22 febbraio 2009

Politici...(pernacchia)... andate a casa

toto

Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?


La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.

Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.

Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.

Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.

Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".

I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).

Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.

Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.

Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.

È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.

I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.

Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.

Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.

di Naomi Klein

21 febbraio 2009

rimborsielettoraliey0

«Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di qua. «Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di là. Detto fatto, la destra e la sinistra un punto d'accordo al Senato l'hanno trovato: la donazione dei rimborsi elettorali anche ai partitini che alle Europee non arriveranno alla soglia del 4%.
Basterà che arrivino alla metà: il 2%. Crepi l'avarizia. Quando l'ha saputo, il democratico Gianclaudio Bressa è caduto dalle nuvole: «Trasecolo. Ma come è possibile?»
Era stato lui, due settimane fa, a mettersi di traverso a Montecitorio all'emendamento del tesoriere diessino Ugo Sposetti che puntava a distribuire soldi anche alle forze politiche che dovessero superare appena appena l'1%: «E mica l'avevo fatto di mia iniziativa. Avevo chiesto a Sposetti di lasciar perdere a nome del partito. Ed ero convinto che il partito...» In due settimane è cambiato tutto. Addio Sardegna, addio Soru, addio Veltroni. E se proprio era ormai impossibile ribaltare la scelta già votata e concordata con il Pdl per inserire lo sbarramento alle Europee al 4%, almeno un segnale alla sinistra rifondarola, verde, comunista e socialista per riaprire il dialogo i democratici hanno deciso di darlo. E cosa c'è di meglio di un contentino in denaro? Così ieri mattina, a palazzo Madama, quell'emendamento giudicato «inammissibile» dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, è rispuntato con le firme di due senatori democratrici (della sinistra) Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. E visto che anche il PdL voleva svelenire i rapporti con la Destra di Francesco Storace, il voto è stato trionfale. Avete presente gli insulti che volano ogni giorno dall'una all'altra parte degli schieramenti? Bene, stavolta tutti d'amore e d'accordo: 254 votanti, due astenuti (i radicali Marco Perduca e Donatella Poretti: l'astensione a Palazzo Madama equivale a una bocciatura) e nessun contrario. Manco uno.
Per carità, se dovesse essere tutto confermato alla Camera (ammesso che la soglia dei soldi non sia abbassata ancora...) andrà comunque meglio che alle Europee del 2004. Cinque anni fa non solo l'Ulivo prese di rimborsi elettorali sette volte più di quanto aveva dichiarato d'avere speso, i comunisti di Diliberto dodici e Rifondazione tredici. Ma la Fiamma Tricolore moltiplicò l'investimento per quasi 82 volte e il Partito dei pensionati addirittura per 180. Aveva investito in manifesti, comizi, spot, viaggi e volantini 16.435 euro e si ritrovò benedetto da un acquazzone di quasi tre milioni. Pari a 7 euro e 95 cent per ogni voto avuto.
Male che vada, queste perversioni dovrebbero stavolta essere evitate. L'anomalia italiana, però, resterà. E se cambierà (in parte) la distribuzione del pubblico denaro, non cambierà la somma complessiva da spartire. Somma che, rispetto agli altri paesi europei (non parliamo degli Stati Uniti dove ci sono finanziamenti solo per le «presidenziali», pari nel 2004 a neanche mezzo euro ad americano) è enormemente superiore. Basti dire che, secondo un dossier della Camera, le elezioni europee del 2004 sono costate di rimborsi ai partiti 42 centesimi a ogni francese, 86 a ogni italiano. Più, naturalmente, tutti gli altri soldi distribuiti dalla leggina votata nel luglio 2002 da una larghissima maggioranza trasversale e pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale tre giorni più tardi. Tre giorni: record planetario di velocità legislativa.
Riassumiamo? Le pubbliche casse danno ogni anno ai partiti 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Politiche alla Camera e più altri 50 per le Politiche al Senato, anche quando non ci sono. Non bastasse, un'ulteriore leggina del 2006 ha consentito come è noto la doppia razione di rimborsi per le «politiche » (cento milioni l'anno) per il 2008, 2009, 2010 e 2001 come se la vecchia legislatura non fosse mai naufragata.
Insomma, con tutto il rispetto per le difficoltà economiche dei piccoli partiti che vorrebbero legittimamente continuare a sventolare la loro bandierina, quella di ieri al Senato è una decisione assai lontana dalle scelte di altri paesi. I quali, per scoraggiare l'assalto di troppi partitini non solo non distribuiscono soldi a pioggia ma talora chiedono a chi presenta una lista alle elezioni addirittura un deposito cauzionale che perderà se non arriva a una certa soglia. Che a Malta arriva a uno stratosferico 10%.
Eppure, chi immagina che gli italiani resteranno perplessi si sbaglia: tutti, certamente no. A parte gli elettori di questo o quel partitino finanziariamente nei guai, hanno buoni motivi per esultare, ad esempio, i dipendenti della Camera. Il «ritocco» del finanziamento pubblico ai partiti rende meno vistose infatti altre due notizie date ieri dall'Ansa. La prima è che i 28 autisti e i 30 banconisti circa della buvette di Montecitorio si sono visti riconoscere dall'ufficio di presidenza (nel quadro di un riordino che dovrebbe portare entro il 2016 a una riduzione del personale) una cosa che aspettavano dal 1981: la promozione dal primo («operaio tecnico») al secondo livello («collaboratore tecnico») col risultato che, diventando graduati, peseranno sulla Camera per circa 700 mila euro in più l'anno.
E andranno a riposo con pensioni pari, in certi casi, a quelle di un docente universitario. Ma la notizia più stupefacente è la seconda: visto che al Senato non hanno mantenuto l'impegno di adottare per i dipendenti la «riforma Dini» (accettata solo per i neo-assunti), l'adeguamento concordato nella scorsa legislatura è stato cancellato: anche le pensioni di commessi, autisti, barbieri, segretari e dattilografi di Montecitorio assunti dopo il 2001 continueranno ad essere calcolate (quattordici anni dopo la svolta!) col vecchio sistema retributivo e non con quello contributivo usato per tutti gli altri italiani. E meno male che promettevano un taglio ai privilegi...


