27 settembre 2008

Quando il panico travolge le borse del mondo



La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crolli più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime

A registrare le reazioni attonite della maggioranza, sembra che ogni crac finanziario colpisca all´improvviso. I sinonimi per descriverlo attingono al vocabolario delle calamità naturali. Terremoto, tempesta perfetta, tsunami. L´affinità è reale: per la dimensione tragica ma anche per la normalità di questi eventi. Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo. Anzi, le loro origini risalgono al proto-capitalismo, visto che uno dei crac più celebri della storia fu il grande panico del febbraio 1637 alla Borsa di Amsterdam, quando dopo due anni di speculazioni forsennate crollarono di colpo le quotazioni dei futures sui bulbi di tulipani. La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crac più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime. Si infittisce l´interconnessione tra tutti i settori dell´economia, e tra nazioni molto lontane. Cresce il risparmio popolare investito in strumenti finanziari, nonché la previdenza privatizzata che affida i suoi capitali alle Borse, alle banche, alle assicurazioni. Potenzialmente l´impatto sociale dei crac si fa quindi sempre più profondo: ma per la stessa ragione si è irrobustito l´armamentario delle politiche economiche per attutirne le conseguenze. Infine, grazie alle tecnologie, i crac di oggi hanno ritmi sempre più rapidi. Le crisi di una volta sviluppavano i loro sussulti nell´arco di molti mesi; oggi possono conoscere capovolgimenti straordinari in poche ore. Un annuncio fatto a New York si ripercuote in millesimi di secondo sugli indici di Shanghai e Tokyo, Londra e Mosca.

Visto che oggi l´epicentro di una drammatica crisi finanziaria è in America, va ricordato che la nascita stessa degli Stati Uniti fu tenuta a battesimo da un crac. Il primo presidente, George Washington, era al suo primo mandato quando dovette fronteggiare il primo panico finanziario. All´origine vi fu la spregiudicata speculazione sui titoli pubblici emessi durante la guerra d´indipendenza dagli Stati del Massachusetts e della South Carolina. Nel marzo del 1792 la "bolla" scoppiava, costringendo la neonata nazione a misure di emergenza. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton diede disposizione alle banche di accettare anche titoli scadenti come garanzie per far prestiti e sostenere l´attività economica: qualcosa di molto simile ai vari sportelli d´emergenza creati dalla Federal Reserve di Ben Bernanke in questi mesi per provvedere liquidità al sistema.

Se da oltre due secoli i crac in America colpiscono puntuali come gli uragani, anche la loro dimensione internazionale non è del tutto nuova. Centouno anni fa il grande panico del 1907 fu la prima crisi "globale" del Novecento. Nel solo mese di ottobre l´indice azionario di Wall Street perse il 37% del suo valore, in tutta l´America folle di risparmiatori diedero l´assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione, il sistema del credito rimase paralizzato per settimane. La "tempesta perfetta" di quell´anno ebbe per protagonisti dei giganti della storia, dal presidente Theodore Roosevelt al banchiere J.Pierpont Morgan. Le ripercussioni furono immediate e profonde anche in Europa, e l´Inghilterra dovette accorrere in aiuto agli ex sudditi americani con una spedizione navale di lingotti d´oro. L´eco di quegli avvenimenti non si è mai spenta. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la "maledizione del 1907" quando Wall Street subì un´altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell´indice Standard & Poor´s 500. Già nel 1908 il finanziere Henry Clews nelle sue memorie indicava tre cause principali del disastro dell´anno precedente che suonano familiari: «L´eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell´alta finanza».

