16 marzo 2010

La morte del dollaro con una crisi stile Grecia?




Yuan contro il dollaro per il ruolo di valuta estera globale

L’abitudine di accumulare riserve di dollari da parte delle banche centrali è diventata sempre più spiccata dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, quando gli speculatori valutari hanno accelerato una crisi della bilancia dei pagamenti di Thailandia, Indonesia e Corea del Sud richiedendo dollari per le valute locali ed esaurendo le riserve di dollari delle banche centrali.
Facendo un salto in avanti di 13 anni, la posizione del dollaro come valuta di riserva preferenziale nel mondo è stata messa in discussione a causa di un disavanzo di bilancio in rapido aumento che mantiene gli Stati Uniti dipendenti dai finanziamenti dall’estero. Lo scorso anno sia Russia che Cina hanno proposto un tipo di “valuta di riserva sovranazionale” per contrastare il dollaro mentre Brasile e India hanno anche discusso della sostituzione di altre attività per i loro titoli espressi in dollari.

Il FMI: “Quel giorno deve ancora venire”

Riaccendendo la discussione, Dominique Strauss-Kahn, il direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha detto venerdì scorso che sarebbe “intellettualmente apprezzabile esaminare” la creazione di una nuova valuta di riserva globale per limitare la dipendenza dal dollaro.
Strauss-Kahn ha affermato che un giorno ci potrà essere un’attività di riserva emessa globalmente ma che “quel giorno deve ancora venire”. Ad ogni modo le sue osservazioni sono il segnale di una preoccupazione più generale in merito al predominio del dollaro e “fino a che punto l’intero sistema monetario internazionale dipende dalle politiche e dalle condizioni di un singolo paese, seppur dominante”.

Tutto questo rende inevitabile la domanda: quale sarà la prossima valuta di riserva globale che subentrerà al dollaro?

Le riserve di dollari: dieci anni di declino

L’ultimo rapporto sul foreign exchange pubblicato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti mostra che la percentuale delle riserve di dollari è in costante diminuzione – anche prima della crisi finanziaria. Nel 2009 il dollaro costituiva ancora circa il 60% delle riserve estere, con l’euro a meno del 30% e più distanziati sterlina e yen (vedi grafico).





Secondo il Peterson Institute for International Economics, anche se il dollaro rimane la più importante valuta di riserva nel corso degli ultimi dieci anni fino al primo trimestre del 2009, con la correzione per gli effetti dei tassi di cambio la quota del dollaro nelle riserve del foreign exchange, a conti fatti, è diminuita del 4,3%.

Gli elementi di una valuta di riserva

Il rapporto del Tesoro americano indica diversi elementi chiave che sono stati identificati dagli economisti per determinare l’utilizzo di una valuta per le riserve:
• la dimensione dell’economia nazionale
• l’importanza dell’economia nel commercio internazionale
• la dimensione, la forza e l’apertura dei mercati finanziari
• la convertibilità della valuta
• l’utilizzo della valuta come valuta di ancoraggio
• le politiche macroeconomiche nazionali

I PIIGS stroncano l’euro

Sulla base di questi criteri, l’eurozona, simile agli Stati Uniti per dimensione, quota di commercio globale e convertibilità della valuta, rende l’euro un valido contendente per la corona del dollaro. E, a differenza del dollaro, nel corso degli ultimi dieci anni l’euro ha costantemente guadagnato quote di mercato nelle riserve estere globali ed è diventato la seconda valuta più diffusa (vedi grafico).
Purtroppo, il debito e problemi di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) hanno danneggiato seriamente la fiducia e la credibilità dell’Unione Europea e dell’euro, stroncando sostanzialmente le possibilità dell’euro di essere un’alternativa al dollaro.
L’euro ha già raggiunto i minimi degli ultimi dodici mesi nei confronti dello yen, e i minimi degli ultimi nove mesi nei confronti del dollaro sulla speculazione che la valutazione del credito greco venga declassata ulteriormente. E’ anche in discussione la possibilità che l’Unione Europea e l’euro rimangano in condizioni soddisfacenti.

Il dollaro regna con liquidità suprema

Anche senza considerare il tracollo greco, è difficile competere nei confronti del dollaro con una tale carenza di liquidità all’interno dell’eurozona. Un motivo importante per cui il dollaro americano rimane la valuta di riserva è che il mercato obbligazionario americano è il mercato più liquido nel suo genere. Un mercato di debito liquido consente alle banche centrali di intervenire nei mercati foreign exchange per attutire le fluttuazioni delle valute.
Come è stato fatto notare dal rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti:
“L’euro non è diventato equivalente al dollaro come valuta di riserva perché non esiste un mercato comune del debito nazionale all’interno dell’eurozona”.
Da questo punto di vista la sterlina e lo yen, le altre due valute di riserva preferenziali dopo l’euro, appaiono sbiadite in confronto al dollaro in termini di liquidità e agevolazioni del commercio globale. Inoltre, Moody’s ha messo in guardia su possibili declassamenti di Regno Unito e Giappone a causa del debito elevato, del pagamento degli interessi e di una crescita lenta del PIL (lunedì, ad un certo punto, la sterlina stava letteralmente precipitando ed è scesa ai minimi degli ultimi dieci mesi nei confronti del dollaro di fronte alle rinnovate preoccupazioni di un Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta).

Oro o yuan?

Mentre in molti sostengono un gold standard internazionale, o un altro sistema monetario internazionale basato su un paniere di materie prime e/o valute, è molto difficile vedere un adeguato consenso internazionale che ne decreti realmente la fattibilità.
Perciò dietro le quinte sta aspettando il renminbi cinese (RMB), detto anche yuan. La nomina di Zhu Min, vicegovernatore della banca centrale cinese, nelle vesti di consulente speciale al FMI sembra indicare il sì della Cina al programma per una valuta globale. Il Fondo, storicamente guidato da europei ma dominato dagli Stati Uniti, ha cercato di coinvolgere anche le economie emergenti come Brasile, Cina, India e Russia.
Ma secondo l’economista Geng Xiao, direttore del Brookings-Tsinghua Center for Public Policy, è nell’interesse della Cina – e del mondo – non liberarsi ancora del dollaro.

La rivalutazione dello yuan non risolve nulla

In un’intervista con McKinsley Quarterly, Xiao ha fatto notare che, da ambo le parti, non c’è stata alcuna discussione sullo squilibrio commerciale tra Cina e Stati Uniti. Tuttavia esistono alcune differenze filosofiche tra i due poiché gli Stati Uniti pongono una maggiore enfasi sulla correzione a breve termine attraverso il prezzo e il tasso di cambio del RMB mentre i cinesi pongono una maggiore enfasi sul cambiamento strutturale e istituzionale a medio e lungo termine. Xiao ritiene che sia difficile che il tasso di cambio corregga la bilancia commerciale:
“Anche se si modifica il tasso di cambio, questo avrà un modestissimo impatto sul disavanzo commerciale americano perché gli Stati Uniti compreranno da altri paesi”.

Tempo di riformare e fluttuare

La Cina ha bisogno di tempo per approvare le difficili riforme economiche in ambito nazionale prima che possa consentire alla propria valuta di fluttuare liberamente nei confronti del dollaro, come spiega Xiao:
“La Cina ha bisogno di un benchmark in modo che il prezzo possa essere confrontato con il prezzo globale, con la struttura di prezzo, compatibile con l’efficienza. E’ per questa ragione che la riforma dei prezzi è più importante della modifica del tasso di cambio… la modifica del tasso di cambio non cambierebbe le inefficienze… perché gli aiuti interni sono ancora presenti”.
Xiao valuta che alla Cina occorreranno dai 5 ai 10 anni per correggere le proprie distorsioni – la riforma terriera, la riforma del settore energetico, la riforma delle aziende di proprietà statale e la previdenza sociale. Solo quando la produttività della Cina raggiungerà quella degli Stati Uniti le strutture dei prezzi dei due paesi potranno convergere.

Lo scenario peggiore

Uno scenario peggiore potrebbe verificarsi se la Cina consentisse il perdurare delle aspettative di apprezzamento del RMB, costruendo ulteriori riserve foreign exchange, come avvisa Xiao:
“Non vedo altri modi per la Cina per ridurre in modo significativo la quantità di titoli in dollari… ma se incalzata, la Cina può sempre fare di più. E anche se marginalmente, anche solo un po’ di più può avere un grosso impatto sul mercato”.

