Aggrediti quotidianamente dalla volgarità e dalla oscenità dei messaggi pubblicitari, lo siamo anche dai comportamenti abituali delle persone, primo fra tutti l’abbigliamento.
Vestirsi, o piuttosto svestirsi, in un certo modo, significa esercitare una forma di potere sul prossimo, specialmente se si è giovani e belli: il potere di imporgli la provocazione sessuale, di costringerlo o a voltare la testa dall’altra parte, per l’imbarazzo (e talvolta per il disgusto) o a guardare con desiderio, come un povero fesso, la merce che viene generosamente esposta, anzi, esibita ed ostentata, ma che non è in vendita.
Inutile parlare, ormai, di decoro o di buon gusto: se ne sono andati per sempre, spazzati via dalla grossolanità più sfacciata, dall’esibizionismo più becero.
Inutile parlare di rispetto di se stessi e di senso del pudore: che cosa sono mai questi concetti, se non reliquie di un passato morto e sepolto, che non può tornare?
Inutile, infine, fare appello allo stesso senso della libertà e della democrazia, facendo osservare che la prima finisce dove inizia quella altrui, e che la seconda si nutre del rispetto di tutti e di ciascuno, compresi quelli che vorrebbero andarsene per i fatti propri, senza essere provocati ad ogni passo e senza essere arruolati a forza tra il pubblico di uno spettacolo indecente.
Un preside di Trento, l’ennesimo, ci ha provato: ha proibito l’ingresso alle lezioni agli alunni che si presentano a scuola con i pantaloni a vita bassa, esibendo abbondantemente le nudità del ventre e del sedere, con tanto di mutandine e perizoma a vista.
Ma non è servito e non servirà a nulla, lo sappiamo benissimo.
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti la giunta comunale ha addirittura minacciato una multa di 500 dollari a chi se ne va in giro per la strada indossando pantaloni a vita bassa: con il solo risultato, presumibilmente, di coprirsi di ridicolo e di passare pure per razzista e oscurantista, di nemica della sacrosanta libertà dei cittadini.
Se uno vuol mostrare al mondo le proprie mutandine o, magari, l’assenza di mutandine; se vuol far vedere, ogni volta che si piega o che si siede, le sue chiappe, più o meno ben tornite, più o meno abbronzate, oppure, sul versante opposto, i suoi peli pubici: che male c’è?
Forse che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quella rovente estate del 1789, nonché la Dichiarazione dei diritti umani, proclamata sempre a Parigi, del 1948, sono state scritte per nulla?Forse che non valgono nemmeno la carta e l’inchiostro su cui furono vergate?
E allora, armiamoci e partiamo: giù le braghe, fuori le mutande: viva la marcia della libertà e crepino i vieti pregiudizi dell’Ancien Régime, il moralismo ipocrita dei bacchettoni, delle cariatidi borghesi!
Abbiamo combattuto per la libertà, sì o no? E dunque vogliamo indossare i pantaloni col cavallo sempre più basso, sfoggiare sempre più la biancheria intima: a colori sgargianti, giallo shocking, rosso fuoco; o a disegnini teneramente erotici: a fiorellini, a pois.
Ora che è arrivato il caldo, poi, si salvi chi può: quella di calare le braghe è diventata pure una necessità fisiologica; la pelle, si sa, deve poter respirare.
Sicché, quando un baldo giovanotto o una simpatica ragazza si siedono al bar o, semplicemente, sui banchi della scuola, magari sfogliando il vocabolario di latino, non c’è niente di più normale che godersi lo spettacolo dei loro sederini esposti all’aria per almeno una decina di centimetri al di sotto dell’osso sacro.
Non sempre è un bello spettacolo, perché non sempre i proprietari di quei fondoschiena possono vantare un fisico da modelli; ma il punto, ovviamente, non è questo: non si tratta di una questione estetica, ma etica.
Anche se quelli che ci vengono offerti alla vista fossero i sederi più belli del mondo, la loro esibizione estemporanea, nei momenti e nei luoghi meno opportuni, è pornografia allo stato puro: pornografia della vita quotidiana.
È una pornografia di massa, così come vi sono una società di massa, una comunicazione di massa, un turismo di massa; per cui ci dovremo abituare, piaccia o non piaccia, anche alle chiappe di massa, agli addomi di massa, ai tatuaggi di massa nelle zone pubiche.
