02 marzo 2009

Rifiuti tecnologici: una odissea di traffici illeciti

 



Ogni giorno sul pianeta vengono prodotte milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici, fonti di inquinamento e simboli di spreco. Le normative europee (e non solo) prevedono smaltimento controllato e recupero dei materiali riciclabili. Eppure, ogni giorno, enormi quantità di elettronica di scarto raggiungono illegalmente mercati o discariche a cielo aperto in Africa e Asia.



 




Giorno dopo giorno si accumulano milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici

I progressi tecnologici sono continui e costanti. Quotidianamente si affacciano sul mercato dispositivi elettronici più moderni, complessi e dalle maggiori potenzialità. Ma la corsa all’acquisto del prodotto ultimo-grido o dalle prestazioni migliori si porta dietro come conseguenza inevitabile lo scarto di quello precedentemente in uso.

 


Ed è così che giorno dopo giorno si accumulano milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici: piaga non trascurabile del nostro tempo. Secondo le stime elaborate dall’ONU, le apparecchiature elettriche ed elettroniche gettate via ogni anno ammontano a 20-50 milioni di tonnellate e crescono in quantità con un tasso del 3-5% annuo, tre volte superiore a quello dei rifiuti normali.


Ma dove vanno a finire computer e televisori dinosauro? Che ne è degli elettrodomestici attempati scaricati a favore del gioiello dell’ultimo minuto?


Qualche giorno fa l’associazione ambientalista Greenpeace ha reso pubblici i risultati dell’ultima indagine da essa condotta sul destino dei rifiuti tecnologici: un televisore rotto, consegnato in Gran Bretagna ad un’azienda che si sarebbe dovuta interessare dello smaltimento, è passato invece di mano e ha preso la via della Nigeria, su una nave ultra-carica di apparecchiature di seconda mano o del tutto inutilizzabili.


Ciò che è stato scoperto conferma quanto già emerso in precedenti investigazioni: i prodotti destinati allo sfascio, anziché essere smaltiti secondo il dovuto protocollo ed eventualmente parzialmente recuperati, si avviano attraverso traffici illeciti in direzione di paesi del sud del mondo, dove vengono rivenduti come beni usati, ma più spesso semplicemente depositati in immense discariche a cielo aperto ai margini dei villaggi e dei sobborghi poveri. Qui gente del posto, per lo più ragazzi se non bambini, pur di guadagnare qualche soldo per la sopravvivenza, si dedica al recupero dei componenti riciclabili, intervenendo senza alcuna precauzione sanitaria.




I prodotti destinati allo sfascio si avviano attraverso traffici illeciti in direzione di paesi del sud del mondo

 


La maggior parte delle apparecchiature elettroniche che popolano il nostro quotidiano (impiegate per l’informatica, le telecomunicazioni, lo svago, la pulizia della casa) contengono sostanze altamente nocive, in particolare metalli come piombo, rame, alluminio e cadmio. Quando vengono destinate alla distruzione, sono classificate come rifiuti pericolosi e non possono seguire l’iter normale di demolizione, bensì devono essere sottoposte ad interventi speciali.


Nelle discariche del sud del mondo, invece, i lavoratori operano a mani nude, sventrano le apparecchiature, bruciano gli involucri e le plastiche - diffondendo così fumi neri altamente nocivi che respirano sistematicamente -, sottraggono i componenti da rivendere e lasciano i resti sul luogo. Le conseguenze sono gravissimi danni alla salute dei ragazzi che operano direttamente sui rifiuti, nonché inquinamento del suolo, dell’aria e spesso anche dell’acqua (se i veleni penetrano nel terreno fino a raggiungere le falde acquifere).


Quando, qualche anno fa, la realtà dei paesi in via di sviluppo adibiti a pattumiera del mondo “civile” iniziò a saltare all’occhio, il nord del mondo prese a dotarsi di leggi che impedissero i traffici di rifiuti tecnologici (denominati RAEE, ossia Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) e lo smaltimento al di fuori dei confini del paese o della federazione di stati. Queste normative, però, vengono spesso eluse e i dispositivi destinati alla distruzione riescono a compiere viaggi illegali.


Greenpeace dichiara che al giorno d’oggi “si perdono le tracce del 75% dei rifiuti tecnologici prodotti nell’Unione Europea e di oltre l’80% di quelli originati negli Stati Uniti. Se anche una parte di essi è ancora nelle case, nelle cantine e nei garage, o viene smaltito in discarica o inceneritore, una buona parte viene esportata – spesso illegalmente – per finire in discariche incontrollate in Africa oppure a riciclatori clandestini in Asia”.




Ragazzi e bambini, pur di guadagnare qualche soldo per la sopravvivenza, si dedicano al recupero dei componenti riciclabili, intervenendo senza alcuna precauzione sanitaria

 


Le destinazioni più frequenti delle navi che trasportano dispositivi elettrici ed elettronici di scarto sono il Ghana, la Nigeria, il Pakistan, la Cina e l’India. Greenpeace, in anni di inchieste svolte in tali terre, ha raccolto testimonianze e documenti filmati shockanti ed illuminanti allo stesso tempo.


In Italia, considerando che si producono annualmente più di 800.000 tonnellate di RAEE, e se ne raccolgono circa 110.000, si può concludere che non si ha notizia delle sorti di almeno l’85% dei rifiuti elettronici prodotti nel nostro paese.


Nell’Unione Europea lo smaltimento dei RAEE è regolato da varie direttive, che sono state recepite dall’Italia nel decreto legislativo 151 del 25 luglio 2005. La legge, entrata in vigore il primo gennaio 2008, sposta il compito di occuparsi di tali rifiuti dagli organismi comunali agli stessi produttori, che sono così diventati responsabili delle proprie apparecchiature anche al termine della loro vita commerciale sul mercato o nelle case dei consumatori. I produttori hanno l’obbligo di iscriversi in un apposito registro e di costituirsi in un sistema collettivo o consortile che si occupi di raccolta, trasporto, stoccaggio, disassemblaggio, riciclaggio e smaltimento dei rifiuti hi-tech.