Il crac più nefasto resta quello del 1929. Non solo per la violenza della caduta subìta dall´indice Dow Jones, che perse il 13% nella sola seduta del 28 ottobre, seguito dal botto finale nel successivo Black Tuesday, il 29. In realtà a fissare nella storia la gravità di quel crollo furono gli eventi successivi. Per gli errori commessi nella politica monetaria e nella manovra economica del presidente Herbert Hoover, il collasso di Wall Street contribuì a innescare una spirale di protezionismi, la caduta del commercio internazionale, infine la Grande Depressione. Nel 1931 la Borsa americana aveva perso l´89% del suo valore dai massimi del 1929 ma ben più gravi furono le conseguenze sociali. Il mondo intero fu prostrato dalla deflazione: i prezzi agricoli scesero del 40-60%, salari e produzione industriale precipitarono, il tasso di disoccupazione in America arrivò al 25% nel 1933. Quattro anni dopo il crac di Wall Street, nel 1933 in media mille americani al giorno subivano il sequestro giudiziario della loro casa per insolvenza. La miseria di massa e le tensioni sociali contribuirono all´avvento del nazismo in Germania. La gravità di quella crisi ispirò innovazioni di portata storica: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt pose le fondamenta del Welfare State, delle politiche keynesiane di sostegno dell´occupazione, dei grandi programmi di investimento statale nelle infrastrutture. Ma fu solo l´incremento di produzione bellica legato alla seconda guerra mondiale a "curare" definitivamente la più lunga recessione del XX secolo.

Nel dopoguerra in America il crac più celebre fu quello delle Savings and Loans. Una crisi bancaria prolungata per anni. Fra il 1986 e il 1995 quasi la metà delle 3.234 casse di risparmio dovette chiudere per bancarotta. Nel 1989 il Congresso creò un´apposita agenzia federale, la Resolution Trust Corporation, per accollarsi le perdite, rimborsare i depositanti, assorbire i portafogli-titoli degli istituti falliti, e indagare sulle responsabilità del disastro. In quanto liquidatore fallimentare il governo federale si ritrovò temporaneamente proprietario dei più disparati oggetti che i clienti avevano fornito come garanzia alle banche per ottenere fidi: nella Resolution Trust Corp. finirono tra l´altro quadri di Picasso e Andy Warhol, una distelleria di whisky dell´epoca coloniale, e 800 boccette refrigerate di sperma di un toro Brahma da riproduzione.

I crac più recenti sono ancora freschi nella memoria: gli scossoni provocati da choc internazionali come l´insolvenza del Messico (il crac dei Tequila Bonds nel 1995), la crisi finanziaria dei dragoni asiatici nel 1997, la bancarotta della Russia nel 1998. Tutto endogeno invece fu il crollo del Nasdaq nel marzo 2000, la fine della febbre speculativa sulle dot.com, le società di Internet nate all´apice della New Economy. Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una "bolla", un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una "teoria" per dimostrare l´assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l´avvento della bolla successiva.


F. Rampini

L’ultimo Bingo del turbocapitalismo



Ho l’impressione che la «casta degli oligarchi», la nuova élite di «mega-ricchi» - come li definisce Hervé Kempf – che governa l’economiamondiale abbiamesso a segno il più grande colpo della storia. Se non ho capito male, alla fine della giostra, un colossale flusso di denaro, da 600 a 1.000 miliardi di dollari, secondo le diverse stime, transiterà dalle casse delle banche centrali americane ed europee – cioè dalle riserve statali accumulate con i proventi fiscali dei cittadini - ai portafogli dei grandi investitori finanziari. In realtà i mutui degli americani poveri non c’entrano nulla.

Pensate a quale piano planetario di edilizia economica e popolare si sarebbe potuto realizzare con solo una parte delle somme sborsate! I mutui sono stati il veicolo con cui creare ad arte una esposizione debitoria inesigibile - drogando i prezzi di mercato degli immobili e, di conseguenza, sopravalutando i titoli ipotecari nelle mani degli istituti di intermediazione. Un gioco da ragazzi, una «shock economy», direbbe Naomi Klein, pianificata e provocata dalle stesse autorità monetarie «regolatrici » dei mercati e dalle agenzie di rating e di controllo. Basta seguire imovimenti di quel Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserv, ritenuto l’inventore della linea dei «consumi in deficit» e accostato dal nostro Tremonti a Bid Laden come principale nemico dell’America, che è ora il consulente del più grande Hedge Fund (lo Jp Morgan) che sta comprando le banche in fallimento.

