, a imitazione di qualche divetta da strapazzo, di qualche velina televisiva, di qualche straccetto di showgirl che non sa fare niente: né cantare, né ballare, e nemmeno parlare in un italiano decente o muoversi con un minimo di grazia e di naturalezza.
Tentazioni? No davvero.
Eppure, sempre più frequenti sono le situazioni in cui uno, letteralmente, non sa più dove girare lo sguardo; sui treni, sugli autobus, per la strada, nei supermercati, nelle scuole, negli uffici: ovunque è una esibizione quotidiana, implacabile, tristissima, di mercanzia corporea.
Ovunque si fa a gara per chi mostra qualche centimetro di pelle nuda in più, per chi ostenta la scollatura più audace, per chi abbassa un poco di più la cintura dei pantaloni: al punto che ti chiedi come fanno a non perderli per strada e a non restare tutti nudi, dalla vita in giù, come mamma li ha fatti, scarpe o stivaletti a parte.
Se entri in un negozio e chiedi un articolo che si trova in uno dei ripiani alti dello scaffale, la commessa, salendo con la scaletta, ti costringe ad ammirare tutto il suo pancino nudo, mentre la maglietta, già cortissima, si solleva di quasi mezzo metro al di sopra dei jeans, e l’immancabile farfallina tatuata ti ammicca dolcemente sopra l’inguine.
Se passeggi sulla pensilina in attesa del treno, puntualmente in ritardo, non puoi fare a meno di sbattere con lo sguardo, e quasi anche coi piedi, contro il roseo sedere dei ragazzi che, borse di scuola a tracolla e mascelle perennemente impegnate a ruminare gomma americana, siedono scompostamente sulle panchine, sui bordi delle aiole, sui libri stessi posati a terra: e ti chiedi se sia proprio naturale tutto quel piegarsi in avanti, tutto quel curvarsi sulla schiena, assumendo delle pose alquanto innaturali; o se non sia, piuttosto, una strategia lungamente studiata e messa a punto fin nei minimi dettagli, magari con l’aiuto e il consiglio degli amici.
Se, poi, stanco e sudato, stai facendo la fila all’ufficio postale e finalmente, armato del tuo bravo numero come al supermarket, arrivi allo sportello, ecco che ti devi sorbire lo show erotico dell’impiegata che, dovendo chinarsi per cercare la tua raccomandata inevasa, ti mostra più roba di quanta non ne facesse vedere Kim Basinger a Mickey Rourke in «Nove settimane e mezzo»; oppure, come direbbe il buon principe di Salina de «Il gattopardo» al suo confessore, più roba di quanto le mogli d’un tempo non ne mostrassero ai mariti, dopo una pluridecennale vita coniugale e dopo avere messo al mondo una intera nidiata di eredi.
E quando poi si volta, non sai nemmeno come affrontare il suo sguardo: ti domandi se ti possa leggere in viso l’effetto che il suo spettacolino ha provocato; ti senti colpevole come un ragazzino colto in fallo, anche se a tutto pensavi, quando hai raggiunto il sospirato sportello, tranne che a eccitarti sbirciando le grazie, magari discutibili, di questa sconosciuta che ora sembra ridacchiare del tuo imbarazzo o, peggio, fiutare le prove della tua malizia sporcacciona.
Che bella situazione: colpevole di niente, eppure sospettato, quanto meno, di cattivi pensieri (perché il maschio, si sa, nella cultura post-femminista, è sempre un porcaccione); provocato e, forse, un po’ turbato, senza aver mosso un dito per arrivare a tanto; costretto, infine, a mostrare urbanità e naturalezza, persino indifferenza, insomma a non fare una piega, quando hai dovuto subire da quella perfetta sconosciuta un comportamento non meno pesante ed invasivo delle persecuzioni sessuali che tante donne lamentano da parte di colleghi e capiufficio.