Purtroppo, però, la legislazione è tuttora carente di alcuni decreti attuativi, che sono fondamentali affinché la legge sia tradotta in pratica e non resti mera norma virtuale. Particolarmente necessario e atteso è il cosiddetto “Decreto Semplificazioni”, che obbligherà i rivenditori a ritirare gratuitamente l’apparecchio dismesso nel momento in cui il cliente ne acquisti uno nuovo (secondo il principio dell’uno a uno, ossia “prendo uno, lascio uno”). La pubblicazione di tale documento era prevista per la fine del febbraio 2008, ma ha subito una serie di rinvii ed oggi, ad un anno di distanza, risulta ancora non effettuata.




In Italia particolarmente necessario e atteso è il cosiddetto “Decreto Semplificazioni”

 


Nel nostro Paese esistono 9 consorzi per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti tecnologici, coordinati dall’Associazione Nazionale Italiana dei produttori di apparecchiature Elettroniche (ANIE), la quale fa capo a Confindustria. I consorzi sono amministrati dagli stessi produttori che li costituiscono (e ne sono, dunque, soci). Essi sono operativi ed alcuni, come ReMedia, Ecoelit ed Ecolamp, vantano una notevole attività. Al momento, però, ci si può affidare solo al senso civico del singolo cittadino che, obbligato a distinguere i rifiuti pericolosi da quelli tradizionali, abbia la buona volontà di depositare l’apparecchio elettrico o elettronico presso l’opportuna isola ecologica (o contattare personalmente l’azienda che si occupa del recupero).


E’ auspicabile che il Ministro dell’ambiente vari al più presto il “Decreto Semplificazioni”, anche in virtù del ritorno sulla stampa del tema in virtù dell’inchiesta pubblicata da Greenpeace.


Ma è anche opportuno che le aziende produttrici di dispositivi hi-tech investano di più nella ricerca, al fine di realizzare apparati che non impieghino materiali tossici o eccessivamente inquinanti, perché – come ancora diciamo e ripeteremo sempre - non produrre è meglio che riciclare o smaltire in maniera controllata.


