18 giugno 2011

Meglio tagliarsi la barba o una gamba?







La famiglia Brambilla ha un sacco di debiti con le banche. Dal mutuo contratto per acquistare la casa in cui vive a quello per l’appartamentino al mare, dalle rate delle nuove auto euro 5, alle carte di credito argentate e dorate, per finire con i finanziamenti “generosamente” devoluti da un paio di società finanziarie dalla bocca buona.
Negli anni passati tutti la invitavano ad indebitarsi a più non posso, dal momento che “vivere a debito” più che una moda sembrava fosse diventata una filosofia di vita.
Fino all’altro giorno, quando il direttore di banca, quello nuovo dallo sguardo severo, ha telefonato a casa per dire che così non va. Occorre impostare un severo piano di rientro che consenta una progressiva riduzione del debito, costi quel costi, ma si deve fare.
La famiglia Brambilla, riunita in salotto davanti al mega schermo lcd, inizia a prendere le proprie decisioni, gravi ma necessarie, dal momento che l’alternativa sarebbe la bancarotta.
La scuola di calcio e la nuova playstation del piccolo Enrico non si possono toccare, però si potrebbe evitare di portarlo dal dentista e di comprargli libri che in fondo neanche legge.
Per quanto riguarda Cristina, guai a toccare le lezioni di danza o mettere in predicato l’arrivo del motorino, o peggio ancora ridurre il budget per i concerti o quello per l’intervento al seno, ne farebbe una malattia.....
In compenso non se ne avrà certo a male se in casa cambieremo il regime alimentare, si può dimezzare il budget acquistando solo nei discount. E neppure se sospenderemo la ginnastica per correggere la scoliosi che costa un sacco di soldi.

Giuseppe dal canto suo non è certo disposto a rinunciare al suv nuovo di zecca, che oltretutto gli da un certo tono, né tantomeno all’abbonamento della pay TV o alle cenette al club dove c’è tanta “bella gente”. Però ci si può trasferire in quell’appartamento in affitto, quello bello che però costa poco, perché di fronte c’è l’industria chimica e poco lontano stanno costruendo l’inceneritore. E mandare a quel paese il dentista che gli ha chiesto un capitale per sistemargli i denti, in fondo basta mangiare cibi morbidi, che sarà mai.
Isabella non può certo prescindere dalle sue priorità, il centro estetico, la chirurgia anti età e qualche vestitino firmato da sfoggiare con le amiche, però di cose da tagliare ce ne sono eccome. Ad iniziare dalla mania per i cibi biologici che in fondo era solo una moda, dalla casa al mare dove si finiva per andare solo a fare le pulizie e dalle cure del naturopata, in virtù del quale il medico della mutua andrà benissimo.

L’Italia in buona sostanza è una famiglia Brambilla allargata, che posta dinanzi al diktat della BCE, si trova nella condizione di decidere dove tagliare e dove spendere.
E come la famiglia Brambilla sceglie di continuare a sperperare miliardi nella costruzione di nuove infrastrutture tanto inutili quanto devastanti, TAV, Ponte sullo Stretto, inceneritori et similia.
Di acquistare tonnellate di armi di ogni genere, dai droni Predator agli F35. Di stipendiare principescamente migliaia di soldati, mandati a combattere le guerre altrui. Di continuare a foraggiare la classe politica e dirigente più pagata d’Europa. Di organizzare kermesse, esposizioni e convegni (G8, Expo, Italia 150) spendendo cifre sufficienti a costruire decine e decine di ospedali.

Mentre al contempo taglia drasticamente la sanità, ormai ridotta sull’orlo del collasso. Lascia andare in rovina il patrimonio pubblico, con le scuole fatiscenti che crollano sulla testa degli alunni. Non si cura del degrado del territorio, soggetto a frane ed alluvioni ogni volta che piove. Elimina ogni tipo di ammortizzatore sociale, abbandonando la massa dei disoccupati e precari (sempre più consistente ogni giorno che passa) al proprio destino.
Taglia le pensioni ed i salari, deprivando i cittadini di ogni prospettiva occupazionale.

Qualora vi venisse chiesto se preferite tagliarvi la barba o una gamba, penso nessuno di voi avrebbe dubbi in proposito. Ma cosa pensare di una classe politica che, dopo aver scelto la gamba, continua a raccogliere il consenso unanime della popolazione?
di Marco Cedolin

17 giugno 2011

Dagli la corda si impiccheranno da sé





Nella Gran Bretagna della seconda metà del XIX secolo, nel corso della seconda rivoluzione industriale, l’establishment oligarchico (aristocrazia + finanza) dovette gestire l’azione sempre più energica e organizzata, sindacalmente e politicamente, delle classi lavoratrici duramente sfruttate, che si mettevano a lottare, con grandi scioperi ed energici moti di piazza, per migliori condizioni di vita, per una meno iniqua redistribuzione del reddito, per condizioni di lavoro più sicure, per orari meno massacranti, contro lo sfruttamento dei bambini, etc.

Per gestire questo problema, l’establishment adottò una strategia “fabiana” – da Quinto Fabio Massimo, il generale romano che, nel corso della II Guerra Punica, dopo la disastrosa sconfitta presso il lago Trasimeno, scelse di non affrontare in battaglie frontali il potente esercito invasore cartaginese, ma di lavorarlo ai fianchi, colpire le sue linee di rifornimento, fargli terra bruciata davanti. Una strategia temporeggiatrice (da qui il soprannome Cunctator), che lasciò che i cartaginesi arrivassero nella pingue Campania, dove si diedero all’ozio e ai piaceri, al vino e al cibo fino a perdere l’attitudine e la capacità combattive che li avevano portati di vittoria in vittoria. Dopo di ciò, Roma poté affrontarli e batterli, e vinse la guerra.

