11 ottobre 2008

Come arrestare la macchina infernale?


Come è possibile che banche secolari siano state a tal punto scosse? Com’è possibile che siano le banche belghe a trovarsi in prima linea a subire il fuoco della crisi finanziaria? E perché quelle che si chiamano le autorità "di controllo prudenziale", quelle che, dunque, per definizione avrebbero dovuto assicurarsi che le istituzioni finanziarie gestissero i loro affari con prudenza, sono state scavalcate? Nonostante "il wargames", lo “stress test”, ed i controlli in ogni tipo operati in questi ultimi anni? La crisi attuale è anzitutto una crisi di fiducia, cioè, in termini bancari, una crisi di credito. Una banca può obiettivamente avere un buon bilancio ed essere una macchina operativa molto efficace; ma se, un giorno, i suoi fornitori di crediti, in modo massiccio, non gli danno più fiducia, anche per motivi infondati, smette di respirare. È ciò che è avvenuto per Fortis e per Dexia. Per questo l'intervento delle autorità pubbliche era importante, e le stesse, opportunamente, hanno agito molto rapidamente. Ma perché due delle nostre grandi banche, di cui si elogiava la capacità di resilienza ancora sei mesi fa, sono fra i primi domini europei a cadere? Sono state certamente indebolite da opzioni strategiche (acquisto di ABN Amro per Fortis, attività di valorizzazione del credito per Dexia). Sono inoltre istituzioni situate in un paese, il nostro, tradizionalmente molto aperto ai capitali stranieri, e che ha, dunque, importato alcune tecniche anglosassoni oggi dannose (i crediti strutturati da Fortis, la valorizzazione del credito da Dexia). Oggi, occorre fermare con urgenza questa macchina infernale che si attacca, una dopo l'altra, alle banche del continente. Gli interventi dello Stato, le iniezioni massicce di liquidità, le garanzie dei regolatori non basteranno se non ritorna anche la fiducia degli attori. E ciò, non è soltanto una questione di miliardi, è una questione di sistema. Oggi, è chiaro, non si farà economia per una rifusione completa, globale, totale del sistema finanziario mondiale.
di Pierre-Henri Thomas

03 ottobre 2008

Liberomercato "sovietizzato"



Le nostre grandi imprese hanno fama, a livello internazionale, di essere “dopate” e di non stare alle regole del gioco economico. E’ cosa questa che certo non si può smentire, ma le innumerevoli denuncie e sanzioni comminateci dalle istituzioni europee, fortemente sollecitate da imprese internazionali concorrenti (dietro le quali ci sono altrettanti sistemi-paese), sono sempre state pretestuose o, almeno, dis-equilibrate, stando a quanto avveniva in casa d’altri.


La verità è che l’Italia si trova, da un quindicennio a questa parte, sotto il fuoco incrociato di chi, a livello internazionale, punta ad accaparrarsi fette sempre più consistenti di risorse nazionali, sfruttando la complessiva debolezza politica del nostro sistema-nazione. Spessissimo il nostro capitalismo accattone, il vero responsabile della decadenza italica, ha allungato la mano nelle tasche dei contribuenti per coprire la propria mala gestione (quel capitalismo parassitario che abbiamo chiamato Gf&ID), tentando di socializzare le perdite dopo aver abbondantemente privatizzato i profitti.


Resta inteso che queste “manovre di rapina” (il che non significa affatto che la rapina sia la sostanza stessa del modo di produzione capitalistico) sono state rese possibili dalla debolezza degli agenti politici, i quali hanno permesso, tanto alle imprese decotte del nostro capitalismo assistito che alla finanza nostrana, collegata alla più potente finanza americana ed europea, di godere della massima impunità e della più vasta libertà d’azione.


Così, ad esempio, per la Fiat che ha ottenuto in passato - e che continua ad ottenere anche oggi - nelle forme più disparate, milioni di euro di sovvenzioni statali, con il ricatto delle maestranze alle quali “offre” paternalisticamente la propria protezione (ma non erano le imprese a domandare forza-lavoro sul mercato, come insegnatoci nelle lunghe lezioni di economia da professori zelanti e “tecnicamente” corretti?), solo dopo aver abbondantemente succhiato alle mammelle delle casse pubbliche.


E così anche per le grandi banche del Bel Paese, le quali hanno goduto di una legislazione sbilanciata a loro favore e dell’inefficienza, nonché compiacenza (evidentemente non è un difetto solo americano), delle autorità di controllo le quali, soventemente, hanno chiuso tutti e due gli occhi dinanzi a trucchi e malefatte di ogni tipo.


La Comunità Europea, per tali ragioni, ha più volte condannato l’Italia, con l’accusa di aver fatto uso ed abuso di misure perturbatrici della libera concorrenza nel mercato comunitario, contravvenendo alle "Sacre Scritture Mercatiste" divulgate dalla tecnocrazia economica che appesta gli organismi comunitari e che fa gli interessi dei poteri forti transanazionali.