di Virginia Greco


01 marzo 2009

Castelli di finanza

Ovvero: come centinaia di migliaia di cittadini italiani, in gran parte ancora ignari, verranno chiamati dai Tribunali italiani a pagare le perdite purimiliardarie degli squali di Wall Street. Tutti abbiamo saputo dei cosiddetti “Mutui subprime” americani, che sono stati una delle basi della crisi finanziaria planetaria dovuta alla finanza tossica. Le banche e le società finanziarie americane concedevano un mutuo per la casa a soggetti che difficilmente potevano poi pagarlo, ma in questo modo creavano un credito certo ed esigibile, coperto da una garanzia immobiliare. Questo “credito certo” veniva poi utilizzato come base per emettere altri titoli di credito (i famosi Derivati o Hedge Fund) che con le cosiddette prassi dell’ingegneria finanziaria veniva moltiplicato all’infinito. A dire che su un “credito certo” ad esempio di 100.000$ (il mutuo) si garantivano cinquanta e cento volte tanto di Derivati ed Hedge Fund. banca1_magazine-il-fondo Quando il castello finanziario è cominciato a franare, e si andati dal povero cristo a cui avevano fatto il mutuo, tutto è crollato. Tranquilli, ci dice il governo italiano. Le banche italiane sono solide e giudiziose, non hanno fatto mutui subprime e “finanza creativa”. E’ vero che per salvarle dal disastro della crisi planetaria lo Stato gli ha regalato miliardi di Euro dei contribuenti (sulla cifra vera c’è il segreto di Stato), è vero che le banche si sono incamerati questi soldi e stanno strozzando l’economia reale negando il credito alle imprese, ma sono quisquilie, pinzellacchere. Voi state tranquilli. Tutto prende le mosse dalla legge 130/1999 fatta dal governo D’Alema, quella delle “cartolarizzazioni”. Le banche nel loro complesso avevano, dopo la crisi del 1992 (uscita dallo SME per le operazioni speculative contro la lira organizzate dal celebre finanziere Soros attraverso il “Quantum Fund”, con conseguente svalutazione della lira, crisi economica etc) avevano migliaia di miliardi di crediti ipotecari e chirografari di difficile se non impossibile esigibilità. Con la legge 130/1999 gli si consentiva di vendere questi crediti a terzi (appunto la “cartolarizzazione”) e di mettere in perdita la differenza fra il credito vantato (ad esempio 100.000€) e il prezzo di cessione del credito (ad esempio 40.000€), defalcando dall’imponibile fiscale i 60.000€. Mentre prima il credito “certo e libero” andava dimostrato in tribunale per poter agire contro il debitore ora diventava “certo e libero” su semplice dichiarazione della Banca. Mentre prima era vietato cedere un credito a terzi senza il consenso del debitore ora si poteva cedere questo credito all’insaputa del debitore (con un semplice annuncio in Gazzetta Ufficiale (la Banca X ha ceduto i suoi crediti alla Società Y). E a chi li vendevano questi crediti “certi e liberi” le banche? A se stesse. Tutte le banche crearono delle Srl con capitale di venti milioni alle quali vendettero crediti per migliaia di miliardi di lire, gli ipotecari al 40% del loro valore nominale, i chirografari al 10% del loro valore nominale. E come pagarono questi crediti le Srl? Con delle “obbligazioni”, cioè con delle “promesse di pagamento”, cioè con delle “cambiali” (nobilitate anche col nome di Derivati ed Hedge Fund, appunto). Cambiali che erano garantite dal credito acquistato e che rimaneva al 100% nei riguardi dell’ignaro debitore. Capito il meccanismo? Le banche vendettero a se stesse i crediti sottraendo al fisco il 40% o il 90% dell’imponibile, ma il credito rimaneva al 100% “certo e libero” in quota a una società di proprietà della stessa banca, che però non ci pagava le tasse perchè a bilancio questo “attivo” si sottraeva il “passivo” delle obbligazioni emesse. Ma attenzione: le banche avevano già recuperato fiscalmente questi crediti poiché aveva già conseguito il beneficio degli ammortamenti attraverso il dispositivo degli accantonamenti annuali al fondo di svalutazione crediti e al fondo di rischio. Di quanto? Diciamo mediamente del 70% (accantonamento del 5% annuo sul Fondo Svalutazione Crediti (FSV) e di un altro 5% annuo sul Fondo Rischio Crediti (FRC). E, di che cifre stiamo parlando? Le operazioni di cartolarizzazione a partire dal 1999 sono state attuate dalle maggiori banche nazionali, per un ammontare stimato di oltre 300 miliardi di euro, pari a circa 580.000 miliardi di lire, con elusione fiscale derivata che ha aperto una voragine nei conti pubblici di almeno 150 miliardi di euro, pari a 290.000 miliardi di lire. Prima fra tante, la Banca di Roma s.p.a. che nel 1999 ha cartolarizzato oltre 20.000 miliardi di crediti con i multipli delle società da essa controllate Trevi Finance s.p.a. - Trevi 1 e Trevi 2, seguita a ruota dalla Banca Nazionale del Lavoro, che ha ceduto i propri crediti alla S.V.P. Venezia s.p.a. e alla Aeres Finance, che insieme al Banco di Napoli, hanno ceduto i propri crediti alla S.G.C., dal Monte Paschi di Siena che ha ceduto alle varie società satelliti; Banca Intesa che ebbe a cedere decine di migliaia di milioni di euro prima a Intesa Gestione Crediti, operazioni proseguite anche dopo la fusione in Intesa-San Paolo, con la cessione da Intesa Gestione Crediti a Castello Finance, che ha travasato i suoi crediti in Italfondiario, divenuta la più ricca finanziaria, con un portafoglio da recuperare di oltre 26 miliardi di euro. Un’operazione degna di nota è quella compiuta nel 2008 da Unicredit Banca di Roma che ha cartolarizzato un miliardo e passa di crediti con la Aspra Finance. Capito che roba? Crediti incagliati, già portati in ammortamento per il 70/80% (e quindi sottratti al fisco), sono ridiventati “veri e liberi” e contemporaneamente sottraendo al fisco la stratosferica cifra di altri 150 miliardi di € (quattro di cinque leggi finanziarie). 150 miliardi di € che per “risanare i conti pubblici” lo Stato deve richiedere ai cittadini, pagati coi nostri stipendiucci, le nostre miserabili paghe orarie (e mi riferisco ai giovani) di 4 o 5 € l’ora. Vogliamo ringraziare il Presidente del Consiglio (e il governo, pure di sinistra (beh, è da ridere no?) che hanno avuto la bella pensata di fare la legge 130/1999? Ed ora che abbiamo descritto il prologo, vediamo come, oltre a rimettere 150 miliardi di € nei conti pubblici, ne dovremo dare altri 300 miliardi agli squali di Wall Street, su sentenza dei tribunali della Repubblica Italiana. E quindi dove stanno realmente i nostri “Mutui subprime” debiti_magazine-il-fondo Abbiamo spiegato all’inizio che i mutui sub prime erano in realtà crediti inesigibili trasformati in crediti “veri e liberi” per costruirci Castelli Finanziari. E abbiamo citato una serie di società finanziarie italiane (Trevi Finance s.p.a. - Trevi 1 e Trevi 2, S.V.P., Venezia s.p.a., Aeres Finance, S.G.C, Intesa Gestione Crediti, Castello Finance, Italfondiario) che hanno ricevuto centinaia di miliardi di € di crediti che “erano incagliati e inesigibili”, ma sono stati trasformati in “veri e liberi” su semplice dichiarazione delle rispettive banche. 300 miliardi di € di crediti diventati “veri e liberi” che si sono venduti a Wall Street per costruire titoli tossici, ecco i nostri Mutui subprime. Ed ora che la baracca è crollata Wall Street vuole i 300 miliardi di € di crediti ed ha già iniziato a rivolgersi ai tribunali italiani, che già hanno cominciato a pignorare case, depositi bancari e stipendi ai cittadini italiani ignari. Spiego il meccanismo usando ad esempio uno di questi soggetti di cui posseggo la documentazione legale e che posso esibire in qualsiasi tribunale per dimostrarlo. Dopo la fusione Banca Intesa-San Paolo le rispettive società che avevano acquistato le cartolarizzazioni (quella di Banca Intesa era “Intesa Gestione Crediti”) hanno venduto i loro portafogli a Castello Finance srl. Che ha sua volta ha nominato “mandataria” Italfondiario spa. Sarebbe che Italfondiario spa riscuote i crediti per conto di Castello Finance srl, in pratica gli incassi sono suoi. Italfondiario attualmente gestisce attività per circa 27,9 miliardi di Euro per conto di Fortress Investment Group. L’attività di recupero aggressiva, ha funzionato bene non solo per l’attività principale, ovvero la gestione delle sofferenze, ma anche per gli altri settori dell’asset management, come la liquidazione degli immobili, la riscossione delle fatture esigibili e il recupero di mutui incagliati. (potete controllare, lo dicono loro: http://www.italfondiario.it/about.asp) E chi è Fortress Investment Group, socio di maggioranza di Italfondiario spa? E’ “Fortress Investment Group” LLC, 1345 Avenue of the Americas, New York, NY 10105, 212-798-6100. E qual è il “business” di Fortress Investment Group? Private Equity e Hedge Fund (http://www.fortressinv.com , potete controllare). E chi sono i procuratori in Italia di Fortress Investment Group? FIG Italia S.r.l. e FCF Consulting Srl. E qual’è la sede legale di Castello Finance srl, Itafondiario spa, FIG Italia S.r.l. e FCF Consulting S.r.l.? Via del Tritone 181 00187 Rome Italy. Tutti allo stesso indirizzo. E che fanno? Tutti la stessa cosa: portano sangue fresco agli squali di Wall Street. E lo squalo (o il vampiro, se preferite) in questo caso è appunto Fortress Investment Group, una società finanziaria specializzata in titoli tossici (http://en.wikipedia.org/wiki/Fortress_Investment_Group) ma che ha investito anche in Casinò e Corse dei Cavalli, è stata protagonista di uno scandalo per finanziamenti alla politica (beh, tutto il mondo è paese) e che ha avuto la quotazione scesa da 16 a 1,7$ e che sta chiedendo ai “debitori italiani”, per mezzo della sua controllata Italfondiario spa 27,9 miliardi di €, con metodi “aggressivi” (se ne fanno un vanto, nell’ambiente dei casinò e delle corse dei cavalli c’è gente rude, maschia, ci faranno rapire dalla CIA se non paghiamo). E chi sono i “debitori”? Siamo noi, io, voi, nessuno può sapere se è stato “venduto” magari per una posizione di venti anni fa, se suo malgrado è “stato dichiarato” debitore di un credito “vero e libero”, se questo debito “dinamico” (perchè lievità come un soufflè per spese varie, interessi anatocistici, avvocati, ci mangiano tutti) è aumentato di cinque, dieci, venti volte. Per cui nessuno per ora sa dagli originari 300 miliardi di € complessivi quanti miliardi pretende Wall Street. Cinquecento, mille? Conclusioni Io ho cominciato questa inchiesta perchè mi ci sono trovato vittima, e sono rimasto esterrefatto a scoprire nelle mani di chi ero andato a finire e di chi ero diventato debitore (per una controversia con Nuovo Banco Ambrosiano del 1990, e ormai dimenticata). Prima di correre alla Guardia di Finanza devo ricostruire bene tutta la faccenda, e quindi portare alla luce tutti gli altri organigrammi delle varie reti di truffa e malaffare. Perchè sono convinto che dietro ad ogni banca, dietro ad ogni società di cartolarizzazione, c’è anche uno squalo di Wall Street che ha il diritto, con una legge italiana sicuramente unica al mondo (e dono di un governo “di sinistra”), di esibire una dichiarazione fatta da un altro nel 1999 e costringere il magistrato a depredarvi della casa, dei risparmi, dello stipendio e della salute. Per adesso sono decine di migliaia di persone che stanno subendo queste infamie, presto saranno centinaia di migliaia: dobbiamo ripagargli 300 miliardi di Euro più gli interessi anatocisti e pure le spese di recupero. Attenti perchè vi svegliate la mattina e non avete più niente, nemmeno i soldi per fare la spesa come è successo a me. E intanto il governo (stavolta “di destra”) ci dice di stare tranquilli. Tranquilli a farci macellare. di Luigi Di Stefano