di Gian Antonio Stella

La nave dei folli

nave dei folli

Esiste vita intelligente a Washington, DC? Neanche un briciolo.
L’economia statunitense sta implodendo ed Obama si lascia traghettare verso il pantano dell’Afghanistan dal suo governo di neocon e agenti israeliani, evenienza che probabilmente causerà uno scontro con la Russia e forse anche con la Cina. La quale, non bisogna scordarlo, è il maggiore creditore degli Stati Uniti.

Le cifre dei libri paga di gennaio rivelano circa 20mila licenziamenti al giorno. In dicembre, la situazione era anche più nera del previsto (dai 524mila licenziamenti preventivati ai 577mila reali). Questa correzione fa arrivare l’ammontare di posti di lavoro perduti in due mesi a 1.175.000. Se si continua così, i 3 milioni di nuovi impieghi promessi da Obama saranno controbilanciati e cancellati dai licenziamenti di massa.

Secondo John Williams (esperto di statistica e curatore di
Shadowstats.com), queste titaniche cifre sono una sottostima della reale proporzione della crisi. Williams fa notare che gli errori di valutazione, intrinsechi nei fattori di correzione stagionali, hanno fatto sparire 118mila licenziamenti dai resoconti di gennaio: la cifra reale per quel mese raggiungerebbe i 716mila posti di lavoro perduti.
Ma le ricerche basate sui libri paga contano il numero di posti di lavoro, non il numero delle persone occupate. Queste due cifre non sono equivalenti, perché alcuni cittadini potrebbero avere più di un lavoro.

Al contrario, l’Household Survey (NdT: un enorme resoconto sulle condizioni economiche della nazione, condotto dall’equivalente americano del nostro ISTAT) conta il numero degli impiegati effettivi. Mostra che 832mila persone hanno perso il proprio lavoro a gennaio e 806mila a dicembre, per un totale di 1.638.000.
Il tasso di disoccupazione sciorinato dai media statunitensi è, quindi, un falso plateale. Williams spiega che negli anni dell’amministrazione Clinton, la categoria dei lavoratori "scoraggiati" (coloro che neanche cercavano più un lavoro) è stata ridefinita, in modo da entrare nelle statistiche solo quando lo "scoraggiamento" aveva una durata inferiore ad un anno. Questa limitazione temporale ha spazzato via dai documenti ufficiali la maggior parte di questi disoccupati senza speranza. Riaggregando questo segmento della popolazione alle statistiche attuali, ci rendiamo conto che la disoccupazione effettiva, a gennaio, ha raggiunto il 18%, con un aumento dello 0,5% rispetto al mese precedente.

savejobs-1In altre parole, se rimuoviamo dai dati ufficiali le manipolazioni di un governo che ci mente ogni volta che apre la bocca, constateremo che il livello di disoccupazione statunitense è sufficiente per dichiarare la nostra economia in stato di depressione.
E non potrebbe essere altrimenti, data l’enorme mole di posti di lavoro che è stata trasferita all’estero. Un governo è impossibilitato a creare nuovi posti di lavoro, se le sue aziende spostano all’estero gli impianti di produzione per i beni ed i servizi destinati al mercato interno. Spostando i processi produttivi all’estero, "cedono" ad altri stati delle fette del PIL nazionale. Il deficit nelle esportazioni che ne risulta ha, negli ultimi dieci anni, fatto crollare il PIL statunitense di 1,5 trilioni di dollari. Tradotto: un sacco di posti di lavoro.

Da anni parlo dei laureati costretti a fare la cameriera o il barista per sopravvivere. Man mano che una popolazione esponenzialmente indebitata continua a perdere posti di lavoro, sarà sempre meno incline a frequentare bar e ristoranti. E ciò significa che i laureati statunitensi non riusciranno a trovare nemmeno quei lavori che implicano il lavaggio di piatti o la preparazione di cocktail.
I legislatori hanno ignorato il fatto che, nel ventunesimo secolo, la domanda dei consumatori è stata principalmente alimentata dall’aumento dell’indebitamento, e non degli introiti. Questo fatto basilare ci mostra come sia inutile tentare di stimolare l’economia con vagonate di dollari dirette ai banchieri (per convincerli a prestare più denaro, s’intende). I consumatori americani non sono più nella condizione di chiedere prestiti.