Il dollaro comanda… per ora

Sicuramente, nel corso del tempo, la Cina dovrebbe essere in grado di trasformarsi in una moderna economia di mercato. E se l’economia cinese continua a cresce al ritmo attuale, il RMB alla fine diventerà una delle valute di riserva importanti, come il dollaro americano.
Ma per ora, ci sono diversi elementi a forte sostegno del dollaro. Oltre ad un mercato del debito liquido, molte materie prime, tra cui petrolio e oro, sono quotate nella moneta americana. All’incirca l’88% delle attività giornaliere del foreign exchange interessano dollari americani. Una moneta sostanzialmente agevola il commercio globale ed è possibile stabilire il prezzo delle materie prime in modo omogeneo ovunque esse vengano trattate.
E la Cina, il principale debitore degli Stati Uniti con un immenso pacchetto di titoli del Tesoro pari a 894,8 miliardi di dollari alla fine del dicembre scorso, si sta spostando verso titoli americani a più lungo termine e, contemporaneamente, sta accumulando azioni americane, aumentando il suo pacchetto complessivo di titoli americani a lungo termine.
Gli enormi pacchetti cinesi di riserve di dollari sotto forma di titoli del Tesoro americano sono diventati oggetto di preoccupazione per i funzionari da entrambe le coste del Pacifico. Tuttavia rimane il fatto che, facendo un confronto, il dollaro rimane la valuta più liquida e più stabile. In tal senso, è improbabile che nell’immediato futuro la Cina riduca in modo significativo i propri pacchetti di attività in dollari.

Detronizzato entro il 2050 ?

La maggior parte degli esperti occidentali sembra concordare sul fatto che la prospettiva di una sostituzione del dollaro con una nuova valuta di riserva mondiale è difficile che si materializzi presto perché non c’è alcuna alternativa seria all’orizzonte.
Rimangono dubbi anche sul fatto che i cinesi possano contrastare il biglietto verde. Ad ogni modo sembra si stia formando un’opinione più o meno comune tra vari esperti occidentali sul fatto che i cinesi abbiano intrapreso chiaramente il cammino per sfidare il dollaro in un periodo di transizione di 10-15 anni, il che coincide approssimativamente con le proiezioni di Geng Xiao.
L’economista britannico Angus Maddison prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti entro il 2015. Tracciando un parallelo storico con l’ultimo avvicendamento nella valuta di riserva (dalla sterlina inglese al dollaro americano) ci si attende che il renminbi cinese subentri al dollaro come valuta di riserva intorno al 2050, alla metà del ventunesimo secolo.

La morte del dollaro con una crisi in stile-Grecia?

Nel frattempo, anche se la crisi del debito delle nazioni più in difficoltà dell’Europa meridionale si è ultimamente impadronita delle prime pagine dei giornali, Moody’s e i suoi pari hanno espresso preoccupazioni sulla prosperità finanziaria di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, concentrandosi principalmente sul debito e gli impegni debito di queste nazioni più grandi.

Ad esempio, l’interesse pagato sul debito del Tesoro americano è in crescita esponenziale negli ultimi due anni e ci si attende che raggiunga i 700 miliardi di dollari all’anno entro la fine del decennio. E’ probabile che il rapporto tra debito totale e PIL superi il 90% quest’anno negli Stati Uniti, indebitando il paese addirittura più di Spagna e Portogallo. Mentre gli Stati Uniti si stanno godendo la posizione di valuta di riserva, questa non è assolutamente garantita per il futuro. Per ora gli investitori stanno cercando rifugio nel mercato obbligazionario americano. Ad ogni modo un sistema politico malato, il debito e il disavanzo potrebbero far affondare inevitabilmente l’America in una crisi in stile Grecia, spingendo ancor di più per una morte anticipata del dollaro.

di Dian L. Chu

L’Italia, Israele e il Mossad dal 1945 ai giorni nostri

Eric Salerno, giornalista e inviato speciale del Messaggero, esperto di questioni mediorientali, ha scritto nel 2010 un interessante e documentato libro intitolato «Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste», Milano, Il Saggiatore, 258 pagine, 19 euro. L’autore cerca di far luce sulla cronaca italiana degli ultimi sessant’anni, durante i quali gli agenti del Mossad hanno iniziato le loro attività, con la complicità almeno implicita dei governi italiani, a partire dal 1945 con l’immigrazione clandestina degli ebrei europei in Italia per farli poi espatriare in Palestina. Egli descrive, con l’aiuto di colloqui avuti con Mike Harari, un agente o meglio l’ex capo delle operazioni clandestine del Mossad incaricato da Golda Meir di vendicare gli atleti israeliani uccisi Monaco nel 1972, e del giudice Claudio Mastelloni, che ha indagato per molti anni sulle vicende dei servizi segreti italiani e israeliani ed infine delle cronache giudiziario-giornalistiche (1), le varie vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, e sulle quali non è stata fatta ancora completa chiarezza: a partire dall’immigrazione clandestina di migliaia di ebrei diretti in Palestina, dal traffico internazionale con scalo in Italia di armi dirette verso la futura Israele, sino ai vari sabotaggi delle industrie belliche italiane che rifornivano gli arabi e specialmente l’Egitto, passando per diversi attentati che hanno insanguinato la nostra patria (l’aereo Argo 16, l’uccisione del giornalista palestinese Wail Zwaiter assassinato a Roma per rappresaglia dopo Monaco 1972 e il caso Moro). Il pregio del libro, ben studiato e condotto su fatti e documenti, è quello di non presumere di saper tutto, soprattutto in un campo misterioso e pieno di depistaggi e doppiogiochismi come quello dei servizi segreti, ma di fermarsi a congetture, possibilità o probabilità ove manchi la prova certa, senza voler fare un passaggio indebito dal possibile al reale o al certamente evidente. Solo in caso di prove chiare ed esplicite l’autore ci mette di fronte all’evidenza del fatto. Ne risulta un quadro che getta una luce nuova sulle vicende che oramai hanno preso una piega ben definita non solo in Medio Oriente, ma anche in Italia e nel resto del mondo. Il ruolo giocato da Israele sin dal primo dopoguerra in Italia è enorme. Non prenderne atto significherebbe non voler vedere la realtà. Ma il prenderne atto non significa sapere tutto di ogni cosa. «Nescire qaedam magna pars sapientiae». Del resto le sorti delle due guerre mondiali sono state decise in gran parte dal ruolo dei servizi segreti dei Paesi belligeranti; come in ogni guerra che è stata fatta su questa terra, non ci si è serviti solo delle armi, ma anche dell’Intelligence.

De Gasperi, Ada Sereni e Israele

Dopo la Seconda Guerra Mondiale migliaia di ebrei volevano allontanarsi dall’Europa semidistrutta per recarsi in USA o in Australia, ma «gli inviati della ‘Palestina ebraica’ riuscirono a convincere decine di migliaia di persone a trovare rifugio in Medio Oriente, dove presto, anche grazie a loro, sarebbe nato uno Stato ebraico» (2). Nel giro di tre anni almeno ventiseimila ebrei furono fatti espatriare clandestinamente in Palestina. La Gran Bretagna, che avendo il «Mandato» sulla Terra Santa, si opponeva ad una immigrazione in massa degli ebrei in Palestina e cercava perciò di arginare il flusso migratorio, entrò, quindi, nel mirino del terrorismo ebraico, che per primo insanguinò la Terra Santa. Frattanto «in Italia i campi d’accoglienza si riempivano e si svuotavano rapidamente» (3).

Ada Sereni, ebrea romana, nata Ascarelli, era il capo italiano del Mossad per le operazioni di espatrio verso la Palestina. Lei stessa nel suo libro «I clandestini del mare», Milano, Mursia, 1973, racconta dell’incontro che ebbe con Alcide De Gasperi per ottenere una tacita copertura da parte del governo e dei servizi segreti italiani sulle attività che il Mossad avrebbe dovuto svolgere in Italia per farvi giungere e poi espatriare verso la Terra Santa i propri connazionali dell’Europa del nord. La Sereni chiese a De Gasperi di «chiudere un occhio, e possibilmente due sulle nostre attività in Italia» (4). Eric Salerno commenta: «Gli italiani si accorsero sin dall’inizio dell’immigrazione clandestina e dei campi provvisori dove venivano ospitati gli ebrei arrivati dal resto dell’Europa, ma non soltanto chiusero un occhio, aiutarono quando e come poterono. Aiutarono anche nella fase successiva, quando il Mossad, parallelamente allimmigrazione clandestina, si impegnò nelladdestramento militare dei rifugiati, nellacquisizione darmi e nel loro trasporto in Palestina, nella lotta per impedire agli arabi di armarsi anche quando questo significava il sabotaggio di industrie e impianti italiani e di loro prodotti (…). A parte i rapporti ambigui, costruiti ad arte, per non precludere i potenzialmente ricchi mercati arabi (…), l’Italia non sarebbe stata ostile nemmeno a Israele» (5).

I primi viaggi marittimi dallItalia in Palestina

La prima nave clandestina a salpare dall’Italia verso il futuro Stato d’Israele partì dal porto di Bari il 21 agosto 1945 e riuscì a raggiungere il porto di Tel Aviv il 25, senza farsi intercettare dagli inglesi i quali si attenevano alle disposizioni del «Libro Bianco» del 1939, che limitavano l’immigrazione ebraica e l’acquisto delle terre dei palestinesi. Le cose andarono diversamente per quanto riguarda il viaggio da La Spezia verso la Palestina del 4 aprile 1946 quando 1.014 profughi ebrei cercarono di imbarcarsi su tre navi, che furono bloccate a La Spezia dagli inglesi. Soltanto l’8 maggio del 1946 le tre navi partirono, ma mentre le prime due riuscirono ad arrivare in Palestina, la terza chiamata Exodus fu bloccata dagli inglesi. Tuttavia, nonostante la decisione di «chiudere un occhio», l’ingresso sempre crescente e divenuto massiccio nel 1947 di ebrei in Italia «turbava non poco le autorità italiane, tanto che il 23 gennaio (…) il ministero degli Interni fece arrivare alla presidenza del Consiglio un appunto dettagliato sulla situazione: «Trattasi di gente che, in grande maggioranza, si dedica ad attività improduttive ed illegali (…) senza vantaggio e anzi con detrimento del Paese che li ospita»» (6).