Madoff e il riciclaggio in Israele


La corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto sud di New York sembra decisa a lasciare agli arresti domiciliari nella sua lussuosa casa nell’Upper East Side di Manhattan e non in una prigione federale Bernard Madoff, ex presidente del NASDAQ e truffatore (usava lo schema di Ponzi).




Due giudici del circuito federale di NewYork, Theodore Katz e Ronald Ellis, hanno disposto che Madoff debba restare nella sua casa in città e fuori prigione.



Il procuratore generale Michael Mukasey, il cui figlio Marc Mukasey, dello studio legale Bracewell & Giuliani, rappresenta Frank DiPascali, uno dei compari di Madoff, aveva lavorato in precedenza con Katz ed Ellis al tribunale federale di New York. Katz venne nominato da George W. Bush, mentre Ellis, afro-americano, venne nominato da Clinton.







Il WMR (Wayne Madsen Report) aveva in precedenza reso noto il sospetto che Madoff abbia trasferito gran parte del suo denaro “sporco” in banche israeliane, inclusa una, Bank Leuimi, che il socio di Madoff, J. Ezra Merkin, comprò dal governo israeliano mentre Ariel Sharon era primo ministro e l’attuale capo del governo,Ehud Olmert era ministro del Tesoro.



Quasi dimenticato nello scandalo Madoff c’è un altro scandalo, nel quale Morris “Moshe” Talansky, uomo d’affari newyorkese, ammise di aver pagato ad Olmert 150.000 dollari in contanti divisi in buste. Lo scandalo obbligò Olmert ad annunciare le dimissioni da primo ministro, ma non prima di lanciare un attacco genocida contro Gaza.



Anche il multimilionario di Las Vegas Sheldon Adelson, importante finanziatore del partito Repubblicano, fu generoso con il capo del Likud e candidato a primo ministro, Binyamin Netanyahu, che spera di rimpiazzare Olmert.



Madoff, Talansky,Merkin, Olmert, Netanyahu, Adelson, l’altro importante lobbysta repubblicano Jack Abramoff e il suo socio Adam Kidan, Rahm Emanuel e tutti i loro compagni a Washington, Tel Aviv, Gerusalemme, Londra, Ottawa e Parigi ricordano l’adagio ebreo “ba’al ha‘mea ba’al ha’dea” o “colui che ha il denaro è colui che decide”, o ancora più rivelatore “colui che possiede l’oro detta le regole”.