Ovviamente, con il sostegno in denaro della stessa Federal Reserv. Insomma, ci stanno turlupinando. Oggetto degli spettacolari salvataggi con i nostri soldi non sono né imutui dei «poveri» americani, né le «generose» banche di intermediazione che li hanno concessi, né le «sprovvedute» società di assicurazione che hanno stipulato polizze contro le bancarotte. Temo che i veri beneficiari, in ultima istanza, siano coloro che hanno preso nel loro portafoglio i «titoli spazzatura» e che pretendono comunque gli interessi e le rendite pattuite. Sono i grandi investitori istituzionali, i fondi pensione, le fondazioni, i fondi sovrani dei paesi orientali, gli sceicchi del petrolio… tutti coloro, insomma, che stanno finanziando gli investimenti produttivi, industriali, infrastrutturali, militari negli Stati Uniti. E non possono fallire perché lascerebbero a secco «la più grande economia del mondo», la nostra protettrice e il nostro faro di civiltà. La crisi finanziaria in corso non è altro che un giro tortuoso per saldare una tranche dei loro crediti. Sono sicuro che i maghi della finanza creativa (la «setta degli avidi » che dirigono il tavolo da gioco degli hedge fund) stanno già studiando quale dovrà essere la prossima «bolla speculativa» da gonfiare e far saltare – assieme alle casse degli stati – al momento buono. Il dubbio che mi tormenta è che a sinistra si creda ancora nella «patologia» della crisi, come eccesso speculativo dell’arciliberismo, e non si veda invece nella «sequenza delle crisi» (come ci dice cinicamente Cipolletta) la patologia del turbocapitalismo, insaziabile divoratore di risorse e di umanità.