Ma l’uomo è quello che pensa sempre male, la donna no; se la donna mostra il suo corpo, lo fa per caso, con innocenza, senza intenzione; mentre se l’uomo guarda, allora vuol dire che è un porco, un selvaggio, un potenziale stupratore.
E comunque, qualsiasi cosa lui faccia, sbaglia: se si mostra emozionato, allora la donna lo guarda di traverso, immaginando che lui abbia immaginato cose sporche e irriferibili proprio su di lei («Ma come si permette quello lì, che nemmeno lo conosco!»); se, viceversa, ostenta nonchalance, allora c’è il caso che lei lo guardi ancora più di traverso, ferita a sangue nella sua vanità femminile («Ma guarda che razza di impotente, possibile che io valga così poco?; no, non è impossibile: quello non è nemmeno un impotente, è proprio un gran finocchio!»).
Ironia di una situazione senza sbocchi, assurdamente circolare e punitiva: ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Intanto, le chiappe trionfano e, se qualcuno pensa male, peggio per lui: vuol dire che ci mette la malizia; è un problema suo, povero guardone frustrato.
Qualcun altro, comunque, ci sta facendo sopra un bel guadagno: un bel guadagno economico, vogliamo dire, con tanti, tanti zeri.
Sarà un caso che emergano così prepotentemente, dai tenebrosi abissi della zona corporea proibita, proprio i marchi della biancheria intima, proprio i filetti del perizoma, come se ci fosse lo zampino di un segreto e inconfessabile accordo pubblicitario fra produttore e consumatore, trasformato, quest’ultimo, in volonteroso modello ed in solerte agente propagandistico a costo zero, anzi, addirittura pagante?
Quando mai i modelli devono pagare il produttore per fargli la pubblicità? Eppure è proprio questo che sta accadendo: milioni di consumatori e di consumatrici comprano la merce a caro prezzo e poi fanno i modelli, gratuitamente, assiduamente, giorno e notte, per strada e sul lavoro, tra un poco li vedremo pure in chiesa.
Anzi, a dire il vero, quest’ultima eventualità si è già presentata, e non da ieri: ma, anche qui, la battaglia che qualche prete isolato ha intrapreso contro i pantaloni a vita bassa delle parrocchiane è destinata, come quella dei presidi delle scuole medie, a finire nel grottesco e nel ridicolo, se non addirittura sulla stampa e nelle aule dei tribunali.
Come si permette, quell’arrogante ministro di Dio, di rifiutare la comunione alla ragazza che gli si presenta davanti con l’ombelico al vento? Certamente deve trattarsi di un abietto seguace di monsignor Lefebvre, di un arnese da museo che non sa stare al passo con questi nostri tempi, giovanili e democratici, dove (come direbbe Tasso) «s’ei piace, ei lice».
Così stanno le cose: non ci si difende dalla pornografia di massa; bisogna rassegnarsi a subirla, e questo è tutto.
Dalla pornografia d’un tempo, ci si poteva ancora difendere, almeno in qualche misura: si poteva cambiar canale o spegnere il televisore; si poteva non comprare quel giornale o, magari, strappar via le pagine più oscene e fastidiose.
Certo, era più difficile difendersi dalla pubblicità murale: da quei metri e metri di cartelloni da cui ammiccavano già ventri e sederi, ma di graziosissime modelle.
Oggi, ventri e sederi si sono democraticamente moltiplicati e sono quelli della commessa, dell’impiegata, dello studente, della ragazzina e del ragazzino della porta accanto.
Perciò, mi raccomando, l’importante è non scomporsi: se ti turbi, allora sei colpevole; e sei finito.