Wayne Madsen

02 marzo 2009

Rifiuti tecnologici: una odissea di traffici illeciti

 



Ogni giorno sul pianeta vengono prodotte milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici, fonti di inquinamento e simboli di spreco. Le normative europee (e non solo) prevedono smaltimento controllato e recupero dei materiali riciclabili. Eppure, ogni giorno, enormi quantità di elettronica di scarto raggiungono illegalmente mercati o discariche a cielo aperto in Africa e Asia.



 




Giorno dopo giorno si accumulano milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici

I progressi tecnologici sono continui e costanti. Quotidianamente si affacciano sul mercato dispositivi elettronici più moderni, complessi e dalle maggiori potenzialità. Ma la corsa all’acquisto del prodotto ultimo-grido o dalle prestazioni migliori si porta dietro come conseguenza inevitabile lo scarto di quello precedentemente in uso.

 


Ed è così che giorno dopo giorno si accumulano milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici: piaga non trascurabile del nostro tempo. Secondo le stime elaborate dall’ONU, le apparecchiature elettriche ed elettroniche gettate via ogni anno ammontano a 20-50 milioni di tonnellate e crescono in quantità con un tasso del 3-5% annuo, tre volte superiore a quello dei rifiuti normali.


Ma dove vanno a finire computer e televisori dinosauro? Che ne è degli elettrodomestici attempati scaricati a favore del gioiello dell’ultimo minuto?


Qualche giorno fa l’associazione ambientalista Greenpeace ha reso pubblici i risultati dell’ultima indagine da essa condotta sul destino dei rifiuti tecnologici: un televisore rotto, consegnato in Gran Bretagna ad un’azienda che si sarebbe dovuta interessare dello smaltimento, è passato invece di mano e ha preso la via della Nigeria, su una nave ultra-carica di apparecchiature di seconda mano o del tutto inutilizzabili.


Ciò che è stato scoperto conferma quanto già emerso in precedenti investigazioni: i prodotti destinati allo sfascio, anziché essere smaltiti secondo il dovuto protocollo ed eventualmente parzialmente recuperati, si avviano attraverso traffici illeciti in direzione di paesi del sud del mondo, dove vengono rivenduti come beni usati, ma più spesso semplicemente depositati in immense discariche a cielo aperto ai margini dei villaggi e dei sobborghi poveri. Qui gente del posto, per lo più ragazzi se non bambini, pur di guadagnare qualche soldo per la sopravvivenza, si dedica al recupero dei componenti riciclabili, intervenendo senza alcuna precauzione sanitaria.




I prodotti destinati allo sfascio si avviano attraverso traffici illeciti in direzione di paesi del sud del mondo

 


La maggior parte delle apparecchiature elettroniche che popolano il nostro quotidiano (impiegate per l’informatica, le telecomunicazioni, lo svago, la pulizia della casa) contengono sostanze altamente nocive, in particolare metalli come piombo, rame, alluminio e cadmio. Quando vengono destinate alla distruzione, sono classificate come rifiuti pericolosi e non possono seguire l’iter normale di demolizione, bensì devono essere sottoposte ad interventi speciali.


Nelle discariche del sud del mondo, invece, i lavoratori operano a mani nude, sventrano le apparecchiature, bruciano gli involucri e le plastiche - diffondendo così fumi neri altamente nocivi che respirano sistematicamente -, sottraggono i componenti da rivendere e lasciano i resti sul luogo. Le conseguenze sono gravissimi danni alla salute dei ragazzi che operano direttamente sui rifiuti, nonché inquinamento del suolo, dell’aria e spesso anche dell’acqua (se i veleni penetrano nel terreno fino a raggiungere le falde acquifere).


Quando, qualche anno fa, la realtà dei paesi in via di sviluppo adibiti a pattumiera del mondo “civile” iniziò a saltare all’occhio, il nord del mondo prese a dotarsi di leggi che impedissero i traffici di rifiuti tecnologici (denominati RAEE, ossia Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) e lo smaltimento al di fuori dei confini del paese o della federazione di stati. Queste normative, però, vengono spesso eluse e i dispositivi destinati alla distruzione riescono a compiere viaggi illegali.


Greenpeace dichiara che al giorno d’oggi “si perdono le tracce del 75% dei rifiuti tecnologici prodotti nell’Unione Europea e di oltre l’80% di quelli originati negli Stati Uniti. Se anche una parte di essi è ancora nelle case, nelle cantine e nei garage, o viene smaltito in discarica o inceneritore, una buona parte viene esportata – spesso illegalmente – per finire in discariche incontrollate in Africa oppure a riciclatori clandestini in Asia”.




Ragazzi e bambini, pur di guadagnare qualche soldo per la sopravvivenza, si dedicano al recupero dei componenti riciclabili, intervenendo senza alcuna precauzione sanitaria

 


Le destinazioni più frequenti delle navi che trasportano dispositivi elettrici ed elettronici di scarto sono il Ghana, la Nigeria, il Pakistan, la Cina e l’India. Greenpeace, in anni di inchieste svolte in tali terre, ha raccolto testimonianze e documenti filmati shockanti ed illuminanti allo stesso tempo.


In Italia, considerando che si producono annualmente più di 800.000 tonnellate di RAEE, e se ne raccolgono circa 110.000, si può concludere che non si ha notizia delle sorti di almeno l’85% dei rifiuti elettronici prodotti nel nostro paese.


Nell’Unione Europea lo smaltimento dei RAEE è regolato da varie direttive, che sono state recepite dall’Italia nel decreto legislativo 151 del 25 luglio 2005. La legge, entrata in vigore il primo gennaio 2008, sposta il compito di occuparsi di tali rifiuti dagli organismi comunali agli stessi produttori, che sono così diventati responsabili delle proprie apparecchiature anche al termine della loro vita commerciale sul mercato o nelle case dei consumatori. I produttori hanno l’obbligo di iscriversi in un apposito registro e di costituirsi in un sistema collettivo o consortile che si occupi di raccolta, trasporto, stoccaggio, disassemblaggio, riciclaggio e smaltimento dei rifiuti hi-tech.