In effetti, dopo aver preso parte alla guerra partigiana nell’Italia settentrionale, la «Brigata ebraica dell’Esercito britannico» trasportò «rifugiati e armi destinate all’addestramento nei campi di transito e ai combattenti ebrei in Palestina» e facilitò «le azioni di sabotaggio contro le industrie italiane sospettate di commerciare con i nemici arabi» (7). Ma l’Italia si trovava in un certo senso con le mani legate, poiché «i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche internazionali ‘fanno apertamente comprendere - secondo il funzionario del Viminale autore della segnalazione - di poter influire, a seconda del nostro atteggiamento, sullopinione pubblica americana nei riguardi dellItalia’» (8). Inoltre, nei primi anni successivi alla fondazione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), il movimento sionista ebbe come alleati sia gli USA che l’URSS (9). Soltanto l’Inghilterra aveva rappresentato un pericolo sino al 1947, quando, dopo una serie di attentati terroristici ebraici contro di essa, aveva rinunciato al «Mandato» e solo nel 1948 gli arabi si schierarono apertamente ed effettivamente contro Israele appena nato (10). Verso la fine del 1947 e l’inizio del 1948 tre agenti del Mossad «acquistarono sei navi con cui trasportare le armi (in Israele). Navi in gran parte italiane, con bandiera italiana ed equipaggi italiani»(11).

I primi attentati in suolo italiano

Nel 1948 l’obiettivo principale del Mossad non erano più i profughi, oramai già giunti in Palestina, ma le armi per Israele ed impedire che gli arabi ne ottenessero in egual misura (12). Il problema presente era costituito dalla nave Lino battente bandiera italiana, che conteneva un grosso carico di armi per i siriani. «Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia era divenuta la base operativa dei terroristi ebrei dell’Irgun e della Banda Stern in lotta contro Sua Maestà britannica, e dell’organizzazione dell’immigrazione ebraica clandestina, madre di uno dei più potenti servizi segreti del mondo, il Mossad» (13). La nave partì dal porto di Fiume, raggiunse Molfetta ove dovette fermarsi a causa del maltempo che imperversava. L’11 aprile del 1948 i quotidiani italiani davano la notizia di una misteriosa esplosione sulla Lino, che era stata affondata, ma non distrutta e il cui carico di armi giaceva sul fondo del porto di Bari verso il quale la nave si era diretta dopo aver lasciato Molfetta. Damasco, che aveva acquistato legalmente le armi reclamava, la sua proprietà e l’Italia non poté fare a meno di autorizzare il recupero delle casse di materiale bellico. Allora «Ada Sereni, oramai rappresentante ufficiale in Italia dei servizi segreti del nuovo Stato (d’Israele), decise di impedire ai siriani di impossessarsi delle armi legittimamente acquistate e custodite a Bari» (14).
Grazie al sostegno tacito e occulto dato dai servizi segreti italiani al Mossad, quando le armi furono ripescate e riposte nel deposito del porto di Bari e poi caricate nel battello Argiro per essere trasportate verso la fine di agosto del 1948 in Siria via Beirut, due marinai israeliani presero il posto di due italiani, che si erano dati per ammalati. Fu allora che avvenne «un piccolo sabotaggio compiuto da uno dei due militari israeliani. Alla richiesta di aiuto del comandante risponde un peschereccio, casualmente nei dintorni. E’ un battello del Mossad. Due marinai del peschereccio salgono a bordo della nave italiana e con l’aiuto di altri agenti imbarcati non hanno difficoltà ad assumere il controllo e puntare su Israele» (15).

Lattentato allAmbasciata britannica i Roma

L’Italia è stata teatro di azioni ancora più eclatanti. Il 30 settembre 1946 a Roma vicino alla Breccia di Porta Pia, in via XX settembre, venne fatta esplodere una bomba presso l’Ambasciata britannica, che cercava di far rispettare i patti del «Libro Bianco» del 1939. Tre uomini del Mossad sistemano due valigie davanti all’ingresso dell’Ambasciata, contenenti cinquanta chili di tritolo che esplodono la notte del 30 alle 2 e 34; «l’esplosione è violentissima e distrugge buona parte dell’edificio» (16), inoltre «danneggia tutti gli stabili vicini all’Ambasciata (…), il portiere di uno degli stabili è leggermente contuso» (17). Il 4 novembre l’Irgun rivendica l’attentato, richiamandosi a Garibaldi, a Mazzini e a Cavour, «apostoli della guerra per la libertà». L’Irgun dopo aver fatto entrare in Palestina migliaia di ebrei, come l’Haganah e il Mossad aliyah bet, andò oltre e, contro la volontà di Ben Gurion, «riprese, con estrema durezza, la lotta armata contro le truppe britanniche presenti sul territorio. Vittime delle azioni in Palestina - terrorismo, come sarebbe stato subito battezzato dagli inglesi e dallo Stesso Ben Gurion - sono soldati e civili inglesi, arabi e anche ebrei» (18). Questa volta in Italia Polizia e carabinieri non possono «chiudere un occhio» e devono andare sino in fondo. Arrestano vari esponenti del Betar e un militante dell’Irgun.

Ma «il 27 novembre un certo professor Smertenko, vicepresidente della ‘Lega americana per una libera Palestina’, si rivolge a trentasei corrispondenti della stampa italiana e straniera in una sala del Grand Hotel di Roma. La conferenza, convocata per parlare delle condizioni di detenzione di una decina di ebrei all’interno delle indagini sull’attentato all’Ambasciata britannica, si trasforma rapidamente in una requisitoria contro le autorità italiane e in una difesa della libertà di opinione. «La Gran Bretagna ha dichiarato guerra al popolo ebraico». E dunque, anche se compiere attentati, come riconosce l’esponente ebraico, è reato per la legge italiana, non dovrebbe costituire reato appartenere a un’organizzazione clandestina, come l’Irgun, soltanto perché minaccia altri attentati contro interessi britannici in Italia e altrove» (19). Eric Salerno conclude citando un incontro avuto col professor Yehezkel Dror dell’Università ebraica di Gerusalemme, studioso dei cosiddetti «regimi canaglia», il quale gli disse che «se Gheddafi non fosse esistito, toccava inventarlo. Era così comodo addossare a lui tutto ciò che di nefasto succedeva tra il Mediterraneo e l’Africa. Egli non poteva costituire una vera minaccia per l’Occidente. Così è stato con l’Irgun in Europa, incolpato di tutte le azioni terroristiche di matrice ebraica. Ma sia prima della fondazione dello Stato d’Israele sia subito dopo erano ben altri militanti ebrei e agenti segreti israeliani a colpire nel cuore dell’Italia» (20).

I sabotaggi delle industrie di armamenti militari italiane

Il capitolo VI del libro di Eric Salerno (pagine 83-96) è dedicato al sabotaggio delle industrie italiane che rifornivano i Paesi arabi. Il 14 agosto 1948 vi fu all’aeroporto di Venezia un attentato, per fortuna sventato, contro due aerei destinati all’Egitto (pagina 87). Subito dopo gli egiziani avevano acquistato regolarmente cinque vecchi Dc-3 da una società di Firenze e il Mossad avrebbe voluto distruggerli prima della loro partenza, ma per timore che le autorità italiane, onde non perdere un prezioso acquirente come l’Egitto, non potesse «chiudere un occhio» su tale vicenda, non se ne fece nulla (pagina 88). Il terzo attentato contro la nave Rosalyn, che caricava regolarmente armi per l’Egitto nel porto di Genova, abortì poiché uno degli attentatori, Gideon Rosen, si fece scoppiare in mano l’ordigno che stava preparando (pagina 88). Qualche settimana dopo nell’agosto del 1948 all’aeroporto di Venegono presso Varese, l’Aeronautica Macchi finì nel mirino dei sabotatori del Mossad. Il Cairo aveva acquistato dalla Macchi una ventina di caccia modello 205. Si decise di intervenire. Le basi del Mossad a Nemi e a Milano vennero allertate; l’esplosivo venne trasferito da Nemi a Milano e il 18 settembre avvenne l’attentato (pagina 89), che «solo per un caso fortunato non ha provocato, oltre ad ingenti danni, vittime umane» (Corriere della Sera, 19 settembre 1948). Inoltre il Mossad ebbe contatti con vari esponenti del MSI, la cui nascita fu favorita dagli Stati Uniti (21), specialmente con Pino Romualdi, «che, per sua stessa ammissione, fornì l’esplosivo usato dai terroristi ebrei per devastare l’ambasciata britannica a Roma» (22).