Se sommiamo il crollo del valore dei loro principali asset (vale a dire le loro case), la distruzione di metà dei loro fondi pensionistici e la minaccia di un futuro di disoccupazione, ci rendiamo conto che gli americani non possono e non vogliono spendere.
Quindi, che senso ha offrire un ‘bailout’ a gruppi come la General Motors e la Citibank, che fanno il possibile per trasferire all’estero il maggior numero di operazioni?

È vero che gran parte delle infrastrutture statunitensi sono in pessime condizioni e hanno un gran bisogno di ristrutturazione, ma i lavori in questo settore non producono beni e servizi che possano essere esportati. L’impegno massiccio nel settore delle infrastrutture non cambia di una virgola il mostruoso deficit d’esportazione statunitense, il cui finanziamento inizia a rappresentare un grosso problema. Ancor di più, i posti di lavoro nel settore delle infrastrutture durano esattamente quanto la realizzazione delle stesse.
Nella migliore delle ipotesi, lo "stimolo" all’economia propugnato da Obama non farà altro che ridurre temporaneamente la disoccupazione, sempre che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro nel campo dell’edilizia non siano occupati da messicani.
A meno che le corporation statunitensi non siano costrette ad impiegare manodopera locale per produrre beni e servizi indirizzati ai mercati domestici, l’economia USA non ha futuro. Nessun membro dello staff di Obama è abbastanza intelligente da rendersene conto. Quindi, l’economia continuerà ad implodere.

Come se questa catastrofe in incubazione non bastasse, Obama si è fatto addirittura turlupinare dai suoi consiglieri neocon e militari. Ha deciso di espandere l’impegno bellico in Afghanistan, una vasta regione montagnosa. Il presidente intende sfruttare la riduzione delle truppe in Iraq per raddoppiare quelle presenti in Afghanistan. Nonostante questo, i 60mila soldati previsti non sarebbero comunque sufficienti. Dopotutto, sono meno della metà di quelli coinvolti nella fallimentare occupazione dell’Iraq. L’esercito ha preventivato che ci vorrebbero come minimo 600mila soldati per portare a termine la missione.

Per far fuori il regime di Bush, gli iraniani hanno dovuto tenere per le briglie i loro alleati sciiti, convincendoli ad usare le elezioni per guadagnarsi il potere ed usarlo per espellere gli americani. Ed è per questo motivo che, in Iraq, le truppe statunitensi hanno dovuto fronteggiare "solamente" l’insurrezione della minoranza sunnita. Ciononostante, gli occupanti sono riusciti a vincere (si fa per dire) non sul piano militare, ma a suon di banconote, sganciando dollari su dollari per convincere i rivoltosi a non combattere. L’accordo di ritiro delle truppe è stato dettato dagli sciiti. Non è quello che Bush avrebbe voluto.
Ci si aspetterebbe che l’esperienza della "passeggiata" in Iraq avrebbe reso gli Stati Uniti più cauti. Ed invece no, perché si sono gettati con maggior vigore nel tentativo di occupare l’Afghanistan, un’impresa che richiede inoltre la conquista di aree del Pakistan.



Per gli USA è stata dura mantenere 150mila soldati in Iraq. Obama necessita un altro mezzo milione di soldati per pacificare l’Afghanistan, da aggiungere a quelli già stanziati. Dove intende andare a pescarli?

Una risposta è l’imponente disoccupazione USA in rapido aumento. Gli americani metteranno la firma per andare ad uccidere all’estero piuttosto che restare senza casa e a stomaco vuoto in patria.

Ma questa è solo una mezza soluzione. Da dove attingere il denaro per sostenere sul campo un esercito di 650mila unità, di oltre quattro volte superiore al contingente USA in Iraq, una guerra che ci è costata tre trilioni di dollari di spese vive e sta già generando costi futuri? Questo denaro avrebbe dovuto sommarsi ai tre trilioni di dollari del deficit di bilancio, prodotto dal salvataggio del settore finanziario operato da Bush, dal pacchetto stimolo di Obama e dall’economia in rapido declino. Quando i sistemi economici entrano in crisi - come sta accadendo negli USA - il gettito fiscale collassa. Milioni di americani disoccupati non pagano i contributi della previdenza sociale, le polizze per l’assicurazione sanitaria e le imposte sul reddito. Le attività commerciali e le aziende che chiudono non versano le imposte statali e le imposte federali. I consumatori senza denaro o privi di accesso al credito non sborsano le imposte sulle vendite.

Gli Idioti di Washington, perché di idioti si tratta, non hanno pensato per un attimo a come finanziare il deficit di bilancio dell’anno contabile 2009, pari a circa due-tre trilioni di dollari. Il tasso di risparmio virtualmente inesistente non lo può finanziare. Il saldo attivo della bilancia commerciale dei nostri partner quali Cina, Giappone ed Arabia Saudita non lo può finanziare.
Pertanto, il governo USA dispone di due sole possibilità per far fronte al suo disavanzo. La prima, è costituita da un ulteriore crollo del mercato borsistico, che condurrebbe gli investitori sopravvissuti e le loro risorse residue ai buoni del Tesoro “sicuri”. L’altra sarebbe la monetizzazione del debito del Tesoro da parte della Federal Reserve.