di Francesco Lamendola

Da Pound ad Auriti. Un’altra economia

L’attuale, grave crisi economica, che rende insonni le notti di molti governi europei e non, sta imponendo una riflessione collettiva sugli evidenti limiti e difetti di un modello, quello economico liberal-liberista, che sino ad oggi si riteneva inattaccabile, perché fondato sul diktat paradigmatico di uno sviluppo senza fine, in fase di perenne e vertiginosa ascesa, incurante di altro scopo che non sia quello di un illimitato profitto individuale, vera e propria “fons perennis” d’ogni umana felicità. Ma le cose non stanno proprio così. Anzi. Una serie di scossoni, a partire dagli anni ’90, hanno seminato sconcerto ed incertezza anche tra i più ottimisti tra gli analisti economici. Ma procediamo per ordine.

LE PREMESSE RECENTI

A partire dagli anni ’90 del secolo passato, una serie di innovazioni tecnologiche che vanno dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’elettronica all’ingegneria genetica, andranno accompagnandosi al crollo dell’ordine bipolare USA URSS e quindi all’intransigente adozione delle dottrine del più spinto liberismo economico, quali per esempio, quelle di Rudiger Dornbusch e dei suoi “Chicago Boys”. Quanto detto, si accompagna ad un sostanziale aumento dei profitti delle varie grandi imprese che, sempre più svincolate da ostacoli di tipo giuridico e politico, grazie alla cosiddetta “deregulation” possono costituirsi in veri e propri blocchi oligopolistici, creando sempre più difficoltà alla crescita delle medie imprese e creando, quindi, maggior disparità sociale. Non solo. La graduale perdita di incisività e rappresentanza dei sindacati americani, permette da parte delle grandi concentrazioni economiche, il sempre più frequente utilizzo dei propri elevati profitti in investimenti di tipo speculativo-finanziario, avulsi quindi da qualsiasi reimmissione nei circuiti dell’economia reale, di per sé stessa produttiva. Uno di questi strumenti principe, saranno i cosiddetti “fondi-pensione” che faranno sì che le pensioni dei dipendenti delle imprese saranno sempre più legate ai capricci dei mercati finanziari. Un altro sciagurato criterio sarà il reinvestimento in stipendi e benefit per i manager. Al contempo, la graduale e pericolosa perdita di potere d’acquisto dei ceti medio-bassi, determina la pratica dell’indebitamento di questi ultimi attraverso l’immissione sul mercato di strumenti finanziari per incentivare il consumo, quali mutui immobiliari, etc., tutti legati a junk bonds/titoli spazzatura, swap ed altri ancora, che saranno alla base dell’esplosione della bolla speculativa del 2007. Gli anni ’90 sono anche gli anni del WTO, dell’Uruguay Round di Montevideo, gli anni della spinta decisiva in direzione di una marcata liberalizzazione dell’intera economia mondiale, sia attraverso l’apertura dei mercati nazionali dei paesi partecipanti, sia attraverso la concessione della possibilità di fare finanza anche a soggetti come le banche nel loro insieme che, sino ad allora, potevano farlo solo attraverso strutture qualificate, quali le banche d’investimento o attraverso mediatori finanziari con uno statuto ad hoc. Tutto questo permetterà una ancor più spinta finanziarizzazione dell’economia, non accompagnata da un contrappeso di garanzia e stabilità quale quello rappresentato dall’economia reale. Le crisi asiatica ed argentina di fine anni ’90 e la precedente recessione di metà anni ’90, incentrata più su Eurolandia, costituiranno i prodromi della grande crisi sistemica del 2007. Altro aspetto dell’intera questione è rappresentato dal lungo, lunghissimo stato di recessione e perdita di competitività delle economie dell’area euro occidentale, la cui causa va attribuita principalmente al costante allineamento di queste ai diktat del FMI ed alla sciagurata idea dell’adozione di una comune politica monetaria, attraverso l’introduzione dell’Euro. Quest’ultimo provvedimento ha definitivamente frenato l’economia di Eurolandia, avendo praticamente operato una virtuale omologazione delle economie europee, tutte oramai bloccate e legate ad un unico indirizzo di economia monetaria, con gli effetti sotto gli occhi di tutti.