Purtroppo, però, la legislazione è tuttora carente di alcuni decreti attuativi, che sono fondamentali affinché la legge sia tradotta in pratica e non resti mera norma virtuale. Particolarmente necessario e atteso è il cosiddetto “Decreto Semplificazioni”, che obbligherà i rivenditori a ritirare gratuitamente l’apparecchio dismesso nel momento in cui il cliente ne acquisti uno nuovo (secondo il principio dell’uno a uno, ossia “prendo uno, lascio uno”). La pubblicazione di tale documento era prevista per la fine del febbraio 2008, ma ha subito una serie di rinvii ed oggi, ad un anno di distanza, risulta ancora non effettuata.




In Italia particolarmente necessario e atteso è il cosiddetto “Decreto Semplificazioni”

 


Nel nostro Paese esistono 9 consorzi per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti tecnologici, coordinati dall’Associazione Nazionale Italiana dei produttori di apparecchiature Elettroniche (ANIE), la quale fa capo a Confindustria. I consorzi sono amministrati dagli stessi produttori che li costituiscono (e ne sono, dunque, soci). Essi sono operativi ed alcuni, come ReMedia, Ecoelit ed Ecolamp, vantano una notevole attività. Al momento, però, ci si può affidare solo al senso civico del singolo cittadino che, obbligato a distinguere i rifiuti pericolosi da quelli tradizionali, abbia la buona volontà di depositare l’apparecchio elettrico o elettronico presso l’opportuna isola ecologica (o contattare personalmente l’azienda che si occupa del recupero).


E’ auspicabile che il Ministro dell’ambiente vari al più presto il “Decreto Semplificazioni”, anche in virtù del ritorno sulla stampa del tema in virtù dell’inchiesta pubblicata da Greenpeace.


Ma è anche opportuno che le aziende produttrici di dispositivi hi-tech investano di più nella ricerca, al fine di realizzare apparati che non impieghino materiali tossici o eccessivamente inquinanti, perché – come ancora diciamo e ripeteremo sempre - non produrre è meglio che riciclare o smaltire in maniera controllata.