Già, i tatuaggi: sempre gli stessi, quelli sfoggiati dagli squallidi vip dei rotocalchi scandalistici o dei reality della tv spazzatura; sempre gli stessi angioletti, le stesse farfalle, gli stessi cuoricini; e sempre occhieggianti dagli stessi angoli intimi.
Essi rivelano una totale mancanza di personalità, oltre che di senso della decenza: perché, tranne che mostrare il culo, questi barbari della pornografia di massa non sono capaci di niente, nemmeno di essere creativi nella loro volgarità e nel loro sfrenato narcisismo; non sanno neppure essere pornografici in maniera personale, da esseri umani e non da pecore belanti.
Inutile dire come, in tutto questo, non vi sia neppure l’ombra, non diremo dell’erotismo, ma neanche della sensualità.
Per dirla tutta: non conosciamo nulla di più deprimente, nulla di più mortificante, nulla di meno eccitante di queste chiappe sbattute in faccia al primo che passa, a un tanto il chilo, come carne di qualità scadente; di questi ombelichi sparati addosso a chi preferirebbe non vederli, non trovandoli né belli, né invitanti, né desiderabili; a questi bacini, ora ossuti, ora cicciosi, sempre sgraziati e sommamente insulsi; di questi tatuaggi che fuoriescono dappertutto, a imitazione di qualche divetta da strapazzo, di qualche velina televisiva, di qualche straccetto di showgirl che non sa fare niente: né cantare, né ballare, e nemmeno parlare in un italiano decente o muoversi con un minimo di grazia e di naturalezza.
Tentazioni? No davvero.
Eppure, sempre più frequenti sono le situazioni in cui uno, letteralmente, non sa più dove girare lo sguardo; sui treni, sugli autobus, per la strada, nei supermercati, nelle scuole, negli uffici: ovunque è una esibizione quotidiana, implacabile, tristissima, di mercanzia corporea.
Ovunque si fa a gara per chi mostra qualche centimetro di pelle nuda in più, per chi ostenta la scollatura più audace, per chi abbassa un poco di più la cintura dei pantaloni: al punto che ti chiedi come fanno a non perderli per strada e a non restare tutti nudi, dalla vita in giù, come mamma li ha fatti, scarpe o stivaletti a parte.
Se entri in un negozio e chiedi un articolo che si trova in uno dei ripiani alti dello scaffale, la commessa, salendo con la scaletta, ti costringe ad ammirare tutto il suo pancino nudo, mentre la maglietta, già cortissima, si solleva di quasi mezzo metro al di sopra dei jeans, e l’immancabile farfallina tatuata ti ammicca dolcemente sopra l’inguine.
Se passeggi sulla pensilina in attesa del treno, puntualmente in ritardo, non puoi fare a meno di sbattere con lo sguardo, e quasi anche coi piedi, contro il roseo sedere dei ragazzi che, borse di scuola a tracolla e mascelle perennemente impegnate a ruminare gomma americana, siedono scompostamente sulle panchine, sui bordi delle aiole, sui libri stessi posati a terra: e ti chiedi se sia proprio naturale tutto quel piegarsi in avanti, tutto quel curvarsi sulla schiena, assumendo delle pose alquanto innaturali; o se non sia, piuttosto, una strategia lungamente studiata e messa a punto fin nei minimi dettagli, magari con l’aiuto e il consiglio degli amici.
Se, poi, stanco e sudato, stai facendo la fila all’ufficio postale e finalmente, armato del tuo bravo numero come al supermarket, arrivi allo sportello, ecco che ti devi sorbire lo show erotico dell’impiegata che, dovendo chinarsi per cercare la tua raccomandata inevasa, ti mostra più roba di quanta non ne facesse vedere Kim Basinger a Mickey Rourke in «Nove settimane e mezzo»; oppure, come direbbe il buon principe di Salina de «Il gattopardo» al suo confessore, più roba di quanto le mogli d’un tempo non ne mostrassero ai mariti, dopo una pluridecennale vita coniugale e dopo avere messo al mondo una intera nidiata di eredi.
E quando poi si volta, non sai nemmeno come affrontare il suo sguardo: ti domandi se ti possa leggere in viso l’effetto che il suo spettacolino ha provocato; ti senti colpevole come un ragazzino colto in fallo, anche se a tutto pensavi, quando hai raggiunto il sospirato sportello, tranne che a eccitarti sbirciando le grazie, magari discutibili, di questa sconosciuta che ora sembra ridacchiare del tuo imbarazzo o, peggio, fiutare le prove della tua malizia sporcacciona.