LA QUESTIONE DEL SIGNORAGGIO BANCARIO

Problemi nuovi, si dirà, determinati da altrettante nuove situazioni ma tutti, invece, tragicamente legati ad un antico ma sempre attualissimo problema: quello legato al signoraggio bancario, ovverosia per dirla in breve, al costo occulto dell’emissione del denaro che noi ogni giorno teniamo in tasca. Il premio Nobel Paul R. Krugman definisce il signoraggio come “flusso di risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi”. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è un altro. E’ cosa risaputa che vi sono paesi in via di sviluppo o con difficoltà economiche i quali, per ovviare alle proprie situazioni, hanno fatto ricorso allo strumento del signoraggio per aumentare le proprie scarse risorse finanziarie tramite l’immissione sul mercato di denaro circolante in gran quantità. Questo molto spesso ha finito per generare iperinflazione, peggiorando assai le varie situazioni in esame e finendo con l’assoggettare i vari paesi ai diktat della finanza internazionale. Ma è altresì vero che vi sono stati paesi che, attraverso l’emissione monetaria e l’utilizzo delle risorse del signoraggio hanno dato luogo a tutta una serie di opere pubbliche, atte a creare nuovi posti di lavoro ed a risollevare, di conseguenza, economie disastrate. E’ la ricetta keynesiana applicata nella Germania degli anni ’30 o nell’ Italia di quello stesso periodo o negli USA della Grande Depressione di Roosvelt. Il vero problema sta semmai nello squilibrio che si è venuto a creare con il tempo, tra la massa di denaro circolante e le riserve auree delle varie banche nazionali.

LE RISERVE BANCARIE

Per lungo tempo le banche hanno dovuto sempre emettere denaro circolante sulla base di riserve (per lo più auree) poste a garanzia della solvibilità della banca nazionale emittenda. Con l’andare del tempo, a partire dal 19° secolo, con l’intensificarsi degli scambi commerciali su scala globale, di fronte all’altalenarsi delle valute, si doveva trovare un comune punto di riferimento per le varie valute. L’oro finì con l’assumere tale ruolo, ma tra le due guerre, in un periodo caratterizzato da una forte turbolenza dei mercati, causata dal crescente disaccordo tra i grandi competitori internazionali (in primis Germania, Inghilterra e Francia) tale ruolo fu surclassato dalla fluttuazione dei cambi. Sarà solamente con gli accordi di Bretton Woods del 1944, che il dollaro USA assumerà quella funzione di valuta-guida in condivisione con l’elemento aureo, a cui sarà legato da un rapporto di formale dipendenza sino al 1971, anno in cui il presidente americano Nixon decide l’uscita da quegli accordi, oramai superati dalla sempre più altalenante fluttuazione dei mercati. Abolendo però il ruolo formale ricoperto sino ad allora dalle riserve auree, si andava formalizzando un pericoloso precedente, ovvero quello della produzione di circolante ex nihilo, dal nulla, senza alcuna garanzia e la cui tenuta era quindi oramai lasciata totalmente nelle mani dei grandi operatori finanziari privati, banche in primis, che finivano in tal modo per ricoprire un ruolo sempre più esorbitante e condizionante nella gestione e nell’andamento delle singole economie nazionali. E qui arriviamo al nocciolo di un problema la cui entità e complessità non si possono limitare o semplicemente datare al 1971.