La monetizzazione del debito implicherebbe l’acquisto da parte della Federal Reserve dei buoni del Tesoro qualora nessuno intendesse acquistarli o fosse in grado di farlo. Ciò avverrebbe tramite la creazione di depositi bancari per conto del Tesoro.

In altri termini, la Federal Reserve “stamperebbe denaro” con il quale acquistare i buoni del Tesoro.
Nel momento in cui si verificasse una tale evenienza, il dollaro USA cesserebbe di essere la valuta di riserva.
Inoltre la Cina, il Giappone e l’Arabia Saudita, paesi che detengono ingenti quote del debito del Tesoro statunitense, nonché altri asset in dollari USA, li venderebbero subito, nella speranza di salvarsi prima degli altri.

Il dollaro americano perderebbe ogni valore, al pari di una valuta da repubblica delle banane.
Gli Stati Uniti non sarebbero in grado di pagare le proprie importazioni, un problema questo particolarmente grave per un paese che dipende dalle importazioni per l’energia, i manufatti e i prodotti high-tech.

I consiglieri keynesiani di Obama hanno appreso con solerzia la lezione di Milton Friedman per il quale la Grande Depressione fu causata dalla Federal Reserve che permise una contrazione dell’offerta di valuta e di credito. Nel corso della Grande Depressione i debiti virtuosi furono azzerati dalla contrazione monetaria. Oggi i crediti inesigibili sono protetti dall’espansione della moneta e del credito ed il Tesoro USA sta mettendo a repentaglio la propria solvibilità e lo status di valuta di riserva del dollaro con aste trimestrali di ingenti quantità di bond all’apparenza interminabili.

Nel frattempo i russi, straripanti di energia e di risorse minerali e privi di debiti, hanno appreso di non potersi fidare del governo USA. La Russia ha osservato i tentativi dei successori di Reagan di trasformare le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica in stati marionetta in mano agli americani ed alle loro basi militari. Gli USA stanno cercando di accerchiare la Russia con missili che neutralizzino il deterrente strategico russo.

Putin ha guadagnato terreno nei confronti del “compagno lupo” [1].
Grazie alle manovre del presidente del Kirghizistan è riuscito a sfrattare dall’ex-repubblica sovietica la base militare statunitense, di vitale importanza per gli approvvigionamenti ai soldati di stanza in Afghanistan.

Per bloccare l’ingerenza americana nella sua sfera di influenza, il governo russo ha creato un’organizzazione per il trattato di sicurezza collettiva comprendente Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’Uzbekistan partecipa in modo parziale.
In buona sostanza, la Russia ha organizzato l’Asia Centrale contro la penetrazione americana.

A chi deve rispondere il Presidente Obama? Stephen J. Sniegoski, che scrive sulla versione inglese del settimanale svizzero Zeit-Fragen, riferisce che le figure chiave della cospirazione neocon – Richard Perle, Max Boot, David Brooks e Mona Charen – sarebbero in estasi per le nomine effettuate da Obama. Non vedono alcuna differenza tra Obama e Bush/Cheney.
Non soltanto i consiglieri di Obama lo stanno conducendo verso una guerra allargata in Afghanistan ma la potente lobby filoisraeliana starebbe spingendo Obama verso una guerra con l’Iran.
L’irrealtà nella quale il governo USA sta operando è da non credersi. Un governo in bancarotta che non può pagare i propri conti senza stampare nuova moneta si sta buttando a capofitto nelle guerre contro Afghanistan, Pakistan ed Iran. Secondo il Center for Strategic and Budgetary Analysis, il costo che i contribuenti americani devono sostenere per mandare un solo soldato a combattere in Iraq ammonta a 775.000 dollari l’anno.
Il mondo non ha mai visto una sconsideratezza così totale. Le invasioni della Russia da parte di Napoleone e di Hitler sono stati atti razionali se paragonate alla stupidità irragionevole del governo americano.
La guerra di Obama in Afghanistan è come il tè del Cappellaio Matto. Dopo sette anni di conflitto, non esiste ancora una missione ben definita o un obiettivo finale per il contingente USA in Afghanistan. Interpellato sulla missione, un ufficiale militare americano
ha detto a NBC News: «Francamente, non ne abbiamo una.» La NBC riferisce che «ci stanno lavorando».
Durante il suo discorso del 5 febbraio ai Democratici della Camera, il presidente Obama ha ammesso che il governo USA non conosce il motivo della missione in Afghanistan e che, per evitare «che la missione proceda a tentoni, senza parametri chiari», gli Stati Uniti «hanno bisogno di una missione chiara».
Cosa ne direste di essere mandati in una guerra il cui scopo è sconosciuto a tutti, ivi compreso al comandante in capo che vi ha spedito a uccidere o ad essere uccisi? Che ne pensate, cari contribuenti, del fatto di sostenere ingenti costi per inviare soldati in una missione non definita mentre l’economia va a rotoli?