All’improvviso però sopraggiunge il terremoto finanziario e in Europa tutti si riscoprono sostenitori dell’intervento pubblico in economia, dettato dall’eccezionalità della congiuntura. Le leggi del capitalismo ideologico restano allora come sospese, ma sempre valevoli nella testa di questi imbonitori, in attesa che i “correttivi” statali possano fare piazza pulita, con mezzi del tutto "straordinari", dei parassiti e degli usurpatori affetti da ipomania individualistica e accumulativa. Sarà, ma eccezione dopo eccezione ci si avvicina sempre di più alla regola.


Dopo aver ascoltato per anni i giannizzeri incravattati di “eurolandia” spararle grosse sulle virtù taumaturgiche della mano invisibile che crea e distrugge ma che alla fine riequilibra con maggiore perfezione, il nuovo messaggio è una vera e propria retromarcia. Oggi, difatti, siamo in presenza di una debacle sistemica che ha ben poco di fisiologico (almeno nel senso che sono letteralmente saltati gli stessi fondamenti sui quali aveva sin qui poggiato il castello finanziario occidentale) ed è per questo che gli indefessi liberisti, grandi esperti del piffero, rilasciano dichiarazioni sempre più vaghe e ambigue. Obiettivamente, questi tecnici sopravvalutati e pluripremiati non ci stanno capendo un’acca, proprio come noi poveri mortali, non potendo minimamente prevedere, con gli strumenti categoriali a disposizione, quale sbocco prenderà questa crisi e a quali sconvolgimenti porterà. Per questo vi propongo qui sotto un articolo, tratto dal Foglio, dove vengono denunciate, più o meno, le cose che avevo precedentemente detto nel pezzo sull’Alitalia e che mi trovano pienamente d'accordo.



Da "Il Foglio"


GLI AIUTI DI STATO NON ERANO ILLEGALI?



Il governo inglese statalizza la banca Bradford & Bingley, impegnata nel credito immobiliare britannico, che rischiava l'insolvenza. Questa operazione, decisa con rapidità, dopo che potenziali acquirenti privati si erano ritirati, punta alla salvaguardia dei depositanti, in preda al panico. Ma è evidente che l'esigenza di difendere i risparmiatori da diseconomie esterne causate da condotte bancarie imprudenti non vale a cancellare il fatto che si è, verosimilmente, in presenza di un aiuto di stato, contrario alle regole europee sulla concorrenza. I regolatori britannici non sembrano preoccuparsene.



E tacciono, finora, i commissari europei competenti per la concorrenza e i mercati finanziari, che in altri casi furono solleciti ad ammonire i governi a non violare tali regole (vedi caso Alitalia e, con riguardo al settore del credito, al trattamento preferenziale con-cesso a Banca Popolare Italiana nella scalata ad Antonveneta che attirò critiche sulla Banca d'Italia). Ma il caso più imponente è quello di Fortis, un colosso banco-assicurativo, numero uno nella rete bancaria belga, con una posizione di primaria importanza anche in Olanda e in Lussemburgo.



I governi dei tre paesi hanno erogato, complessivamente, 11,2 miliardi di euro per l'acquisto del 49 per cento delle azioni, rispettivamente di Fortis Belgio, Fortis Olanda e Fortis Lussemburgo. Anche questa statalizzazione (che implica il controllo governativo di Fortis, visto che il restante 51 per cento è frazionato) è un salvataggio, perché decisa dopo che i privati hanno declinato l'interesse a rilevare il gruppo.



La Commissione di Bruxelles sostiene che non si tratta "necessariamente" di aiuto di stato: lo sarebbe solo se i governi comprassero le azioni a un prezzo inferiore al valore di mercato. Ma si potrebbe argomentare che se i privati hanno declinato quell'operazione che invece i governi realizzano l'aiuto di stato c'è. Nel perimetro di Fortis ci sono alcune attività acquisite da Abn Amro, un'operazione che dovrebbe essere completata in ottobre.



I tre governi, quindi, si prendono in carico anche questi asset che poi dovranno rivendere. Sorgono così pure domande sul comportamento dei regolatori finanziari quando Fortis chiuse quell'operazione. E' da dubitare che Fortis avesse allora i parametri patrimoniali per quell'acquisizione. Che dicono i regolatori? C'è una crisi di credibilità, nel centro dell'Europa.


di Giovanni Petrosillo

La fine del secolo americano


Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale.


Nel mese di febbraio il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stimava a 1.100 miliardi di $ le perdite del settore finanziario dovute alla crisi dei mutui subprime americani e prevedeva un brusco rallentamento dell’economia globale. Il suo direttore generale, Dominique Strauss-Khan, promise anche di approfondire, con uno studio appropriato, l’impatto sistemico del rialzo dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio. Nel mese di giugno, in seguito ad un’esplicita richiesta del G8 di Osaka, ribadì il suo impegno a relazionare in autunno. La richiesta del G8 non piacque al segretario di Stato americano Hank Paulson, che accusò i ministri di Francia e Italia, fautori dell’iniziativa, di non conoscere il reale funzionamento dei mercati e di parlare troppo facilmente di speculazione. A tranquillizzarlo bastò l’estrema genericità dell’impegno preso da Dominique Strauss-Khan. Oggi, dopo il fallimento della Lehman Brothers, i due compari si ritrovano al capezzale dell’economia globale, cercando di tutelare gli interessi dell’oligarchia finanziaria sulla pelle dei popoli.



Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale. Sono passati tanti anni da quando tre immigrati ebrei di origine tedesca – i fratelli Henry, Immanuel e Mayer Lehman – costituirono a Montgomery (Alabama) la Lehman Brothers (1850). Non era ancora una banca, ma un negozio di tessuti. All’origine di ogni grande fortuna, c’è sempre un grande crimine. Gli economisti la chiamano accumulazione originaria.
La geniale intuizione dei fratelli Lehman fu quella di sfruttare l’economia schiavista degli Stati del sud facendosi pagare in cotone grezzo, che rivendevano al nord tramite la loro filiale di New York. Durante la guerra civile (1861-65), i fratelli Lehman erano schierati su entrambi i fronti, avendo una sede in Alabama ed una a Manhattan. Finita la guerra, lucrando sul finanziamento della ricostruzione, ampliarono i loro interessi al mercato del caffé, altra materia prima coltivata con l’impiego di schiavi africani. Infine entrarono nel business delle ferrovie e della consulenza finanziaria.

Il salto di qualità, per la famiglia Lehman, avvenne grazie all’alleanza con Goldman Sachs (1906). Entrarono in tutti i settori dell’economia americana, sopravvissero alla crisi del 1929, beneficiarono della seconda guerra mondiale, parteciparono alla grande espansione delle multinazionali americane nel dopoguerra. Negli anni in cui il mondo affrontava le crisi determinate dall’aumento del prezzo del petrolio, la Lehman Brothers raggiunse il suo apogeo, grazie alla fusione con due colossi della finanza americana: Kuhn Loeb (1975) ed American Express (1984). Il quartiere generale era a Manhattan, dove occupava tre piani della torre nord nel World Trade Center. Quel fatidico 11 settembre 2001, tra le 2.974 vittime dell’attentato terroristico, ci fu anche un suo dipendente. Una sola persona, contro le 295 vittime della Cantor Fitzgerald e le 175 della Aon Corporation, altre società che avevano sede nello stesso edificio. Pare che quel giorno, per pura casualità, molti manager fossero assenti. Quello della Lehman Brothers non è soltanto il fallimento di una prestigiosa banca globale, specializzata in finanza creativa.

È il crollo definitivo e irreversibile dell’american dream, un sogno diventato incubo. Quanto sta accadendo non è una crisi come le altre, ma è la fine di un’epoca, la fine del secolo americano. In poco più di cento anni, una colonia europea è divenuta potenza mondiale. Ha vinto due guerre, ha dominato il mondo, ha sconfitto il suo apparente antagonista, continua a minacciare nemici reali e immaginari con il suo apparato militare. È servita da modello per la società multirazziale, da banca centrale per l’economia globale, da quartiere generale della strategia sionista. Ha alimentato speranze ed illusioni, ma ormai è un sistema in frantumi, un dead man walking in attesa del colpo di grazia. Il fallimento della Lehman Brothers, con tutto quello che sta accadendo, può essere paragonato al crollo del muro di Berlino (1989), che anticipò di qualche anno lo scioglimento dell’URSS (1991) per implosione della sua economia. Questo spiega la preoccupazione dell’oligarchia, non tanto per le risorse finanziarie bruciate in questa ed altre crisi, quanto i suoi riflessi sistemici.

Non è in gioco l’economia globale, termine usato per indicare un progetto più che una realtà, ma la sopravvivenza degli apparati mondialisti come sistema di potere capace di gestire la crisi. Le soluzioni proposte, anche se verranno attuate, potranno solo ritardare il grande crac. Vediamole in sintesi, partendo dalle ragioni del crollo. Senza indagare sulle deficienze strutturali del sistema capitalista, accenniamo alla causa scatenante della crisi in atto. Si chiama finanza creativa. Consiste nel prestare denaro spalmando i rischi su una miriade di titoli complessi immessi sul mercato mobiliare. Il fine è lucrare interesse, sia sui mutui che sulla negoziazione dei titoli. Usura che genera usura, come in tutte le bolle speculative che sfociano in crac. Questa volta l’ondata malefica è partita dal settore immobiliare. Per facilitare l’acquisto di case, le banche offrivano mutui fino al 100% del valore dell’immobile. I titoli rappresentativi dei mutui venivano impacchettati, insieme ad altri titoli, in obbligazioni vendute sul mercato, con due vantaggi per le banche: trasferire ad altri operatori il rischio d’insolvenza dei propri clienti e rientrare subito del denaro prestato per erogare altri prestiti. Questo gioco sporco non poteva durare a lungo. Nell’estate 2007 il mercato si è accorto che molti mutuatari non avrebbero potuto restituire i soldi ricevuti, facendo crollare, non solo le obbligazioni che contenevano mutui inesigibili, ma anche altri titoli legati a valori immobiliari. Il capro espiatorio sono state le agenzie di rating, accusate di aver minimizzato il potenziale problema, ma ormai la finanza creativa era stata smascherata.



