25 giugno 2011

Le porno mamme





Speravamo che almeno questo ci sarebbe stato risparmiato: lo sfruttamento pornografico della maternità; e invece no, bisogna bere l’amaro calice sino alla feccia.
Eravamo ormai abituati a tutto: a qualsiasi esibizionismo, a qualsiasi narcisismo, a qualsiasi sfrontatezza: pur di conquistare un angolino di visibilità, pur di fare soldi, le persone ormai non hanno più vergogna di niente, non c’è niente che non farebbero.
Le neo mamme, in particolare, ci avevano abituati - ammesso che a certe cose si possa fare davvero l’abitudine -, complici gli stilisti e i soliti giornalisti mondani, alla loro smania di farsi immortalare dallo scatto della macchina fotografica; dalla loro fregola di non rinunciare alle prime pagine dei rotocalchi mondani, nemmeno per quei pochi mesi in cui la gravidanza è ben visibile e le donne d’un tempo se ne stavano un poco in disparte, avvolgendosi in un alone di pudore e di mistero che tutti, istintivamente, sentivano come fosse giusto rispettare.
Anche lo sfruttamento dei propri bambini piccoli, per strappare l’attenzione del fotografo dei vip e conquistare una copertina sul settimanale di grande tiratura, era divenuto un fatto ormai quasi normale; e tanto valeva rassegnarvisi, sia pure con molte perplessità.
Ma adesso è caduta anche l’ultima frontiera: quella della pancia.
La pancia di una donna al sesto mese di gravidanza, al settimo, all’ottavo, dovrebbe avere qualcosa di sacro; qualcosa che va preservato dalla curiosità altrui, perché appartiene a una dimensione talmente intima, talmente delicata, talmente misteriosa, che solo un barbaro potrebbe considerare solo e unicamente dal punto di vista fisiologico o, peggio, estetico.
Eppure no; anche quest’ultimo passo è stato fatto.
Ed è stato fatto proprio da loro, dalle donne incinte, fiere e contente di poter esibire il proprio pancione, ovviamente nudo e scoperto, altrimenti che gusto ci sarebbe: per épater les bourgeois, a che cosa servirebbe un pancione debitamente vestito e coperto?
E allora via, su la maglietta, giù i calzoni; oppure, meglio ancora, via tutti i vestiti e al mare di corsa, in costume da bagno, in bikini, si capisce: tanto più se, come la bella trentatreenne Alena Seredova, oltre che modelle famose, si è pure stiliste di moda e si tratta di reclamizzare, in giro per il mondo, la propria linea di costumi da bagno, usando se stesse e il proprio pancione come arma vincente per sbaragliare la concorrenza.
Se, poi, si è delle cantanti ormai un po’ stagionate, come la cinquantaquattrenne Gianna Nannini, ma pur sempre avide di notorietà e di successo, si può sempre esibire il pancione sulla copertina di «Vanity Fair» o, meglio ancora, sulla copertina del proprio ultimo disco, dedicato, chi l’avrebbe detto, al dolce bebé che sta per venire al mondo: che cosa c’è di male a mostrare il pancione, se è un fatto così naturale? Strano, pare abbia dichiarato l’ineffabile regina del rock italico, sarebbe tenerlo nascosto, facendo finta che non ci fosse.
E allora, giacca di pelle e pancione al vento, alé, il gioco è fatto: la piccola Penelope vuol venire al mondo e, nel frattempo, che male c’è a farsi un po’ di réclame, sfruttando la “dolce attesa”? L’importante è difendere il sacro diritto alla libertà, parola magica che agisce come un infallibile passe-partout e che dischiude ogni porta, anche quella più ben difesa, nella cittadella della cultura contemporanea.
Infatti, intervistata dal settimanale «Tv Sorrisi e canzoni», l’artista senese ha reagito alle critiche relative alla sua maternità in età avanzata, affermando spavaldamente: «All’improvviso tutti si sono dimenticati della libertà e del diritto che ha ciascuno di noi di fare quello che vuole, quando e con chi vuole».
Giusto; anche se non si sa chi sia il padre; anche se la persona in questione si è sempre vantata della sua doppia identità sessuale; anche se si sono allegramente passati i cinquant’anni e c’è chi dice che sono almeno cinquantasei: abbiamo combattuto per la libertà, sì o no?
Come del resto ha fatto l’ultrasessantenne Elton John, il quale, omosessuale dichiarato com’è, e pure lui alquanto stagionato, non ha voluto negarsi le gioie della paternità, ordinando un figlio in provetta, insieme al suo compagno David Furnish: perché, come dice la nostra Gianna nazionale, «dove c’è amore, c’è famiglia, non importa come essa sia composta».
Buono a sapersi, ne prendiamo nota: c’è sempre qualcosa da imparare.
Intanto, pecunia non olet, perché non pensare un poco anche al portafoglio e unire l’utile al dilettevole, costruendoci sopra un bel disco intitolato, ovviamente, «Io e te»; si capisce, col pancione scoperto, perché sia ben chiaro chi sia il “te”?
Ora, la cosa che dà da pensare non è tanto che personaggi del mondo dello spettacolo sfruttino a più non posso la ghiotta occasione della maternità, che fa tanta tenerezza e rende tutti più buoni, per sparare sul mercato i loro prodotti, siano essi costumi da bagno o canzoni; ma il fatto che la tendenza è passata dai vip alle persone comuni, alle mamme qualunque, invadendo, per così dire, l’immaginario collettivo e trasformando in pornografia di massa ciò che, prima, era “soltanto” pornografia d’élite.
Questo non è più soltanto un fatto di rilevanza sociologica: è indice di una vera e propria mutazione antropologica e segna, forse, un punto di non ritorno.
Le ragioni di tale mutazione sono diverse, ma due spiccano su tutte le altre: il principio d’imitazione, tipico della società dell’apparire; e il democraticismo d’accatto, per cui tutti si ritengono uguali a tutti e in diritto di fare le stesse idiozie, in alto come in basso nella piramide sociale (finché si tratta di cose che non turbino l’ordine costituito).
Questa seconda ragione, poi, si sposa con il radicalismo e il libertarismo esasperato e con quella punta di esibizionismo che giace in fondo ad ognuno di noi e che, nella società di massa, trova le condizioni ideali per venir fuori e scandalizzare il prossimo, senza però scandalizzarlo troppo, perché in una società scandalistica, dove ciascuno si sforza di scandalizzare tutti, va a finire che non si scandalizza più nessuno.
Il che è tranquillizzante, per il piccolo borghese meschino che dorme, anch’esso, nelle profondità della nostra anima: perché si vuole, sì, scandalizzare gli altri, ma insomma senza compromettersi troppo; si vuole essere originali, ma senza scostarsi troppo dai binari precostituiti; si vuole essere eccezionali, ma «adelante Pedro, con juicio», non troppo eccezionali, diciamo degli eccezionali di massa, come lo sono un poco tutti gli altri, se appena ne hanno il desiderio.
Ed ecco, tra i numerosi altri che appartengono alla stessa radice socioculturale, il nuovo fenomeno antropologico delle porno mamme.
Si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato dalla volgarità di questa deriva post-moderna, che ha visto il naufragio irrimediabile di tutti i valori, di tutte le certezze e, oltre che del comune senso del pudore, anche del puro e semplice buon gusto; qualcosa di molto simile alla blasfemia, al sacrilegio.
Perché ci stavamo abituando a tutto, anche alle porno mogli: quelle simpatiche donne sposate che se ne vanno attorno, sotto lo sguardo compiaciuto dei mariti, a provocare i maschi a destra e a manca, esibendo un abbigliamento minuscolo e, più ancora, un modo di fare che non la cede in nulla a quello delle battone professioniste che infestano i nostri viali di periferia, dal tramonto sino alle prime luci dell’alba.
Ma la maternità… quella, è un’altra cosa.
Perché la maternità è un mistero sacro: e chi non lo sente istintivamente, come lo hanno sentito migliaia di generazioni umane, dai primordi ad oggi, vuol dire che è un barbaro, un alieno, un individuo non del tutto umano.
Ci sono cose sulle quali è lecito scherzare, nelle quali è lecito esagerare, rispetto alle quali è lecito fare dell’ironia; ed altre, poche altre, in verità, che non ammettono nessuna di queste cose, perché hanno in se stesse un elemento sacro e trascendente.
La maternità è una di queste ultime; e, prima che la pazzia femminista incominciasse a soffiare sul mondo, sia le donne che gli uomini ne erano perfettamente consapevoli, né le prime pensavano che tale sacralità fosse un’astuzia escogitata dai secondi, per tenerle imprigionate nel ruolo subalterno di figlie-mogli-madri, con la comoda scusante del mistero.
No: nelle società pre-moderne, ove non tutto è quantificabile, manipolabile, commercializzabile, la maternità era un evento sacro e misterioso, perché non era un evento puramente umano, pianificato (orribile verbo) in vista di una programmazione familiare, ma sovrumano, anzi, divino: era un dire sì alla vita, di cui non siamo noi gli artefici, ma i semplici esecutori; non i padroni assoluti, ma dei volonterosi operai.
Poi è venuto l’orgoglio dell’ego, la nevrosi della potenza e del dominio, l’arroganza dell’uomo che si fa Dio di se stesso, che vuol essere misura di tutte le cose e artefice sommo e insindacabile di qualsiasi manipolazione, di qualsiasi stravolgimento dell’ordine naturale.
Da quando gli uomini moderni hanno cominciato a dire “io”, separando tale concetto da Dio e dal mondo, si sono create le premesse per tutti gli abusi, per tutti gli eccessi, per tutte le degenerazioni del potere individuale e (letteralmente) egoistico: l’espressione «la vita è mia, e ne faccio quel che voglio io», ne è la logica e inevitabile conseguenza.
Una ulteriore conseguenza è che «nessuno mi può giudicare»: sto esercitando un mio diritto, il diritto alla libertà; e chi pretende di porvi dei limiti, dei paletti, dei confini, non può essere che un reazionario, un fascista, un razzista.
L’uomo moderno non pensa più, da Francesco Bacone in poi, che vi siano delle cose fattibili, ma non meritevoli di essere fatte: tutto ciò che si può fare, beninteso per ottenere un vantaggio materiale, va messo in pratica “ipso facto”, seduta stante, senza stare tanto a pensarci sopra; e bando agli scrupoli, ai ritegni, alle remore morali di qualsiasi genere.
Nel Medioevo, per esempio, la dissezione dei cadaveri era una pratica inammissibile e, dunque, severamente interdetta: e non perché le conoscenze anatomiche dell’epoca fossero così rudimentali da renderla troppo difficoltosa, ma per una ragione completamente diversa, e cioè perché tale pratica sarebbe stata considerata un sacrilegio.
Poi, a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, le frontiere tra lecito e illecito si sono sempre più allargate, fino al punto che oggi, in pratica, non esistono più: si possono clonare piante, animali ed esseri umani; si possono prenotare bambini in provetta, scegliendone i caratteri somatici; si possono creare esseri mostruosi in laboratorio, mescolando il patrimonio genetico di specie diverse: e lo si sta realmente facendo.
Le radici della follia, della bruttezza e della volgarità oggi imperanti, sono tutte qui: per cui, se ci spostiamo dal terreno delicatissimo della bio-ingegneria a quello, in confronto assai frivolo, del ventre femminile gravido esibito nella sua nudità e sbattuto sulle copertine dei giornali, ci rendiamo conto che entrambi i fenomeni hanno una stessa origine.
Del resto, non andavano predicando le militanti femministe, nei loro cortei di qualche decennio fa, che «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio io», alludendo esplicitamente alla piena e incondizionata libertà di abortire?
E non accompagnavano forse questo slogan con il gesto, intollerabilmente osceno e sfrontato, di alzare le braccia e di unire le dita delle mani, in modo da simulare la forma dei genitali esterni femminili?
Se il presente è figlio del passato, noi siamo figli e nipoti di quella generazione e non c’è nulla, oggi, di cui ci si dovrebbe meravigliare, nella esibizione del pancione scoperto da parte di tante donne in avanzato stato di gravidanza; nel frattempo, le case di abbigliamento si sono attrezzate e hanno trovato il modo di fare un bel mucchio di quattrini, come sempre, anche su quest’ultimo vezzo pseudo libertario delle aspiranti genitrici.
«O liberté, que de crimes on commet en ton nom!» («Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!»), esclamò Madame Roland mentre, nel 1793, si apprestava a salire i gradini della ghigliottina, nel cui canestro avrebbe lasciato la testa.
Ma si potrebbe anche aggiungere, meno drammaticamente, però con altrettanta verità: «Libertà, quante sciocchezze e quante volgarità si compiono nel tuo nome»; e lo si potrebbe dire, crediamo, con pieno diritto, specialmente in questi nostri giorni di tranquilla, ordinaria follia.
di Francesco Lamendola

24 giugno 2011

Cia e Mossad: prima la campagna mediatica poi la guerra

Per capire l’origine delle “rivolte popolari” che secondo i media dell’Occidente starebbero trascinando nel caos la presidenza di Bashar al Assad occorre risalire al 25 febbraio di quest’anno quando passato il Canale di Suez approdano nel porto siriano di Latakia la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg della Repubblica Islamica dell’Iran.
Una delle gazzette-internet, a cui non ci va di fare propaganda, legata all’intelligence di Usa e “Israele” ne anticiperà la destinazione finale il giorno 16 aprendo così : “… l’accordo passato sotto silenzio in Europa è di quelli che cambiano la geopolitica del Mediterraneo, perché nave dopo nave Teheran costruirà la sua prima base in Medio-Oriente. Dalla fine di febbraio Iran e Siria si impegneranno a lavorare alla costruzione di un porto di appoggio per la marina militare di Ahmadinejad. La base stando a quanto previsto avrà anche un deposito di armi che sarà gestito dalla Guardia Rivoluzionaria Pasdaran. Si partirà dall’allargamento delle strutture per poi passare all’abbassamento del fondo marino (dragaggio ndr) e all’installazione di tutta la strumentazione necessaria a trasformare la zona in area militare. In questo modo potranno presto attraccare anche i sommergibili iraniani. Teheran sarà in grado di gestire con questo accordo da nord e da est un possibile conflitto con Israele. L’Iran ora è a soli 287 km dal confine con Israele…”.
Il tono allarmato dell’ “informatore” che ha redatto l’articolo non fa altro che portare allo scoperto, l’urgente necessità di Cia e Mossad di accendere la miccia per il “fuoco alle polveri” di una campagna di stampa “internazionale” contro il presidente Bashar al Assad.
Obama, dal canto suo, minaccerà le prime sanzioni unilaterali contro la Siria già da gennaio e le applicherà a marzo, dopo aver dichiarato, dalla Casa Bianca, che Damasco rappresenta una minaccia di straordinaria gravità per gli interessi degli Stati Uniti.
Naturalmente la responsabilità dell’approdo delle navi militari iraniane a Latakia sarà scaricato anche sull’Egitto del dopo Mubarak e su Hamas che per celebrare l’avvenimento - si sosterrà in un numero successivo - il 24 febbraio sparerà una grandinata di razzi sul Negev.
Si farà in tempo a ricordare, sul web, che il porto siriano è a una distanza di soli 72 km da quello di Tartus dove è in costruzione una base di appoggio navale per Mosca e dare allarmato risalto anche all’acquisto da parte di Damasco di 76 missili antinave Yakhont con un raggio operativo di 300 km capaci di forare la più sofistica difesa navale Usa (Aegis ndr) e di creare il vuoto anche sulle rotte delle unità navali militari e commerciali di “Israele”.
Notizia corrispondente a verità ma che omette di rivelare i retroscena dell’acquisto siriano.
Una cessione autorizzata con molti mal di pancia da Medvedev.
L’Iran, dal canto suo, ha elaborato un missile balistico per impiego navale il “Khalije Fars” altrettanto veloce (mach 3) ed accurato nella fase finale di volo, con eguale portata in miglia marine ma con un potere di distruzione a bersaglio 3 volte superiore a quello fornito dalla Russia a Damasco dopo un lungo tira e molla che ha visto prevalere l’apparato industriale e militare che sostiene il premier Putin sulla “melina-niet” di Medvedev.
Una tecnologia che inevitabilmente finirà per arrivare nelle mani delle forze armate della Siria.
La testata bellica del “Khalije Fars” è di 650 kg contro i 220-230 kg delloYakhont.
Insomma nelle stanze del Cremlino si mastica amaro, da una parte contro il “kombinat” e quello che in Occidente viene sprezzatamene definito il “clan dei siloviki” e dall’altra per i crescenti successi militari dell’ Iran.
La Siria sta gettando le basi di un sonoro rafforzamento della sua deterrenza. Il Paese di Bashar al Assad acquisisce la capacità di prendere decisioni politiche più confacenti alla sua strategia militare nel Vicino Oriente.
La pluridecennale collaborazione militare tra i due Paesi che ha continuato a funzionare alla perfezione con la presidenza Putin manifesterà i primi inciampi con l’ex di Gazprom nel 2009 dopo il rifiuto del Cremlino di consegnare alla Siria l’Iskander B.
Un missile terra-terra estremamente avanzato capace di colpire con un cep di 5-10 metri qualunque obbiettivo militare in “Israele” oltre che di superare ogni contromisura elettronica per l’intercettazione in volo con un carico bellico di 1.000 kg .
Un’arma - secondo l’allora governo Olmert - sufficiente a modificare in profondità gli equilibri militari nel Vicino e Medio Oriente. Cosa non lontana dal vero se fosse stato fornito da Mosca a Damasco in quantità numeriche adeguate.
L’Iran, legato da un patto militare con la Siria, ha costruito alla periferia di Hama e Dayr az Zawr due fabbriche che sfornano ogni anno decine di missili balistici M 600, su piattaforme mobili, capaci di colpire con una portata di 280-300 km e con ottima precisione a bersaglio dalla Giudea al Negev, tecnologicamente modellati sul “Fatah 110” con una carica bellica di 0.5 tonnellate.
Gli esperti militari indipendenti indicano la messa in campo annuale di 70-80 M 600. Insomma, se attaccata la Siria potrebbe portare, per la prima volta dal ’67, la guerra ben dentro il territorio nemico, a casa dell’aggressore. Dal canto suo l’Iran non farà niente per nascondere l’irritazione nata dalla decisione del Cremlino di vedersi negato il sistema di difesa aerea S 300 pm1- pm 2 che avrebbe permesso a Teheran di dormire sonni tranquilli anche in caso di un massiccio e protratto attacco aereonavale Usa e di ridicolizzare le ricorrenti minacce israeliane.
Decisione presa da Medvedev e che costerà alla Russia oltre 500 milioni di dollari di penali, in sede giudiziale internazionale, per omesso rispetto di un accordo commerciale sottoscritto in aggiunta alla perdita per mancate forniture militari per altri 850 milioni di dollari all’industria Npo Almaz e al kombinat Rosoboronoexport.
Le frizioni con Teheran arriveranno a impedire il sorvolo dell’Ilyuschin di Medvedev dello spazio aereo dell’Iran.
Il rallentamento nei lavori di ultimazione della centrale atomica di Bushekr, i problemi di avviamento dell’impianto da parte di Rosatom saranno interpretati da Teheran come facenti parte di un piano della presidenza pro-tempore di Mosca intenzionalmente diretto a rallentare il programma nucleare dell’Iran per le continue pressioni di Usa, Israele e cosiddetta “comunità internazionale”.
Pressioni che a Mosca, sotto la presidenza Medvedev, trovano con frequenza una solida accoglienza. Le motivazioni? Molte.
Lo Start, l’ingresso nel Wto, la manifesta incapacità del soggetto a guidare la Russia, l’aggressività, anche corruttiva (Eltsin docet) dell’Occidente, il “liberalismo” assorbito durante la permanenza a Gazprom con Andrey Miller, un ebreo tedesco.
Insomma, Medvedev come un bidone di vodka nelle stanze del Cremlino, anche se più presentabile di Eltsin.
Il 25 febbraio 2011 la Alvand e la Kharg arrivano a Latakia, Al Jazeera e Al Arabya cominceranno a lanciare i primi flash di disordini a Dara’a, in Siria, a un tiro di sputo dal confine con la Giordania, il 17 marzo.
Il mukhabarat di Abdallah, meglio conosciuto come “re caccola” inizierà a far muovere sul terreno di confine con la Siria gruppi armati di tagliagole e mercenari finanziati dai Saud.
Il 18 marzo arriveranno le prime notizie di una “rivolta popolare” nel sud della Siria,
A fine mese Abdallah durante una manifestazione pubblica riceverà la prima, inaspettata scarica di scarpe e pietre da giordani e palestinesi.
Nel Kurdistan Cia e Mossad recluteranno “volontari” da spostare sul confine est della Siria appoggiandosi alla logistica delle basi Usa in Iraq.
Damasco risponderà con la chiusura degli attraversamenti e il controllo delle linee di confine inviando blindati e unità scelte della Guardia Repubblicana a sud e a nord est di Damasco.
I tagliagole e i mercenari reclutati dai petrodollari wahabiti troveranno l’appoggio di qualche gruppo di opposizione locale. Qualche centinaio di miliziani. Mentre le principali città della Siria, Damasco in testa, saranno percorse da gigantesche manifestazioni di appoggio popolare a Bashar al Assad.
L’Alvan e il Kharg a Latakia segnano la fine definitiva delle speranze occidentali di poter staccare Damasco dall’alleanza politica e militare con Teheran, di isolare Hizbollah in Libano e ridurre la contestata influenza dell’Iran al solo Golfo Persico.
La campagna di stampa di Al Jazeera e Al Arabya e degli “internauti” contro la Siria scatterà con un sincronismo perfetto, che troverà sponda in tutti i media dell’Occidente e nei governi europei di Portogallo, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Frattini in gran spolvero. Una campagna di stampa che sta andando avanti da mesi e segnala, a ben vedere, al di là delle intenti intimidatori e terroristici che persegue, rozzezze descrittive con accenti parossistici, un supporto visivo inesistente oltre ad una colossale confusione con inevitabili scivolamenti nell’improponibile e nel ridicolo.
di Giancarlo Chetoni

23 giugno 2011

E qui casca l’asino. Politici: inguaribili bugiardi


È stata una casualità, ma non sempre il caso è casuale. In questi giorni di referendum e di commenti post referendum ho letto, in parziale sovrapposizione, due libri che, con stili e intenti lontanissimi tra loro, trattano in sostanza dello stesso argomento. I politici e alcune inclinazioni del loro modo di essere che ci sono di fronte agli occhi tutti i giorni ma che si enfatizzano quando qualche ludo cartaceo è in atto.

I due libri in questione sono Inguaribili bugiardi di Gerardo Antelmo e Andrea Pesciarelli, con vignette di Alfio Krancic, dell’editore Gremese e E qui casca l’asino di Paola Cantù edito da Bollati Boringhieri.

Inguaribili bugiardi è un libro che, come esplicita il sottotitolo, Viaggio semiserio tra le contraddizioni dei nostri politici (e non solo), vuole stigmatizzare, in modo ironico, uno dei tratti principali dei nostri politici: l’incoerenza.

Incoerenza che si evidenzia in dichiarazioni che cambiano nel tempo in maniera costante e spesso in modo grottesco, attraverso piroette verbali che trasformano il bianco in nero e viceversa.

L’antica polemica sul garantismo a intermittenza che trasforma in forcaioli anche i più strenui sostenitori delle garanzie per l’imputato in funzione dello schieramento di appartenenza dell’indagato.

Le dichiarazioni favorevoli alle privatizzazioni che diventano all’improvviso riflusso statalista.

Le alleanze indossate come abiti stagionali da dismettere ai primi mutamenti climatici.

Smentite ai giornalisti poche ore dopo dichiarazioni roboanti.

La vita di tutti i giorni ci mette costantemente sotto gli occhi atteggiamenti di questo tipo, tanto da aver anestetizzato le nostre coscienze che il tentativo ironico del libro vorrebbe, in qualche modo, tra un sorriso e l’altro, risvegliare.

Ed è qui però che le intenzioni del libro s’inceppano. La realtà ha, di molto, superato la fantasia degli autori, entrambi giornalisti parlamentari.

I brevi profili bipartisan che sono abbozzati risultano così un poco piatti, quasi un’enumerazione delle marachelle dei vari leader, passati al settaccio e vivisezionati nelle loro dichiarazioni incoerenti.

Forse per scrivere brevi, sintetici, corrosivi, sardonici profili bisogna essere dotati di un umorismo che, francamente, mi sembra manchi ai due autori che rappresentano un repertorio documentato ma privo di vis comica, vuoi anche perché, come dicevo, i nostri politici, da per loro, fanno ridere.

E scrivere un pezzo divertente su un comico è impresa che reputo ardua.

A tratti sembra quasi che i due, abbiano preso ad esempio, nel tentativo di emularli, non riuscendovi, i pezzi giornalistici, ormai diventati un punto di riferimento, di Rizzo e Stella che, nelle pagine del Corriere della Sera, costruiscono i loro articoli con una carica barricadera (Rizzo) e con un sornione stile canzonatorio (Stella) del tutto sconosciuti a Antelmo e Pesciarelli.

Tutto il peso, quindi, della satira politica e di costume, è scaricato sulle vignette di Alfio Krancic che sono, l’unica cosa veramente pregevole. Con il consueto tratto nitido della sua matita e con l’ironia bonaria che lo contraddistingue, Krancic racconta visivamente quello che le parole non sono state capaci di esprimere.

Lontano dalle volgarità e dalla becera satira d’assalto sa dosare le caricature e le brevi frasi delle vignette strappandoci ogni volta, non grasse risate, che solitamente albergano nei recessi più cupi ed esasperati della nostra anima, ma lievi sorrisi che sono la testimonianza che la comicità delle sue vignette ha solleticato la parte del nostro cuore più sottile e meno cattiva. Sa evidentemente ridere di se stesso e così sbeffeggia, senza offesa, gli altri. Un grande per troppo tempo scarsamente valorizzato.

E qui casca l’asino è di tutt’altra natura. È un testo serio anche se scritto con leggerezza e candore, pregio sommo in un mondo accademico autoreferenziale che non sa nemmeno dove sia di casa uno stile piano, chiaro, leggibile, capace di suscitare interesse e curiosità nel lettore non specialista e agevolarlo nel suo compito.

Paola Cantù, ricercatrice nel campo della logica e della filosofia della matematica presso l’Universitè de Provence di Marsiglia, si pone un intento scientifico, anch’esso dichiarato dal sottotitolo Errori di ragionamento nel dibattito pubblico.

Selezionando discorsi di politici, articoli di giornalisti, brani di libri di autori noti, la ricercatrice fa affiorare tutte le cosiddette fallacie in cui incappano non solo i politici ma anche i giornalisti, gli scrittori e gli uomini pubblici.

Le fallacie, ci spiega, sono quelle parti del ragionamento che sono false, o meglio servono nel dibattito pubblico per prevalere sull’avversario con espedienti, piuttosto che con la forza del ragionamento.

Non sempre, anche se io penso che non sia così, le fallacie sono utilizzate a bella posta o in modo truffaldino, talvolta vengono introdotte inconsapevolmente o in modo del tutto ingenuo. Resta il fatto che di fallacie si tratta.

Esistono però delle regole precise dell’argomentare che partono da un assunto “Le regole dell’argomentazione sono come scale: servono per andare da qualche parte. Alcune sono fragili e poco stabili: provate a salirci, e rischiate di trovarvi per terra. Altre sono ben fatte, solide e sicure, però provate a collocarle su un terreno incerto e fangoso, e di nuovo cercando di salire vi ritrovate per terra”.

Quello che appare certo è che la combinazione buone scale su solide basi non sembra molto frequente.

È da qui che parte la rassegna, davvero cospicua, di esempi che costituiscono il percorso logico che ci mette di fronte ad un vero e proprio ginepraio di fallacie.

Alcune sono evidenti, e anche se giudicate erronee dalla teoria sono una prassi comune, come ad esempio quella che viene chiamata fallacia d’autorità che consiste nel difendere una certa tesi sulla base del fatto che l’ha detta qualcuno di autorevole e potente.

Altre, come tutte le incongruenze logiche, più difficili da scovare e rilevabili solo dopo attenta lettura, cosa non semplice nell’istantaneo che costituisce solitamente l’orizzonte temporale del dibattito politico.

Tra gli esempi, costruiti per capitoli, più evocativi cito: Fallace Fallaci… La rabbia e l’orgoglio di Oriana in cui è evidenziata la ridda d’incongruenze che rendono il testo assolutamente improponibile da un punto di vista logico, La vera storia italiana. Il rotocalco elettorale di Silvio Berlusconi che fa le pulci al primo programma elettorale di Forza Italia e che ne rileva, da un lato la capacità comunicativa, dall’altro l’inconsistenza argomentativa e Morire di satira. Le invettive di Beppe Grillo e i proiettili del TG2, tanto per ricordarci che di fallacie può morire anche la satira che spesso si presenta come altro dalla politica che prende in giro.

Lo scopo della Cantù non è tanto quello, facile, di mostrare i politici e i potenti in mutande, prendendone le distanze, ma quanto quello di porre l’attenzione, come dovremmo fare tutti noi, su ciò che viene detto e come, per essere più sensibili e partecipativi. Per pretendere da parte dei leader un argomentare più serio, più calibrato, più rispettoso.

Perché se una cosa viene detta bene e ha basi solide di ragionamento, con molta probabilità, verrà anche fatta bene.

Quest’analisi poi non vuole essere autoassolutoria, vuole invece stimolare ognuno di noi per migliorarci, visto che tutti sono chiamati ad argomentare o a sostenere qualche tesi nel corso della loro vita.

Insomma una ricerca approfondita, seria, scritta bene, forse un po’ ingenua, visto che probabilmente non può bastare il pretendere dai nostri politici correttezza logica nelle loro argomentazioni. Ma senza dubbio un primo passo verso un miglioramento generale che non può che essere auspicato.

Resta alla fine di questa lettura incrociata un senso d’inversione di significato che i due libri inducono, se messi a confronto.

Inguaribili bugiardi, che dovrebbe essere un libro semiserio, se si eccettuano le vignette di Krancic, appare noioso e ripetitivo, forse supponente nel suo moralismo strisciante.

E qui casca l’asino, che dovrebbe essere ed è un testo serio, con solide basi scientifiche e che potrebbe scoraggiare il lettore in cerca di lievità, ha una carica gioiosa, semiseria, quasi comica in certi accenti e sottolineature, e ci spinge ad un compassionevole sorriso ironico.

Certo qualcuno potrebbe obiettare che se tutto l’argomentare si riduce a regola logica, in cui è considerato un errore anche la fallacia d’accento che mette in rilievo alcune parole in una frase con un’accentuazione positiva o negativa, il dibattito caldo, teso, accalorato e vuoto, così come siamo abituati ad interpretarlo, diventerebbe un discutere privo di toni, senza accenti, senza nemmeno tutti quegli espedienti truffaldini per prevalere che ne costituiscono il sale, seppur malato e che lo rendono divertente.

E qui forse sta l’ingenuità della Cantù, credere che si possa educare a un ragionar scientifico, asettico, carico di presupposti veri da cui si deducono tesi coerenti e solide un tipo come Di Pietro, ad esempio, che ha fatto dell’incolta e fallace oratoria il suo cavallo di battaglia.

E il testo mi strappa un ultimo tardivo sorriso. Ve l’immaginate Di Pietro che, alle prese con un contraddittore che utilizza argomenti da trivio, intrinsecamente falsi, gli ribatte: “La prego, esimio collega, dall’astenersi da argomentazioni basate su evidenti incongruenze logiche. La sfido a usare argomenti non basati su evidenti fallacie, quali: anfibolia, associazioni illusorie, modus tollendo tollens capovolto, diversioni spiritose”.

Roba da sbellicarsi dalle risa.

di Mario Grossi -

25 giugno 2011

Le porno mamme





Speravamo che almeno questo ci sarebbe stato risparmiato: lo sfruttamento pornografico della maternità; e invece no, bisogna bere l’amaro calice sino alla feccia.
Eravamo ormai abituati a tutto: a qualsiasi esibizionismo, a qualsiasi narcisismo, a qualsiasi sfrontatezza: pur di conquistare un angolino di visibilità, pur di fare soldi, le persone ormai non hanno più vergogna di niente, non c’è niente che non farebbero.
Le neo mamme, in particolare, ci avevano abituati - ammesso che a certe cose si possa fare davvero l’abitudine -, complici gli stilisti e i soliti giornalisti mondani, alla loro smania di farsi immortalare dallo scatto della macchina fotografica; dalla loro fregola di non rinunciare alle prime pagine dei rotocalchi mondani, nemmeno per quei pochi mesi in cui la gravidanza è ben visibile e le donne d’un tempo se ne stavano un poco in disparte, avvolgendosi in un alone di pudore e di mistero che tutti, istintivamente, sentivano come fosse giusto rispettare.
Anche lo sfruttamento dei propri bambini piccoli, per strappare l’attenzione del fotografo dei vip e conquistare una copertina sul settimanale di grande tiratura, era divenuto un fatto ormai quasi normale; e tanto valeva rassegnarvisi, sia pure con molte perplessità.
Ma adesso è caduta anche l’ultima frontiera: quella della pancia.
La pancia di una donna al sesto mese di gravidanza, al settimo, all’ottavo, dovrebbe avere qualcosa di sacro; qualcosa che va preservato dalla curiosità altrui, perché appartiene a una dimensione talmente intima, talmente delicata, talmente misteriosa, che solo un barbaro potrebbe considerare solo e unicamente dal punto di vista fisiologico o, peggio, estetico.
Eppure no; anche quest’ultimo passo è stato fatto.
Ed è stato fatto proprio da loro, dalle donne incinte, fiere e contente di poter esibire il proprio pancione, ovviamente nudo e scoperto, altrimenti che gusto ci sarebbe: per épater les bourgeois, a che cosa servirebbe un pancione debitamente vestito e coperto?
E allora via, su la maglietta, giù i calzoni; oppure, meglio ancora, via tutti i vestiti e al mare di corsa, in costume da bagno, in bikini, si capisce: tanto più se, come la bella trentatreenne Alena Seredova, oltre che modelle famose, si è pure stiliste di moda e si tratta di reclamizzare, in giro per il mondo, la propria linea di costumi da bagno, usando se stesse e il proprio pancione come arma vincente per sbaragliare la concorrenza.
Se, poi, si è delle cantanti ormai un po’ stagionate, come la cinquantaquattrenne Gianna Nannini, ma pur sempre avide di notorietà e di successo, si può sempre esibire il pancione sulla copertina di «Vanity Fair» o, meglio ancora, sulla copertina del proprio ultimo disco, dedicato, chi l’avrebbe detto, al dolce bebé che sta per venire al mondo: che cosa c’è di male a mostrare il pancione, se è un fatto così naturale? Strano, pare abbia dichiarato l’ineffabile regina del rock italico, sarebbe tenerlo nascosto, facendo finta che non ci fosse.
E allora, giacca di pelle e pancione al vento, alé, il gioco è fatto: la piccola Penelope vuol venire al mondo e, nel frattempo, che male c’è a farsi un po’ di réclame, sfruttando la “dolce attesa”? L’importante è difendere il sacro diritto alla libertà, parola magica che agisce come un infallibile passe-partout e che dischiude ogni porta, anche quella più ben difesa, nella cittadella della cultura contemporanea.
Infatti, intervistata dal settimanale «Tv Sorrisi e canzoni», l’artista senese ha reagito alle critiche relative alla sua maternità in età avanzata, affermando spavaldamente: «All’improvviso tutti si sono dimenticati della libertà e del diritto che ha ciascuno di noi di fare quello che vuole, quando e con chi vuole».
Giusto; anche se non si sa chi sia il padre; anche se la persona in questione si è sempre vantata della sua doppia identità sessuale; anche se si sono allegramente passati i cinquant’anni e c’è chi dice che sono almeno cinquantasei: abbiamo combattuto per la libertà, sì o no?
Come del resto ha fatto l’ultrasessantenne Elton John, il quale, omosessuale dichiarato com’è, e pure lui alquanto stagionato, non ha voluto negarsi le gioie della paternità, ordinando un figlio in provetta, insieme al suo compagno David Furnish: perché, come dice la nostra Gianna nazionale, «dove c’è amore, c’è famiglia, non importa come essa sia composta».
Buono a sapersi, ne prendiamo nota: c’è sempre qualcosa da imparare.
Intanto, pecunia non olet, perché non pensare un poco anche al portafoglio e unire l’utile al dilettevole, costruendoci sopra un bel disco intitolato, ovviamente, «Io e te»; si capisce, col pancione scoperto, perché sia ben chiaro chi sia il “te”?
Ora, la cosa che dà da pensare non è tanto che personaggi del mondo dello spettacolo sfruttino a più non posso la ghiotta occasione della maternità, che fa tanta tenerezza e rende tutti più buoni, per sparare sul mercato i loro prodotti, siano essi costumi da bagno o canzoni; ma il fatto che la tendenza è passata dai vip alle persone comuni, alle mamme qualunque, invadendo, per così dire, l’immaginario collettivo e trasformando in pornografia di massa ciò che, prima, era “soltanto” pornografia d’élite.
Questo non è più soltanto un fatto di rilevanza sociologica: è indice di una vera e propria mutazione antropologica e segna, forse, un punto di non ritorno.
Le ragioni di tale mutazione sono diverse, ma due spiccano su tutte le altre: il principio d’imitazione, tipico della società dell’apparire; e il democraticismo d’accatto, per cui tutti si ritengono uguali a tutti e in diritto di fare le stesse idiozie, in alto come in basso nella piramide sociale (finché si tratta di cose che non turbino l’ordine costituito).
Questa seconda ragione, poi, si sposa con il radicalismo e il libertarismo esasperato e con quella punta di esibizionismo che giace in fondo ad ognuno di noi e che, nella società di massa, trova le condizioni ideali per venir fuori e scandalizzare il prossimo, senza però scandalizzarlo troppo, perché in una società scandalistica, dove ciascuno si sforza di scandalizzare tutti, va a finire che non si scandalizza più nessuno.
Il che è tranquillizzante, per il piccolo borghese meschino che dorme, anch’esso, nelle profondità della nostra anima: perché si vuole, sì, scandalizzare gli altri, ma insomma senza compromettersi troppo; si vuole essere originali, ma senza scostarsi troppo dai binari precostituiti; si vuole essere eccezionali, ma «adelante Pedro, con juicio», non troppo eccezionali, diciamo degli eccezionali di massa, come lo sono un poco tutti gli altri, se appena ne hanno il desiderio.
Ed ecco, tra i numerosi altri che appartengono alla stessa radice socioculturale, il nuovo fenomeno antropologico delle porno mamme.
Si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato dalla volgarità di questa deriva post-moderna, che ha visto il naufragio irrimediabile di tutti i valori, di tutte le certezze e, oltre che del comune senso del pudore, anche del puro e semplice buon gusto; qualcosa di molto simile alla blasfemia, al sacrilegio.
Perché ci stavamo abituando a tutto, anche alle porno mogli: quelle simpatiche donne sposate che se ne vanno attorno, sotto lo sguardo compiaciuto dei mariti, a provocare i maschi a destra e a manca, esibendo un abbigliamento minuscolo e, più ancora, un modo di fare che non la cede in nulla a quello delle battone professioniste che infestano i nostri viali di periferia, dal tramonto sino alle prime luci dell’alba.
Ma la maternità… quella, è un’altra cosa.
Perché la maternità è un mistero sacro: e chi non lo sente istintivamente, come lo hanno sentito migliaia di generazioni umane, dai primordi ad oggi, vuol dire che è un barbaro, un alieno, un individuo non del tutto umano.
Ci sono cose sulle quali è lecito scherzare, nelle quali è lecito esagerare, rispetto alle quali è lecito fare dell’ironia; ed altre, poche altre, in verità, che non ammettono nessuna di queste cose, perché hanno in se stesse un elemento sacro e trascendente.
La maternità è una di queste ultime; e, prima che la pazzia femminista incominciasse a soffiare sul mondo, sia le donne che gli uomini ne erano perfettamente consapevoli, né le prime pensavano che tale sacralità fosse un’astuzia escogitata dai secondi, per tenerle imprigionate nel ruolo subalterno di figlie-mogli-madri, con la comoda scusante del mistero.
No: nelle società pre-moderne, ove non tutto è quantificabile, manipolabile, commercializzabile, la maternità era un evento sacro e misterioso, perché non era un evento puramente umano, pianificato (orribile verbo) in vista di una programmazione familiare, ma sovrumano, anzi, divino: era un dire sì alla vita, di cui non siamo noi gli artefici, ma i semplici esecutori; non i padroni assoluti, ma dei volonterosi operai.
Poi è venuto l’orgoglio dell’ego, la nevrosi della potenza e del dominio, l’arroganza dell’uomo che si fa Dio di se stesso, che vuol essere misura di tutte le cose e artefice sommo e insindacabile di qualsiasi manipolazione, di qualsiasi stravolgimento dell’ordine naturale.
Da quando gli uomini moderni hanno cominciato a dire “io”, separando tale concetto da Dio e dal mondo, si sono create le premesse per tutti gli abusi, per tutti gli eccessi, per tutte le degenerazioni del potere individuale e (letteralmente) egoistico: l’espressione «la vita è mia, e ne faccio quel che voglio io», ne è la logica e inevitabile conseguenza.
Una ulteriore conseguenza è che «nessuno mi può giudicare»: sto esercitando un mio diritto, il diritto alla libertà; e chi pretende di porvi dei limiti, dei paletti, dei confini, non può essere che un reazionario, un fascista, un razzista.
L’uomo moderno non pensa più, da Francesco Bacone in poi, che vi siano delle cose fattibili, ma non meritevoli di essere fatte: tutto ciò che si può fare, beninteso per ottenere un vantaggio materiale, va messo in pratica “ipso facto”, seduta stante, senza stare tanto a pensarci sopra; e bando agli scrupoli, ai ritegni, alle remore morali di qualsiasi genere.
Nel Medioevo, per esempio, la dissezione dei cadaveri era una pratica inammissibile e, dunque, severamente interdetta: e non perché le conoscenze anatomiche dell’epoca fossero così rudimentali da renderla troppo difficoltosa, ma per una ragione completamente diversa, e cioè perché tale pratica sarebbe stata considerata un sacrilegio.
Poi, a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, le frontiere tra lecito e illecito si sono sempre più allargate, fino al punto che oggi, in pratica, non esistono più: si possono clonare piante, animali ed esseri umani; si possono prenotare bambini in provetta, scegliendone i caratteri somatici; si possono creare esseri mostruosi in laboratorio, mescolando il patrimonio genetico di specie diverse: e lo si sta realmente facendo.
Le radici della follia, della bruttezza e della volgarità oggi imperanti, sono tutte qui: per cui, se ci spostiamo dal terreno delicatissimo della bio-ingegneria a quello, in confronto assai frivolo, del ventre femminile gravido esibito nella sua nudità e sbattuto sulle copertine dei giornali, ci rendiamo conto che entrambi i fenomeni hanno una stessa origine.
Del resto, non andavano predicando le militanti femministe, nei loro cortei di qualche decennio fa, che «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio io», alludendo esplicitamente alla piena e incondizionata libertà di abortire?
E non accompagnavano forse questo slogan con il gesto, intollerabilmente osceno e sfrontato, di alzare le braccia e di unire le dita delle mani, in modo da simulare la forma dei genitali esterni femminili?
Se il presente è figlio del passato, noi siamo figli e nipoti di quella generazione e non c’è nulla, oggi, di cui ci si dovrebbe meravigliare, nella esibizione del pancione scoperto da parte di tante donne in avanzato stato di gravidanza; nel frattempo, le case di abbigliamento si sono attrezzate e hanno trovato il modo di fare un bel mucchio di quattrini, come sempre, anche su quest’ultimo vezzo pseudo libertario delle aspiranti genitrici.
«O liberté, que de crimes on commet en ton nom!» («Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome!»), esclamò Madame Roland mentre, nel 1793, si apprestava a salire i gradini della ghigliottina, nel cui canestro avrebbe lasciato la testa.
Ma si potrebbe anche aggiungere, meno drammaticamente, però con altrettanta verità: «Libertà, quante sciocchezze e quante volgarità si compiono nel tuo nome»; e lo si potrebbe dire, crediamo, con pieno diritto, specialmente in questi nostri giorni di tranquilla, ordinaria follia.
di Francesco Lamendola

24 giugno 2011

Cia e Mossad: prima la campagna mediatica poi la guerra

Per capire l’origine delle “rivolte popolari” che secondo i media dell’Occidente starebbero trascinando nel caos la presidenza di Bashar al Assad occorre risalire al 25 febbraio di quest’anno quando passato il Canale di Suez approdano nel porto siriano di Latakia la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg della Repubblica Islamica dell’Iran.
Una delle gazzette-internet, a cui non ci va di fare propaganda, legata all’intelligence di Usa e “Israele” ne anticiperà la destinazione finale il giorno 16 aprendo così : “… l’accordo passato sotto silenzio in Europa è di quelli che cambiano la geopolitica del Mediterraneo, perché nave dopo nave Teheran costruirà la sua prima base in Medio-Oriente. Dalla fine di febbraio Iran e Siria si impegneranno a lavorare alla costruzione di un porto di appoggio per la marina militare di Ahmadinejad. La base stando a quanto previsto avrà anche un deposito di armi che sarà gestito dalla Guardia Rivoluzionaria Pasdaran. Si partirà dall’allargamento delle strutture per poi passare all’abbassamento del fondo marino (dragaggio ndr) e all’installazione di tutta la strumentazione necessaria a trasformare la zona in area militare. In questo modo potranno presto attraccare anche i sommergibili iraniani. Teheran sarà in grado di gestire con questo accordo da nord e da est un possibile conflitto con Israele. L’Iran ora è a soli 287 km dal confine con Israele…”.
Il tono allarmato dell’ “informatore” che ha redatto l’articolo non fa altro che portare allo scoperto, l’urgente necessità di Cia e Mossad di accendere la miccia per il “fuoco alle polveri” di una campagna di stampa “internazionale” contro il presidente Bashar al Assad.
Obama, dal canto suo, minaccerà le prime sanzioni unilaterali contro la Siria già da gennaio e le applicherà a marzo, dopo aver dichiarato, dalla Casa Bianca, che Damasco rappresenta una minaccia di straordinaria gravità per gli interessi degli Stati Uniti.
Naturalmente la responsabilità dell’approdo delle navi militari iraniane a Latakia sarà scaricato anche sull’Egitto del dopo Mubarak e su Hamas che per celebrare l’avvenimento - si sosterrà in un numero successivo - il 24 febbraio sparerà una grandinata di razzi sul Negev.
Si farà in tempo a ricordare, sul web, che il porto siriano è a una distanza di soli 72 km da quello di Tartus dove è in costruzione una base di appoggio navale per Mosca e dare allarmato risalto anche all’acquisto da parte di Damasco di 76 missili antinave Yakhont con un raggio operativo di 300 km capaci di forare la più sofistica difesa navale Usa (Aegis ndr) e di creare il vuoto anche sulle rotte delle unità navali militari e commerciali di “Israele”.
Notizia corrispondente a verità ma che omette di rivelare i retroscena dell’acquisto siriano.
Una cessione autorizzata con molti mal di pancia da Medvedev.
L’Iran, dal canto suo, ha elaborato un missile balistico per impiego navale il “Khalije Fars” altrettanto veloce (mach 3) ed accurato nella fase finale di volo, con eguale portata in miglia marine ma con un potere di distruzione a bersaglio 3 volte superiore a quello fornito dalla Russia a Damasco dopo un lungo tira e molla che ha visto prevalere l’apparato industriale e militare che sostiene il premier Putin sulla “melina-niet” di Medvedev.
Una tecnologia che inevitabilmente finirà per arrivare nelle mani delle forze armate della Siria.
La testata bellica del “Khalije Fars” è di 650 kg contro i 220-230 kg delloYakhont.
Insomma nelle stanze del Cremlino si mastica amaro, da una parte contro il “kombinat” e quello che in Occidente viene sprezzatamene definito il “clan dei siloviki” e dall’altra per i crescenti successi militari dell’ Iran.
La Siria sta gettando le basi di un sonoro rafforzamento della sua deterrenza. Il Paese di Bashar al Assad acquisisce la capacità di prendere decisioni politiche più confacenti alla sua strategia militare nel Vicino Oriente.
La pluridecennale collaborazione militare tra i due Paesi che ha continuato a funzionare alla perfezione con la presidenza Putin manifesterà i primi inciampi con l’ex di Gazprom nel 2009 dopo il rifiuto del Cremlino di consegnare alla Siria l’Iskander B.
Un missile terra-terra estremamente avanzato capace di colpire con un cep di 5-10 metri qualunque obbiettivo militare in “Israele” oltre che di superare ogni contromisura elettronica per l’intercettazione in volo con un carico bellico di 1.000 kg .
Un’arma - secondo l’allora governo Olmert - sufficiente a modificare in profondità gli equilibri militari nel Vicino e Medio Oriente. Cosa non lontana dal vero se fosse stato fornito da Mosca a Damasco in quantità numeriche adeguate.
L’Iran, legato da un patto militare con la Siria, ha costruito alla periferia di Hama e Dayr az Zawr due fabbriche che sfornano ogni anno decine di missili balistici M 600, su piattaforme mobili, capaci di colpire con una portata di 280-300 km e con ottima precisione a bersaglio dalla Giudea al Negev, tecnologicamente modellati sul “Fatah 110” con una carica bellica di 0.5 tonnellate.
Gli esperti militari indipendenti indicano la messa in campo annuale di 70-80 M 600. Insomma, se attaccata la Siria potrebbe portare, per la prima volta dal ’67, la guerra ben dentro il territorio nemico, a casa dell’aggressore. Dal canto suo l’Iran non farà niente per nascondere l’irritazione nata dalla decisione del Cremlino di vedersi negato il sistema di difesa aerea S 300 pm1- pm 2 che avrebbe permesso a Teheran di dormire sonni tranquilli anche in caso di un massiccio e protratto attacco aereonavale Usa e di ridicolizzare le ricorrenti minacce israeliane.
Decisione presa da Medvedev e che costerà alla Russia oltre 500 milioni di dollari di penali, in sede giudiziale internazionale, per omesso rispetto di un accordo commerciale sottoscritto in aggiunta alla perdita per mancate forniture militari per altri 850 milioni di dollari all’industria Npo Almaz e al kombinat Rosoboronoexport.
Le frizioni con Teheran arriveranno a impedire il sorvolo dell’Ilyuschin di Medvedev dello spazio aereo dell’Iran.
Il rallentamento nei lavori di ultimazione della centrale atomica di Bushekr, i problemi di avviamento dell’impianto da parte di Rosatom saranno interpretati da Teheran come facenti parte di un piano della presidenza pro-tempore di Mosca intenzionalmente diretto a rallentare il programma nucleare dell’Iran per le continue pressioni di Usa, Israele e cosiddetta “comunità internazionale”.
Pressioni che a Mosca, sotto la presidenza Medvedev, trovano con frequenza una solida accoglienza. Le motivazioni? Molte.
Lo Start, l’ingresso nel Wto, la manifesta incapacità del soggetto a guidare la Russia, l’aggressività, anche corruttiva (Eltsin docet) dell’Occidente, il “liberalismo” assorbito durante la permanenza a Gazprom con Andrey Miller, un ebreo tedesco.
Insomma, Medvedev come un bidone di vodka nelle stanze del Cremlino, anche se più presentabile di Eltsin.
Il 25 febbraio 2011 la Alvand e la Kharg arrivano a Latakia, Al Jazeera e Al Arabya cominceranno a lanciare i primi flash di disordini a Dara’a, in Siria, a un tiro di sputo dal confine con la Giordania, il 17 marzo.
Il mukhabarat di Abdallah, meglio conosciuto come “re caccola” inizierà a far muovere sul terreno di confine con la Siria gruppi armati di tagliagole e mercenari finanziati dai Saud.
Il 18 marzo arriveranno le prime notizie di una “rivolta popolare” nel sud della Siria,
A fine mese Abdallah durante una manifestazione pubblica riceverà la prima, inaspettata scarica di scarpe e pietre da giordani e palestinesi.
Nel Kurdistan Cia e Mossad recluteranno “volontari” da spostare sul confine est della Siria appoggiandosi alla logistica delle basi Usa in Iraq.
Damasco risponderà con la chiusura degli attraversamenti e il controllo delle linee di confine inviando blindati e unità scelte della Guardia Repubblicana a sud e a nord est di Damasco.
I tagliagole e i mercenari reclutati dai petrodollari wahabiti troveranno l’appoggio di qualche gruppo di opposizione locale. Qualche centinaio di miliziani. Mentre le principali città della Siria, Damasco in testa, saranno percorse da gigantesche manifestazioni di appoggio popolare a Bashar al Assad.
L’Alvan e il Kharg a Latakia segnano la fine definitiva delle speranze occidentali di poter staccare Damasco dall’alleanza politica e militare con Teheran, di isolare Hizbollah in Libano e ridurre la contestata influenza dell’Iran al solo Golfo Persico.
La campagna di stampa di Al Jazeera e Al Arabya e degli “internauti” contro la Siria scatterà con un sincronismo perfetto, che troverà sponda in tutti i media dell’Occidente e nei governi europei di Portogallo, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Frattini in gran spolvero. Una campagna di stampa che sta andando avanti da mesi e segnala, a ben vedere, al di là delle intenti intimidatori e terroristici che persegue, rozzezze descrittive con accenti parossistici, un supporto visivo inesistente oltre ad una colossale confusione con inevitabili scivolamenti nell’improponibile e nel ridicolo.
di Giancarlo Chetoni

23 giugno 2011

E qui casca l’asino. Politici: inguaribili bugiardi


È stata una casualità, ma non sempre il caso è casuale. In questi giorni di referendum e di commenti post referendum ho letto, in parziale sovrapposizione, due libri che, con stili e intenti lontanissimi tra loro, trattano in sostanza dello stesso argomento. I politici e alcune inclinazioni del loro modo di essere che ci sono di fronte agli occhi tutti i giorni ma che si enfatizzano quando qualche ludo cartaceo è in atto.

I due libri in questione sono Inguaribili bugiardi di Gerardo Antelmo e Andrea Pesciarelli, con vignette di Alfio Krancic, dell’editore Gremese e E qui casca l’asino di Paola Cantù edito da Bollati Boringhieri.

Inguaribili bugiardi è un libro che, come esplicita il sottotitolo, Viaggio semiserio tra le contraddizioni dei nostri politici (e non solo), vuole stigmatizzare, in modo ironico, uno dei tratti principali dei nostri politici: l’incoerenza.

Incoerenza che si evidenzia in dichiarazioni che cambiano nel tempo in maniera costante e spesso in modo grottesco, attraverso piroette verbali che trasformano il bianco in nero e viceversa.

L’antica polemica sul garantismo a intermittenza che trasforma in forcaioli anche i più strenui sostenitori delle garanzie per l’imputato in funzione dello schieramento di appartenenza dell’indagato.

Le dichiarazioni favorevoli alle privatizzazioni che diventano all’improvviso riflusso statalista.

Le alleanze indossate come abiti stagionali da dismettere ai primi mutamenti climatici.

Smentite ai giornalisti poche ore dopo dichiarazioni roboanti.

La vita di tutti i giorni ci mette costantemente sotto gli occhi atteggiamenti di questo tipo, tanto da aver anestetizzato le nostre coscienze che il tentativo ironico del libro vorrebbe, in qualche modo, tra un sorriso e l’altro, risvegliare.

Ed è qui però che le intenzioni del libro s’inceppano. La realtà ha, di molto, superato la fantasia degli autori, entrambi giornalisti parlamentari.

I brevi profili bipartisan che sono abbozzati risultano così un poco piatti, quasi un’enumerazione delle marachelle dei vari leader, passati al settaccio e vivisezionati nelle loro dichiarazioni incoerenti.

Forse per scrivere brevi, sintetici, corrosivi, sardonici profili bisogna essere dotati di un umorismo che, francamente, mi sembra manchi ai due autori che rappresentano un repertorio documentato ma privo di vis comica, vuoi anche perché, come dicevo, i nostri politici, da per loro, fanno ridere.

E scrivere un pezzo divertente su un comico è impresa che reputo ardua.

A tratti sembra quasi che i due, abbiano preso ad esempio, nel tentativo di emularli, non riuscendovi, i pezzi giornalistici, ormai diventati un punto di riferimento, di Rizzo e Stella che, nelle pagine del Corriere della Sera, costruiscono i loro articoli con una carica barricadera (Rizzo) e con un sornione stile canzonatorio (Stella) del tutto sconosciuti a Antelmo e Pesciarelli.

Tutto il peso, quindi, della satira politica e di costume, è scaricato sulle vignette di Alfio Krancic che sono, l’unica cosa veramente pregevole. Con il consueto tratto nitido della sua matita e con l’ironia bonaria che lo contraddistingue, Krancic racconta visivamente quello che le parole non sono state capaci di esprimere.

Lontano dalle volgarità e dalla becera satira d’assalto sa dosare le caricature e le brevi frasi delle vignette strappandoci ogni volta, non grasse risate, che solitamente albergano nei recessi più cupi ed esasperati della nostra anima, ma lievi sorrisi che sono la testimonianza che la comicità delle sue vignette ha solleticato la parte del nostro cuore più sottile e meno cattiva. Sa evidentemente ridere di se stesso e così sbeffeggia, senza offesa, gli altri. Un grande per troppo tempo scarsamente valorizzato.

E qui casca l’asino è di tutt’altra natura. È un testo serio anche se scritto con leggerezza e candore, pregio sommo in un mondo accademico autoreferenziale che non sa nemmeno dove sia di casa uno stile piano, chiaro, leggibile, capace di suscitare interesse e curiosità nel lettore non specialista e agevolarlo nel suo compito.

Paola Cantù, ricercatrice nel campo della logica e della filosofia della matematica presso l’Universitè de Provence di Marsiglia, si pone un intento scientifico, anch’esso dichiarato dal sottotitolo Errori di ragionamento nel dibattito pubblico.

Selezionando discorsi di politici, articoli di giornalisti, brani di libri di autori noti, la ricercatrice fa affiorare tutte le cosiddette fallacie in cui incappano non solo i politici ma anche i giornalisti, gli scrittori e gli uomini pubblici.

Le fallacie, ci spiega, sono quelle parti del ragionamento che sono false, o meglio servono nel dibattito pubblico per prevalere sull’avversario con espedienti, piuttosto che con la forza del ragionamento.

Non sempre, anche se io penso che non sia così, le fallacie sono utilizzate a bella posta o in modo truffaldino, talvolta vengono introdotte inconsapevolmente o in modo del tutto ingenuo. Resta il fatto che di fallacie si tratta.

Esistono però delle regole precise dell’argomentare che partono da un assunto “Le regole dell’argomentazione sono come scale: servono per andare da qualche parte. Alcune sono fragili e poco stabili: provate a salirci, e rischiate di trovarvi per terra. Altre sono ben fatte, solide e sicure, però provate a collocarle su un terreno incerto e fangoso, e di nuovo cercando di salire vi ritrovate per terra”.

Quello che appare certo è che la combinazione buone scale su solide basi non sembra molto frequente.

È da qui che parte la rassegna, davvero cospicua, di esempi che costituiscono il percorso logico che ci mette di fronte ad un vero e proprio ginepraio di fallacie.

Alcune sono evidenti, e anche se giudicate erronee dalla teoria sono una prassi comune, come ad esempio quella che viene chiamata fallacia d’autorità che consiste nel difendere una certa tesi sulla base del fatto che l’ha detta qualcuno di autorevole e potente.

Altre, come tutte le incongruenze logiche, più difficili da scovare e rilevabili solo dopo attenta lettura, cosa non semplice nell’istantaneo che costituisce solitamente l’orizzonte temporale del dibattito politico.

Tra gli esempi, costruiti per capitoli, più evocativi cito: Fallace Fallaci… La rabbia e l’orgoglio di Oriana in cui è evidenziata la ridda d’incongruenze che rendono il testo assolutamente improponibile da un punto di vista logico, La vera storia italiana. Il rotocalco elettorale di Silvio Berlusconi che fa le pulci al primo programma elettorale di Forza Italia e che ne rileva, da un lato la capacità comunicativa, dall’altro l’inconsistenza argomentativa e Morire di satira. Le invettive di Beppe Grillo e i proiettili del TG2, tanto per ricordarci che di fallacie può morire anche la satira che spesso si presenta come altro dalla politica che prende in giro.

Lo scopo della Cantù non è tanto quello, facile, di mostrare i politici e i potenti in mutande, prendendone le distanze, ma quanto quello di porre l’attenzione, come dovremmo fare tutti noi, su ciò che viene detto e come, per essere più sensibili e partecipativi. Per pretendere da parte dei leader un argomentare più serio, più calibrato, più rispettoso.

Perché se una cosa viene detta bene e ha basi solide di ragionamento, con molta probabilità, verrà anche fatta bene.

Quest’analisi poi non vuole essere autoassolutoria, vuole invece stimolare ognuno di noi per migliorarci, visto che tutti sono chiamati ad argomentare o a sostenere qualche tesi nel corso della loro vita.

Insomma una ricerca approfondita, seria, scritta bene, forse un po’ ingenua, visto che probabilmente non può bastare il pretendere dai nostri politici correttezza logica nelle loro argomentazioni. Ma senza dubbio un primo passo verso un miglioramento generale che non può che essere auspicato.

Resta alla fine di questa lettura incrociata un senso d’inversione di significato che i due libri inducono, se messi a confronto.

Inguaribili bugiardi, che dovrebbe essere un libro semiserio, se si eccettuano le vignette di Krancic, appare noioso e ripetitivo, forse supponente nel suo moralismo strisciante.

E qui casca l’asino, che dovrebbe essere ed è un testo serio, con solide basi scientifiche e che potrebbe scoraggiare il lettore in cerca di lievità, ha una carica gioiosa, semiseria, quasi comica in certi accenti e sottolineature, e ci spinge ad un compassionevole sorriso ironico.

Certo qualcuno potrebbe obiettare che se tutto l’argomentare si riduce a regola logica, in cui è considerato un errore anche la fallacia d’accento che mette in rilievo alcune parole in una frase con un’accentuazione positiva o negativa, il dibattito caldo, teso, accalorato e vuoto, così come siamo abituati ad interpretarlo, diventerebbe un discutere privo di toni, senza accenti, senza nemmeno tutti quegli espedienti truffaldini per prevalere che ne costituiscono il sale, seppur malato e che lo rendono divertente.

E qui forse sta l’ingenuità della Cantù, credere che si possa educare a un ragionar scientifico, asettico, carico di presupposti veri da cui si deducono tesi coerenti e solide un tipo come Di Pietro, ad esempio, che ha fatto dell’incolta e fallace oratoria il suo cavallo di battaglia.

E il testo mi strappa un ultimo tardivo sorriso. Ve l’immaginate Di Pietro che, alle prese con un contraddittore che utilizza argomenti da trivio, intrinsecamente falsi, gli ribatte: “La prego, esimio collega, dall’astenersi da argomentazioni basate su evidenti incongruenze logiche. La sfido a usare argomenti non basati su evidenti fallacie, quali: anfibolia, associazioni illusorie, modus tollendo tollens capovolto, diversioni spiritose”.

Roba da sbellicarsi dalle risa.

di Mario Grossi -