Paul Craig Roberts

22 febbraio 2009

Politici...(pernacchia)... andate a casa

toto

Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?


La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.

Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.

Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.

Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.

Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".

I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).

Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.

Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.

Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.

È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.

I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.

Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.

Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.

di Naomi Klein

21 febbraio 2009

rimborsielettoraliey0

«Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di qua. «Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di là. Detto fatto, la destra e la sinistra un punto d'accordo al Senato l'hanno trovato: la donazione dei rimborsi elettorali anche ai partitini che alle Europee non arriveranno alla soglia del 4%.
Basterà che arrivino alla metà: il 2%. Crepi l'avarizia. Quando l'ha saputo, il democratico Gianclaudio Bressa è caduto dalle nuvole: «Trasecolo. Ma come è possibile?»
Era stato lui, due settimane fa, a mettersi di traverso a Montecitorio all'emendamento del tesoriere diessino Ugo Sposetti che puntava a distribuire soldi anche alle forze politiche che dovessero superare appena appena l'1%: «E mica l'avevo fatto di mia iniziativa. Avevo chiesto a Sposetti di lasciar perdere a nome del partito. Ed ero convinto che il partito...» In due settimane è cambiato tutto. Addio Sardegna, addio Soru, addio Veltroni. E se proprio era ormai impossibile ribaltare la scelta già votata e concordata con il Pdl per inserire lo sbarramento alle Europee al 4%, almeno un segnale alla sinistra rifondarola, verde, comunista e socialista per riaprire il dialogo i democratici hanno deciso di darlo. E cosa c'è di meglio di un contentino in denaro? Così ieri mattina, a palazzo Madama, quell'emendamento giudicato «inammissibile» dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, è rispuntato con le firme di due senatori democratrici (della sinistra) Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. E visto che anche il PdL voleva svelenire i rapporti con la Destra di Francesco Storace, il voto è stato trionfale. Avete presente gli insulti che volano ogni giorno dall'una all'altra parte degli schieramenti? Bene, stavolta tutti d'amore e d'accordo: 254 votanti, due astenuti (i radicali Marco Perduca e Donatella Poretti: l'astensione a Palazzo Madama equivale a una bocciatura) e nessun contrario. Manco uno.
Per carità, se dovesse essere tutto confermato alla Camera (ammesso che la soglia dei soldi non sia abbassata ancora...) andrà comunque meglio che alle Europee del 2004. Cinque anni fa non solo l'Ulivo prese di rimborsi elettorali sette volte più di quanto aveva dichiarato d'avere speso, i comunisti di Diliberto dodici e Rifondazione tredici. Ma la Fiamma Tricolore moltiplicò l'investimento per quasi 82 volte e il Partito dei pensionati addirittura per 180. Aveva investito in manifesti, comizi, spot, viaggi e volantini 16.435 euro e si ritrovò benedetto da un acquazzone di quasi tre milioni. Pari a 7 euro e 95 cent per ogni voto avuto.
Male che vada, queste perversioni dovrebbero stavolta essere evitate. L'anomalia italiana, però, resterà. E se cambierà (in parte) la distribuzione del pubblico denaro, non cambierà la somma complessiva da spartire. Somma che, rispetto agli altri paesi europei (non parliamo degli Stati Uniti dove ci sono finanziamenti solo per le «presidenziali», pari nel 2004 a neanche mezzo euro ad americano) è enormemente superiore. Basti dire che, secondo un dossier della Camera, le elezioni europee del 2004 sono costate di rimborsi ai partiti 42 centesimi a ogni francese, 86 a ogni italiano. Più, naturalmente, tutti gli altri soldi distribuiti dalla leggina votata nel luglio 2002 da una larghissima maggioranza trasversale e pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale tre giorni più tardi. Tre giorni: record planetario di velocità legislativa.
Riassumiamo? Le pubbliche casse danno ogni anno ai partiti 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Politiche alla Camera e più altri 50 per le Politiche al Senato, anche quando non ci sono. Non bastasse, un'ulteriore leggina del 2006 ha consentito come è noto la doppia razione di rimborsi per le «politiche » (cento milioni l'anno) per il 2008, 2009, 2010 e 2001 come se la vecchia legislatura non fosse mai naufragata.
Insomma, con tutto il rispetto per le difficoltà economiche dei piccoli partiti che vorrebbero legittimamente continuare a sventolare la loro bandierina, quella di ieri al Senato è una decisione assai lontana dalle scelte di altri paesi. I quali, per scoraggiare l'assalto di troppi partitini non solo non distribuiscono soldi a pioggia ma talora chiedono a chi presenta una lista alle elezioni addirittura un deposito cauzionale che perderà se non arriva a una certa soglia. Che a Malta arriva a uno stratosferico 10%.
Eppure, chi immagina che gli italiani resteranno perplessi si sbaglia: tutti, certamente no. A parte gli elettori di questo o quel partitino finanziariamente nei guai, hanno buoni motivi per esultare, ad esempio, i dipendenti della Camera. Il «ritocco» del finanziamento pubblico ai partiti rende meno vistose infatti altre due notizie date ieri dall'Ansa. La prima è che i 28 autisti e i 30 banconisti circa della buvette di Montecitorio si sono visti riconoscere dall'ufficio di presidenza (nel quadro di un riordino che dovrebbe portare entro il 2016 a una riduzione del personale) una cosa che aspettavano dal 1981: la promozione dal primo («operaio tecnico») al secondo livello («collaboratore tecnico») col risultato che, diventando graduati, peseranno sulla Camera per circa 700 mila euro in più l'anno.
E andranno a riposo con pensioni pari, in certi casi, a quelle di un docente universitario. Ma la notizia più stupefacente è la seconda: visto che al Senato non hanno mantenuto l'impegno di adottare per i dipendenti la «riforma Dini» (accettata solo per i neo-assunti), l'adeguamento concordato nella scorsa legislatura è stato cancellato: anche le pensioni di commessi, autisti, barbieri, segretari e dattilografi di Montecitorio assunti dopo il 2001 continueranno ad essere calcolate (quattordici anni dopo la svolta!) col vecchio sistema retributivo e non con quello contributivo usato per tutti gli altri italiani. E meno male che promettevano un taglio ai privilegi...