L’idea di spalmare il rischio trasferendolo ad altri, non riguardava solo i mutui immobiliari. Molti altri impieghi delle banche erano stati impacchettati in obbligazioni vendute sul mercato: prestiti per l’acquisto di auto, carte di credito, finanziamenti di fusioni e acquisizioni. Stavolta sul banco degli imputati è finita anche la Lehman Brothers, accusata di aver cucinato i libri contabili, cioè di aver nascosto 13 miliardi di crediti ormai inesigibili. Di fronte alla prospettiva del fallimento, sono emersi due possibili acquirenti, la Bank of America e la Barclays, i quali chiedevano al governo americano di sostenere la transazione con fondi federali, come aveva fatto con altre banche ed assicurazioni invischiate nel losco affare dei mutui subprime. Ci riferiamo a Fannie Mae e Freddie Mac, salvate con un piano di 200 miliardi di $, e all’American International Group (Aig), benficiaria di altri 85 miliardi di $. Ma il governo si è rifiutato, la Barclays ha ritirato la sua offerta e Bank of America ha preferito comprare Merrill Lynch. Così, alla prestigiosa Lehman Brothers, non è rimasta altra scelta che dichiarare il fallimento, scatenando il panico sui mercati finanziari. Passiamo ora ad analizzare le soluzioni prospettate. Il presidente della Federal Reserve, l’economista Ben Bernanke, ha studiato molto bene la crisi del 1929. La sua teoria è nota: per evitare una nuova grande depressione, la banca centrale può anche gettare pacchi di banconote con un elicottero. In sostanza, è quanto si vuole che avvenga.

Dieci grandi banche (Bank of America, Citibank, Barclays, Credit Suisse, Ubs, JpMorgan, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Morgan Stanley) hanno costituito un fondo di 70 miliardi di dollari per assicurarsi liquidità aggiuntiva. Il Tesoro americano ha varato il piano Paulson per 700 miliardi di dollari, al fine di acquistare i titoli senza valore di mercato dalle banche in difficoltà. Questi titoli saranno gestiti dal Tesoro stesso in piena autonomia, cioè assumendo gestori di fondi ed intermediari specializzati, ma soprattutto nella più totale impunità, cioè al riparo da eventuali azioni legali di risparmiatori e contribuenti. È dovuto intervenire George Bush per garantire il sostegno bipartisan al piano. In questa difficile congiuntura, come è avvenuto per tutto il secolo americano, gli USA hanno dapprima esportato la crisi e poi chiesto il sostegno degli altri Paesi attraverso le istituzioni finanziarie internazionali, costituite per sostenere i loro interessi imperialisti e trasformate progressivamente in agenti dell’oligarchia mondialista. Con queste premesse, è nata l’iniziativa di Dominique Strauss- Khan. In vista della prossima riunione del Fondo Monetario Internazionale, che si terrà a Washington nel mese di ottobre, ha chiesto agli Stati di fare, al loro interno ed a livello globale, ciò che stanno facendo gli USA.

L’intervento a breve termine dovrebbe essere così articolato: iniezione di nuova liquidità, acquisizione degli attivi inesigibili, apporto di capitali a vantaggio delle banche in crisi. Un’agenzia intergovernativa dovrebbe acquisire i crediti inesigibili e detenerli fino a quando non giungono a scadenza e possono essere rivenduti senza rischi. La soluzione proposta, da tutte queste persone di grande intelligenza, è fin troppo banale: ricapitalizzare il sistema finanziario col sostegno pubblico, sia a livello statale che mondiale. Lo Stato, questo vecchio arnese messo ai margini dell’economia dai profeti del liberismo, dovrebbe ora intervenire per salvare i profitti dei banchieri. La cooperazione internazionale, rimpiazzata dalla global governance dei poteri occulti, viene ora invocata per evitare il peggio. Resta da chiedersi perché il resto del mondo dovrebbe salvare dal crollo la civiltà americana. Alcuni invocano un vago senso di responsabilità globale, quello funzionale all’attuazione del progetto mondialista. Altri l’interdipendenza economica, quella imposta con la guerra permanente. Forse un nuovo conflitto mondiale, un attacco alla Russia o all’Iran, darebbe fiato all’economia USA, come avvenne nel 1939, a dieci anni dal crollo storico di Wall Street. La teoria tardoimperialista dello scontro di civiltà col mondo arabo e le operazioni militari contro presunte centrali del terrorismo islamico sono servite a poco. Ma il secolo americano è finito. L’oligarchia è seriamente in crisi. Al crollo simbolico della Lehman Brothers seguirà l’implosione di tutto il sistema. Il vero problema, nella teoria e nella prassi rivoluzionaria, non è stabilire tra quanti anni ciò avverrà e quanta moneta sarà bruciata nel prossimo grande crac, ma è capire quanti e quali uomini resteranno in piedi tra le rovine dell’utopia mercatista per costruire un vero socialismo.