Nell’ottica anti-sovietica altri ex repubblichini collaborarono con gli USA e Israele, ad esempio Junio Valerio Borghese (23). Nel capitolo IX (pagine 117-124) Eric Salerno parla dei rapporti tra il Mossad e la «X Mas» per affondare le navi della flotta egiziana tramite la tecnica, sperimentata durante la RSI, dei «maiali» o piccoli motosiluranti su cui un incursore sommozzatore sedeva a cavalcioni e lo dirigeva contro una nave nemica, per lasciarlo a pochi metri dall’impatto. E’ Ada Sereni a prendere contatti con alcuni reduci della «X Mas» e uno di essi (Fiorenzo Capriotti) si occupa di far spedire in Israele sei motosiluranti Mas, acquistati dal Mossad presso la «Cabi Cattaneo» di Milano (pagine 121-122). «Sul lago di Tiberiade (…), il marò addestra le nuove reclute che avrebbero sferrato l’attacco all’ammiraglia egiziana Emir Farouk, alla fonda del porto di Gaza (…). Il successo degli uomini addestrati da Capriotti e dei «maiali» importati dall’Italia è totale. L’ammiraglia egiziana, con a bordo reparti scelti pronti a dar man forte alle truppe impegnate nel Negev per cercare di bloccare il nemico, va a fondo e viene danneggiata anche una dragamine di scorta» (pagina 123).

La nascita dellaviazione israeliana a Roma

Il capitolo XI (pagine 131-147) tratta della nascita dellaviazione da guerra israeliana a Roma, ove nel 1948 presso l’aeroporto dell’Urbe sulla via Salaria venivano addestrati in segreto, da piloti italiani e americani, volontari e anche mercenari ebrei, che si sarebbero ingaggiati nell’aviazione da guerra dello Stato d’Israele. Lì «aerei da trasporto e altri velivoli più o meno grandi con poche modifiche venivano trasformati in caccia e bombardieri diretti in Israele» (pagina 136). Inoltre anche l’URSS riforniva di armi Israele, via Roma, servendosi delle acciaierie Skoda della Cecoslovacchia (Il Messaggero, 6 novembre 1948). I piloti israeliani erano allenati anche in territorio sovietico (pagina 137), ma l’URSS riforniva pure i Paesi arabi. «Nel 1992, il pilota istruttore Guerrini raccontava dalle pagine del Mensile di aeronautica la storia della scuola da dove uscirono, nel giro di appena nove mesi, una sessantina di piloti. Nella pratica, all’Urbe nacque l’Aviazione israeliana» (pagina 138).

Anche i cadetti della Marina Militare israeliana furono addestrati dalla Marina Militare italiana. L’Italia voleva aiutare Israele ma non voleva rompere con gli arabi: «in questo clima fu deciso di accogliere i cadetti ‘a condizione tuttavia che da parte israeliana ci si impegni formalmente a non dare alla cosa pubblicità alcuna’» (pagina 154).

Rappresaglia a Roma

Per quanto riguarda la rappresaglia ordinata da Golda Meir dopo la strage di Monaco nel settembre 1972, si sa con certezza che il giornalista giordano Wail Zwaiter, ucciso con dodici rivoltellate il 16 ottobre del ‘72 a Roma in via Annibaliano n° 4 vicino piazza Sant’Emerenziana dal commando del Mossad diretto da Mike Harari, non faceva parte di «Settembre nero» né si era mai occupato di guerriglia, anzi le era completamente ostile. Però «il gruppo operativo comandato da Mike Harari, non aveva il compito di distinguere tra colpevoli o innocenti. L’ordine arrivato dalla bocca di Golda Meir era di colpire un certo numero di militanti palestinesi. Che fosse una rappresaglia era chiaro a tutti» (24). Il risultato ottenuto dal Mossad fu di far cessare ogni altra azione di «Settembre nero».

Validità del principio di causalità

Eric Salerno fa una considerazione che mi sembra non priva di fondamento: «Separare la causa dall’effetto significa mantenere nel buio ciò che è molto chiaro e semplice. Non si può fingere di credere che a Monaco, per esempio, vi sia stata un’esplosione di violenza in una situazione di pace: la violenza in Medio Oriente è endemica da più di sessant’anni, precisamente da quando l’Occidente intese assicurare i propri interessi imperialistici a spese di un popolo i cui interessi non furono, allora come oggi, tenuti in considerazione» (25). Vale a dire: senza l’invasione della Palestina nel 1948, non vi sarebbe stata Monaco 1972, «sine causa nullo effectu» direbbe Aristotele.

«Argo 16» e «Lodo Moro»

Nel capitolo XVI del suo libro (pagina 191-198) l’Autore parla dei casi Argo 16 (23 novembre 1973) e Aldo Moro (1973-1978). Argo 16 è il nome dell’aereo italiano con il quale due terroristi, che a Ciampino si accingevano ad abbattere con missili terra-aria l’aereo El Al con a bordo Golda Meir, dopo essere stati rimessi in libertà provvisoria, furono accompagnati il 30 ottobre 1973, clandestinamente, in Libia. Tre settimane dopo, il 23 novembre 1973 alle sette del mattino Argo 16 si schiantò al suolo con i suoi quattro componenti dell’equipaggio. «Lo stesso equipaggio che aveva condotto i palestinesi a Tripoli. Incidente o attentato? (…). Il generale Gianadelio Maletti (…), in presenza del generale Vito Miceli e di altri ufficiali, si disse convinto che si era trattato di un atto di sabotaggio compiuto da agenti del Mossad (26). Anni dopo il generale Ambrogio Viviani, capo del controspionaggio dal 1970 al 1974, sembrava condividere l’ipotesi (…). Sulle pagine del Giornale Miceli afferma: «Fu fatto esplodere». Su Panorama Viviani è ancora più esplicito: «Si è trattato di un avvertimento un po’ cruento dei Servizi d’Israele al governo italiano»» (pagine 192-193). Il giudice della Procura di Venezia Carlo Mastelloni, cui fu affidato il caso, ritiene che l’Argo 16 sia stato sabotato e lega tale attentato oltre al trasporto dei due palestinesi in Libia al patto o «Lodo Moro», ossia all’intesa tra il governo italiano, di cui Moro era allora ministro degli Esteri, e l’OLP.
L’Italia si garantiva l’immunità da attacchi terroristici palestinesi e in cambio chiudeva un occhio sul trasporto attraverso il suo suolo di armi ed esplosivi diretti altrove. «Il patto, ovviamente, non stava bene a Israele. E il sabotaggio di Argo 16 a giudizio di Mastelloni , sarebbe una ritorsione non soltanto per la liberazione dei due palestinesi (…), ma un avvertimento legato al complesso delleconcessioniitaliane ai nemici di Tel Aviv» (pagina 194). Inoltre per quanto riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, secondo ciò che ha rivelato nel 2005 l’ex vice segretario della DC Giovanni Galloni, il Mossad e la CIA si erano infiltrati nelle BR in vista di una «destabilizzazione dell’Italia (…) al fine di indurre lAmerica a vedere Israele come lunico punto di riferimento alleato nel Mediterraneo per averne in tal modo maggiore sostegno in termini politici e militari» (pagina 197).

Conclusione

1) Se qualcuno vuol saperne di più, può acquistare il libro di Eric Salerno ed anche gli altri citati. Ma attenzione a non presumere di poter conoscer tutto delle vicende storiche che hanno agitato l’Italia dal 1945 ad oggi, come del resto tutta la storia dell’umanità della quale molti elementi li conosceremo solo al Giudizio Universale.


2) Il primo terrorismo non è stato quello degli integralisti arabi, ma quello dell’estremismo sionista (Irgun), dietro il quale si è celato spesso il Mossad, che ha colpito in Palestina sin dal 1937 e anche in Italia e a Roma nel 1946, circa trent’anni prima di «Settembre Nero».

3) I governi e i servizi segreti italiani hanno sempre (e non solo nel «dopo-Craxi») giocato la doppia carta di aiutare Israele e di non ostacolare apertamente il mondo arabo.

4) Il terrorismo israeliano si rifaceva a Mazzini e Garibaldi per giustificare lazione armata in vista della libertà di opinione e di possesso della patria dei loro antichi antenati, che nel 135 avevano lasciato la Syria-Palestina: «La Gran Bretagna ha dichiarato guerra a Israele col ‘Libro Bianco’ del 1939 e Israele si difende con azioni di guerra di liberazione».

5) A Roma vi fu una rappresaglia «democratica» nel 1972 contro un giornalista non terrorista, colpevole di perorare la causa palestinese, ma l’unica rappresaglia condannata è quella tedesca del 1944 dopo l’attentato di via Rasella. Tuttavia il «principio di causalità» è universale, quindi dovrebbe valere anche per la «Cave Ardeatine»: senza via Rasella (causa) non ci sarebbero state le Ardeatine (effetto). Invece Harari è un eroe e Priebke un criminale.