m. Cacciari

I trucchi Usa non fermeranno la bufera

Gli espedienti ai quali Sec e Tesoro degli Stati Uniti si sono votati confermano che giovedì scorso la situazione dei mercati non era più soltanto seria, era disperata. Eppure quanti su tanti giornali spiegano la crisi paiono volersene dimenticare a memoria. E per un rimbalzo da borse alla cinese, ovvero finte, hanno ceduto troppo all’euforia. Mentre invece gli espedienti tentati restano per molti versi discutibili, e forse di precaria efficacia. Del resto tant’è: questo è il pressappochismo sortito da anni in cui si sono stampati più dollari che tappi di Coca-Cola. Per carità tralascio di citare che cosa tanti economisti hanno scritto fino all’altro ieri. Lasciamo stare; vediamo invece quali rischi di incoerenza e quanti margini di inefficacia vi siano nel gesto americano.
Bastasse davvero solo di vietare le vendite allo scoperto per risolvere le crisi finanziarie saremmo tutti a posto: neppure ci sarebbe stata la Grande Crisi degli Anni Trenta. Pure Hoover, 31° presidente degli Stati Uniti, era ossessionato dalle vendite al ribasso, che giudicava complotti. Finì nel ridicolo, perse le elezioni. Fa bene dunque McCain a non voler ripetere i suoi errori, e a chiedere la rimozione di Cox, presidente del Sec. Anni fa la Securities and Exchange Commission permise di alzare il livello di debito delle banche ora fallite, esagerando il rialzo. Per decreto ora invece blocca la principale delle scommesse al ribasso, con un atto che resta dubitabile. Infatti i short selling bloccati, lasciando gonfiati i vari valori finanziari, possono aggravarne il tracollo al loro sblocco. Inoltre vietando vendite allo scoperto si tampona la crisi, ma s’inaridisce una fonte di liquidità: in una situazione già illiquida si chiude uno dei canali di ricopertura. Vari titoli poi, come quelli sulle carte di credito, ne sono pericolosamente esclusi. Infine il divieto è di molto complicato dall’esistenza d’altri generi di scommesse al ribasso scambiate tra investitori direttamente, non in Borsa. Insomma questo mercato truccato di una Wall Street evoluta Shanghai, coi suoi corsi manipolati dallo Stato, tampona forse la crisi, ma non è detto la risolva.
C’è poco da fare: il ritorno alla salute richiede prima o poi inevitabile una distruzione vera di valori fittizi. E perciò anche l’altra misura, quella di creare un fondo mostruoso del Tesoro, in cui infilare mutui e crediti cartaccia, è disputabile nei suoi effetti. Dovrebbe acquisire a prezzi scontati valori enormi, mai prima pensati, tali da elevare di un sol colpo del 5% il debito Usa. E però in tal maniera si rischia pure il congelamento di valori fittizi, ovvero non remunerabili: l’esito giapponese degli anni ’90. I dubbi non finiscono: quanti abusi si verificheranno nella stima dei prezzi ai quali questa cartaccia sarà comprata coi soldi dei contribuenti. A prezzarli non sarà infatti un mercato che si è sospeso. Insomma siamo alla commedia di un liberismo finto, usato per speculare al rialzo, ma che si sospende al ribasso, e di una globalizzazione che allora è stata solo una americanizzazione. Diviene lecito a chiunque, temo, chiamare truffa, gli imbrogli di borsa per via dei quali gli Usa si sono mantenuti almeno dalla presidenza Clinton in un livello di consumi innaturali. E con che esito alla fine? Mercati finanziari americani sotto tutela dello Stato; alla cinese. Appunto alla comunista: coi guadagni incassati poi da pochi, ma pagati da tutti. Von Hayek, i liberisti veri, predicavano ben altro: di mai stampare moneta in eccesso. Il contrario di quanto s’è purtroppo, e troppo a lungo, plaudito per anni.


di Geminello Alvi

27 settembre 2008

Quando il panico travolge le borse del mondo



La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crolli più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime

A registrare le reazioni attonite della maggioranza, sembra che ogni crac finanziario colpisca all´improvviso. I sinonimi per descriverlo attingono al vocabolario delle calamità naturali. Terremoto, tempesta perfetta, tsunami. L´affinità è reale: per la dimensione tragica ma anche per la normalità di questi eventi. Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo. Anzi, le loro origini risalgono al proto-capitalismo, visto che uno dei crac più celebri della storia fu il grande panico del febbraio 1637 alla Borsa di Amsterdam, quando dopo due anni di speculazioni forsennate crollarono di colpo le quotazioni dei futures sui bulbi di tulipani. La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crac più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime. Si infittisce l´interconnessione tra tutti i settori dell´economia, e tra nazioni molto lontane. Cresce il risparmio popolare investito in strumenti finanziari, nonché la previdenza privatizzata che affida i suoi capitali alle Borse, alle banche, alle assicurazioni. Potenzialmente l´impatto sociale dei crac si fa quindi sempre più profondo: ma per la stessa ragione si è irrobustito l´armamentario delle politiche economiche per attutirne le conseguenze. Infine, grazie alle tecnologie, i crac di oggi hanno ritmi sempre più rapidi. Le crisi di una volta sviluppavano i loro sussulti nell´arco di molti mesi; oggi possono conoscere capovolgimenti straordinari in poche ore. Un annuncio fatto a New York si ripercuote in millesimi di secondo sugli indici di Shanghai e Tokyo, Londra e Mosca.