di Virginia Greco


01 marzo 2009

Castelli di finanza

Ovvero: come centinaia di migliaia di cittadini italiani, in gran parte ancora ignari, verranno chiamati dai Tribunali italiani a pagare le perdite purimiliardarie degli squali di Wall Street. Tutti abbiamo saputo dei cosiddetti “Mutui subprime” americani, che sono stati una delle basi della crisi finanziaria planetaria dovuta alla finanza tossica. Le banche e le società finanziarie americane concedevano un mutuo per la casa a soggetti che difficilmente potevano poi pagarlo, ma in questo modo creavano un credito certo ed esigibile, coperto da una garanzia immobiliare. Questo “credito certo” veniva poi utilizzato come base per emettere altri titoli di credito (i famosi Derivati o Hedge Fund) che con le cosiddette prassi dell’ingegneria finanziaria veniva moltiplicato all’infinito. A dire che su un “credito certo” ad esempio di 100.000$ (il mutuo) si garantivano cinquanta e cento volte tanto di Derivati ed Hedge Fund. banca1_magazine-il-fondo Quando il castello finanziario è cominciato a franare, e si andati dal povero cristo a cui avevano fatto il mutuo, tutto è crollato. Tranquilli, ci dice il governo italiano. Le banche italiane sono solide e giudiziose, non hanno fatto mutui subprime e “finanza creativa”. E’ vero che per salvarle dal disastro della crisi planetaria lo Stato gli ha regalato miliardi di Euro dei contribuenti (sulla cifra vera c’è il segreto di Stato), è vero che le banche si sono incamerati questi soldi e stanno strozzando l’economia reale negando il credito alle imprese, ma sono quisquilie, pinzellacchere. Voi state tranquilli. Tutto prende le mosse dalla legge 130/1999 fatta dal governo D’Alema, quella delle “cartolarizzazioni”. Le banche nel loro complesso avevano, dopo la crisi del 1992 (uscita dallo SME per le operazioni speculative contro la lira organizzate dal celebre finanziere Soros attraverso il “Quantum Fund”, con conseguente svalutazione della lira, crisi economica etc) avevano migliaia di miliardi di crediti ipotecari e chirografari di difficile se non impossibile esigibilità. Con la legge 130/1999 gli si consentiva di vendere questi crediti a terzi (appunto la “cartolarizzazione”) e di mettere in perdita la differenza fra il credito vantato (ad esempio 100.000€) e il prezzo di cessione del credito (ad esempio 40.000€), defalcando dall’imponibile fiscale i 60.000€. Mentre prima il credito “certo e libero” andava dimostrato in tribunale per poter agire contro il debitore ora diventava “certo e libero” su semplice dichiarazione della Banca. Mentre prima era vietato cedere un credito a terzi senza il consenso del debitore ora si poteva cedere questo credito all’insaputa del debitore (con un semplice annuncio in Gazzetta Ufficiale (la Banca X ha ceduto i suoi crediti alla Società Y). E a chi li vendevano questi crediti “certi e liberi” le banche? A se stesse. Tutte le banche crearono delle Srl con capitale di venti milioni alle quali vendettero crediti per migliaia di miliardi di lire, gli ipotecari al 40% del loro valore nominale, i chirografari al 10% del loro valore nominale. E come pagarono questi crediti le Srl? Con delle “obbligazioni”, cioè con delle “promesse di pagamento”, cioè con delle “cambiali” (nobilitate anche col nome di Derivati ed Hedge Fund, appunto). Cambiali che erano garantite dal credito acquistato e che rimaneva al 100% nei riguardi dell’ignaro debitore. Capito il meccanismo? Le banche vendettero a se stesse i crediti sottraendo al fisco il 40% o il 90% dell’imponibile, ma il credito rimaneva al 100% “certo e libero” in quota a una società di proprietà della stessa banca, che però non ci pagava le tasse perchè a bilancio questo “attivo” si sottraeva il “passivo” delle obbligazioni emesse. Ma attenzione: le banche avevano già recuperato fiscalmente questi crediti poiché aveva già conseguito il beneficio degli ammortamenti attraverso il dispositivo degli accantonamenti annuali al fondo di svalutazione crediti e al fondo di rischio. Di quanto? Diciamo mediamente del 70% (accantonamento del 5% annuo sul Fondo Svalutazione Crediti (FSV) e di un altro 5% annuo sul Fondo Rischio Crediti (FRC). E, di che cifre stiamo parlando? Le operazioni di cartolarizzazione a partire dal 1999 sono state attuate dalle maggiori banche nazionali, per un ammontare stimato di oltre 300 miliardi di euro, pari a circa 580.000 miliardi di lire, con elusione fiscale derivata che ha aperto una voragine nei conti pubblici di almeno 150 miliardi di euro, pari a 290.000 miliardi di lire. Prima fra tante, la Banca di Roma s.p.a. che nel 1999 ha cartolarizzato oltre 20.000 miliardi di crediti con i multipli delle società da essa controllate Trevi Finance s.p.a. - Trevi 1 e Trevi 2, seguita a ruota dalla Banca Nazionale del Lavoro, che ha ceduto i propri crediti alla S.V.P. Venezia s.p.a. e alla Aeres Finance, che insieme al Banco di Napoli, hanno ceduto i propri crediti alla S.G.C., dal Monte Paschi di Siena che ha ceduto alle varie società satelliti; Banca Intesa che ebbe a cedere decine di migliaia di milioni di euro prima a Intesa Gestione Crediti, operazioni proseguite anche dopo la fusione in Intesa-San Paolo, con la cessione da Intesa Gestione Crediti a Castello Finance, che ha travasato i suoi crediti in Italfondiario, divenuta la più ricca finanziaria, con un portafoglio da recuperare di oltre 26 miliardi di euro. Un’operazione degna di nota è quella compiuta nel 2008 da Unicredit Banca di Roma che ha cartolarizzato un miliardo e passa di crediti con la Aspra Finance. Capito che roba? Crediti incagliati, già portati in ammortamento per il 70/80% (e quindi sottratti al fisco), sono ridiventati “veri e liberi” e contemporaneamente sottraendo al fisco la stratosferica cifra di altri 150 miliardi di € (quattro di cinque leggi finanziarie). 150 miliardi di € che per “risanare i conti pubblici” lo Stato deve richiedere ai cittadini, pagati coi nostri stipendiucci, le nostre miserabili paghe orarie (e mi riferisco ai giovani) di 4 o 5 € l’ora. Vogliamo ringraziare il Presidente del Consiglio (e il governo, pure di sinistra (beh, è da ridere no?) che hanno avuto la bella pensata di fare la legge 130/1999? Ed ora che abbiamo descritto il prologo, vediamo come, oltre a rimettere 150 miliardi di € nei conti pubblici, ne dovremo dare altri 300 miliardi agli squali di Wall Street, su sentenza dei tribunali della Repubblica Italiana. E quindi dove stanno realmente i nostri “Mutui subprime” debiti_magazine-il-fondo Abbiamo spiegato all’inizio che i mutui sub prime erano in realtà crediti inesigibili trasformati in crediti “veri e liberi” per costruirci Castelli Finanziari. E abbiamo citato una serie di società finanziarie italiane (Trevi Finance s.p.a. - Trevi 1 e Trevi 2, S.V.P., Venezia s.p.a., Aeres Finance, S.G.C, Intesa Gestione Crediti, Castello Finance, Italfondiario) che hanno ricevuto centinaia di miliardi di € di crediti che “erano incagliati e inesigibili”, ma sono stati trasformati in “veri e liberi” su semplice dichiarazione delle rispettive banche. 300 miliardi di € di crediti diventati “veri e liberi” che si sono venduti a Wall Street per costruire titoli tossici, ecco i nostri Mutui subprime. Ed ora che la baracca è crollata Wall Street vuole i 300 miliardi di € di crediti ed ha già iniziato a rivolgersi ai tribunali italiani, che già hanno cominciato a pignorare case, depositi bancari e stipendi ai cittadini italiani ignari. Spiego il meccanismo usando ad esempio uno di questi soggetti di cui posseggo la documentazione legale e che posso esibire in qualsiasi tribunale per dimostrarlo. Dopo la fusione Banca Intesa-San Paolo le rispettive società che avevano acquistato le cartolarizzazioni (quella di Banca Intesa era “Intesa Gestione Crediti”) hanno venduto i loro portafogli a Castello Finance srl. Che ha sua volta ha nominato “mandataria” Italfondiario spa. Sarebbe che Italfondiario spa riscuote i crediti per conto di Castello Finance srl, in pratica gli incassi sono suoi. Italfondiario attualmente gestisce attività per circa 27,9 miliardi di Euro per conto di Fortress Investment Group. L’attività di recupero aggressiva, ha funzionato bene non solo per l’attività principale, ovvero la gestione delle sofferenze, ma anche per gli altri settori dell’asset management, come la liquidazione degli immobili, la riscossione delle fatture esigibili e il recupero di mutui incagliati. (potete controllare, lo dicono loro: http://www.italfondiario.it/about.asp) E chi è Fortress Investment Group, socio di maggioranza di Italfondiario spa? E’ “Fortress Investment Group” LLC, 1345 Avenue of the Americas, New York, NY 10105, 212-798-6100. E qual è il “business” di Fortress Investment Group? Private Equity e Hedge Fund (http://www.fortressinv.com , potete controllare). E chi sono i procuratori in Italia di Fortress Investment Group? FIG Italia S.r.l. e FCF Consulting Srl. E qual’è la sede legale di Castello Finance srl, Itafondiario spa, FIG Italia S.r.l. e FCF Consulting S.r.l.? Via del Tritone 181 00187 Rome Italy. Tutti allo stesso indirizzo. E che fanno? Tutti la stessa cosa: portano sangue fresco agli squali di Wall Street. E lo squalo (o il vampiro, se preferite) in questo caso è appunto Fortress Investment Group, una società finanziaria specializzata in titoli tossici (http://en.wikipedia.org/wiki/Fortress_Investment_Group) ma che ha investito anche in Casinò e Corse dei Cavalli, è stata protagonista di uno scandalo per finanziamenti alla politica (beh, tutto il mondo è paese) e che ha avuto la quotazione scesa da 16 a 1,7$ e che sta chiedendo ai “debitori italiani”, per mezzo della sua controllata Italfondiario spa 27,9 miliardi di €, con metodi “aggressivi” (se ne fanno un vanto, nell’ambiente dei casinò e delle corse dei cavalli c’è gente rude, maschia, ci faranno rapire dalla CIA se non paghiamo). E chi sono i “debitori”? Siamo noi, io, voi, nessuno può sapere se è stato “venduto” magari per una posizione di venti anni fa, se suo malgrado è “stato dichiarato” debitore di un credito “vero e libero”, se questo debito “dinamico” (perchè lievità come un soufflè per spese varie, interessi anatocistici, avvocati, ci mangiano tutti) è aumentato di cinque, dieci, venti volte. Per cui nessuno per ora sa dagli originari 300 miliardi di € complessivi quanti miliardi pretende Wall Street. Cinquecento, mille? Conclusioni Io ho cominciato questa inchiesta perchè mi ci sono trovato vittima, e sono rimasto esterrefatto a scoprire nelle mani di chi ero andato a finire e di chi ero diventato debitore (per una controversia con Nuovo Banco Ambrosiano del 1990, e ormai dimenticata). Prima di correre alla Guardia di Finanza devo ricostruire bene tutta la faccenda, e quindi portare alla luce tutti gli altri organigrammi delle varie reti di truffa e malaffare. Perchè sono convinto che dietro ad ogni banca, dietro ad ogni società di cartolarizzazione, c’è anche uno squalo di Wall Street che ha il diritto, con una legge italiana sicuramente unica al mondo (e dono di un governo “di sinistra”), di esibire una dichiarazione fatta da un altro nel 1999 e costringere il magistrato a depredarvi della casa, dei risparmi, dello stipendio e della salute. Per adesso sono decine di migliaia di persone che stanno subendo queste infamie, presto saranno centinaia di migliaia: dobbiamo ripagargli 300 miliardi di Euro più gli interessi anatocisti e pure le spese di recupero. Attenti perchè vi svegliate la mattina e non avete più niente, nemmeno i soldi per fare la spesa come è successo a me. E intanto il governo (stavolta “di destra”) ci dice di stare tranquilli. Tranquilli a farci macellare. di Luigi Di Stefano