6) Gli anni Settanta o anni di piombo in Italia sono stati telecomandati dai servizi segreti israeliani, americani e italiani, che si son serviti anche di bassa manovalanza italiana di sinistra e di destra per destabilizzare l’Italia in modo che gli USA non la considerassero più utile come punto d’appoggio per la politica estera e la guerra fredda, ma si rivolgessero a Israele e lo finanziassero contro il terrorismo comunista e arabo quale unico baluardo dell’Occidente contro il pericolo bolscevico (ieri) e arabo (oggi).

7) Alla larga da servizi segreti, anche non deviati! Sono quelli più pericolosi.

Don Curzio Nitoglia

Le scelte e i rischi nella riduzione del deficit


Un´ondata di austerità fiscale sta per abbattersi sull´Europa e sull´America. La voragine dei disavanzi di bilancio – parimenti all´ampiezza della recessione – ha colto molti di sorpresa. Malgrado le proteste da parte di coloro che fino a ieri sostenevano la deregulation e vorrebbero che il governo restasse passivamente a guardare, la maggior parte degli economisti crede che la spesa pubblica abbia fatto davvero la differenza, e abbia contribuito a scongiurare una seconda Grande Depressione.

La maggior parte degli economisti è altresì concorde nel ritenere che sia sbagliato guardare a un solo aspetto del bilancio (sia nel settore privato sia in quello pubblico). È infatti necessario non limitarsi esclusivamente a considerare di che cosa sia debitore un Paese o un´azienda, ma anche quali siano gli asset di cui dispone.
La spesa pubblica – specialmente con investimenti nell´istruzione, nelle tecnologie e nelle infrastrutture – di fatto può portare a diminuire il disavanzo sul lungo periodo. A scatenare la crisi è stata anche la miopia delle banche, la loro mancata lungimiranza. Ora non possiamo assolutamente permettere che la miopia del governo – pungolato dal settore finanziario – la prolunghi oltre.
Crescita e rendimenti più immediati per gli investimenti pubblici portano a più alti introiti fiscali, e un utile del 5-6 per cento sarebbe già più che sufficiente per controbilanciare i temporanei aumenti del debito pubblico nazionale.

Infine, altro punto su cui concordano gli economisti è che, se si eccettuano queste considerazioni, l´entità più appropriata per un disavanzo dipende in buona parte dallo stato generale dell´economia. Quanto più un´economia è debole tanto più avrà un disavanzo maggiore; l´entità più appropriata per un deficit a fronte di una recessione dipende da circostanze ben precise.
È a questo punto, però, che gli economisti iniziano a essere in disaccordo tra loro. Effettuare previsioni è sempre difficile, e a maggior ragione in tempi di crisi. Ciò che è accaduto (per fortuna) non accade tutti i giorni: sarebbe pertanto sconsiderato guardare al passato per ipotizzare come andrà a finire questa crisi.

In America, per esempio, la percentuale di indebitamento e di fallimenti è a livelli mai visti da almeno 75 anni. Il calo del credito nel 2009 è stato il più consistente dal 1942. Anche i raffronti con la Grande Depressione sono artificiosi, perché l´economia odierna è molto diversa da quella di allora per vari aspetti.
Nondimeno, anche con cospicui disavanzi, la crescita economica negli Stati Uniti e in Europa resta anemica. I rischi sono asimmetrici: se ci sarà una ripresa più robusta, allora naturalmente le spese potranno essere tagliate e/o le tasse aumentate. Ma se le previsioni sono esatte, invece, allora un´uscita prematura dal deficit spending rischia di spingere l´economia nuovamente in recessione.

Questi punti sono pertinenti in particolare alle economie più duramente colpite. Il Regno Unito, per esempio, ha vissuto un´esperienza più difficile rispetto ad altri Paesi per un´ovvia ragione: ha vissuto una bolla nel settore immobiliare e la finanza - che è l´epicentro stesso della crisi – ha rivestito un ruolo più importante nella sua economia di quanta ne abbia avuta in altri Paesi.

La performance più scadente del Regno Unito non è l´esito di politiche peggiori: anzi, rispetto agli Stati Uniti il suo piano di salvataggio in extremis delle banche e le sue politiche per il mercato del lavoro sono state di gran lunga migliori, per molti aspetti.
A mano a mano che l´economia globale ritorna alla crescita, i governi naturalmente dovrebbero tener pronti dei programmi finalizzati ad aumentare le imposte e tagliare le spese. Inevitabilmente, raddrizzare il bilancio sarà al centro di controversie. Principi quali «è meglio tassare le cose cattive che le buone» potrebbero consigliare di varare tasse nel settore ambientale.

Quanto al settore finanziario, ha imposto enormi esternalità sul resto della società. Il settore finanziario americano ha inquinato il mondo intero con i suoi mutui tossici e, in linea con il ben noto e valido principio del «chi inquina paga», le tasse dovrebbero pagarle gli Usa. Oltretutto, imposizioni fiscali ben congegnate nel settore finanziario potrebbero alleviare i problemi provocati da un eccessivo leverage e dalle banche «troppo grandi per fallire». Imporre un prelievo fiscale alle attività speculative potrebbe in definitiva incoraggiare le banche a prestare maggiore attenzione alle modalità con le quali espletano il loro ruolo sociale fondamentale di fornire credito.
Su un più lungo periodo, la maggior parte degli economisti è concorde nel ritenere che i governi dovrebbero preoccuparsi della sostenibilità delle loro politiche. Ma dobbiamo essere prudenti e cauti nei confronti di un atteggiamento feticista verso il disavanzo.

I deficit per finanziare le guerre o gli sprechi nel settore finanziario (come si sono registrati su scala gigantesca negli Stati Uniti) hanno condotto a passività senza asset corrispondenti, imponendo di fatto un gravoso fardello alle generazioni future. Invece, investimenti pubblici redditizi in grado di ripagarsi abbondantemente possono effettivamente migliorare il futuro delle prossime generazioni, e sarebbe quindi doppiamente sconsiderato rifilare loro i debiti nei quali si è incorsi per una spesa improduttiva, e poi tagliare gli investimenti produttivi.

Queste sono questioni che andranno affrontate soltanto in seguito – in molti Paesi le prospettive di una ripresa consistente sono, nel migliore dei casi, lontane ancora uno o due anni. Per adesso, l´economia non lascia adito a dubbi: non vale la pena correre il rischio di ridurre la spesa pubblica.
di Joseph Stiglitz

16 marzo 2010

La morte del dollaro con una crisi stile Grecia?




Yuan contro il dollaro per il ruolo di valuta estera globale

L’abitudine di accumulare riserve di dollari da parte delle banche centrali è diventata sempre più spiccata dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, quando gli speculatori valutari hanno accelerato una crisi della bilancia dei pagamenti di Thailandia, Indonesia e Corea del Sud richiedendo dollari per le valute locali ed esaurendo le riserve di dollari delle banche centrali.
Facendo un salto in avanti di 13 anni, la posizione del dollaro come valuta di riserva preferenziale nel mondo è stata messa in discussione a causa di un disavanzo di bilancio in rapido aumento che mantiene gli Stati Uniti dipendenti dai finanziamenti dall’estero. Lo scorso anno sia Russia che Cina hanno proposto un tipo di “valuta di riserva sovranazionale” per contrastare il dollaro mentre Brasile e India hanno anche discusso della sostituzione di altre attività per i loro titoli espressi in dollari.

Il FMI: “Quel giorno deve ancora venire”

Riaccendendo la discussione, Dominique Strauss-Kahn, il direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha detto venerdì scorso che sarebbe “intellettualmente apprezzabile esaminare” la creazione di una nuova valuta di riserva globale per limitare la dipendenza dal dollaro.
Strauss-Kahn ha affermato che un giorno ci potrà essere un’attività di riserva emessa globalmente ma che “quel giorno deve ancora venire”. Ad ogni modo le sue osservazioni sono il segnale di una preoccupazione più generale in merito al predominio del dollaro e “fino a che punto l’intero sistema monetario internazionale dipende dalle politiche e dalle condizioni di un singolo paese, seppur dominante”.

Tutto questo rende inevitabile la domanda: quale sarà la prossima valuta di riserva globale che subentrerà al dollaro?

Le riserve di dollari: dieci anni di declino

L’ultimo rapporto sul foreign exchange pubblicato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti mostra che la percentuale delle riserve di dollari è in costante diminuzione – anche prima della crisi finanziaria. Nel 2009 il dollaro costituiva ancora circa il 60% delle riserve estere, con l’euro a meno del 30% e più distanziati sterlina e yen (vedi grafico).





Secondo il Peterson Institute for International Economics, anche se il dollaro rimane la più importante valuta di riserva nel corso degli ultimi dieci anni fino al primo trimestre del 2009, con la correzione per gli effetti dei tassi di cambio la quota del dollaro nelle riserve del foreign exchange, a conti fatti, è diminuita del 4,3%.