La strategia fabiana venne presa a modello per la gestione della protesta e della rivendicazione sociale, dapprima in Gran Bretagna, poi negli USA e in altri paesi industrializzati. Alle masse fu lasciata una controllata libertà sindacale, politica, di sciopero, di parola – però avendo cura di spuntarne (con la repressione, con la cooptazione, con campagne di informazione) le forme e gli esponenti più efficaci, più intelligenti. Furono fatte concessioni nei salari, nella sicurezza, nell’assistenza, nella previdenza, così da produrre un progressivo, e tendenzialmente schiacciante, indebitamento pubblico. Fu concessa anche una rappresentanza parlamentare, formale più che sostanziale. Fu concessa alle classi inferiori la possibilità di studiare, ma la scuola pubblica fu organizzata in modo da dare una formazione non critica, non creativa, non libera, bensì conformista. Furono impiantate le mode e i piaceri consumistici, così da incoraggiare la spesa facile, e il progressivo indebitamento privato. Mediante questa strategia di lungo termine, le classi subalterne sono state rese incapaci di ribellarsi, sono state portate a una condizione dapprima di integrazione nel sistema capitalistico, di perdita della loro rappresentanza politica e sindacale (cooptata nella casta di regime) e ora di passività, che consente all’oligarchia di toglier loro, gradualmente, con la loro stessa collaborazione, la coscienza di classe, la specificità politico-sindacale, i “diritti” precedentemente concessi, le “conquiste del lavoro”: gli stessi lavoratori firmano e votano le rinunce ai loro diritti salariali e normativi, nonché al welfare, perché “vedono” che, altrimenti, l’industria andrebbe fuori mercato e la finanza pubblica violerebbe i vincoli di bilancio. La strategia fabiana di contenimento e fiaccamento progressivo sta vincendo ancora una volta.

Soprattutto, questa vittoria brilla in Italia. In Italia ai lavoratori si è concesso, in questa strategia, tutto, ma in modo tale che finissero intrappolati dai loro stessi apparenti successi. Dategli corda, e si impiccheranno da sè – insegna un fabianissimo proverbio inglese.

Gli si è concesso il posto fisso, il diritto di non rendere, la facoltà di fingersi malati, i posti di lavoro inutili, la quasi non licenziabilità, la scala mobile, la cassa integrazione, il pensionamento da giovani, livelli pensionistici non coperti dai contributi, le finte invalidità, etc. – ed il risultato, a qualche decennio, è la disoccupazione e la precarietà giovanili, le enormi ritenute previdenziali, la disoccupazione e sottooccupazione, la recessione – quindi la necessità di accettare condizioni di lavoro e di vita sempre più grame, e redditi in declino.

Hanno voluto la scuola non discriminante, non selettiva, democratica, diritto a tutto senza sforzo, e gliela si è data molto volentieri: tutti promossi, ventisette politico, interrogazioni di gruppo – e insegnanti sempre meno preparati, spesso nominati senza concorso. E ora abbiamo una scuola che non consente più ai capaci e meritevoli di elevarsi socialmente, che non qualifica più per il mercato del lavoro, che è a livelli di terzo mondo. Una scuola tale che, se si vuole dare ai propri figli una preparazione competitiva, bisogna mandarli all’estero. Una scuola, insomma, che fa esattamente ciò che voleva il potere, e l’opposto di ciò che intendevano le “sinistre”: garantisce e irrigidisce la separazione di classe, il blocco della mobilità verticale.

Hanno voluto la sanità e il welfare a spesa facile, glielo si è concesso, e così si è prodotto un indebitamento pubblico tale, che lo Stato ora deve obbedire ai dettami del cartello bancario internazionale per non fare default, cui ha ceduto la sovranità finanziaria ed economica, quindi pure delle scelte politiche di fondo. Così, anche se il popolo elegge maggioranze parlamentari di “sinistra”, queste hanno le mani legate e devono seguire le direttive della BCE e del FMI.

Hanno voluto libertà e divertimenti, ed è stata data loro una serie di cose utili a fiaccarle nella mente, nel corpo, nei rapporti umani: televisione di rimbecillimento, droga, un certo tipo di musica, promiscuità, sesso facile, nessun dovere o sacrificio – il tutto veicolato dalla cultura del piacere per il piacere e dello sballo, soprattutto attraverso la rivoluzione morale del 1968.

Hanno voluto credito facile, al consumo, e glielo si è dato, persino per le vacanze; hanno voluto i mutui al 120% del valore della casa, e glielo si è dato; così li si è indebitati per bene, e ora sono costretti a erodere i loro risparmi, mentre vedono le loro case andare all’asta per pochi soldi, oppure le devono cedere alla banca che gliele ha finanziate, restando dentro come inquilini.

Si sono fregate e inertizzate le classi lavoratrici semplicemente assecondandole, accontentandole nelle loro richieste miopi, spingendole a sentirsi borghesi e a coltivare bisogni, gusti e aspirazioni borghesi. Le si è accontentate nelle rivendicazioni di vantaggi particolari e immediati, ben contenti che dimenticassero quelle di classe, di sistema e di lungo termine. L’operaio, l’impiegato, vedono e vogliono i benefici immediati, e non considerano le loro conseguenze, non problematizzano la loro sostenibilità nei decenni, le ricadute sui loro figli delle apparenti conquiste di oggi. Non considerano gli interessi e i bisogni delle generazioni future, e scaricano su di esse il debito e le distorsioni strutturali comportate dal soddisfare oggi le aspirazioni della loro generazione. Il sindacalista e il politico ragionano e decidono nella logica del breve termine e del particolare delle loro elezioni e nomine, quindi neanch’essi si curano dell’insieme e del lungo termine. Inoltre, invariabilmente tendono verso la parte che ha i soldi, finiscono per sentirsi parte di essa, offrendo, in cambio della loro cooptazione in casta, di procurare la compliance delle classi che loro si affidano. Analogo discorso vale per gli intellettuali, i giornalisti e i pubblici funzionari. E anche se così il sistema in futuro si guasterà, saranno sempre loro a cavalcarlo e ad arricchirsi gestendo i sacrifici che si renderanno necessari allora.

Dagli anni ’90 la suddescritta fase, la fase delle concessioni mirate al popolo, è finita in tutto il mondo occidentale od occidentalizzato: le condizioni delle classe subalterne e delle finanze pubbliche hanno preso a peggiorare, mentre migliorano quelle delle classi privilegiate (i redditi si concentrano sempre più nelle mani di pochi), ed aumentano gli strumenti di controllo del potere sulla società, tecnologici e giuridici, e vengono tagliati i diritti civili e le garanzie del cittadino rispetto al fisco, alla polizia e al potere giudiziario, soprattutto negli USA. La fase “generosa”, di benessere e di libertà, in cui la vita era abbastanza buona per molti, è finita, perché ha raggiunto il suo scopo, ossia di domare le classi subalterne e di predisporle a una radicale sottomissione e sfruttabilità, con perdita dell’illusione di borghesia, di consumismo, di welfare, di garantismo. Poiché non serve più trattare bene la gente, poiché è stato raggiunto lo scopo strategico, la gente, la popolazione generale, continuerà ad esser trattata male, sempre peggio, comunque voti e chiunque sia al governo, e anche se insorgerà nelle piazze, anche se voterà plebisciti contro alcune privatizzazioni, perché i limiti sono esterni, sono nei palazzi del cartello bancario, ben protetti da trattati internazionali che escludono qualsiasi controllo sia politico che giudiziario, e qualsiasi responsabilità: BCE, BIS, WB, IMF. E così anche quando questi poteri causano disastri socio-economici, non è che possano venir sostituiti come si sostituirebbe un cattivo amministratore, perché essi gestiscono il sistema e la società da fuori e da sopra di essi. I popoli colpiti non hanno un mezzo politico per sostituirli. Non hanno nemmeno una possibilità di farlo attraverso una rivoluzione, perché non vi è qualcosa di fisico, di circoscritto, da attaccare. Soprattutto non hanno la possibilità di agire su questi poteri esterni perché non hanno nemmeno la nozione di essi, o, se la hanno, credono che si tratti di organismi utili, sani, garanti del libero mercato e della buona economia. Ma anche quando aprono gli occhi, che cosa possono fare? Che cosa possono fare i cittadini greci, se non gridare e tirar sassi, mentre il Pireo viene venduto al capitale cinese, il loro reddito tagliato, il loro fisco rilevato dai burocrati dell’UE? I centri del potere sono al di fuori della loro portata, a Basilea, Londra, New York, Brussel, Francoforte. Ma, soprattutto, sono centri immateriali, informatici.