di Gian Antonio Stella

La nave dei folli

nave dei folli

Esiste vita intelligente a Washington, DC? Neanche un briciolo.
L’economia statunitense sta implodendo ed Obama si lascia traghettare verso il pantano dell’Afghanistan dal suo governo di neocon e agenti israeliani, evenienza che probabilmente causerà uno scontro con la Russia e forse anche con la Cina. La quale, non bisogna scordarlo, è il maggiore creditore degli Stati Uniti.

Le cifre dei libri paga di gennaio rivelano circa 20mila licenziamenti al giorno. In dicembre, la situazione era anche più nera del previsto (dai 524mila licenziamenti preventivati ai 577mila reali). Questa correzione fa arrivare l’ammontare di posti di lavoro perduti in due mesi a 1.175.000. Se si continua così, i 3 milioni di nuovi impieghi promessi da Obama saranno controbilanciati e cancellati dai licenziamenti di massa.

Secondo John Williams (esperto di statistica e curatore di
Shadowstats.com), queste titaniche cifre sono una sottostima della reale proporzione della crisi. Williams fa notare che gli errori di valutazione, intrinsechi nei fattori di correzione stagionali, hanno fatto sparire 118mila licenziamenti dai resoconti di gennaio: la cifra reale per quel mese raggiungerebbe i 716mila posti di lavoro perduti.
Ma le ricerche basate sui libri paga contano il numero di posti di lavoro, non il numero delle persone occupate. Queste due cifre non sono equivalenti, perché alcuni cittadini potrebbero avere più di un lavoro.

Al contrario, l’Household Survey (NdT: un enorme resoconto sulle condizioni economiche della nazione, condotto dall’equivalente americano del nostro ISTAT) conta il numero degli impiegati effettivi. Mostra che 832mila persone hanno perso il proprio lavoro a gennaio e 806mila a dicembre, per un totale di 1.638.000.
Il tasso di disoccupazione sciorinato dai media statunitensi è, quindi, un falso plateale. Williams spiega che negli anni dell’amministrazione Clinton, la categoria dei lavoratori "scoraggiati" (coloro che neanche cercavano più un lavoro) è stata ridefinita, in modo da entrare nelle statistiche solo quando lo "scoraggiamento" aveva una durata inferiore ad un anno. Questa limitazione temporale ha spazzato via dai documenti ufficiali la maggior parte di questi disoccupati senza speranza. Riaggregando questo segmento della popolazione alle statistiche attuali, ci rendiamo conto che la disoccupazione effettiva, a gennaio, ha raggiunto il 18%, con un aumento dello 0,5% rispetto al mese precedente.

savejobs-1In altre parole, se rimuoviamo dai dati ufficiali le manipolazioni di un governo che ci mente ogni volta che apre la bocca, constateremo che il livello di disoccupazione statunitense è sufficiente per dichiarare la nostra economia in stato di depressione.
E non potrebbe essere altrimenti, data l’enorme mole di posti di lavoro che è stata trasferita all’estero. Un governo è impossibilitato a creare nuovi posti di lavoro, se le sue aziende spostano all’estero gli impianti di produzione per i beni ed i servizi destinati al mercato interno. Spostando i processi produttivi all’estero, "cedono" ad altri stati delle fette del PIL nazionale. Il deficit nelle esportazioni che ne risulta ha, negli ultimi dieci anni, fatto crollare il PIL statunitense di 1,5 trilioni di dollari. Tradotto: un sacco di posti di lavoro.

Da anni parlo dei laureati costretti a fare la cameriera o il barista per sopravvivere. Man mano che una popolazione esponenzialmente indebitata continua a perdere posti di lavoro, sarà sempre meno incline a frequentare bar e ristoranti. E ciò significa che i laureati statunitensi non riusciranno a trovare nemmeno quei lavori che implicano il lavaggio di piatti o la preparazione di cocktail.
I legislatori hanno ignorato il fatto che, nel ventunesimo secolo, la domanda dei consumatori è stata principalmente alimentata dall’aumento dell’indebitamento, e non degli introiti. Questo fatto basilare ci mostra come sia inutile tentare di stimolare l’economia con vagonate di dollari dirette ai banchieri (per convincerli a prestare più denaro, s’intende). I consumatori americani non sono più nella condizione di chiedere prestiti.