Gli elementi di una valuta di riserva

Il rapporto del Tesoro americano indica diversi elementi chiave che sono stati identificati dagli economisti per determinare l’utilizzo di una valuta per le riserve:
• la dimensione dell’economia nazionale
• l’importanza dell’economia nel commercio internazionale
• la dimensione, la forza e l’apertura dei mercati finanziari
• la convertibilità della valuta
• l’utilizzo della valuta come valuta di ancoraggio
• le politiche macroeconomiche nazionali

I PIIGS stroncano l’euro

Sulla base di questi criteri, l’eurozona, simile agli Stati Uniti per dimensione, quota di commercio globale e convertibilità della valuta, rende l’euro un valido contendente per la corona del dollaro. E, a differenza del dollaro, nel corso degli ultimi dieci anni l’euro ha costantemente guadagnato quote di mercato nelle riserve estere globali ed è diventato la seconda valuta più diffusa (vedi grafico).
Purtroppo, il debito e problemi di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) hanno danneggiato seriamente la fiducia e la credibilità dell’Unione Europea e dell’euro, stroncando sostanzialmente le possibilità dell’euro di essere un’alternativa al dollaro.
L’euro ha già raggiunto i minimi degli ultimi dodici mesi nei confronti dello yen, e i minimi degli ultimi nove mesi nei confronti del dollaro sulla speculazione che la valutazione del credito greco venga declassata ulteriormente. E’ anche in discussione la possibilità che l’Unione Europea e l’euro rimangano in condizioni soddisfacenti.

Il dollaro regna con liquidità suprema

Anche senza considerare il tracollo greco, è difficile competere nei confronti del dollaro con una tale carenza di liquidità all’interno dell’eurozona. Un motivo importante per cui il dollaro americano rimane la valuta di riserva è che il mercato obbligazionario americano è il mercato più liquido nel suo genere. Un mercato di debito liquido consente alle banche centrali di intervenire nei mercati foreign exchange per attutire le fluttuazioni delle valute.
Come è stato fatto notare dal rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti:
“L’euro non è diventato equivalente al dollaro come valuta di riserva perché non esiste un mercato comune del debito nazionale all’interno dell’eurozona”.
Da questo punto di vista la sterlina e lo yen, le altre due valute di riserva preferenziali dopo l’euro, appaiono sbiadite in confronto al dollaro in termini di liquidità e agevolazioni del commercio globale. Inoltre, Moody’s ha messo in guardia su possibili declassamenti di Regno Unito e Giappone a causa del debito elevato, del pagamento degli interessi e di una crescita lenta del PIL (lunedì, ad un certo punto, la sterlina stava letteralmente precipitando ed è scesa ai minimi degli ultimi dieci mesi nei confronti del dollaro di fronte alle rinnovate preoccupazioni di un Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta).

Oro o yuan?

Mentre in molti sostengono un gold standard internazionale, o un altro sistema monetario internazionale basato su un paniere di materie prime e/o valute, è molto difficile vedere un adeguato consenso internazionale che ne decreti realmente la fattibilità.
Perciò dietro le quinte sta aspettando il renminbi cinese (RMB), detto anche yuan. La nomina di Zhu Min, vicegovernatore della banca centrale cinese, nelle vesti di consulente speciale al FMI sembra indicare il sì della Cina al programma per una valuta globale. Il Fondo, storicamente guidato da europei ma dominato dagli Stati Uniti, ha cercato di coinvolgere anche le economie emergenti come Brasile, Cina, India e Russia.
Ma secondo l’economista Geng Xiao, direttore del Brookings-Tsinghua Center for Public Policy, è nell’interesse della Cina – e del mondo – non liberarsi ancora del dollaro.

La rivalutazione dello yuan non risolve nulla

In un’intervista con McKinsley Quarterly, Xiao ha fatto notare che, da ambo le parti, non c’è stata alcuna discussione sullo squilibrio commerciale tra Cina e Stati Uniti. Tuttavia esistono alcune differenze filosofiche tra i due poiché gli Stati Uniti pongono una maggiore enfasi sulla correzione a breve termine attraverso il prezzo e il tasso di cambio del RMB mentre i cinesi pongono una maggiore enfasi sul cambiamento strutturale e istituzionale a medio e lungo termine. Xiao ritiene che sia difficile che il tasso di cambio corregga la bilancia commerciale:
“Anche se si modifica il tasso di cambio, questo avrà un modestissimo impatto sul disavanzo commerciale americano perché gli Stati Uniti compreranno da altri paesi”.

Tempo di riformare e fluttuare

La Cina ha bisogno di tempo per approvare le difficili riforme economiche in ambito nazionale prima che possa consentire alla propria valuta di fluttuare liberamente nei confronti del dollaro, come spiega Xiao:
“La Cina ha bisogno di un benchmark in modo che il prezzo possa essere confrontato con il prezzo globale, con la struttura di prezzo, compatibile con l’efficienza. E’ per questa ragione che la riforma dei prezzi è più importante della modifica del tasso di cambio… la modifica del tasso di cambio non cambierebbe le inefficienze… perché gli aiuti interni sono ancora presenti”.
Xiao valuta che alla Cina occorreranno dai 5 ai 10 anni per correggere le proprie distorsioni – la riforma terriera, la riforma del settore energetico, la riforma delle aziende di proprietà statale e la previdenza sociale. Solo quando la produttività della Cina raggiungerà quella degli Stati Uniti le strutture dei prezzi dei due paesi potranno convergere.

Lo scenario peggiore

Uno scenario peggiore potrebbe verificarsi se la Cina consentisse il perdurare delle aspettative di apprezzamento del RMB, costruendo ulteriori riserve foreign exchange, come avvisa Xiao:
“Non vedo altri modi per la Cina per ridurre in modo significativo la quantità di titoli in dollari… ma se incalzata, la Cina può sempre fare di più. E anche se marginalmente, anche solo un po’ di più può avere un grosso impatto sul mercato”.

Il dollaro comanda… per ora

Sicuramente, nel corso del tempo, la Cina dovrebbe essere in grado di trasformarsi in una moderna economia di mercato. E se l’economia cinese continua a cresce al ritmo attuale, il RMB alla fine diventerà una delle valute di riserva importanti, come il dollaro americano.
Ma per ora, ci sono diversi elementi a forte sostegno del dollaro. Oltre ad un mercato del debito liquido, molte materie prime, tra cui petrolio e oro, sono quotate nella moneta americana. All’incirca l’88% delle attività giornaliere del foreign exchange interessano dollari americani. Una moneta sostanzialmente agevola il commercio globale ed è possibile stabilire il prezzo delle materie prime in modo omogeneo ovunque esse vengano trattate.
E la Cina, il principale debitore degli Stati Uniti con un immenso pacchetto di titoli del Tesoro pari a 894,8 miliardi di dollari alla fine del dicembre scorso, si sta spostando verso titoli americani a più lungo termine e, contemporaneamente, sta accumulando azioni americane, aumentando il suo pacchetto complessivo di titoli americani a lungo termine.
Gli enormi pacchetti cinesi di riserve di dollari sotto forma di titoli del Tesoro americano sono diventati oggetto di preoccupazione per i funzionari da entrambe le coste del Pacifico. Tuttavia rimane il fatto che, facendo un confronto, il dollaro rimane la valuta più liquida e più stabile. In tal senso, è improbabile che nell’immediato futuro la Cina riduca in modo significativo i propri pacchetti di attività in dollari.

Detronizzato entro il 2050 ?

La maggior parte degli esperti occidentali sembra concordare sul fatto che la prospettiva di una sostituzione del dollaro con una nuova valuta di riserva mondiale è difficile che si materializzi presto perché non c’è alcuna alternativa seria all’orizzonte.
Rimangono dubbi anche sul fatto che i cinesi possano contrastare il biglietto verde. Ad ogni modo sembra si stia formando un’opinione più o meno comune tra vari esperti occidentali sul fatto che i cinesi abbiano intrapreso chiaramente il cammino per sfidare il dollaro in un periodo di transizione di 10-15 anni, il che coincide approssimativamente con le proiezioni di Geng Xiao.
L’economista britannico Angus Maddison prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti entro il 2015. Tracciando un parallelo storico con l’ultimo avvicendamento nella valuta di riserva (dalla sterlina inglese al dollaro americano) ci si attende che il renminbi cinese subentri al dollaro come valuta di riserva intorno al 2050, alla metà del ventunesimo secolo.

La morte del dollaro con una crisi in stile-Grecia?

Nel frattempo, anche se la crisi del debito delle nazioni più in difficoltà dell’Europa meridionale si è ultimamente impadronita delle prime pagine dei giornali, Moody’s e i suoi pari hanno espresso preoccupazioni sulla prosperità finanziaria di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, concentrandosi principalmente sul debito e gli impegni debito di queste nazioni più grandi.