Visto che oggi l´epicentro di una drammatica crisi finanziaria è in America, va ricordato che la nascita stessa degli Stati Uniti fu tenuta a battesimo da un crac. Il primo presidente, George Washington, era al suo primo mandato quando dovette fronteggiare il primo panico finanziario. All´origine vi fu la spregiudicata speculazione sui titoli pubblici emessi durante la guerra d´indipendenza dagli Stati del Massachusetts e della South Carolina. Nel marzo del 1792 la "bolla" scoppiava, costringendo la neonata nazione a misure di emergenza. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton diede disposizione alle banche di accettare anche titoli scadenti come garanzie per far prestiti e sostenere l´attività economica: qualcosa di molto simile ai vari sportelli d´emergenza creati dalla Federal Reserve di Ben Bernanke in questi mesi per provvedere liquidità al sistema.

Se da oltre due secoli i crac in America colpiscono puntuali come gli uragani, anche la loro dimensione internazionale non è del tutto nuova. Centouno anni fa il grande panico del 1907 fu la prima crisi "globale" del Novecento. Nel solo mese di ottobre l´indice azionario di Wall Street perse il 37% del suo valore, in tutta l´America folle di risparmiatori diedero l´assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione, il sistema del credito rimase paralizzato per settimane. La "tempesta perfetta" di quell´anno ebbe per protagonisti dei giganti della storia, dal presidente Theodore Roosevelt al banchiere J.Pierpont Morgan. Le ripercussioni furono immediate e profonde anche in Europa, e l´Inghilterra dovette accorrere in aiuto agli ex sudditi americani con una spedizione navale di lingotti d´oro. L´eco di quegli avvenimenti non si è mai spenta. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la "maledizione del 1907" quando Wall Street subì un´altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell´indice Standard & Poor´s 500. Già nel 1908 il finanziere Henry Clews nelle sue memorie indicava tre cause principali del disastro dell´anno precedente che suonano familiari: «L´eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell´alta finanza».

Il crac più nefasto resta quello del 1929. Non solo per la violenza della caduta subìta dall´indice Dow Jones, che perse il 13% nella sola seduta del 28 ottobre, seguito dal botto finale nel successivo Black Tuesday, il 29. In realtà a fissare nella storia la gravità di quel crollo furono gli eventi successivi. Per gli errori commessi nella politica monetaria e nella manovra economica del presidente Herbert Hoover, il collasso di Wall Street contribuì a innescare una spirale di protezionismi, la caduta del commercio internazionale, infine la Grande Depressione. Nel 1931 la Borsa americana aveva perso l´89% del suo valore dai massimi del 1929 ma ben più gravi furono le conseguenze sociali. Il mondo intero fu prostrato dalla deflazione: i prezzi agricoli scesero del 40-60%, salari e produzione industriale precipitarono, il tasso di disoccupazione in America arrivò al 25% nel 1933. Quattro anni dopo il crac di Wall Street, nel 1933 in media mille americani al giorno subivano il sequestro giudiziario della loro casa per insolvenza. La miseria di massa e le tensioni sociali contribuirono all´avvento del nazismo in Germania. La gravità di quella crisi ispirò innovazioni di portata storica: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt pose le fondamenta del Welfare State, delle politiche keynesiane di sostegno dell´occupazione, dei grandi programmi di investimento statale nelle infrastrutture. Ma fu solo l´incremento di produzione bellica legato alla seconda guerra mondiale a "curare" definitivamente la più lunga recessione del XX secolo.

Nel dopoguerra in America il crac più celebre fu quello delle Savings and Loans. Una crisi bancaria prolungata per anni. Fra il 1986 e il 1995 quasi la metà delle 3.234 casse di risparmio dovette chiudere per bancarotta. Nel 1989 il Congresso creò un´apposita agenzia federale, la Resolution Trust Corporation, per accollarsi le perdite, rimborsare i depositanti, assorbire i portafogli-titoli degli istituti falliti, e indagare sulle responsabilità del disastro. In quanto liquidatore fallimentare il governo federale si ritrovò temporaneamente proprietario dei più disparati oggetti che i clienti avevano fornito come garanzia alle banche per ottenere fidi: nella Resolution Trust Corp. finirono tra l´altro quadri di Picasso e Andy Warhol, una distelleria di whisky dell´epoca coloniale, e 800 boccette refrigerate di sperma di un toro Brahma da riproduzione.

I crac più recenti sono ancora freschi nella memoria: gli scossoni provocati da choc internazionali come l´insolvenza del Messico (il crac dei Tequila Bonds nel 1995), la crisi finanziaria dei dragoni asiatici nel 1997, la bancarotta della Russia nel 1998. Tutto endogeno invece fu il crollo del Nasdaq nel marzo 2000, la fine della febbre speculativa sulle dot.com, le società di Internet nate all´apice della New Economy. Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una "bolla", un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una "teoria" per dimostrare l´assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l´avvento della bolla successiva.


F. Rampini

L’ultimo Bingo del turbocapitalismo



Ho l’impressione che la «casta degli oligarchi», la nuova élite di «mega-ricchi» - come li definisce Hervé Kempf – che governa l’economiamondiale abbiamesso a segno il più grande colpo della storia. Se non ho capito male, alla fine della giostra, un colossale flusso di denaro, da 600 a 1.000 miliardi di dollari, secondo le diverse stime, transiterà dalle casse delle banche centrali americane ed europee – cioè dalle riserve statali accumulate con i proventi fiscali dei cittadini - ai portafogli dei grandi investitori finanziari. In realtà i mutui degli americani poveri non c’entrano nulla.

Pensate a quale piano planetario di edilizia economica e popolare si sarebbe potuto realizzare con solo una parte delle somme sborsate! I mutui sono stati il veicolo con cui creare ad arte una esposizione debitoria inesigibile - drogando i prezzi di mercato degli immobili e, di conseguenza, sopravalutando i titoli ipotecari nelle mani degli istituti di intermediazione. Un gioco da ragazzi, una «shock economy», direbbe Naomi Klein, pianificata e provocata dalle stesse autorità monetarie «regolatrici » dei mercati e dalle agenzie di rating e di controllo. Basta seguire imovimenti di quel Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserv, ritenuto l’inventore della linea dei «consumi in deficit» e accostato dal nostro Tremonti a Bid Laden come principale nemico dell’America, che è ora il consulente del più grande Hedge Fund (lo Jp Morgan) che sta comprando le banche in fallimento.

Ovviamente, con il sostegno in denaro della stessa Federal Reserv. Insomma, ci stanno turlupinando. Oggetto degli spettacolari salvataggi con i nostri soldi non sono né imutui dei «poveri» americani, né le «generose» banche di intermediazione che li hanno concessi, né le «sprovvedute» società di assicurazione che hanno stipulato polizze contro le bancarotte. Temo che i veri beneficiari, in ultima istanza, siano coloro che hanno preso nel loro portafoglio i «titoli spazzatura» e che pretendono comunque gli interessi e le rendite pattuite. Sono i grandi investitori istituzionali, i fondi pensione, le fondazioni, i fondi sovrani dei paesi orientali, gli sceicchi del petrolio… tutti coloro, insomma, che stanno finanziando gli investimenti produttivi, industriali, infrastrutturali, militari negli Stati Uniti. E non possono fallire perché lascerebbero a secco «la più grande economia del mondo», la nostra protettrice e il nostro faro di civiltà. La crisi finanziaria in corso non è altro che un giro tortuoso per saldare una tranche dei loro crediti. Sono sicuro che i maghi della finanza creativa (la «setta degli avidi » che dirigono il tavolo da gioco degli hedge fund) stanno già studiando quale dovrà essere la prossima «bolla speculativa» da gonfiare e far saltare – assieme alle casse degli stati – al momento buono. Il dubbio che mi tormenta è che a sinistra si creda ancora nella «patologia» della crisi, come eccesso speculativo dell’arciliberismo, e non si veda invece nella «sequenza delle crisi» (come ci dice cinicamente Cipolletta) la patologia del turbocapitalismo, insaziabile divoratore di risorse e di umanità.