Che bella situazione: colpevole di niente, eppure sospettato, quanto meno, di cattivi pensieri (perché il maschio, si sa, nella cultura post-femminista, è sempre un porcaccione); provocato e, forse, un po’ turbato, senza aver mosso un dito per arrivare a tanto; costretto, infine, a mostrare urbanità e naturalezza, persino indifferenza, insomma a non fare una piega, quando hai dovuto subire da quella perfetta sconosciuta un comportamento non meno pesante ed invasivo delle persecuzioni sessuali che tante donne lamentano da parte di colleghi e capiufficio.
Ma l’uomo è quello che pensa sempre male, la donna no; se la donna mostra il suo corpo, lo fa per caso, con innocenza, senza intenzione; mentre se l’uomo guarda, allora vuol dire che è un porco, un selvaggio, un potenziale stupratore.
E comunque, qualsiasi cosa lui faccia, sbaglia: se si mostra emozionato, allora la donna lo guarda di traverso, immaginando che lui abbia immaginato cose sporche e irriferibili proprio su di lei («Ma come si permette quello lì, che nemmeno lo conosco!»); se, viceversa, ostenta nonchalance, allora c’è il caso che lei lo guardi ancora più di traverso, ferita a sangue nella sua vanità femminile («Ma guarda che razza di impotente, possibile che io valga così poco?; no, non è impossibile: quello non è nemmeno un impotente, è proprio un gran finocchio!»).
Ironia di una situazione senza sbocchi, assurdamente circolare e punitiva: ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Intanto, le chiappe trionfano e, se qualcuno pensa male, peggio per lui: vuol dire che ci mette la malizia; è un problema suo, povero guardone frustrato.
Qualcun altro, comunque, ci sta facendo sopra un bel guadagno: un bel guadagno economico, vogliamo dire, con tanti, tanti zeri.
Sarà un caso che emergano così prepotentemente, dai tenebrosi abissi della zona corporea proibita, proprio i marchi della biancheria intima, proprio i filetti del perizoma, come se ci fosse lo zampino di un segreto e inconfessabile accordo pubblicitario fra produttore e consumatore, trasformato, quest’ultimo, in volonteroso modello ed in solerte agente propagandistico a costo zero, anzi, addirittura pagante?
Quando mai i modelli devono pagare il produttore per fargli la pubblicità? Eppure è proprio questo che sta accadendo: milioni di consumatori e di consumatrici comprano la merce a caro prezzo e poi fanno i modelli, gratuitamente, assiduamente, giorno e notte, per strada e sul lavoro, tra un poco li vedremo pure in chiesa.
Anzi, a dire il vero, quest’ultima eventualità si è già presentata, e non da ieri: ma, anche qui, la battaglia che qualche prete isolato ha intrapreso contro i pantaloni a vita bassa delle parrocchiane è destinata, come quella dei presidi delle scuole medie, a finire nel grottesco e nel ridicolo, se non addirittura sulla stampa e nelle aule dei tribunali.
Come si permette, quell’arrogante ministro di Dio, di rifiutare la comunione alla ragazza che gli si presenta davanti con l’ombelico al vento? Certamente deve trattarsi di un abietto seguace di monsignor Lefebvre, di un arnese da museo che non sa stare al passo con questi nostri tempi, giovanili e democratici, dove (come direbbe Tasso) «s’ei piace, ei lice».
Così stanno le cose: non ci si difende dalla pornografia di massa; bisogna rassegnarsi a subirla, e questo è tutto.
Dalla pornografia d’un tempo, ci si poteva ancora difendere, almeno in qualche misura: si poteva cambiar canale o spegnere il televisore; si poteva non comprare quel giornale o, magari, strappar via le pagine più oscene e fastidiose.
Certo, era più difficile difendersi dalla pubblicità murale: da quei metri e metri di cartelloni da cui ammiccavano già ventri e sederi, ma di graziosissime modelle.
Oggi, ventri e sederi si sono democraticamente moltiplicati e sono quelli della commessa, dell’impiegata, dello studente, della ragazzina e del ragazzino della porta accanto.
Perciò, mi raccomando, l’importante è non scomporsi: se ti turbi, allora sei colpevole; e sei finito.
di Francesco Lamendola