Per essere più chiari, per dire ciò che gli ignoranti od opportunisti intellettuali della sinistra non hanno mai spiegato alle classi che li consideravano maestri, diciamo che in un mondo di mercati finanziariamente e monetariamente interdipendenti, domina il cartello che gestisce la finanza e la moneta, quindi non c’è tutela delle classi lavoratrici se non c’è trasparenza e controllo sull’ordinamento finanziario e monetario globale (e non ci sarà mai). Diciamo che il potere finanziario, oramai globalizzato, possiede e usa strumenti che governano dall’esterno le varie nazioni, e contro i quali non vi è possibilità di resistenza, sia perché non è prevista giuridicamente, sia perché se un paese si ribella gli viene tagliato il rating del debito pubblico, e quel paese va a rotoli, perché la sua moneta crolla, perché non riesce più a collocare i titoli del suo debito pubblico, o perché i capitali escono da esso. Questi strumenti esterni sono la regolazione del money supply (ossia della quantità di denaro e credito disponibile nel mercato), la fissazione del tasso di sconto e dei criteri di merito creditizio, la imposizione di vincoli di bilancio, il rating dei bond di Stato e privati, la regolazione dei dazi. Con i primi due strumenti si più mettere a secco l’economia, e comperarne poi gli assets sottocosto. Col terzo e col quarto si può costringere una nazione a tagli di welfare e di investimenti, a privatizzazioni, a inasprimenti fiscali – quindi alla recessione, alla soppressione de facto delle classi intermedie, e a una svolta liberista in politica. Col quinto si può impedire a un paese di difendere un proprio settore produttivo, nascente o già consolidato, e i diritti dei suoi lavoratori, col semplice togliergli i dazi sulle importazioni così da esporlo alla concorrenza sleale di paesi che sfruttano senza limiti il lavoro e l’ambiente, come la Cina; mentre si può impedire che quel paese sviluppi il suo potenziale produttivo di determinate merci col semplice consentire ai paesi acquirenti di quelle merci di porre barriere doganali alla loro importazione (così si è schiacciata l’agricoltura argentina consentendo a USA, UE e Giappone di porre barriere doganali ai prodotti argentini, e di sovvenzionare le proprie produzioni interne).

Quando si hanno questi controlli esterni sui vari paesi, al loro interno si può concedere alle classi popolari tutto ciò che reclamano, ogni illusione di democrazia, di diritti inalienabili, di conquiste del lavoro, di eguaglianza, di progresso. Le classi popolari, con l’aiuto dei loro politici e sindacalisti, si impiccheranno da sole, e poi imploreranno in ginocchio di poter lavorare per un pezzo di pane.
di Marco Della Luna

16 giugno 2011

Il sionismo non c'entra




Recentemente, mi sono accorto che il discorso sulla solidarietà verso la Palestina è viziato sul piano spirituale, ideologico e intellettuale da una terminologia assai fuorviante: concetti chiave come quelli di sionismo, colonialismo e apartheid (che si sentono in ogni discussione e sono presenti in ogni testo che riguardi il conflitto), sono concetti confusi, oppure illusori. Io credo che essi esistano allo scopo di bloccare qualunque tentativo di comprendere il vero spirito e la vera ideologia che guida lo Stato Ebraico, piuttosto che per chiarire la situazione.

zion

Sionismo


Molti di noi tendono a considerare il sionismo come la forza ideologica che si nasconde dietro alle azioni israeliane. Ma non commettiamo errori: Israele non è il sionismo e l’ideologia e la politica sionista hanno ben poco a che fare con la politica e le azioni di Israele.

Bisogna capire che Israele e il sionismo sono oggi due categorie distinte. Se il sionismo era definito dai suoi fondatori come un tentativo di “trasformare l’ebreo della Diaspora in un essere umano autentico e civilizzato”, Israele, al giorno d’oggi, può solo essere visto come il prodotto concreto di tale ideologia.

Molti di voi saranno forse sorpresi nel sapere che oggi Israele non è affatto guidato, né ormai particolarmente ispirato, dal sionismo: è invece completamente assorbito dalla propria autoconservazione. Inoltre, gli israeliani non hanno poi nemmeno tutta questa familiarità con l’ideologia sionista. Per la maggior parte degli israeliani, il sionismo è poco più di un concetto obsoleto e arcaico, che potrà anche avere un significato storico, ma che possiede una rilevanza pari a zero nella vita quotidiana.

Il sionismo è, in realtà, un discorso che riguarda la Diaspora ebraica. Il suo scopo è quello di distinguere l’ebraismo mondiale che – a larga maggioranza – sostiene Israele dalle poche e sporadiche voci secolariste ebraiche che vorrebbero conservare la propria identità nazionale pur opponendosi allo Stato di Israele.

Il dibattito tra sionisti e antisionisti è, in concreto, un dibattito che ha luogo nell’ambito della Diaspora ebraica e non all’interno di Israele. Esso appartiene al regno dei discorsi sull’identità ebraica. E ha ben poco significato politico al di fuori di tale contesto.

Poiché Israele e gli israeliani sono attualmente indifferenti al sionismo, l’attività e l’ideologia “antisionista” hanno un impatto molto scarso su Israele e sugli israeliani. [1] Gli israeliani si preoccupano soltanto delle azioni dirette contro lo Stato Ebraico e le sanzioni, ad esempio, sono un problema che li coinvolge e li preoccupa enormemente. Al contrario, gli israeliani si curano assai poco di cercare soluzioni alla cosiddetta “questione ebraica”. Dal punto di vista israeliano, lo Stato Ebraico è la soluzione definitiva della “questione ebraica”. Penso si converrà che, da un punto di vista realistico e pragmatico, Israele non ha davvero risolto la “questione ebraica”, ma si è limitato a sportarla in una nuova locazione.