L’INTROMISSIONE DEI GRUPPI FINANZIARI

Il problema dell’intromissione di gruppi di pressione finanziarie nella gestione e nell’emissione di denaro delle singole banche nazionali è connaturato alla nascita stessa dell’istituzione bancaria. Quando nasce nel 1671, la banca d’Inghilterra è sostenuta dai cospicui prestiti di finanzieri privati. Attualmente, la stessa Bankitalia è ufficialmente partecipata dai privati per il 94,33%, mentre in Francia o in Svizzera esse sono società di capitali pubbliche. Questo almeno dal punto di vista ufficiale. Dal punto di vista ufficioso, poiché a controllare e gestire i grandi flussi monetari in funzione di mediazione sono sempre le banche, ecco là che il trucco è scoperto: la massa di valuta circolante anche laddove è ufficialmente emessa da banche nazionali a capitale interamente pubblico, è concretamente controllata e gestita da gruppi di interesse privati. Poiché costoro detengono ed orientano i flussi di circolante, ponendosi a garanzia delle emissioni delle varie banche centrali (che garanzie non ne hanno più, avendo illo tempore abolito l’oro o qualunque altra forma di riserva…) rappresentando il canale privilegiato per la collocazione sul mercato delle varie tipologie di titoli del debito pubblico, finiscono comunque con il lucrare su queste accaparrandosi in pratica i proventi del signoraggio. Qualcuno dirà che di quanto detto non esiste una dimostrazione pratica, che sono tutte “bufale”, ma stranamente ogni qualvolta l’uso del signoraggio da parte di paesi economicamente inguaiati ha generato iperinflazione, a guadagnarci sono sempre state le grandi concentrazioni bancarie, speculando sugli interessi determinati da una vertiginosa emissione di circolante. Stesso discorso quando, per evitare un troppo disinvolto ricorso al signoraggio, si sono costituite banche nazionali slegate dai vari governi e sin troppo legate ai soliti noti. In pratica, il denaro che abbiamo in tasca non ci appartiene, esso ci viene letteralmente prestato, con un tasso di interesse occulto (la cui entità ammonterebbe approssimativamente ad un 200%, sic!) versato direttamente nelle tasche delle banche private, che in tal modo si arricchiscono e speculano sull’emissione della massa del circolante. Il processo è andato chiaramente ingigantendosi all’indomani della sciagurata introduzione della moneta unica europea (EURO), che ha definitivamente tolto alle banche nazionali europee qualsiasi reale potere di controllo, demandando ad un ristretto gruppo di burocrati legati a doppio filo ai grandi centri della speculazione finanziaria, la gestione e l’indirizzo dell’intero meccanismo. Ora è chiaro che, essendo la valuta europea divenuta un titolo che funzione come una camera di compensazione per cui, ogni volta che si verifica una perdita o una spesa all’interno dell’Eurozona a pagare devono essere tutti i “soci”, si può immaginare a quale astronomico livello siano cresciuti gli interessi da emissione o signoraggio, che stanno in gran parte alla base dell’attuale fase recessiva dell’economia europea. Il debito pubblico, parola con cui oggidì si cullano i nostri analisti politici, altri non è che un micidiale mix tra spesa pubblica ( determinata da quelle uscite in gran parte necessarie alla normale vita di una comunità nazionale, quali quelle determinate dalla previdenza sociale, dalla sanità, dall’istruzione, dalla sicurezza, etc.), massicciamente supportata, però, da interessi da devolvere a quelle banche private che sostengono e coordinano l’emissione del circolante.