Ad esempio, l’interesse pagato sul debito del Tesoro americano è in crescita esponenziale negli ultimi due anni e ci si attende che raggiunga i 700 miliardi di dollari all’anno entro la fine del decennio. E’ probabile che il rapporto tra debito totale e PIL superi il 90% quest’anno negli Stati Uniti, indebitando il paese addirittura più di Spagna e Portogallo. Mentre gli Stati Uniti si stanno godendo la posizione di valuta di riserva, questa non è assolutamente garantita per il futuro. Per ora gli investitori stanno cercando rifugio nel mercato obbligazionario americano. Ad ogni modo un sistema politico malato, il debito e il disavanzo potrebbero far affondare inevitabilmente l’America in una crisi in stile Grecia, spingendo ancor di più per una morte anticipata del dollaro.

di Dian L. Chu

L’Italia, Israele e il Mossad dal 1945 ai giorni nostri

Eric Salerno, giornalista e inviato speciale del Messaggero, esperto di questioni mediorientali, ha scritto nel 2010 un interessante e documentato libro intitolato «Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste», Milano, Il Saggiatore, 258 pagine, 19 euro. L’autore cerca di far luce sulla cronaca italiana degli ultimi sessant’anni, durante i quali gli agenti del Mossad hanno iniziato le loro attività, con la complicità almeno implicita dei governi italiani, a partire dal 1945 con l’immigrazione clandestina degli ebrei europei in Italia per farli poi espatriare in Palestina. Egli descrive, con l’aiuto di colloqui avuti con Mike Harari, un agente o meglio l’ex capo delle operazioni clandestine del Mossad incaricato da Golda Meir di vendicare gli atleti israeliani uccisi Monaco nel 1972, e del giudice Claudio Mastelloni, che ha indagato per molti anni sulle vicende dei servizi segreti italiani e israeliani ed infine delle cronache giudiziario-giornalistiche (1), le varie vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, e sulle quali non è stata fatta ancora completa chiarezza: a partire dall’immigrazione clandestina di migliaia di ebrei diretti in Palestina, dal traffico internazionale con scalo in Italia di armi dirette verso la futura Israele, sino ai vari sabotaggi delle industrie belliche italiane che rifornivano gli arabi e specialmente l’Egitto, passando per diversi attentati che hanno insanguinato la nostra patria (l’aereo Argo 16, l’uccisione del giornalista palestinese Wail Zwaiter assassinato a Roma per rappresaglia dopo Monaco 1972 e il caso Moro). Il pregio del libro, ben studiato e condotto su fatti e documenti, è quello di non presumere di saper tutto, soprattutto in un campo misterioso e pieno di depistaggi e doppiogiochismi come quello dei servizi segreti, ma di fermarsi a congetture, possibilità o probabilità ove manchi la prova certa, senza voler fare un passaggio indebito dal possibile al reale o al certamente evidente. Solo in caso di prove chiare ed esplicite l’autore ci mette di fronte all’evidenza del fatto. Ne risulta un quadro che getta una luce nuova sulle vicende che oramai hanno preso una piega ben definita non solo in Medio Oriente, ma anche in Italia e nel resto del mondo. Il ruolo giocato da Israele sin dal primo dopoguerra in Italia è enorme. Non prenderne atto significherebbe non voler vedere la realtà. Ma il prenderne atto non significa sapere tutto di ogni cosa. «Nescire qaedam magna pars sapientiae». Del resto le sorti delle due guerre mondiali sono state decise in gran parte dal ruolo dei servizi segreti dei Paesi belligeranti; come in ogni guerra che è stata fatta su questa terra, non ci si è serviti solo delle armi, ma anche dell’Intelligence.

De Gasperi, Ada Sereni e Israele

Dopo la Seconda Guerra Mondiale migliaia di ebrei volevano allontanarsi dall’Europa semidistrutta per recarsi in USA o in Australia, ma «gli inviati della ‘Palestina ebraica’ riuscirono a convincere decine di migliaia di persone a trovare rifugio in Medio Oriente, dove presto, anche grazie a loro, sarebbe nato uno Stato ebraico» (2). Nel giro di tre anni almeno ventiseimila ebrei furono fatti espatriare clandestinamente in Palestina. La Gran Bretagna, che avendo il «Mandato» sulla Terra Santa, si opponeva ad una immigrazione in massa degli ebrei in Palestina e cercava perciò di arginare il flusso migratorio, entrò, quindi, nel mirino del terrorismo ebraico, che per primo insanguinò la Terra Santa. Frattanto «in Italia i campi d’accoglienza si riempivano e si svuotavano rapidamente» (3).

Ada Sereni, ebrea romana, nata Ascarelli, era il capo italiano del Mossad per le operazioni di espatrio verso la Palestina. Lei stessa nel suo libro «I clandestini del mare», Milano, Mursia, 1973, racconta dell’incontro che ebbe con Alcide De Gasperi per ottenere una tacita copertura da parte del governo e dei servizi segreti italiani sulle attività che il Mossad avrebbe dovuto svolgere in Italia per farvi giungere e poi espatriare verso la Terra Santa i propri connazionali dell’Europa del nord. La Sereni chiese a De Gasperi di «chiudere un occhio, e possibilmente due sulle nostre attività in Italia» (4). Eric Salerno commenta: «Gli italiani si accorsero sin dall’inizio dell’immigrazione clandestina e dei campi provvisori dove venivano ospitati gli ebrei arrivati dal resto dell’Europa, ma non soltanto chiusero un occhio, aiutarono quando e come poterono. Aiutarono anche nella fase successiva, quando il Mossad, parallelamente allimmigrazione clandestina, si impegnò nelladdestramento militare dei rifugiati, nellacquisizione darmi e nel loro trasporto in Palestina, nella lotta per impedire agli arabi di armarsi anche quando questo significava il sabotaggio di industrie e impianti italiani e di loro prodotti (…). A parte i rapporti ambigui, costruiti ad arte, per non precludere i potenzialmente ricchi mercati arabi (…), l’Italia non sarebbe stata ostile nemmeno a Israele» (5).

I primi viaggi marittimi dallItalia in Palestina

La prima nave clandestina a salpare dall’Italia verso il futuro Stato d’Israele partì dal porto di Bari il 21 agosto 1945 e riuscì a raggiungere il porto di Tel Aviv il 25, senza farsi intercettare dagli inglesi i quali si attenevano alle disposizioni del «Libro Bianco» del 1939, che limitavano l’immigrazione ebraica e l’acquisto delle terre dei palestinesi. Le cose andarono diversamente per quanto riguarda il viaggio da La Spezia verso la Palestina del 4 aprile 1946 quando 1.014 profughi ebrei cercarono di imbarcarsi su tre navi, che furono bloccate a La Spezia dagli inglesi. Soltanto l’8 maggio del 1946 le tre navi partirono, ma mentre le prime due riuscirono ad arrivare in Palestina, la terza chiamata Exodus fu bloccata dagli inglesi. Tuttavia, nonostante la decisione di «chiudere un occhio», l’ingresso sempre crescente e divenuto massiccio nel 1947 di ebrei in Italia «turbava non poco le autorità italiane, tanto che il 23 gennaio (…) il ministero degli Interni fece arrivare alla presidenza del Consiglio un appunto dettagliato sulla situazione: «Trattasi di gente che, in grande maggioranza, si dedica ad attività improduttive ed illegali (…) senza vantaggio e anzi con detrimento del Paese che li ospita»» (6).

In effetti, dopo aver preso parte alla guerra partigiana nell’Italia settentrionale, la «Brigata ebraica dell’Esercito britannico» trasportò «rifugiati e armi destinate all’addestramento nei campi di transito e ai combattenti ebrei in Palestina» e facilitò «le azioni di sabotaggio contro le industrie italiane sospettate di commerciare con i nemici arabi» (7). Ma l’Italia si trovava in un certo senso con le mani legate, poiché «i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche internazionali ‘fanno apertamente comprendere - secondo il funzionario del Viminale autore della segnalazione - di poter influire, a seconda del nostro atteggiamento, sullopinione pubblica americana nei riguardi dellItalia’» (8). Inoltre, nei primi anni successivi alla fondazione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), il movimento sionista ebbe come alleati sia gli USA che l’URSS (9). Soltanto l’Inghilterra aveva rappresentato un pericolo sino al 1947, quando, dopo una serie di attentati terroristici ebraici contro di essa, aveva rinunciato al «Mandato» e solo nel 1948 gli arabi si schierarono apertamente ed effettivamente contro Israele appena nato (10). Verso la fine del 1947 e l’inizio del 1948 tre agenti del Mossad «acquistarono sei navi con cui trasportare le armi (in Israele). Navi in gran parte italiane, con bandiera italiana ed equipaggi italiani»(11).