Perché, dunque, continuiamo a commettere il terribile errore di considerare i crimini israeliani come effetto del “sionismo”? Perché non li attribuiamo, in modo aperto e diretto, allo “Stato Ebraico”, visto che, in ultima analisi, è così che Israele definisce se stesso?

La risposta è semplice: perché in realtà non desideriamo offendere nessuno. Accettiamo che gli ebrei abbiano sofferto nel corso della loro storia e accettiamo che possediano una sensibilità unica al mondo. Per questo motivo ci auto-censuriamo spontaneamente. Rinunciamo spontaneamente alla nostra capacità di pensare in modo libero, coerente, esplicito e critico.

colonialismo

Colonialismo

Il sionismo non si identifica neppure col colonialismo. Per quanto molti attivisti intorno a noi insistano nel presentarci il sionismo come un progetto colonialista, occorre dire la verità: il colonialismo è definito dall’esistenza di una chiara relazione materiale tra una “madrepatria” e un ”insediamento coloniale”. Nel caso del sionismo, tuttavia, è impossibile determinare quale sia o sia stata la “madrepatria ebraica”. In effetti, non esiste nessuna madrepatria ebraica, né mai ne è esistita una. Il sionismo non è un progetto colonialista, né mai lo è stato. Vero è che lo Stato Ebraico manifesta alcuni caratteri del colonialismo. [2] Ma anche un paziente ammalato di cancro al cervello manifesta alcuni sintomi dell’emicrania. Una diagnosi appropriata deve mirare a scoprire le vere cause che stanno alla base dei sintomi. Fare una diagnosi significa rintracciare la vera malattia piuttosto che fornire una spiegazione superficiale esaminando un po’ di sintomi sparsi.

E’ anche evidente perché a tanti fra noi piaccia questo paradigma colonialista, per quanto ingannevole esso sia: i seguaci del paradigma coloniale presumono che gli israeliani non siano diversi dai britannici, dai francesi o dagli olandesi; si limitano a celebrare i sintomi del loro espansionismo “coloniale” 100 anni dopo tutti gli altri. Inoltre, il paradigma coloniale contiene la promessa di una qualche “soluzione” al termine del percorso: nell’immaginario dei suoi sostenitori, una riconciliazione post-coloniale è solo questione di tempo.

Inoltre, mi spiace far arrabbiare molte persone alle quali voglio bene, ma lo devo dire: il sionismo è qualcosa di unico ed originale nel suo genere e non ha precedenti nella storia. Sfortunatamente, esso non è riconducibile ad alcun modello materialista, poiché l’aspirazione che fondava il sionismo era, ed è ancora, del tutto spirituale.

Dunque, perché continuiamo a commettere questo terribile errore e a confondere il sionismo col colonialismo? Perché non ci riferiamo al sionismo per ciò che esso realmente è: un progetto ideologico ebraico del tutto unico nella storia? Semplicemente perché non vogliamo offendere quei pochi ebrei che sono così gentili da schierarsi a favore della Palestina. Rispettiamo la loro sensibilità e volontariamente ce ne stiamo zitti. Faremmo qualunque cosa pur di rendere tutti felici. Dopotutto siamo un movimento per la pace.

apartheid

Apartheid

E che dire dell’apartheid? Israele è uno stato che pratica l’apartheid? In Israele si assiste in modo evidente ad una separazione razziale e ad una discriminazione legislativa. Nonostante ciò, io ritengo che Israele non possieda un sistema basato sull’apartheid, perché l’apartheid era predisposto per sfruttare le popolazioni indigene pur lasciandole vivere sul territorio. Israele, al contrario, è lì per distruggere la popolazione indigena: gli israeliani si sentirebbero sollevati se una mattina si svegliassero e scoprissero che i palestinesi hanno semplicemente abbandonato la regione.

Chi è così ingenuo da bersi la storia dell’apartheid è probabilmente convinto che Israele sia lì lì per collassare, perché è questo che la storia ci ha insegnato sull’apartheid. Di nuovo, il modello dell’apartheid ci piace perché fa sembrare Israele (relativamente) “normale”. E noi non vogliamo offendere nessuno, tantomeno i pochi ebrei che sono dalla nostra parte.

Ed ecco la domanda che vorrei rivolgere agli ebrei amanti della giustizia e agli amici sostenitori della Palestina sparsi per il mondo: credete davvero che il discorso sulla lotta contro lo Stato Ebraico dovrebbe lasciarsi condizionare dalla “sensibilità degli ebrei”? La lotta contro il nazismo si lasciò forse condizionare dalla sensibilità dei tedeschi? Abbiamo per caso tenuto conto dei punti sensibili degli Afrikaner quando facevamo campagna contro l’apartheid? Non è che per caso i tempi sono maturi per dire pane al pane? Comprendo bene l’importanza cruciale degli ebrei in questo movimento e cerco di lavorare insieme al maggior numero possibile di loro. Ma mi domando se non sia ora che gli ebrei superino la loro sensibilità e osservino la questione con gli occhi ben aperti. E non è forse ora che anche noi facciamo lo stesso? Non dovremmo forse chiedere ai sostenitori dello Stato Ebraico in cosa esattamente consista tale ”ebraicità”?

Io penso che questo sia esattamente ciò che dovremmo fare. Nell’interesse del futuro della Palestina, dobbiamo affrontare apertamente questi problemi cruciali. Credo anche che siano gli ebrei, più di chiunque altro, a doverli affrontare. Mi attendo che gli attivisti ebrei all’interno del nostro movimento si pongano a capo di questa iniziativa piuttosto che cercare di ridurla al silenzio.

[1] “Sionismo” può essere un termine utile per fare riferimento al fenomeno del lobbismo ebraico sparso per il mondo. Può servire a fare luce sull’attività dei Sayanim e può spiegare l’inclinazione di certi ebrei di Brooklyn a fare Aliya [cioè a chiedere il trasferimento in Israele, NdT]. Può anche spiegare perché alcuni ebrei di sinistra prendano le parti delle istituzioni sioniste più fanatiche non appena qualcuno gli domanda in che cosa consista l’”ebraicità”.

[2] Si può ragionevolmente affermare che il rapporto tra i coloni israeliani della West Bank e le popolazioni indigene sia configurabile in termini coloniali.

di Gilad Atzmon

18 giugno 2011

Meglio tagliarsi la barba o una gamba?