Se sommiamo il crollo del valore dei loro principali asset (vale a dire le loro case), la distruzione di metà dei loro fondi pensionistici e la minaccia di un futuro di disoccupazione, ci rendiamo conto che gli americani non possono e non vogliono spendere.
Quindi, che senso ha offrire un ‘bailout’ a gruppi come la General Motors e la Citibank, che fanno il possibile per trasferire all’estero il maggior numero di operazioni?

È vero che gran parte delle infrastrutture statunitensi sono in pessime condizioni e hanno un gran bisogno di ristrutturazione, ma i lavori in questo settore non producono beni e servizi che possano essere esportati. L’impegno massiccio nel settore delle infrastrutture non cambia di una virgola il mostruoso deficit d’esportazione statunitense, il cui finanziamento inizia a rappresentare un grosso problema. Ancor di più, i posti di lavoro nel settore delle infrastrutture durano esattamente quanto la realizzazione delle stesse.
Nella migliore delle ipotesi, lo "stimolo" all’economia propugnato da Obama non farà altro che ridurre temporaneamente la disoccupazione, sempre che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro nel campo dell’edilizia non siano occupati da messicani.
A meno che le corporation statunitensi non siano costrette ad impiegare manodopera locale per produrre beni e servizi indirizzati ai mercati domestici, l’economia USA non ha futuro. Nessun membro dello staff di Obama è abbastanza intelligente da rendersene conto. Quindi, l’economia continuerà ad implodere.

Come se questa catastrofe in incubazione non bastasse, Obama si è fatto addirittura turlupinare dai suoi consiglieri neocon e militari. Ha deciso di espandere l’impegno bellico in Afghanistan, una vasta regione montagnosa. Il presidente intende sfruttare la riduzione delle truppe in Iraq per raddoppiare quelle presenti in Afghanistan. Nonostante questo, i 60mila soldati previsti non sarebbero comunque sufficienti. Dopotutto, sono meno della metà di quelli coinvolti nella fallimentare occupazione dell’Iraq. L’esercito ha preventivato che ci vorrebbero come minimo 600mila soldati per portare a termine la missione.

Per far fuori il regime di Bush, gli iraniani hanno dovuto tenere per le briglie i loro alleati sciiti, convincendoli ad usare le elezioni per guadagnarsi il potere ed usarlo per espellere gli americani. Ed è per questo motivo che, in Iraq, le truppe statunitensi hanno dovuto fronteggiare "solamente" l’insurrezione della minoranza sunnita. Ciononostante, gli occupanti sono riusciti a vincere (si fa per dire) non sul piano militare, ma a suon di banconote, sganciando dollari su dollari per convincere i rivoltosi a non combattere. L’accordo di ritiro delle truppe è stato dettato dagli sciiti. Non è quello che Bush avrebbe voluto.
Ci si aspetterebbe che l’esperienza della "passeggiata" in Iraq avrebbe reso gli Stati Uniti più cauti. Ed invece no, perché si sono gettati con maggior vigore nel tentativo di occupare l’Afghanistan, un’impresa che richiede inoltre la conquista di aree del Pakistan.



Per gli USA è stata dura mantenere 150mila soldati in Iraq. Obama necessita un altro mezzo milione di soldati per pacificare l’Afghanistan, da aggiungere a quelli già stanziati. Dove intende andare a pescarli?

Una risposta è l’imponente disoccupazione USA in rapido aumento. Gli americani metteranno la firma per andare ad uccidere all’estero piuttosto che restare senza casa e a stomaco vuoto in patria.

Ma questa è solo una mezza soluzione. Da dove attingere il denaro per sostenere sul campo un esercito di 650mila unità, di oltre quattro volte superiore al contingente USA in Iraq, una guerra che ci è costata tre trilioni di dollari di spese vive e sta già generando costi futuri? Questo denaro avrebbe dovuto sommarsi ai tre trilioni di dollari del deficit di bilancio, prodotto dal salvataggio del settore finanziario operato da Bush, dal pacchetto stimolo di Obama e dall’economia in rapido declino. Quando i sistemi economici entrano in crisi - come sta accadendo negli USA - il gettito fiscale collassa. Milioni di americani disoccupati non pagano i contributi della previdenza sociale, le polizze per l’assicurazione sanitaria e le imposte sul reddito. Le attività commerciali e le aziende che chiudono non versano le imposte statali e le imposte federali. I consumatori senza denaro o privi di accesso al credito non sborsano le imposte sulle vendite.

Gli Idioti di Washington, perché di idioti si tratta, non hanno pensato per un attimo a come finanziare il deficit di bilancio dell’anno contabile 2009, pari a circa due-tre trilioni di dollari. Il tasso di risparmio virtualmente inesistente non lo può finanziare. Il saldo attivo della bilancia commerciale dei nostri partner quali Cina, Giappone ed Arabia Saudita non lo può finanziare.
Pertanto, il governo USA dispone di due sole possibilità per far fronte al suo disavanzo. La prima, è costituita da un ulteriore crollo del mercato borsistico, che condurrebbe gli investitori sopravvissuti e le loro risorse residue ai buoni del Tesoro “sicuri”. L’altra sarebbe la monetizzazione del debito del Tesoro da parte della Federal Reserve.