Raffaele Ragni
Rinascita Campania

11 ottobre 2008

Come arrestare la macchina infernale?


Come è possibile che banche secolari siano state a tal punto scosse? Com’è possibile che siano le banche belghe a trovarsi in prima linea a subire il fuoco della crisi finanziaria? E perché quelle che si chiamano le autorità "di controllo prudenziale", quelle che, dunque, per definizione avrebbero dovuto assicurarsi che le istituzioni finanziarie gestissero i loro affari con prudenza, sono state scavalcate? Nonostante "il wargames", lo “stress test”, ed i controlli in ogni tipo operati in questi ultimi anni? La crisi attuale è anzitutto una crisi di fiducia, cioè, in termini bancari, una crisi di credito. Una banca può obiettivamente avere un buon bilancio ed essere una macchina operativa molto efficace; ma se, un giorno, i suoi fornitori di crediti, in modo massiccio, non gli danno più fiducia, anche per motivi infondati, smette di respirare. È ciò che è avvenuto per Fortis e per Dexia. Per questo l'intervento delle autorità pubbliche era importante, e le stesse, opportunamente, hanno agito molto rapidamente. Ma perché due delle nostre grandi banche, di cui si elogiava la capacità di resilienza ancora sei mesi fa, sono fra i primi domini europei a cadere? Sono state certamente indebolite da opzioni strategiche (acquisto di ABN Amro per Fortis, attività di valorizzazione del credito per Dexia). Sono inoltre istituzioni situate in un paese, il nostro, tradizionalmente molto aperto ai capitali stranieri, e che ha, dunque, importato alcune tecniche anglosassoni oggi dannose (i crediti strutturati da Fortis, la valorizzazione del credito da Dexia). Oggi, occorre fermare con urgenza questa macchina infernale che si attacca, una dopo l'altra, alle banche del continente. Gli interventi dello Stato, le iniezioni massicce di liquidità, le garanzie dei regolatori non basteranno se non ritorna anche la fiducia degli attori. E ciò, non è soltanto una questione di miliardi, è una questione di sistema. Oggi, è chiaro, non si farà economia per una rifusione completa, globale, totale del sistema finanziario mondiale.
di Pierre-Henri Thomas

03 ottobre 2008

Liberomercato "sovietizzato"



Le nostre grandi imprese hanno fama, a livello internazionale, di essere “dopate” e di non stare alle regole del gioco economico. E’ cosa questa che certo non si può smentire, ma le innumerevoli denuncie e sanzioni comminateci dalle istituzioni europee, fortemente sollecitate da imprese internazionali concorrenti (dietro le quali ci sono altrettanti sistemi-paese), sono sempre state pretestuose o, almeno, dis-equilibrate, stando a quanto avveniva in casa d’altri.


La verità è che l’Italia si trova, da un quindicennio a questa parte, sotto il fuoco incrociato di chi, a livello internazionale, punta ad accaparrarsi fette sempre più consistenti di risorse nazionali, sfruttando la complessiva debolezza politica del nostro sistema-nazione. Spessissimo il nostro capitalismo accattone, il vero responsabile della decadenza italica, ha allungato la mano nelle tasche dei contribuenti per coprire la propria mala gestione (quel capitalismo parassitario che abbiamo chiamato Gf&ID), tentando di socializzare le perdite dopo aver abbondantemente privatizzato i profitti.


Resta inteso che queste “manovre di rapina” (il che non significa affatto che la rapina sia la sostanza stessa del modo di produzione capitalistico) sono state rese possibili dalla debolezza degli agenti politici, i quali hanno permesso, tanto alle imprese decotte del nostro capitalismo assistito che alla finanza nostrana, collegata alla più potente finanza americana ed europea, di godere della massima impunità e della più vasta libertà d’azione.


Così, ad esempio, per la Fiat che ha ottenuto in passato - e che continua ad ottenere anche oggi - nelle forme più disparate, milioni di euro di sovvenzioni statali, con il ricatto delle maestranze alle quali “offre” paternalisticamente la propria protezione (ma non erano le imprese a domandare forza-lavoro sul mercato, come insegnatoci nelle lunghe lezioni di economia da professori zelanti e “tecnicamente” corretti?), solo dopo aver abbondantemente succhiato alle mammelle delle casse pubbliche.


E così anche per le grandi banche del Bel Paese, le quali hanno goduto di una legislazione sbilanciata a loro favore e dell’inefficienza, nonché compiacenza (evidentemente non è un difetto solo americano), delle autorità di controllo le quali, soventemente, hanno chiuso tutti e due gli occhi dinanzi a trucchi e malefatte di ogni tipo.


La Comunità Europea, per tali ragioni, ha più volte condannato l’Italia, con l’accusa di aver fatto uso ed abuso di misure perturbatrici della libera concorrenza nel mercato comunitario, contravvenendo alle "Sacre Scritture Mercatiste" divulgate dalla tecnocrazia economica che appesta gli organismi comunitari e che fa gli interessi dei poteri forti transanazionali.


All’improvviso però sopraggiunge il terremoto finanziario e in Europa tutti si riscoprono sostenitori dell’intervento pubblico in economia, dettato dall’eccezionalità della congiuntura. Le leggi del capitalismo ideologico restano allora come sospese, ma sempre valevoli nella testa di questi imbonitori, in attesa che i “correttivi” statali possano fare piazza pulita, con mezzi del tutto "straordinari", dei parassiti e degli usurpatori affetti da ipomania individualistica e accumulativa. Sarà, ma eccezione dopo eccezione ci si avvicina sempre di più alla regola.


Dopo aver ascoltato per anni i giannizzeri incravattati di “eurolandia” spararle grosse sulle virtù taumaturgiche della mano invisibile che crea e distrugge ma che alla fine riequilibra con maggiore perfezione, il nuovo messaggio è una vera e propria retromarcia. Oggi, difatti, siamo in presenza di una debacle sistemica che ha ben poco di fisiologico (almeno nel senso che sono letteralmente saltati gli stessi fondamenti sui quali aveva sin qui poggiato il castello finanziario occidentale) ed è per questo che gli indefessi liberisti, grandi esperti del piffero, rilasciano dichiarazioni sempre più vaghe e ambigue. Obiettivamente, questi tecnici sopravvalutati e pluripremiati non ci stanno capendo un’acca, proprio come noi poveri mortali, non potendo minimamente prevedere, con gli strumenti categoriali a disposizione, quale sbocco prenderà questa crisi e a quali sconvolgimenti porterà. Per questo vi propongo qui sotto un articolo, tratto dal Foglio, dove vengono denunciate, più o meno, le cose che avevo precedentemente detto nel pezzo sull’Alitalia e che mi trovano pienamente d'accordo.



Da "Il Foglio"


GLI AIUTI DI STATO NON ERANO ILLEGALI?



Il governo inglese statalizza la banca Bradford & Bingley, impegnata nel credito immobiliare britannico, che rischiava l'insolvenza. Questa operazione, decisa con rapidità, dopo che potenziali acquirenti privati si erano ritirati, punta alla salvaguardia dei depositanti, in preda al panico. Ma è evidente che l'esigenza di difendere i risparmiatori da diseconomie esterne causate da condotte bancarie imprudenti non vale a cancellare il fatto che si è, verosimilmente, in presenza di un aiuto di stato, contrario alle regole europee sulla concorrenza. I regolatori britannici non sembrano preoccuparsene.



E tacciono, finora, i commissari europei competenti per la concorrenza e i mercati finanziari, che in altri casi furono solleciti ad ammonire i governi a non violare tali regole (vedi caso Alitalia e, con riguardo al settore del credito, al trattamento preferenziale con-cesso a Banca Popolare Italiana nella scalata ad Antonveneta che attirò critiche sulla Banca d'Italia). Ma il caso più imponente è quello di Fortis, un colosso banco-assicurativo, numero uno nella rete bancaria belga, con una posizione di primaria importanza anche in Olanda e in Lussemburgo.



I governi dei tre paesi hanno erogato, complessivamente, 11,2 miliardi di euro per l'acquisto del 49 per cento delle azioni, rispettivamente di Fortis Belgio, Fortis Olanda e Fortis Lussemburgo. Anche questa statalizzazione (che implica il controllo governativo di Fortis, visto che il restante 51 per cento è frazionato) è un salvataggio, perché decisa dopo che i privati hanno declinato l'interesse a rilevare il gruppo.



La Commissione di Bruxelles sostiene che non si tratta "necessariamente" di aiuto di stato: lo sarebbe solo se i governi comprassero le azioni a un prezzo inferiore al valore di mercato. Ma si potrebbe argomentare che se i privati hanno declinato quell'operazione che invece i governi realizzano l'aiuto di stato c'è. Nel perimetro di Fortis ci sono alcune attività acquisite da Abn Amro, un'operazione che dovrebbe essere completata in ottobre.



I tre governi, quindi, si prendono in carico anche questi asset che poi dovranno rivendere. Sorgono così pure domande sul comportamento dei regolatori finanziari quando Fortis chiuse quell'operazione. E' da dubitare che Fortis avesse allora i parametri patrimoniali per quell'acquisizione. Che dicono i regolatori? C'è una crisi di credibilità, nel centro dell'Europa.


di Giovanni Petrosillo

La fine del secolo americano


Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale.


Nel mese di febbraio il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stimava a 1.100 miliardi di $ le perdite del settore finanziario dovute alla crisi dei mutui subprime americani e prevedeva un brusco rallentamento dell’economia globale. Il suo direttore generale, Dominique Strauss-Khan, promise anche di approfondire, con uno studio appropriato, l’impatto sistemico del rialzo dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio. Nel mese di giugno, in seguito ad un’esplicita richiesta del G8 di Osaka, ribadì il suo impegno a relazionare in autunno. La richiesta del G8 non piacque al segretario di Stato americano Hank Paulson, che accusò i ministri di Francia e Italia, fautori dell’iniziativa, di non conoscere il reale funzionamento dei mercati e di parlare troppo facilmente di speculazione. A tranquillizzarlo bastò l’estrema genericità dell’impegno preso da Dominique Strauss-Khan. Oggi, dopo il fallimento della Lehman Brothers, i due compari si ritrovano al capezzale dell’economia globale, cercando di tutelare gli interessi dell’oligarchia finanziaria sulla pelle dei popoli.



Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale. Sono passati tanti anni da quando tre immigrati ebrei di origine tedesca – i fratelli Henry, Immanuel e Mayer Lehman – costituirono a Montgomery (Alabama) la Lehman Brothers (1850). Non era ancora una banca, ma un negozio di tessuti. All’origine di ogni grande fortuna, c’è sempre un grande crimine. Gli economisti la chiamano accumulazione originaria.
La geniale intuizione dei fratelli Lehman fu quella di sfruttare l’economia schiavista degli Stati del sud facendosi pagare in cotone grezzo, che rivendevano al nord tramite la loro filiale di New York. Durante la guerra civile (1861-65), i fratelli Lehman erano schierati su entrambi i fronti, avendo una sede in Alabama ed una a Manhattan. Finita la guerra, lucrando sul finanziamento della ricostruzione, ampliarono i loro interessi al mercato del caffé, altra materia prima coltivata con l’impiego di schiavi africani. Infine entrarono nel business delle ferrovie e della consulenza finanziaria.

Il salto di qualità, per la famiglia Lehman, avvenne grazie all’alleanza con Goldman Sachs (1906). Entrarono in tutti i settori dell’economia americana, sopravvissero alla crisi del 1929, beneficiarono della seconda guerra mondiale, parteciparono alla grande espansione delle multinazionali americane nel dopoguerra. Negli anni in cui il mondo affrontava le crisi determinate dall’aumento del prezzo del petrolio, la Lehman Brothers raggiunse il suo apogeo, grazie alla fusione con due colossi della finanza americana: Kuhn Loeb (1975) ed American Express (1984). Il quartiere generale era a Manhattan, dove occupava tre piani della torre nord nel World Trade Center. Quel fatidico 11 settembre 2001, tra le 2.974 vittime dell’attentato terroristico, ci fu anche un suo dipendente. Una sola persona, contro le 295 vittime della Cantor Fitzgerald e le 175 della Aon Corporation, altre società che avevano sede nello stesso edificio. Pare che quel giorno, per pura casualità, molti manager fossero assenti. Quello della Lehman Brothers non è soltanto il fallimento di una prestigiosa banca globale, specializzata in finanza creativa.

È il crollo definitivo e irreversibile dell’american dream, un sogno diventato incubo. Quanto sta accadendo non è una crisi come le altre, ma è la fine di un’epoca, la fine del secolo americano. In poco più di cento anni, una colonia europea è divenuta potenza mondiale. Ha vinto due guerre, ha dominato il mondo, ha sconfitto il suo apparente antagonista, continua a minacciare nemici reali e immaginari con il suo apparato militare. È servita da modello per la società multirazziale, da banca centrale per l’economia globale, da quartiere generale della strategia sionista. Ha alimentato speranze ed illusioni, ma ormai è un sistema in frantumi, un dead man walking in attesa del colpo di grazia. Il fallimento della Lehman Brothers, con tutto quello che sta accadendo, può essere paragonato al crollo del muro di Berlino (1989), che anticipò di qualche anno lo scioglimento dell’URSS (1991) per implosione della sua economia. Questo spiega la preoccupazione dell’oligarchia, non tanto per le risorse finanziarie bruciate in questa ed altre crisi, quanto i suoi riflessi sistemici.

Non è in gioco l’economia globale, termine usato per indicare un progetto più che una realtà, ma la sopravvivenza degli apparati mondialisti come sistema di potere capace di gestire la crisi. Le soluzioni proposte, anche se verranno attuate, potranno solo ritardare il grande crac. Vediamole in sintesi, partendo dalle ragioni del crollo. Senza indagare sulle deficienze strutturali del sistema capitalista, accenniamo alla causa scatenante della crisi in atto. Si chiama finanza creativa. Consiste nel prestare denaro spalmando i rischi su una miriade di titoli complessi immessi sul mercato mobiliare. Il fine è lucrare interesse, sia sui mutui che sulla negoziazione dei titoli. Usura che genera usura, come in tutte le bolle speculative che sfociano in crac. Questa volta l’ondata malefica è partita dal settore immobiliare. Per facilitare l’acquisto di case, le banche offrivano mutui fino al 100% del valore dell’immobile. I titoli rappresentativi dei mutui venivano impacchettati, insieme ad altri titoli, in obbligazioni vendute sul mercato, con due vantaggi per le banche: trasferire ad altri operatori il rischio d’insolvenza dei propri clienti e rientrare subito del denaro prestato per erogare altri prestiti. Questo gioco sporco non poteva durare a lungo. Nell’estate 2007 il mercato si è accorto che molti mutuatari non avrebbero potuto restituire i soldi ricevuti, facendo crollare, non solo le obbligazioni che contenevano mutui inesigibili, ma anche altri titoli legati a valori immobiliari. Il capro espiatorio sono state le agenzie di rating, accusate di aver minimizzato il potenziale problema, ma ormai la finanza creativa era stata smascherata.