La famiglia Brambilla ha un sacco di debiti con le banche. Dal mutuo contratto per acquistare la casa in cui vive a quello per l’appartamentino al mare, dalle rate delle nuove auto euro 5, alle carte di credito argentate e dorate, per finire con i finanziamenti “generosamente” devoluti da un paio di società finanziarie dalla bocca buona.
Negli anni passati tutti la invitavano ad indebitarsi a più non posso, dal momento che “vivere a debito” più che una moda sembrava fosse diventata una filosofia di vita.
Fino all’altro giorno, quando il direttore di banca, quello nuovo dallo sguardo severo, ha telefonato a casa per dire che così non va. Occorre impostare un severo piano di rientro che consenta una progressiva riduzione del debito, costi quel costi, ma si deve fare.
La famiglia Brambilla, riunita in salotto davanti al mega schermo lcd, inizia a prendere le proprie decisioni, gravi ma necessarie, dal momento che l’alternativa sarebbe la bancarotta.
La scuola di calcio e la nuova playstation del piccolo Enrico non si possono toccare, però si potrebbe evitare di portarlo dal dentista e di comprargli libri che in fondo neanche legge.
Per quanto riguarda Cristina, guai a toccare le lezioni di danza o mettere in predicato l’arrivo del motorino, o peggio ancora ridurre il budget per i concerti o quello per l’intervento al seno, ne farebbe una malattia.....
In compenso non se ne avrà certo a male se in casa cambieremo il regime alimentare, si può dimezzare il budget acquistando solo nei discount. E neppure se sospenderemo la ginnastica per correggere la scoliosi che costa un sacco di soldi.

Giuseppe dal canto suo non è certo disposto a rinunciare al suv nuovo di zecca, che oltretutto gli da un certo tono, né tantomeno all’abbonamento della pay TV o alle cenette al club dove c’è tanta “bella gente”. Però ci si può trasferire in quell’appartamento in affitto, quello bello che però costa poco, perché di fronte c’è l’industria chimica e poco lontano stanno costruendo l’inceneritore. E mandare a quel paese il dentista che gli ha chiesto un capitale per sistemargli i denti, in fondo basta mangiare cibi morbidi, che sarà mai.
Isabella non può certo prescindere dalle sue priorità, il centro estetico, la chirurgia anti età e qualche vestitino firmato da sfoggiare con le amiche, però di cose da tagliare ce ne sono eccome. Ad iniziare dalla mania per i cibi biologici che in fondo era solo una moda, dalla casa al mare dove si finiva per andare solo a fare le pulizie e dalle cure del naturopata, in virtù del quale il medico della mutua andrà benissimo.

L’Italia in buona sostanza è una famiglia Brambilla allargata, che posta dinanzi al diktat della BCE, si trova nella condizione di decidere dove tagliare e dove spendere.
E come la famiglia Brambilla sceglie di continuare a sperperare miliardi nella costruzione di nuove infrastrutture tanto inutili quanto devastanti, TAV, Ponte sullo Stretto, inceneritori et similia.
Di acquistare tonnellate di armi di ogni genere, dai droni Predator agli F35. Di stipendiare principescamente migliaia di soldati, mandati a combattere le guerre altrui. Di continuare a foraggiare la classe politica e dirigente più pagata d’Europa. Di organizzare kermesse, esposizioni e convegni (G8, Expo, Italia 150) spendendo cifre sufficienti a costruire decine e decine di ospedali.

Mentre al contempo taglia drasticamente la sanità, ormai ridotta sull’orlo del collasso. Lascia andare in rovina il patrimonio pubblico, con le scuole fatiscenti che crollano sulla testa degli alunni. Non si cura del degrado del territorio, soggetto a frane ed alluvioni ogni volta che piove. Elimina ogni tipo di ammortizzatore sociale, abbandonando la massa dei disoccupati e precari (sempre più consistente ogni giorno che passa) al proprio destino.
Taglia le pensioni ed i salari, deprivando i cittadini di ogni prospettiva occupazionale.

Qualora vi venisse chiesto se preferite tagliarvi la barba o una gamba, penso nessuno di voi avrebbe dubbi in proposito. Ma cosa pensare di una classe politica che, dopo aver scelto la gamba, continua a raccogliere il consenso unanime della popolazione?
di Marco Cedolin

17 giugno 2011

Dagli la corda si impiccheranno da sé





Nella Gran Bretagna della seconda metà del XIX secolo, nel corso della seconda rivoluzione industriale, l’establishment oligarchico (aristocrazia + finanza) dovette gestire l’azione sempre più energica e organizzata, sindacalmente e politicamente, delle classi lavoratrici duramente sfruttate, che si mettevano a lottare, con grandi scioperi ed energici moti di piazza, per migliori condizioni di vita, per una meno iniqua redistribuzione del reddito, per condizioni di lavoro più sicure, per orari meno massacranti, contro lo sfruttamento dei bambini, etc.

Per gestire questo problema, l’establishment adottò una strategia “fabiana” – da Quinto Fabio Massimo, il generale romano che, nel corso della II Guerra Punica, dopo la disastrosa sconfitta presso il lago Trasimeno, scelse di non affrontare in battaglie frontali il potente esercito invasore cartaginese, ma di lavorarlo ai fianchi, colpire le sue linee di rifornimento, fargli terra bruciata davanti. Una strategia temporeggiatrice (da qui il soprannome Cunctator), che lasciò che i cartaginesi arrivassero nella pingue Campania, dove si diedero all’ozio e ai piaceri, al vino e al cibo fino a perdere l’attitudine e la capacità combattive che li avevano portati di vittoria in vittoria. Dopo di ciò, Roma poté affrontarli e batterli, e vinse la guerra.