La monetizzazione del debito implicherebbe l’acquisto da parte della Federal Reserve dei buoni del Tesoro qualora nessuno intendesse acquistarli o fosse in grado di farlo. Ciò avverrebbe tramite la creazione di depositi bancari per conto del Tesoro.

In altri termini, la Federal Reserve “stamperebbe denaro” con il quale acquistare i buoni del Tesoro.
Nel momento in cui si verificasse una tale evenienza, il dollaro USA cesserebbe di essere la valuta di riserva.
Inoltre la Cina, il Giappone e l’Arabia Saudita, paesi che detengono ingenti quote del debito del Tesoro statunitense, nonché altri asset in dollari USA, li venderebbero subito, nella speranza di salvarsi prima degli altri.

Il dollaro americano perderebbe ogni valore, al pari di una valuta da repubblica delle banane.
Gli Stati Uniti non sarebbero in grado di pagare le proprie importazioni, un problema questo particolarmente grave per un paese che dipende dalle importazioni per l’energia, i manufatti e i prodotti high-tech.

I consiglieri keynesiani di Obama hanno appreso con solerzia la lezione di Milton Friedman per il quale la Grande Depressione fu causata dalla Federal Reserve che permise una contrazione dell’offerta di valuta e di credito. Nel corso della Grande Depressione i debiti virtuosi furono azzerati dalla contrazione monetaria. Oggi i crediti inesigibili sono protetti dall’espansione della moneta e del credito ed il Tesoro USA sta mettendo a repentaglio la propria solvibilità e lo status di valuta di riserva del dollaro con aste trimestrali di ingenti quantità di bond all’apparenza interminabili.

Nel frattempo i russi, straripanti di energia e di risorse minerali e privi di debiti, hanno appreso di non potersi fidare del governo USA. La Russia ha osservato i tentativi dei successori di Reagan di trasformare le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica in stati marionetta in mano agli americani ed alle loro basi militari. Gli USA stanno cercando di accerchiare la Russia con missili che neutralizzino il deterrente strategico russo.

Putin ha guadagnato terreno nei confronti del “compagno lupo” [1].
Grazie alle manovre del presidente del Kirghizistan è riuscito a sfrattare dall’ex-repubblica sovietica la base militare statunitense, di vitale importanza per gli approvvigionamenti ai soldati di stanza in Afghanistan.

Per bloccare l’ingerenza americana nella sua sfera di influenza, il governo russo ha creato un’organizzazione per il trattato di sicurezza collettiva comprendente Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’Uzbekistan partecipa in modo parziale.
In buona sostanza, la Russia ha organizzato l’Asia Centrale contro la penetrazione americana.

A chi deve rispondere il Presidente Obama? Stephen J. Sniegoski, che scrive sulla versione inglese del settimanale svizzero Zeit-Fragen, riferisce che le figure chiave della cospirazione neocon – Richard Perle, Max Boot, David Brooks e Mona Charen – sarebbero in estasi per le nomine effettuate da Obama. Non vedono alcuna differenza tra Obama e Bush/Cheney.
Non soltanto i consiglieri di Obama lo stanno conducendo verso una guerra allargata in Afghanistan ma la potente lobby filoisraeliana starebbe spingendo Obama verso una guerra con l’Iran.
L’irrealtà nella quale il governo USA sta operando è da non credersi. Un governo in bancarotta che non può pagare i propri conti senza stampare nuova moneta si sta buttando a capofitto nelle guerre contro Afghanistan, Pakistan ed Iran. Secondo il Center for Strategic and Budgetary Analysis, il costo che i contribuenti americani devono sostenere per mandare un solo soldato a combattere in Iraq ammonta a 775.000 dollari l’anno.
Il mondo non ha mai visto una sconsideratezza così totale. Le invasioni della Russia da parte di Napoleone e di Hitler sono stati atti razionali se paragonate alla stupidità irragionevole del governo americano.
La guerra di Obama in Afghanistan è come il tè del Cappellaio Matto. Dopo sette anni di conflitto, non esiste ancora una missione ben definita o un obiettivo finale per il contingente USA in Afghanistan. Interpellato sulla missione, un ufficiale militare americano
ha detto a NBC News: «Francamente, non ne abbiamo una.» La NBC riferisce che «ci stanno lavorando».
Durante il suo discorso del 5 febbraio ai Democratici della Camera, il presidente Obama ha ammesso che il governo USA non conosce il motivo della missione in Afghanistan e che, per evitare «che la missione proceda a tentoni, senza parametri chiari», gli Stati Uniti «hanno bisogno di una missione chiara».
Cosa ne direste di essere mandati in una guerra il cui scopo è sconosciuto a tutti, ivi compreso al comandante in capo che vi ha spedito a uccidere o ad essere uccisi? Che ne pensate, cari contribuenti, del fatto di sostenere ingenti costi per inviare soldati in una missione non definita mentre l’economia va a rotoli?

Paul Craig Roberts