LE RISPOSTE

A questo antico problema, vari studiosi e pensatori fuori dal coro generale hanno cercato di trovare una soluzione; tra questi in primis Ezra Pound, seguito in tempi più recenti dall’italiano Giacinto Auriti. Per incredibile che possa sembrare, a proporre una soluzione “forte” ad un problema apparentemente inestricabile sarà, a partire dai primi anni del secolo un poeta e un uomo di lettere, legato ad uno dei movimenti d’avanguardia d’inizio secolo, rappresentato dal vorticismo di John Wyndham. Pound tratta di questo argomento nel canto XLV dei Cantos, ma anche negli scritti ABC dell’economia ed in Lavoro ed usura. Principio cardine che muove tutta la polemica poundiana è la lotta senza quartiere alla mercificazione dell’uomo. Il denaro è anzitutto, a detta di Pound, una convenzione sociale, non una merce. A fondamento della ricchezza dei popoli sta, in secondo luogo, il lavoro che non è una merce. Distribuire lavoro significa, quindi, distribuire ricchezza. In terzo luogo, lo Stato ha il pieno potere di disporre del credito, non ha quindi bisogno di indebitarsi con le banche private. Partendo da questi presupposti ideologici, Pound ritiene che lo Stato dovrebbe applicare su ogni banconota circolante una tassa pari ad 1/100 del valore nominale di quest’ultima, senza tassare i cittadini produttori. In tal modo allo Stato verrebbe garantito un reddito annuale pari al 12% della massa monetaria circolante, esente tra l’altro, da qualunque rischio di evasione fiscale. Le banche tornerebbero ad interpretare il ruolo per cui erano state inizialmente costituite, ovverosia quello di intermediari finanziari, poiché in caso contrario, continuando a detenere per sé il denaro, lo perderebbero in un tempo stimato in 100 mesi, perché corroso dalla tassazione. Non solo. In questo modo lo Stato potrebbe garantire un’adeguata emissione valutaria, ripristinando la propria sovranità monetaria. Della stessa impostazione sono le proposte formulate da Domenico De Simone, da Giuseppe Bellia, dall’associazione AFIMO e da Giacinto Auriti. Derivante dalle teorizzazioni di Clifford Hugh Douglas e Silvio Gesell, questa scuola di pensiero fa propria l’idea di spostare la tassazione dai redditi da lavoro e da consumo, direttamente ai redditi finanziari (creati dal risparmio, dalla speculazione finanziaria, etc.), liberando i cittadini-consumatori da una gabella che ne depaupera il potere d’acquisto. Non solo, a detta di questa scuola, mentre la tassazione sui redditi da lavoro e da consumo fa sì che lo Stato ricorra al debito pubblico per ripagare alle banche interessi che la leva fiscale da sola non può assolutamente coprire, tramite la fiscalità monetaria questo problema verrebbe ovviamente superato, agganciandolo tra l’altro, ad una proposta di reddito di cittadinanza. Queste proposte di sicuro interesse presentano però dei punti deboli. L’affermare che, per esempio la tassazione sui redditi da lavoro possa essere la causa principe dell’innalzamento dei costi di produzione e dell’inflazione, è pericolosamente semplicistica, perché non tiene conto di tutta una serie di fattori legati a tale problema, in primis l’intento volto alla mera speculazione ed all’arricchimento individuale che caratterizza il detentore del mezzo di produzione e che, rientrando nella sfera dell’umana istintualità, non può trovare correttivi in delle mere misure economiche, bensì in differenti indirizzi etici ed educativi. Non solo. Proviamo solo un momento ad immaginare cosa accadrebbe in un paese di grandi risparmiatori come l’Italia. Risparmio ed economia reale hanno qui da noi costituito da sempre una barriera a protezione dalla speculazione finanziaria pura. Lo stesso reddito di cittadinanza potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio: da forte misura di tutela sociale, a strumento capace di aumentare pericolosamente la spirale debitoria dello stato, dando nuovamente spazio a tutte le scuole di impostazione ultra liberista. Per questo motivo, la lotta al signoraggio bancario, la stessa proposta di fiscalità monetaria, nella giustezza della loro intuizione, debbono essere formulate e rapportate all’attuale contesto senza cedere alla facile tentazione dell’utopismo. Il processo per addivenire alla sovranità monetaria, non può non passare attraverso l’uscita dall’Euro o, quanto meno, dal suo accantonamento al ruolo subordinato di moneta per gli scambi con l’estero, o addirittura per le sole manovre di contabilità internazionale, laddove per gli scambi commerciali si potrebbe optare per un ritorno alla Lira. D’altronde l’esperienza di quanto avvenuto nel secolo 19° negli USA, dove più stati adottarono una doppia monetazione per favorire una più rapida crescita economica, dovrebbe servire da memoria e da incentivo per quanto qui proposto. Diciamo che la tassa sul circolante di poundiana memoria potrebbe costituire una valida soluzione, solo se accompagnata da provvedimenti di tipo strutturale, quali la nazionalizzazione di Bankitalia con il conseguente obbligo di devoluzione alla cosa pubblica dei naturali proventi del signoraggio. Questi provvedimenti però, necessiterebbero di un riaggiustamento i cui tempi e le cui modalità non lascerebbero sperare per una realizzazione nell’immediato. Molto più facile sarebbe, a tal punto, bypassare il problema, attraverso l’emanazione di un apposito decreto legge che imponga l’immediato versamento dei frutti del signoraggio bancario nelle casse dello Stato, senza passare per altre mani; il tutto attraverso l’istituzione di una commissione di vigilanza istituita ad hoc. Strumento principe per scelte del genere dovrebbe essere l’istituzione referendaria. In tal modo, verrebbe inequivocabilmente sancito il diritto popolare all’intervento diretto su questioni di importanza strategica, così sottratte alla sfera di competenza di un ceto politico, troppo spesso legato mani e piedi ai poteri forti della finanza, i cui interessi, come si può ben vedere, non collimano assolutamente con quelli della gente comune.

di Umberto Bianchi

06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino