01 luglio 2011

Ora si salvi il M.P.S.





Nel settore bancario italiano si moltiplicano i segni di illiquidità. Alcuni primari istituti hanno sospeso le erogazioni di credito. I corsi azionari vanno male o malissimo. Corrono voci che in ottobre o novembre sia probabile un credit crunch tale da precipitare l’economia in una recessione nera e da minacciare i depositi. E’ in corso uno sforzo di ricapitalizzazione. Particolarmente inquietante, per la contraddittorietà esplosiva dei dati, è la situazione di MPS: + 348% dei profitti (dichiarati), ma per contro: sospensione delle erogazioni creditizie, picchiata delle azioni, tagli radicali in tutte le spese, tagli dal 20 all’80% della componente variabile dei premi di produttività per impiegati e quadri dirigenti, ma prima aumento fino a circa del 30% dello stipendio fisso dei dirigenti centrali (in modo da compensare per sè soli la successiva riduzione del premio variabile), assunzioni di giovani impiegati impreparati a tempo e con salari di fame, ...

un miliardo di debiti verso Esatri per trading elusivo (Sole24Ore del 21.06.11), altissimo tasso di contenzioso con la clientela (contenzioso prevalentemente incorporato con Antonveneta, che fu pagata 9 mld (con un prestito obbligazionario subordinato e con un aumento di capitale quando le quotazioni azionarie erano ben più alte delle attuali) e ne valeva forse la metà. E il peso dell’interrogazione parlamentare sul discutibilissimo collocamento di Casaforte; e l’incremento ad un anno del CDS pari al 67,2% ; e le facilitazioni proposte ai dipendenti per l’adesione al prossimo aumento di capitale… ma come si fa a chiedere l’adesione di chi hai bistrattato tagliandogli lo stipendio mentre membri del CDA della Banca vendono i diritti ( Il Sole 24 Ore 25-06-2011 )? E voci (non verificabili) di trenta tecnici informatici di Intesa-San Paolo all’opera nella sede centrale senese, mentre la Fondazione MPS, per far cassa e poter così aderire all’aumento di capitale del M.P.S., ha venduto 2,2 mld di azioni privilegiate (che, vendute, per statuto, sono divenute ordinarie, facendo crollare il prezzo in borsa), e ciò tramite una molto discussa banca speculativa americana accusata di operazioni antisociali su larga scala e di specifiche colpe nel disastro greco, ed a cui sono state assegnate proprio quelle azioni MPS - ma le fondazioni, ontologicamente aventi scopo benefico, non dovrebbero evitare dipendenze o cointeressenze con…?

Insomma, fatti e dati incoerenti, contraddittori, suggerenti dubbi e sospetti anche su quel + 348%, che, congiunti all’emissione privilegiata, il mercato ha tradotto in un crollo dell’azione MPS ai minimi storici con perdita del 90% sui massimi. Guai se MPS dovesse cedere, se si avviasse un bank rush, o una discesa del rating con una ascesa dei tassi di rifinanziamento. Dato il peso strategico di MPS, avremmo un effetto valanga. Un tale rischio va prevenuto dal potere pubblico e semipubblico, anche a costo di un’ispezione e, al limite, di un commissariamento, che però sicuramente non sarà necessario, come non sarà necessario – ma, se lo fosse, il governo dovrebbe intervenire – un sostegno della mano pubblica. E’ prioritario prevenire che, in autunno, in una crisi accentuata di liquidità bancaria che potrebbe partire dagli istituti in parola, il blocco del credito si congiunga a una campagna di rientri dei crediti aperti, in una tenaglia mortale per l’economia di questo già malmesso e demonetizzato paese, soprattutto se non interviene un terzo quantitative easing a differire la crisi.

Date la gloriosa antichità, la dimensione, l’importanza di MPS per il sistema-paese, e dato che dubbi e segni di illiquidità attraversano gran parte del sistema bancario nazionale, ma si concentrano sull’istituto toscano, è in favore di esso che bisogna concentrare gli sforzi. Quindi è impellente, è di primario interesse nazionale, che BCE, BDI e CONSOB intervengano, nelle rispettive competenze, per dissipare quei dubbi, per fare le verifiche del caso e, all’esito, dichiarare che quel + 348% è reale, che nell’attivo sono stati contabilizzati i crediti effettivi e non voci di cartolarizzazioni appoggiate a società veicolo non cedute in quanto utilizzabili come garanzia per emissioni obbligazionarie, che non si è registrato come liquidità gli anticipi sul portafoglio (fatture, ri.ba.) , ossia che la banca non ha fatto e non intende fare creazione di mezzi monetari a livello di filiali; che non sono spostate ad esercizi futuri spese competenti a questo esercizio; che non esiste contenzioso sommerso (sofferenze non dichiarate) dannoso per il bilancio. E anche che la scelta dei dirigenti centrali di finanziare gli aumenti dei propri stipendi con tagli a quelli di quadri e impiegati (cui spettava invece un aumento, sempre se è vero il + 348% di utile ) sia una normale scelta di sfruttamento dei subordinati da parte di chi detiene il potere, e non esprima, piuttosto, la valutazione che il gioco stia per saltare e che pertanto convenga raschiare il raschiabile finché è possibile. Durante questo intervento di controllo, per ovvie ragioni, è opportuno che Mussari stia fuori da Bankitalia.

A un livello più profondo, sociologico, le strategie in atto impongono ulteriori elementi di riflessione.

I tagli dei premi di produttività mentre la produttività è aumentata hanno costituito uno shock per il personale bancario, abituato a rapporti non apertamente iniqui e violenti coi propri vertici. Quei tagli tagliano quindi anche il legame di appartenenza, il senso di essere tutti colleghi, di formare un organico. E’ una rottura psicologica. Ora c’è il vertice, che si è nettamente separato dalla base (inclusi in questa i quadri) con un atto, appunto, iniquo, tale da far percepire a livello viscerale, dai dipendenti, che non vi è solidarietà o giustizia a guidare i rapporti, e che essi sono oramai assets impersonali, beni strumentali, nella logica del capitalismo assoluto (Mussari stesso aveva detto che, senza Dio, non vi è etica). I grandi sindacati generalisti non si sono opposti, e anche quelli dei bancari hanno fatto poco e concluso zero. La base non si è ribellata. Ha subito. Ora dunque è chiaro e accettato che i rapporti, se devono continuare, continueranno su quella nuova base.

Primarie banche italiane, come lo stesso MPS, hanno in atto una campagna di sostituzione del personale esperto, formato, maturo (incoraggiato ad andarsene mediante scivoli e accompagnamenti) con personale giovanissimo, sottopagato (intorno agli 800 Euro al mese), con contratti brevi senza adeguata formazione, o meglio con formazione sommaria fatta di pochi slogan e tecnicismi da venditore, focalizzata al collocamento dei “prodotti” voluti dai vertici, ossia, innanzitutto, a)contratti con alto upfront per la banca; b)assets tossici di cui la banca vuole liberarsi. Per non perdere il lavoro, il dipendente si sforza di vendere a tutti i costi senza curarsi della onestà del “prodotto” e della sua corrispondenza al profilo del cliente, e viene frequentemente trasferito per evitare che si incontri con i clienti che si sono fidati di lui e che sono rimasti delusi.

Tale campagna procede in parallelo con una campagna di centralizzazione e proceduralizzazione informatiche: oramai i titolari di filiali non decidono più erogazioni di mutui o condizioni di rapporto, in quanto tali richieste di affidamento sono valutate dalla Direzione Generale tramite processo informatico (Pef) elaborato nelle Filiali e qualsiasi condizione in deroga a contratti standard è sottoposta ad un iter di valutazione da parte degli organi esterni competenti in modo da esautorare la figura del Titolare, storicamente strategica nella fidelizzazione della clientela . I funzionari sono così livellati al basso, in linea con quanto detto sopra. E in generale è livellato al basso l’elemento umano, mentre viene elevato quello della rete informatica e delle procedure standardizzate. Quindi, il senso della ristrutturazione sembra essere quello di avere dipendenti di basso costo e bassa competenza, quel poco che sanno tutto rivolto alla vendita, gestiti e coordinati centralmente da una rete informatica mediante programmi guidati, una sorta d’intelligenza artificiale autonoma operante su input specifici ben predefiniti che sembra proprio andare a sostituire la professionalità, la mente pensante di funzionari qualificati.

A che pro sostituire il personale qualificato con quello non qualificato? I vantaggi sono plurimi: costa meno, è meno tutelato, è più ricattabile (con minacce di non rinnovo del contratto o di demansionamento o di trasferimento), ha meno scrupoli morali nel vendere i prodotti più lucrativi per la banca. Gli svantaggi, in termini di qualità e concorrenza del servizio, sono annullati dal fatto che, tra le banche, non c’è competizione, ma coordinamento, cartello, spartizione del mercato. Se peggiorano il servizio tutte o quasi di concerto, nessuna perde in termini concorrenziali, perché la clientela non ha praticamente scelta. E nessuna perde in termini di quota di mercato, per la medesima ragione. Il conflitto di interessi delle banche che sono anche socie della banca centrale, non è soltanto per il fatto che sono al contempo controllate e controllanti, ma anche per il fatto che le banche centrali da loro partecipate tendono a essere usate come strumento di lottizzazione del mercato.

Considerazione finale: se il sistema bancario si sta ristrutturando nel modo sopra descritto, vuole dire che si prepara ad operare in un mercato e in una società molto più grami e degradati di quelli attuali, anche in termini di livello di legalità e di funzione giudiziaria. Avremo una banca fatta di un Olimpo dirigente che dirige telematicamente un’orda amorale, mutevole e aggreessiva di venditori esasperati di “prodotti” equivoci, sempre alla corda per farsi rinnovare il contratto a termine.

di Marco Della Luna

29 giugno 2011

Il capitale strategico del Pakistan

Il capitale strategico del Pakistan

La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.

di Giacomo Gabellini

Che la banca sia con voi… Amen


Il presidente uscente della Bce, Jean-Claude Trichet (quello che gli subentrerà a novembre sarà il “nostro” Mario Draghi, il che non significa che sarà un vantaggio perché per i banchieri prima vengono le banche, poi, ma solo poi ed eventualmente, i popoli e gli stati): l’mmarcescibile Trichet – dicevo – prima di uscire di scena, ha deciso di rinverdire i fasti della sua miserabile ricetta: rialzare i tassi d’interesse per contenere l’inflazione e quindi i prezzi.

Abbiamo più volte ribadito e dimostrato qui, sul Fondo, che i prezzi dei beni al consumo NON salgono quando il tasso d‘interesse è basso e NON scendono quando il tasso d’interesse si alza. Da quando il tasso d’interesse dell’euro in seguito alla crisi della finanza globale del 2008 è stato abbattuto all’1% (in America addirittura allo zero per cento), dal 4,5% che era, l’inflazione non ha fatto registrare alcuna sensibile impennata: ancora oggi siamo fermi al 2,6% (in Italia), mentre nel 2008, prima della crisi, e con quel tasso d’interesse nettamente più elevato, si registrava un’inflazione pari al 3,5%.

La formula di Trichet, quindi, insieme alle motivazioni che propone è una bufala. La verità vera è che con il prossimo ri-aumento dei tassi, prima della sua uscita di scena, Trichet vuole premiare i suoi più affezionati estimatori: le banche. Le quali troveranno modo di moltiplicare per due o per tre al dettaglio del consumatore il maggior costo della merce che la Bce produce all’ingrosso, senza vincoli o controlli da parte degli stati: il denaro.

Non bastasse il preannunciato nuovo salasso nelle tasche degli europei (e degli italiani) per il pagamento maggiorato, ad esempio, dei mutui a tasso variabile già accesi, il nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti c’ha messo il carico da undici. Il piano della nuova manovra economica da lui pensata prevede: l’aumento di un punto dell’Iva sulle aliquote più alte (10 e 20 per cento) compensato, però nelle sue pretese del Ministro, dalla riduzione del prelievo dell’Irpef, derivante dalla riduzione delle aliquote di prelievo fiscale.

Calcoli alla mano, i primi a stigmatizzare che fra il prendere e togliere a rimetterci saranno ancora una volta i redditi con perdita del potere d’acquisto è proprio la Confcommercio che fa notare: «Gli effetti negativi di una tale manovra sono dovuti al fatto che l’aumento dei prezzi dovuto al rialzo del’Iva neutralizza l’aumento di reddito monetario per il taglio dell’Irpef ma riduce il potere d’acquisto dello stock di ricchezza detenuto dalle famiglie».

Ciliegina marcia su una torta che già si preannuncia al veleno è la notizia, sempre di oggi, del nuovo record storico per il premio di rendimento pagato dai titoli decennali italiani rispetto al bund tedesco. Gioverà appena ricordare che il recente crack finanziario della vicina Grecia, praticamente ridotta alla fame, è stata determinata proprio da un eccessivo rialzo dei tassi pagati sui propri titoli di stato.

Tutto ciò avviene mentre il dibattito politico italiano concentra la sua attenzione sui No-Tav, i bunga-bunga presidenziali, i ministeri al nord, il ritiro del patrocinio della Regione Lombardia per una manifestazione il cui volantino di programmazione presenta la parola “porno”, giudicata inammissibile dal Presidente Formigoni, le camerille dei Bisignani e dei suoi interlocutori politici, e altre imprescindibili querelle degne di una sceneggiata napoletana.

Con tutto il rispetto per Napoli e i napoletani che in queste ore affondano letteralmente nell’immondizia, sotto l’impotente sguardo di San Gennaro De Magistris

di Miro Renzaglia

01 luglio 2011

Ora si salvi il M.P.S.





Nel settore bancario italiano si moltiplicano i segni di illiquidità. Alcuni primari istituti hanno sospeso le erogazioni di credito. I corsi azionari vanno male o malissimo. Corrono voci che in ottobre o novembre sia probabile un credit crunch tale da precipitare l’economia in una recessione nera e da minacciare i depositi. E’ in corso uno sforzo di ricapitalizzazione. Particolarmente inquietante, per la contraddittorietà esplosiva dei dati, è la situazione di MPS: + 348% dei profitti (dichiarati), ma per contro: sospensione delle erogazioni creditizie, picchiata delle azioni, tagli radicali in tutte le spese, tagli dal 20 all’80% della componente variabile dei premi di produttività per impiegati e quadri dirigenti, ma prima aumento fino a circa del 30% dello stipendio fisso dei dirigenti centrali (in modo da compensare per sè soli la successiva riduzione del premio variabile), assunzioni di giovani impiegati impreparati a tempo e con salari di fame, ...

un miliardo di debiti verso Esatri per trading elusivo (Sole24Ore del 21.06.11), altissimo tasso di contenzioso con la clientela (contenzioso prevalentemente incorporato con Antonveneta, che fu pagata 9 mld (con un prestito obbligazionario subordinato e con un aumento di capitale quando le quotazioni azionarie erano ben più alte delle attuali) e ne valeva forse la metà. E il peso dell’interrogazione parlamentare sul discutibilissimo collocamento di Casaforte; e l’incremento ad un anno del CDS pari al 67,2% ; e le facilitazioni proposte ai dipendenti per l’adesione al prossimo aumento di capitale… ma come si fa a chiedere l’adesione di chi hai bistrattato tagliandogli lo stipendio mentre membri del CDA della Banca vendono i diritti ( Il Sole 24 Ore 25-06-2011 )? E voci (non verificabili) di trenta tecnici informatici di Intesa-San Paolo all’opera nella sede centrale senese, mentre la Fondazione MPS, per far cassa e poter così aderire all’aumento di capitale del M.P.S., ha venduto 2,2 mld di azioni privilegiate (che, vendute, per statuto, sono divenute ordinarie, facendo crollare il prezzo in borsa), e ciò tramite una molto discussa banca speculativa americana accusata di operazioni antisociali su larga scala e di specifiche colpe nel disastro greco, ed a cui sono state assegnate proprio quelle azioni MPS - ma le fondazioni, ontologicamente aventi scopo benefico, non dovrebbero evitare dipendenze o cointeressenze con…?

Insomma, fatti e dati incoerenti, contraddittori, suggerenti dubbi e sospetti anche su quel + 348%, che, congiunti all’emissione privilegiata, il mercato ha tradotto in un crollo dell’azione MPS ai minimi storici con perdita del 90% sui massimi. Guai se MPS dovesse cedere, se si avviasse un bank rush, o una discesa del rating con una ascesa dei tassi di rifinanziamento. Dato il peso strategico di MPS, avremmo un effetto valanga. Un tale rischio va prevenuto dal potere pubblico e semipubblico, anche a costo di un’ispezione e, al limite, di un commissariamento, che però sicuramente non sarà necessario, come non sarà necessario – ma, se lo fosse, il governo dovrebbe intervenire – un sostegno della mano pubblica. E’ prioritario prevenire che, in autunno, in una crisi accentuata di liquidità bancaria che potrebbe partire dagli istituti in parola, il blocco del credito si congiunga a una campagna di rientri dei crediti aperti, in una tenaglia mortale per l’economia di questo già malmesso e demonetizzato paese, soprattutto se non interviene un terzo quantitative easing a differire la crisi.

Date la gloriosa antichità, la dimensione, l’importanza di MPS per il sistema-paese, e dato che dubbi e segni di illiquidità attraversano gran parte del sistema bancario nazionale, ma si concentrano sull’istituto toscano, è in favore di esso che bisogna concentrare gli sforzi. Quindi è impellente, è di primario interesse nazionale, che BCE, BDI e CONSOB intervengano, nelle rispettive competenze, per dissipare quei dubbi, per fare le verifiche del caso e, all’esito, dichiarare che quel + 348% è reale, che nell’attivo sono stati contabilizzati i crediti effettivi e non voci di cartolarizzazioni appoggiate a società veicolo non cedute in quanto utilizzabili come garanzia per emissioni obbligazionarie, che non si è registrato come liquidità gli anticipi sul portafoglio (fatture, ri.ba.) , ossia che la banca non ha fatto e non intende fare creazione di mezzi monetari a livello di filiali; che non sono spostate ad esercizi futuri spese competenti a questo esercizio; che non esiste contenzioso sommerso (sofferenze non dichiarate) dannoso per il bilancio. E anche che la scelta dei dirigenti centrali di finanziare gli aumenti dei propri stipendi con tagli a quelli di quadri e impiegati (cui spettava invece un aumento, sempre se è vero il + 348% di utile ) sia una normale scelta di sfruttamento dei subordinati da parte di chi detiene il potere, e non esprima, piuttosto, la valutazione che il gioco stia per saltare e che pertanto convenga raschiare il raschiabile finché è possibile. Durante questo intervento di controllo, per ovvie ragioni, è opportuno che Mussari stia fuori da Bankitalia.

A un livello più profondo, sociologico, le strategie in atto impongono ulteriori elementi di riflessione.

I tagli dei premi di produttività mentre la produttività è aumentata hanno costituito uno shock per il personale bancario, abituato a rapporti non apertamente iniqui e violenti coi propri vertici. Quei tagli tagliano quindi anche il legame di appartenenza, il senso di essere tutti colleghi, di formare un organico. E’ una rottura psicologica. Ora c’è il vertice, che si è nettamente separato dalla base (inclusi in questa i quadri) con un atto, appunto, iniquo, tale da far percepire a livello viscerale, dai dipendenti, che non vi è solidarietà o giustizia a guidare i rapporti, e che essi sono oramai assets impersonali, beni strumentali, nella logica del capitalismo assoluto (Mussari stesso aveva detto che, senza Dio, non vi è etica). I grandi sindacati generalisti non si sono opposti, e anche quelli dei bancari hanno fatto poco e concluso zero. La base non si è ribellata. Ha subito. Ora dunque è chiaro e accettato che i rapporti, se devono continuare, continueranno su quella nuova base.

Primarie banche italiane, come lo stesso MPS, hanno in atto una campagna di sostituzione del personale esperto, formato, maturo (incoraggiato ad andarsene mediante scivoli e accompagnamenti) con personale giovanissimo, sottopagato (intorno agli 800 Euro al mese), con contratti brevi senza adeguata formazione, o meglio con formazione sommaria fatta di pochi slogan e tecnicismi da venditore, focalizzata al collocamento dei “prodotti” voluti dai vertici, ossia, innanzitutto, a)contratti con alto upfront per la banca; b)assets tossici di cui la banca vuole liberarsi. Per non perdere il lavoro, il dipendente si sforza di vendere a tutti i costi senza curarsi della onestà del “prodotto” e della sua corrispondenza al profilo del cliente, e viene frequentemente trasferito per evitare che si incontri con i clienti che si sono fidati di lui e che sono rimasti delusi.

Tale campagna procede in parallelo con una campagna di centralizzazione e proceduralizzazione informatiche: oramai i titolari di filiali non decidono più erogazioni di mutui o condizioni di rapporto, in quanto tali richieste di affidamento sono valutate dalla Direzione Generale tramite processo informatico (Pef) elaborato nelle Filiali e qualsiasi condizione in deroga a contratti standard è sottoposta ad un iter di valutazione da parte degli organi esterni competenti in modo da esautorare la figura del Titolare, storicamente strategica nella fidelizzazione della clientela . I funzionari sono così livellati al basso, in linea con quanto detto sopra. E in generale è livellato al basso l’elemento umano, mentre viene elevato quello della rete informatica e delle procedure standardizzate. Quindi, il senso della ristrutturazione sembra essere quello di avere dipendenti di basso costo e bassa competenza, quel poco che sanno tutto rivolto alla vendita, gestiti e coordinati centralmente da una rete informatica mediante programmi guidati, una sorta d’intelligenza artificiale autonoma operante su input specifici ben predefiniti che sembra proprio andare a sostituire la professionalità, la mente pensante di funzionari qualificati.

A che pro sostituire il personale qualificato con quello non qualificato? I vantaggi sono plurimi: costa meno, è meno tutelato, è più ricattabile (con minacce di non rinnovo del contratto o di demansionamento o di trasferimento), ha meno scrupoli morali nel vendere i prodotti più lucrativi per la banca. Gli svantaggi, in termini di qualità e concorrenza del servizio, sono annullati dal fatto che, tra le banche, non c’è competizione, ma coordinamento, cartello, spartizione del mercato. Se peggiorano il servizio tutte o quasi di concerto, nessuna perde in termini concorrenziali, perché la clientela non ha praticamente scelta. E nessuna perde in termini di quota di mercato, per la medesima ragione. Il conflitto di interessi delle banche che sono anche socie della banca centrale, non è soltanto per il fatto che sono al contempo controllate e controllanti, ma anche per il fatto che le banche centrali da loro partecipate tendono a essere usate come strumento di lottizzazione del mercato.