L’idea di spalmare il rischio trasferendolo ad altri, non riguardava solo i mutui immobiliari. Molti altri impieghi delle banche erano stati impacchettati in obbligazioni vendute sul mercato: prestiti per l’acquisto di auto, carte di credito, finanziamenti di fusioni e acquisizioni. Stavolta sul banco degli imputati è finita anche la Lehman Brothers, accusata di aver cucinato i libri contabili, cioè di aver nascosto 13 miliardi di crediti ormai inesigibili. Di fronte alla prospettiva del fallimento, sono emersi due possibili acquirenti, la Bank of America e la Barclays, i quali chiedevano al governo americano di sostenere la transazione con fondi federali, come aveva fatto con altre banche ed assicurazioni invischiate nel losco affare dei mutui subprime. Ci riferiamo a Fannie Mae e Freddie Mac, salvate con un piano di 200 miliardi di $, e all’American International Group (Aig), benficiaria di altri 85 miliardi di $. Ma il governo si è rifiutato, la Barclays ha ritirato la sua offerta e Bank of America ha preferito comprare Merrill Lynch. Così, alla prestigiosa Lehman Brothers, non è rimasta altra scelta che dichiarare il fallimento, scatenando il panico sui mercati finanziari. Passiamo ora ad analizzare le soluzioni prospettate. Il presidente della Federal Reserve, l’economista Ben Bernanke, ha studiato molto bene la crisi del 1929. La sua teoria è nota: per evitare una nuova grande depressione, la banca centrale può anche gettare pacchi di banconote con un elicottero. In sostanza, è quanto si vuole che avvenga.

Dieci grandi banche (Bank of America, Citibank, Barclays, Credit Suisse, Ubs, JpMorgan, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Morgan Stanley) hanno costituito un fondo di 70 miliardi di dollari per assicurarsi liquidità aggiuntiva. Il Tesoro americano ha varato il piano Paulson per 700 miliardi di dollari, al fine di acquistare i titoli senza valore di mercato dalle banche in difficoltà. Questi titoli saranno gestiti dal Tesoro stesso in piena autonomia, cioè assumendo gestori di fondi ed intermediari specializzati, ma soprattutto nella più totale impunità, cioè al riparo da eventuali azioni legali di risparmiatori e contribuenti. È dovuto intervenire George Bush per garantire il sostegno bipartisan al piano. In questa difficile congiuntura, come è avvenuto per tutto il secolo americano, gli USA hanno dapprima esportato la crisi e poi chiesto il sostegno degli altri Paesi attraverso le istituzioni finanziarie internazionali, costituite per sostenere i loro interessi imperialisti e trasformate progressivamente in agenti dell’oligarchia mondialista. Con queste premesse, è nata l’iniziativa di Dominique Strauss- Khan. In vista della prossima riunione del Fondo Monetario Internazionale, che si terrà a Washington nel mese di ottobre, ha chiesto agli Stati di fare, al loro interno ed a livello globale, ciò che stanno facendo gli USA.

L’intervento a breve termine dovrebbe essere così articolato: iniezione di nuova liquidità, acquisizione degli attivi inesigibili, apporto di capitali a vantaggio delle banche in crisi. Un’agenzia intergovernativa dovrebbe acquisire i crediti inesigibili e detenerli fino a quando non giungono a scadenza e possono essere rivenduti senza rischi. La soluzione proposta, da tutte queste persone di grande intelligenza, è fin troppo banale: ricapitalizzare il sistema finanziario col sostegno pubblico, sia a livello statale che mondiale. Lo Stato, questo vecchio arnese messo ai margini dell’economia dai profeti del liberismo, dovrebbe ora intervenire per salvare i profitti dei banchieri. La cooperazione internazionale, rimpiazzata dalla global governance dei poteri occulti, viene ora invocata per evitare il peggio. Resta da chiedersi perché il resto del mondo dovrebbe salvare dal crollo la civiltà americana. Alcuni invocano un vago senso di responsabilità globale, quello funzionale all’attuazione del progetto mondialista. Altri l’interdipendenza economica, quella imposta con la guerra permanente. Forse un nuovo conflitto mondiale, un attacco alla Russia o all’Iran, darebbe fiato all’economia USA, come avvenne nel 1939, a dieci anni dal crollo storico di Wall Street. La teoria tardoimperialista dello scontro di civiltà col mondo arabo e le operazioni militari contro presunte centrali del terrorismo islamico sono servite a poco. Ma il secolo americano è finito. L’oligarchia è seriamente in crisi. Al crollo simbolico della Lehman Brothers seguirà l’implosione di tutto il sistema. Il vero problema, nella teoria e nella prassi rivoluzionaria, non è stabilire tra quanti anni ciò avverrà e quanta moneta sarà bruciata nel prossimo grande crac, ma è capire quanti e quali uomini resteranno in piedi tra le rovine dell’utopia mercatista per costruire un vero socialismo.

Raffaele Ragni
Rinascita Campania