m. Cacciari

I trucchi Usa non fermeranno la bufera

Gli espedienti ai quali Sec e Tesoro degli Stati Uniti si sono votati confermano che giovedì scorso la situazione dei mercati non era più soltanto seria, era disperata. Eppure quanti su tanti giornali spiegano la crisi paiono volersene dimenticare a memoria. E per un rimbalzo da borse alla cinese, ovvero finte, hanno ceduto troppo all’euforia. Mentre invece gli espedienti tentati restano per molti versi discutibili, e forse di precaria efficacia. Del resto tant’è: questo è il pressappochismo sortito da anni in cui si sono stampati più dollari che tappi di Coca-Cola. Per carità tralascio di citare che cosa tanti economisti hanno scritto fino all’altro ieri. Lasciamo stare; vediamo invece quali rischi di incoerenza e quanti margini di inefficacia vi siano nel gesto americano.
Bastasse davvero solo di vietare le vendite allo scoperto per risolvere le crisi finanziarie saremmo tutti a posto: neppure ci sarebbe stata la Grande Crisi degli Anni Trenta. Pure Hoover, 31° presidente degli Stati Uniti, era ossessionato dalle vendite al ribasso, che giudicava complotti. Finì nel ridicolo, perse le elezioni. Fa bene dunque McCain a non voler ripetere i suoi errori, e a chiedere la rimozione di Cox, presidente del Sec. Anni fa la Securities and Exchange Commission permise di alzare il livello di debito delle banche ora fallite, esagerando il rialzo. Per decreto ora invece blocca la principale delle scommesse al ribasso, con un atto che resta dubitabile. Infatti i short selling bloccati, lasciando gonfiati i vari valori finanziari, possono aggravarne il tracollo al loro sblocco. Inoltre vietando vendite allo scoperto si tampona la crisi, ma s’inaridisce una fonte di liquidità: in una situazione già illiquida si chiude uno dei canali di ricopertura. Vari titoli poi, come quelli sulle carte di credito, ne sono pericolosamente esclusi. Infine il divieto è di molto complicato dall’esistenza d’altri generi di scommesse al ribasso scambiate tra investitori direttamente, non in Borsa. Insomma questo mercato truccato di una Wall Street evoluta Shanghai, coi suoi corsi manipolati dallo Stato, tampona forse la crisi, ma non è detto la risolva.
C’è poco da fare: il ritorno alla salute richiede prima o poi inevitabile una distruzione vera di valori fittizi. E perciò anche l’altra misura, quella di creare un fondo mostruoso del Tesoro, in cui infilare mutui e crediti cartaccia, è disputabile nei suoi effetti. Dovrebbe acquisire a prezzi scontati valori enormi, mai prima pensati, tali da elevare di un sol colpo del 5% il debito Usa. E però in tal maniera si rischia pure il congelamento di valori fittizi, ovvero non remunerabili: l’esito giapponese degli anni ’90. I dubbi non finiscono: quanti abusi si verificheranno nella stima dei prezzi ai quali questa cartaccia sarà comprata coi soldi dei contribuenti. A prezzarli non sarà infatti un mercato che si è sospeso. Insomma siamo alla commedia di un liberismo finto, usato per speculare al rialzo, ma che si sospende al ribasso, e di una globalizzazione che allora è stata solo una americanizzazione. Diviene lecito a chiunque, temo, chiamare truffa, gli imbrogli di borsa per via dei quali gli Usa si sono mantenuti almeno dalla presidenza Clinton in un livello di consumi innaturali. E con che esito alla fine? Mercati finanziari americani sotto tutela dello Stato; alla cinese. Appunto alla comunista: coi guadagni incassati poi da pochi, ma pagati da tutti. Von Hayek, i liberisti veri, predicavano ben altro: di mai stampare moneta in eccesso. Il contrario di quanto s’è purtroppo, e troppo a lungo, plaudito per anni.


di Geminello Alvi