Considerazione finale: se il sistema bancario si sta ristrutturando nel modo sopra descritto, vuole dire che si prepara ad operare in un mercato e in una società molto più grami e degradati di quelli attuali, anche in termini di livello di legalità e di funzione giudiziaria. Avremo una banca fatta di un Olimpo dirigente che dirige telematicamente un’orda amorale, mutevole e aggreessiva di venditori esasperati di “prodotti” equivoci, sempre alla corda per farsi rinnovare il contratto a termine.

di Marco Della Luna

29 giugno 2011

Il capitale strategico del Pakistan

Il capitale strategico del Pakistan

La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.

di Giacomo Gabellini

Che la banca sia con voi… Amen


Il presidente uscente della Bce, Jean-Claude Trichet (quello che gli subentrerà a novembre sarà il “nostro” Mario Draghi, il che non significa che sarà un vantaggio perché per i banchieri prima vengono le banche, poi, ma solo poi ed eventualmente, i popoli e gli stati): l’mmarcescibile Trichet – dicevo – prima di uscire di scena, ha deciso di rinverdire i fasti della sua miserabile ricetta: rialzare i tassi d’interesse per contenere l’inflazione e quindi i prezzi.

Abbiamo più volte ribadito e dimostrato qui, sul Fondo, che i prezzi dei beni al consumo NON salgono quando il tasso d‘interesse è basso e NON scendono quando il tasso d’interesse si alza. Da quando il tasso d’interesse dell’euro in seguito alla crisi della finanza globale del 2008 è stato abbattuto all’1% (in America addirittura allo zero per cento), dal 4,5% che era, l’inflazione non ha fatto registrare alcuna sensibile impennata: ancora oggi siamo fermi al 2,6% (in Italia), mentre nel 2008, prima della crisi, e con quel tasso d’interesse nettamente più elevato, si registrava un’inflazione pari al 3,5%.

La formula di Trichet, quindi, insieme alle motivazioni che propone è una bufala. La verità vera è che con il prossimo ri-aumento dei tassi, prima della sua uscita di scena, Trichet vuole premiare i suoi più affezionati estimatori: le banche. Le quali troveranno modo di moltiplicare per due o per tre al dettaglio del consumatore il maggior costo della merce che la Bce produce all’ingrosso, senza vincoli o controlli da parte degli stati: il denaro.

Non bastasse il preannunciato nuovo salasso nelle tasche degli europei (e degli italiani) per il pagamento maggiorato, ad esempio, dei mutui a tasso variabile già accesi, il nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti c’ha messo il carico da undici. Il piano della nuova manovra economica da lui pensata prevede: l’aumento di un punto dell’Iva sulle aliquote più alte (10 e 20 per cento) compensato, però nelle sue pretese del Ministro, dalla riduzione del prelievo dell’Irpef, derivante dalla riduzione delle aliquote di prelievo fiscale.

Calcoli alla mano, i primi a stigmatizzare che fra il prendere e togliere a rimetterci saranno ancora una volta i redditi con perdita del potere d’acquisto è proprio la Confcommercio che fa notare: «Gli effetti negativi di una tale manovra sono dovuti al fatto che l’aumento dei prezzi dovuto al rialzo del’Iva neutralizza l’aumento di reddito monetario per il taglio dell’Irpef ma riduce il potere d’acquisto dello stock di ricchezza detenuto dalle famiglie».

Ciliegina marcia su una torta che già si preannuncia al veleno è la notizia, sempre di oggi, del nuovo record storico per il premio di rendimento pagato dai titoli decennali italiani rispetto al bund tedesco. Gioverà appena ricordare che il recente crack finanziario della vicina Grecia, praticamente ridotta alla fame, è stata determinata proprio da un eccessivo rialzo dei tassi pagati sui propri titoli di stato.

Tutto ciò avviene mentre il dibattito politico italiano concentra la sua attenzione sui No-Tav, i bunga-bunga presidenziali, i ministeri al nord, il ritiro del patrocinio della Regione Lombardia per una manifestazione il cui volantino di programmazione presenta la parola “porno”, giudicata inammissibile dal Presidente Formigoni, le camerille dei Bisignani e dei suoi interlocutori politici, e altre imprescindibili querelle degne di una sceneggiata napoletana.

Con tutto il rispetto per Napoli e i napoletani che in queste ore affondano letteralmente nell’immondizia, sotto l’impotente sguardo di San Gennaro De Magistris

di Miro Renzaglia