La strategia fabiana venne presa a modello per la gestione della protesta e della rivendicazione sociale, dapprima in Gran Bretagna, poi negli USA e in altri paesi industrializzati. Alle masse fu lasciata una controllata libertà sindacale, politica, di sciopero, di parola – però avendo cura di spuntarne (con la repressione, con la cooptazione, con campagne di informazione) le forme e gli esponenti più efficaci, più intelligenti. Furono fatte concessioni nei salari, nella sicurezza, nell’assistenza, nella previdenza, così da produrre un progressivo, e tendenzialmente schiacciante, indebitamento pubblico. Fu concessa anche una rappresentanza parlamentare, formale più che sostanziale. Fu concessa alle classi inferiori la possibilità di studiare, ma la scuola pubblica fu organizzata in modo da dare una formazione non critica, non creativa, non libera, bensì conformista. Furono impiantate le mode e i piaceri consumistici, così da incoraggiare la spesa facile, e il progressivo indebitamento privato. Mediante questa strategia di lungo termine, le classi subalterne sono state rese incapaci di ribellarsi, sono state portate a una condizione dapprima di integrazione nel sistema capitalistico, di perdita della loro rappresentanza politica e sindacale (cooptata nella casta di regime) e ora di passività, che consente all’oligarchia di toglier loro, gradualmente, con la loro stessa collaborazione, la coscienza di classe, la specificità politico-sindacale, i “diritti” precedentemente concessi, le “conquiste del lavoro”: gli stessi lavoratori firmano e votano le rinunce ai loro diritti salariali e normativi, nonché al welfare, perché “vedono” che, altrimenti, l’industria andrebbe fuori mercato e la finanza pubblica violerebbe i vincoli di bilancio. La strategia fabiana di contenimento e fiaccamento progressivo sta vincendo ancora una volta.

Soprattutto, questa vittoria brilla in Italia. In Italia ai lavoratori si è concesso, in questa strategia, tutto, ma in modo tale che finissero intrappolati dai loro stessi apparenti successi. Dategli corda, e si impiccheranno da sè – insegna un fabianissimo proverbio inglese.

Gli si è concesso il posto fisso, il diritto di non rendere, la facoltà di fingersi malati, i posti di lavoro inutili, la quasi non licenziabilità, la scala mobile, la cassa integrazione, il pensionamento da giovani, livelli pensionistici non coperti dai contributi, le finte invalidità, etc. – ed il risultato, a qualche decennio, è la disoccupazione e la precarietà giovanili, le enormi ritenute previdenziali, la disoccupazione e sottooccupazione, la recessione – quindi la necessità di accettare condizioni di lavoro e di vita sempre più grame, e redditi in declino.

Hanno voluto la scuola non discriminante, non selettiva, democratica, diritto a tutto senza sforzo, e gliela si è data molto volentieri: tutti promossi, ventisette politico, interrogazioni di gruppo – e insegnanti sempre meno preparati, spesso nominati senza concorso. E ora abbiamo una scuola che non consente più ai capaci e meritevoli di elevarsi socialmente, che non qualifica più per il mercato del lavoro, che è a livelli di terzo mondo. Una scuola tale che, se si vuole dare ai propri figli una preparazione competitiva, bisogna mandarli all’estero. Una scuola, insomma, che fa esattamente ciò che voleva il potere, e l’opposto di ciò che intendevano le “sinistre”: garantisce e irrigidisce la separazione di classe, il blocco della mobilità verticale.

Hanno voluto la sanità e il welfare a spesa facile, glielo si è concesso, e così si è prodotto un indebitamento pubblico tale, che lo Stato ora deve obbedire ai dettami del cartello bancario internazionale per non fare default, cui ha ceduto la sovranità finanziaria ed economica, quindi pure delle scelte politiche di fondo. Così, anche se il popolo elegge maggioranze parlamentari di “sinistra”, queste hanno le mani legate e devono seguire le direttive della BCE e del FMI.

Hanno voluto libertà e divertimenti, ed è stata data loro una serie di cose utili a fiaccarle nella mente, nel corpo, nei rapporti umani: televisione di rimbecillimento, droga, un certo tipo di musica, promiscuità, sesso facile, nessun dovere o sacrificio – il tutto veicolato dalla cultura del piacere per il piacere e dello sballo, soprattutto attraverso la rivoluzione morale del 1968.

Hanno voluto credito facile, al consumo, e glielo si è dato, persino per le vacanze; hanno voluto i mutui al 120% del valore della casa, e glielo si è dato; così li si è indebitati per bene, e ora sono costretti a erodere i loro risparmi, mentre vedono le loro case andare all’asta per pochi soldi, oppure le devono cedere alla banca che gliele ha finanziate, restando dentro come inquilini.

Si sono fregate e inertizzate le classi lavoratrici semplicemente assecondandole, accontentandole nelle loro richieste miopi, spingendole a sentirsi borghesi e a coltivare bisogni, gusti e aspirazioni borghesi. Le si è accontentate nelle rivendicazioni di vantaggi particolari e immediati, ben contenti che dimenticassero quelle di classe, di sistema e di lungo termine. L’operaio, l’impiegato, vedono e vogliono i benefici immediati, e non considerano le loro conseguenze, non problematizzano la loro sostenibilità nei decenni, le ricadute sui loro figli delle apparenti conquiste di oggi. Non considerano gli interessi e i bisogni delle generazioni future, e scaricano su di esse il debito e le distorsioni strutturali comportate dal soddisfare oggi le aspirazioni della loro generazione. Il sindacalista e il politico ragionano e decidono nella logica del breve termine e del particolare delle loro elezioni e nomine, quindi neanch’essi si curano dell’insieme e del lungo termine. Inoltre, invariabilmente tendono verso la parte che ha i soldi, finiscono per sentirsi parte di essa, offrendo, in cambio della loro cooptazione in casta, di procurare la compliance delle classi che loro si affidano. Analogo discorso vale per gli intellettuali, i giornalisti e i pubblici funzionari. E anche se così il sistema in futuro si guasterà, saranno sempre loro a cavalcarlo e ad arricchirsi gestendo i sacrifici che si renderanno necessari allora.

Dagli anni ’90 la suddescritta fase, la fase delle concessioni mirate al popolo, è finita in tutto il mondo occidentale od occidentalizzato: le condizioni delle classe subalterne e delle finanze pubbliche hanno preso a peggiorare, mentre migliorano quelle delle classi privilegiate (i redditi si concentrano sempre più nelle mani di pochi), ed aumentano gli strumenti di controllo del potere sulla società, tecnologici e giuridici, e vengono tagliati i diritti civili e le garanzie del cittadino rispetto al fisco, alla polizia e al potere giudiziario, soprattutto negli USA. La fase “generosa”, di benessere e di libertà, in cui la vita era abbastanza buona per molti, è finita, perché ha raggiunto il suo scopo, ossia di domare le classi subalterne e di predisporle a una radicale sottomissione e sfruttabilità, con perdita dell’illusione di borghesia, di consumismo, di welfare, di garantismo. Poiché non serve più trattare bene la gente, poiché è stato raggiunto lo scopo strategico, la gente, la popolazione generale, continuerà ad esser trattata male, sempre peggio, comunque voti e chiunque sia al governo, e anche se insorgerà nelle piazze, anche se voterà plebisciti contro alcune privatizzazioni, perché i limiti sono esterni, sono nei palazzi del cartello bancario, ben protetti da trattati internazionali che escludono qualsiasi controllo sia politico che giudiziario, e qualsiasi responsabilità: BCE, BIS, WB, IMF. E così anche quando questi poteri causano disastri socio-economici, non è che possano venir sostituiti come si sostituirebbe un cattivo amministratore, perché essi gestiscono il sistema e la società da fuori e da sopra di essi. I popoli colpiti non hanno un mezzo politico per sostituirli. Non hanno nemmeno una possibilità di farlo attraverso una rivoluzione, perché non vi è qualcosa di fisico, di circoscritto, da attaccare. Soprattutto non hanno la possibilità di agire su questi poteri esterni perché non hanno nemmeno la nozione di essi, o, se la hanno, credono che si tratti di organismi utili, sani, garanti del libero mercato e della buona economia. Ma anche quando aprono gli occhi, che cosa possono fare? Che cosa possono fare i cittadini greci, se non gridare e tirar sassi, mentre il Pireo viene venduto al capitale cinese, il loro reddito tagliato, il loro fisco rilevato dai burocrati dell’UE? I centri del potere sono al di fuori della loro portata, a Basilea, Londra, New York, Brussel, Francoforte. Ma, soprattutto, sono centri immateriali, informatici.

Per essere più chiari, per dire ciò che gli ignoranti od opportunisti intellettuali della sinistra non hanno mai spiegato alle classi che li consideravano maestri, diciamo che in un mondo di mercati finanziariamente e monetariamente interdipendenti, domina il cartello che gestisce la finanza e la moneta, quindi non c’è tutela delle classi lavoratrici se non c’è trasparenza e controllo sull’ordinamento finanziario e monetario globale (e non ci sarà mai). Diciamo che il potere finanziario, oramai globalizzato, possiede e usa strumenti che governano dall’esterno le varie nazioni, e contro i quali non vi è possibilità di resistenza, sia perché non è prevista giuridicamente, sia perché se un paese si ribella gli viene tagliato il rating del debito pubblico, e quel paese va a rotoli, perché la sua moneta crolla, perché non riesce più a collocare i titoli del suo debito pubblico, o perché i capitali escono da esso. Questi strumenti esterni sono la regolazione del money supply (ossia della quantità di denaro e credito disponibile nel mercato), la fissazione del tasso di sconto e dei criteri di merito creditizio, la imposizione di vincoli di bilancio, il rating dei bond di Stato e privati, la regolazione dei dazi. Con i primi due strumenti si più mettere a secco l’economia, e comperarne poi gli assets sottocosto. Col terzo e col quarto si può costringere una nazione a tagli di welfare e di investimenti, a privatizzazioni, a inasprimenti fiscali – quindi alla recessione, alla soppressione de facto delle classi intermedie, e a una svolta liberista in politica. Col quinto si può impedire a un paese di difendere un proprio settore produttivo, nascente o già consolidato, e i diritti dei suoi lavoratori, col semplice togliergli i dazi sulle importazioni così da esporlo alla concorrenza sleale di paesi che sfruttano senza limiti il lavoro e l’ambiente, come la Cina; mentre si può impedire che quel paese sviluppi il suo potenziale produttivo di determinate merci col semplice consentire ai paesi acquirenti di quelle merci di porre barriere doganali alla loro importazione (così si è schiacciata l’agricoltura argentina consentendo a USA, UE e Giappone di porre barriere doganali ai prodotti argentini, e di sovvenzionare le proprie produzioni interne).

Quando si hanno questi controlli esterni sui vari paesi, al loro interno si può concedere alle classi popolari tutto ciò che reclamano, ogni illusione di democrazia, di diritti inalienabili, di conquiste del lavoro, di eguaglianza, di progresso. Le classi popolari, con l’aiuto dei loro politici e sindacalisti, si impiccheranno da sole, e poi imploreranno in ginocchio di poter lavorare per un pezzo di pane.
di Marco Della Luna

16 giugno 2011

Il sionismo non c'entra




Recentemente, mi sono accorto che il discorso sulla solidarietà verso la Palestina è viziato sul piano spirituale, ideologico e intellettuale da una terminologia assai fuorviante: concetti chiave come quelli di sionismo, colonialismo e apartheid (che si sentono in ogni discussione e sono presenti in ogni testo che riguardi il conflitto), sono concetti confusi, oppure illusori. Io credo che essi esistano allo scopo di bloccare qualunque tentativo di comprendere il vero spirito e la vera ideologia che guida lo Stato Ebraico, piuttosto che per chiarire la situazione.

zion

Sionismo


Molti di noi tendono a considerare il sionismo come la forza ideologica che si nasconde dietro alle azioni israeliane. Ma non commettiamo errori: Israele non è il sionismo e l’ideologia e la politica sionista hanno ben poco a che fare con la politica e le azioni di Israele.

Bisogna capire che Israele e il sionismo sono oggi due categorie distinte. Se il sionismo era definito dai suoi fondatori come un tentativo di “trasformare l’ebreo della Diaspora in un essere umano autentico e civilizzato”, Israele, al giorno d’oggi, può solo essere visto come il prodotto concreto di tale ideologia.

Molti di voi saranno forse sorpresi nel sapere che oggi Israele non è affatto guidato, né ormai particolarmente ispirato, dal sionismo: è invece completamente assorbito dalla propria autoconservazione. Inoltre, gli israeliani non hanno poi nemmeno tutta questa familiarità con l’ideologia sionista. Per la maggior parte degli israeliani, il sionismo è poco più di un concetto obsoleto e arcaico, che potrà anche avere un significato storico, ma che possiede una rilevanza pari a zero nella vita quotidiana.

Il sionismo è, in realtà, un discorso che riguarda la Diaspora ebraica. Il suo scopo è quello di distinguere l’ebraismo mondiale che – a larga maggioranza – sostiene Israele dalle poche e sporadiche voci secolariste ebraiche che vorrebbero conservare la propria identità nazionale pur opponendosi allo Stato di Israele.

Il dibattito tra sionisti e antisionisti è, in concreto, un dibattito che ha luogo nell’ambito della Diaspora ebraica e non all’interno di Israele. Esso appartiene al regno dei discorsi sull’identità ebraica. E ha ben poco significato politico al di fuori di tale contesto.

Poiché Israele e gli israeliani sono attualmente indifferenti al sionismo, l’attività e l’ideologia “antisionista” hanno un impatto molto scarso su Israele e sugli israeliani. [1] Gli israeliani si preoccupano soltanto delle azioni dirette contro lo Stato Ebraico e le sanzioni, ad esempio, sono un problema che li coinvolge e li preoccupa enormemente. Al contrario, gli israeliani si curano assai poco di cercare soluzioni alla cosiddetta “questione ebraica”. Dal punto di vista israeliano, lo Stato Ebraico è la soluzione definitiva della “questione ebraica”. Penso si converrà che, da un punto di vista realistico e pragmatico, Israele non ha davvero risolto la “questione ebraica”, ma si è limitato a sportarla in una nuova locazione.

Perché, dunque, continuiamo a commettere il terribile errore di considerare i crimini israeliani come effetto del “sionismo”? Perché non li attribuiamo, in modo aperto e diretto, allo “Stato Ebraico”, visto che, in ultima analisi, è così che Israele definisce se stesso?

La risposta è semplice: perché in realtà non desideriamo offendere nessuno. Accettiamo che gli ebrei abbiano sofferto nel corso della loro storia e accettiamo che possediano una sensibilità unica al mondo. Per questo motivo ci auto-censuriamo spontaneamente. Rinunciamo spontaneamente alla nostra capacità di pensare in modo libero, coerente, esplicito e critico.

colonialismo

Colonialismo

Il sionismo non si identifica neppure col colonialismo. Per quanto molti attivisti intorno a noi insistano nel presentarci il sionismo come un progetto colonialista, occorre dire la verità: il colonialismo è definito dall’esistenza di una chiara relazione materiale tra una “madrepatria” e un ”insediamento coloniale”. Nel caso del sionismo, tuttavia, è impossibile determinare quale sia o sia stata la “madrepatria ebraica”. In effetti, non esiste nessuna madrepatria ebraica, né mai ne è esistita una. Il sionismo non è un progetto colonialista, né mai lo è stato. Vero è che lo Stato Ebraico manifesta alcuni caratteri del colonialismo. [2] Ma anche un paziente ammalato di cancro al cervello manifesta alcuni sintomi dell’emicrania. Una diagnosi appropriata deve mirare a scoprire le vere cause che stanno alla base dei sintomi. Fare una diagnosi significa rintracciare la vera malattia piuttosto che fornire una spiegazione superficiale esaminando un po’ di sintomi sparsi.

E’ anche evidente perché a tanti fra noi piaccia questo paradigma colonialista, per quanto ingannevole esso sia: i seguaci del paradigma coloniale presumono che gli israeliani non siano diversi dai britannici, dai francesi o dagli olandesi; si limitano a celebrare i sintomi del loro espansionismo “coloniale” 100 anni dopo tutti gli altri. Inoltre, il paradigma coloniale contiene la promessa di una qualche “soluzione” al termine del percorso: nell’immaginario dei suoi sostenitori, una riconciliazione post-coloniale è solo questione di tempo.

Inoltre, mi spiace far arrabbiare molte persone alle quali voglio bene, ma lo devo dire: il sionismo è qualcosa di unico ed originale nel suo genere e non ha precedenti nella storia. Sfortunatamente, esso non è riconducibile ad alcun modello materialista, poiché l’aspirazione che fondava il sionismo era, ed è ancora, del tutto spirituale.

Dunque, perché continuiamo a commettere questo terribile errore e a confondere il sionismo col colonialismo? Perché non ci riferiamo al sionismo per ciò che esso realmente è: un progetto ideologico ebraico del tutto unico nella storia? Semplicemente perché non vogliamo offendere quei pochi ebrei che sono così gentili da schierarsi a favore della Palestina. Rispettiamo la loro sensibilità e volontariamente ce ne stiamo zitti. Faremmo qualunque cosa pur di rendere tutti felici. Dopotutto siamo un movimento per la pace.

apartheid

Apartheid

E che dire dell’apartheid? Israele è uno stato che pratica l’apartheid? In Israele si assiste in modo evidente ad una separazione razziale e ad una discriminazione legislativa. Nonostante ciò, io ritengo che Israele non possieda un sistema basato sull’apartheid, perché l’apartheid era predisposto per sfruttare le popolazioni indigene pur lasciandole vivere sul territorio. Israele, al contrario, è lì per distruggere la popolazione indigena: gli israeliani si sentirebbero sollevati se una mattina si svegliassero e scoprissero che i palestinesi hanno semplicemente abbandonato la regione.

Chi è così ingenuo da bersi la storia dell’apartheid è probabilmente convinto che Israele sia lì lì per collassare, perché è questo che la storia ci ha insegnato sull’apartheid. Di nuovo, il modello dell’apartheid ci piace perché fa sembrare Israele (relativamente) “normale”. E noi non vogliamo offendere nessuno, tantomeno i pochi ebrei che sono dalla nostra parte.

Ed ecco la domanda che vorrei rivolgere agli ebrei amanti della giustizia e agli amici sostenitori della Palestina sparsi per il mondo: credete davvero che il discorso sulla lotta contro lo Stato Ebraico dovrebbe lasciarsi condizionare dalla “sensibilità degli ebrei”? La lotta contro il nazismo si lasciò forse condizionare dalla sensibilità dei tedeschi? Abbiamo per caso tenuto conto dei punti sensibili degli Afrikaner quando facevamo campagna contro l’apartheid? Non è che per caso i tempi sono maturi per dire pane al pane? Comprendo bene l’importanza cruciale degli ebrei in questo movimento e cerco di lavorare insieme al maggior numero possibile di loro. Ma mi domando se non sia ora che gli ebrei superino la loro sensibilità e osservino la questione con gli occhi ben aperti. E non è forse ora che anche noi facciamo lo stesso? Non dovremmo forse chiedere ai sostenitori dello Stato Ebraico in cosa esattamente consista tale ”ebraicità”?

Io penso che questo sia esattamente ciò che dovremmo fare. Nell’interesse del futuro della Palestina, dobbiamo affrontare apertamente questi problemi cruciali. Credo anche che siano gli ebrei, più di chiunque altro, a doverli affrontare. Mi attendo che gli attivisti ebrei all’interno del nostro movimento si pongano a capo di questa iniziativa piuttosto che cercare di ridurla al silenzio.

[1] “Sionismo” può essere un termine utile per fare riferimento al fenomeno del lobbismo ebraico sparso per il mondo. Può servire a fare luce sull’attività dei Sayanim e può spiegare l’inclinazione di certi ebrei di Brooklyn a fare Aliya [cioè a chiedere il trasferimento in Israele, NdT]. Può anche spiegare perché alcuni ebrei di sinistra prendano le parti delle istituzioni sioniste più fanatiche non appena qualcuno gli domanda in che cosa consista l’”ebraicità”.

[2] Si può ragionevolmente affermare che il rapporto tra i coloni israeliani della West Bank e le popolazioni indigene sia configurabile in termini coloniali.

di Gilad Atzmon