Madoff e il riciclaggio in Israele


La corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto sud di New York sembra decisa a lasciare agli arresti domiciliari nella sua lussuosa casa nell’Upper East Side di Manhattan e non in una prigione federale Bernard Madoff, ex presidente del NASDAQ e truffatore (usava lo schema di Ponzi).




Due giudici del circuito federale di NewYork, Theodore Katz e Ronald Ellis, hanno disposto che Madoff debba restare nella sua casa in città e fuori prigione.



Il procuratore generale Michael Mukasey, il cui figlio Marc Mukasey, dello studio legale Bracewell & Giuliani, rappresenta Frank DiPascali, uno dei compari di Madoff, aveva lavorato in precedenza con Katz ed Ellis al tribunale federale di New York. Katz venne nominato da George W. Bush, mentre Ellis, afro-americano, venne nominato da Clinton.







Il WMR (Wayne Madsen Report) aveva in precedenza reso noto il sospetto che Madoff abbia trasferito gran parte del suo denaro “sporco” in banche israeliane, inclusa una, Bank Leuimi, che il socio di Madoff, J. Ezra Merkin, comprò dal governo israeliano mentre Ariel Sharon era primo ministro e l’attuale capo del governo,Ehud Olmert era ministro del Tesoro.



Quasi dimenticato nello scandalo Madoff c’è un altro scandalo, nel quale Morris “Moshe” Talansky, uomo d’affari newyorkese, ammise di aver pagato ad Olmert 150.000 dollari in contanti divisi in buste. Lo scandalo obbligò Olmert ad annunciare le dimissioni da primo ministro, ma non prima di lanciare un attacco genocida contro Gaza.



Anche il multimilionario di Las Vegas Sheldon Adelson, importante finanziatore del partito Repubblicano, fu generoso con il capo del Likud e candidato a primo ministro, Binyamin Netanyahu, che spera di rimpiazzare Olmert.



Madoff, Talansky,Merkin, Olmert, Netanyahu, Adelson, l’altro importante lobbysta repubblicano Jack Abramoff e il suo socio Adam Kidan, Rahm Emanuel e tutti i loro compagni a Washington, Tel Aviv, Gerusalemme, Londra, Ottawa e Parigi ricordano l’adagio ebreo “ba’al ha‘mea ba’al ha’dea” o “colui che ha il denaro è colui che decide”, o ancora più rivelatore “colui che possiede l’oro detta le regole”.



Wayne Madsen