I primi attentati in suolo italiano

Nel 1948 l’obiettivo principale del Mossad non erano più i profughi, oramai già giunti in Palestina, ma le armi per Israele ed impedire che gli arabi ne ottenessero in egual misura (12). Il problema presente era costituito dalla nave Lino battente bandiera italiana, che conteneva un grosso carico di armi per i siriani. «Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia era divenuta la base operativa dei terroristi ebrei dell’Irgun e della Banda Stern in lotta contro Sua Maestà britannica, e dell’organizzazione dell’immigrazione ebraica clandestina, madre di uno dei più potenti servizi segreti del mondo, il Mossad» (13). La nave partì dal porto di Fiume, raggiunse Molfetta ove dovette fermarsi a causa del maltempo che imperversava. L’11 aprile del 1948 i quotidiani italiani davano la notizia di una misteriosa esplosione sulla Lino, che era stata affondata, ma non distrutta e il cui carico di armi giaceva sul fondo del porto di Bari verso il quale la nave si era diretta dopo aver lasciato Molfetta. Damasco, che aveva acquistato legalmente le armi reclamava, la sua proprietà e l’Italia non poté fare a meno di autorizzare il recupero delle casse di materiale bellico. Allora «Ada Sereni, oramai rappresentante ufficiale in Italia dei servizi segreti del nuovo Stato (d’Israele), decise di impedire ai siriani di impossessarsi delle armi legittimamente acquistate e custodite a Bari» (14).
Grazie al sostegno tacito e occulto dato dai servizi segreti italiani al Mossad, quando le armi furono ripescate e riposte nel deposito del porto di Bari e poi caricate nel battello Argiro per essere trasportate verso la fine di agosto del 1948 in Siria via Beirut, due marinai israeliani presero il posto di due italiani, che si erano dati per ammalati. Fu allora che avvenne «un piccolo sabotaggio compiuto da uno dei due militari israeliani. Alla richiesta di aiuto del comandante risponde un peschereccio, casualmente nei dintorni. E’ un battello del Mossad. Due marinai del peschereccio salgono a bordo della nave italiana e con l’aiuto di altri agenti imbarcati non hanno difficoltà ad assumere il controllo e puntare su Israele» (15).

Lattentato allAmbasciata britannica i Roma

L’Italia è stata teatro di azioni ancora più eclatanti. Il 30 settembre 1946 a Roma vicino alla Breccia di Porta Pia, in via XX settembre, venne fatta esplodere una bomba presso l’Ambasciata britannica, che cercava di far rispettare i patti del «Libro Bianco» del 1939. Tre uomini del Mossad sistemano due valigie davanti all’ingresso dell’Ambasciata, contenenti cinquanta chili di tritolo che esplodono la notte del 30 alle 2 e 34; «l’esplosione è violentissima e distrugge buona parte dell’edificio» (16), inoltre «danneggia tutti gli stabili vicini all’Ambasciata (…), il portiere di uno degli stabili è leggermente contuso» (17). Il 4 novembre l’Irgun rivendica l’attentato, richiamandosi a Garibaldi, a Mazzini e a Cavour, «apostoli della guerra per la libertà». L’Irgun dopo aver fatto entrare in Palestina migliaia di ebrei, come l’Haganah e il Mossad aliyah bet, andò oltre e, contro la volontà di Ben Gurion, «riprese, con estrema durezza, la lotta armata contro le truppe britanniche presenti sul territorio. Vittime delle azioni in Palestina - terrorismo, come sarebbe stato subito battezzato dagli inglesi e dallo Stesso Ben Gurion - sono soldati e civili inglesi, arabi e anche ebrei» (18). Questa volta in Italia Polizia e carabinieri non possono «chiudere un occhio» e devono andare sino in fondo. Arrestano vari esponenti del Betar e un militante dell’Irgun.

Ma «il 27 novembre un certo professor Smertenko, vicepresidente della ‘Lega americana per una libera Palestina’, si rivolge a trentasei corrispondenti della stampa italiana e straniera in una sala del Grand Hotel di Roma. La conferenza, convocata per parlare delle condizioni di detenzione di una decina di ebrei all’interno delle indagini sull’attentato all’Ambasciata britannica, si trasforma rapidamente in una requisitoria contro le autorità italiane e in una difesa della libertà di opinione. «La Gran Bretagna ha dichiarato guerra al popolo ebraico». E dunque, anche se compiere attentati, come riconosce l’esponente ebraico, è reato per la legge italiana, non dovrebbe costituire reato appartenere a un’organizzazione clandestina, come l’Irgun, soltanto perché minaccia altri attentati contro interessi britannici in Italia e altrove» (19). Eric Salerno conclude citando un incontro avuto col professor Yehezkel Dror dell’Università ebraica di Gerusalemme, studioso dei cosiddetti «regimi canaglia», il quale gli disse che «se Gheddafi non fosse esistito, toccava inventarlo. Era così comodo addossare a lui tutto ciò che di nefasto succedeva tra il Mediterraneo e l’Africa. Egli non poteva costituire una vera minaccia per l’Occidente. Così è stato con l’Irgun in Europa, incolpato di tutte le azioni terroristiche di matrice ebraica. Ma sia prima della fondazione dello Stato d’Israele sia subito dopo erano ben altri militanti ebrei e agenti segreti israeliani a colpire nel cuore dell’Italia» (20).

I sabotaggi delle industrie di armamenti militari italiane

Il capitolo VI del libro di Eric Salerno (pagine 83-96) è dedicato al sabotaggio delle industrie italiane che rifornivano i Paesi arabi. Il 14 agosto 1948 vi fu all’aeroporto di Venezia un attentato, per fortuna sventato, contro due aerei destinati all’Egitto (pagina 87). Subito dopo gli egiziani avevano acquistato regolarmente cinque vecchi Dc-3 da una società di Firenze e il Mossad avrebbe voluto distruggerli prima della loro partenza, ma per timore che le autorità italiane, onde non perdere un prezioso acquirente come l’Egitto, non potesse «chiudere un occhio» su tale vicenda, non se ne fece nulla (pagina 88). Il terzo attentato contro la nave Rosalyn, che caricava regolarmente armi per l’Egitto nel porto di Genova, abortì poiché uno degli attentatori, Gideon Rosen, si fece scoppiare in mano l’ordigno che stava preparando (pagina 88). Qualche settimana dopo nell’agosto del 1948 all’aeroporto di Venegono presso Varese, l’Aeronautica Macchi finì nel mirino dei sabotatori del Mossad. Il Cairo aveva acquistato dalla Macchi una ventina di caccia modello 205. Si decise di intervenire. Le basi del Mossad a Nemi e a Milano vennero allertate; l’esplosivo venne trasferito da Nemi a Milano e il 18 settembre avvenne l’attentato (pagina 89), che «solo per un caso fortunato non ha provocato, oltre ad ingenti danni, vittime umane» (Corriere della Sera, 19 settembre 1948). Inoltre il Mossad ebbe contatti con vari esponenti del MSI, la cui nascita fu favorita dagli Stati Uniti (21), specialmente con Pino Romualdi, «che, per sua stessa ammissione, fornì l’esplosivo usato dai terroristi ebrei per devastare l’ambasciata britannica a Roma» (22).

Nell’ottica anti-sovietica altri ex repubblichini collaborarono con gli USA e Israele, ad esempio Junio Valerio Borghese (23). Nel capitolo IX (pagine 117-124) Eric Salerno parla dei rapporti tra il Mossad e la «X Mas» per affondare le navi della flotta egiziana tramite la tecnica, sperimentata durante la RSI, dei «maiali» o piccoli motosiluranti su cui un incursore sommozzatore sedeva a cavalcioni e lo dirigeva contro una nave nemica, per lasciarlo a pochi metri dall’impatto. E’ Ada Sereni a prendere contatti con alcuni reduci della «X Mas» e uno di essi (Fiorenzo Capriotti) si occupa di far spedire in Israele sei motosiluranti Mas, acquistati dal Mossad presso la «Cabi Cattaneo» di Milano (pagine 121-122). «Sul lago di Tiberiade (…), il marò addestra le nuove reclute che avrebbero sferrato l’attacco all’ammiraglia egiziana Emir Farouk, alla fonda del porto di Gaza (…). Il successo degli uomini addestrati da Capriotti e dei «maiali» importati dall’Italia è totale. L’ammiraglia egiziana, con a bordo reparti scelti pronti a dar man forte alle truppe impegnate nel Negev per cercare di bloccare il nemico, va a fondo e viene danneggiata anche una dragamine di scorta» (pagina 123).

La nascita dellaviazione israeliana a Roma

Il capitolo XI (pagine 131-147) tratta della nascita dellaviazione da guerra israeliana a Roma, ove nel 1948 presso l’aeroporto dell’Urbe sulla via Salaria venivano addestrati in segreto, da piloti italiani e americani, volontari e anche mercenari ebrei, che si sarebbero ingaggiati nell’aviazione da guerra dello Stato d’Israele. Lì «aerei da trasporto e altri velivoli più o meno grandi con poche modifiche venivano trasformati in caccia e bombardieri diretti in Israele» (pagina 136). Inoltre anche l’URSS riforniva di armi Israele, via Roma, servendosi delle acciaierie Skoda della Cecoslovacchia (Il Messaggero, 6 novembre 1948). I piloti israeliani erano allenati anche in territorio sovietico (pagina 137), ma l’URSS riforniva pure i Paesi arabi. «Nel 1992, il pilota istruttore Guerrini raccontava dalle pagine del Mensile di aeronautica la storia della scuola da dove uscirono, nel giro di appena nove mesi, una sessantina di piloti. Nella pratica, all’Urbe nacque l’Aviazione israeliana» (pagina 138).

Anche i cadetti della Marina Militare israeliana furono addestrati dalla Marina Militare italiana. L’Italia voleva aiutare Israele ma non voleva rompere con gli arabi: «in questo clima fu deciso di accogliere i cadetti ‘a condizione tuttavia che da parte israeliana ci si impegni formalmente a non dare alla cosa pubblicità alcuna’» (pagina 154).

Rappresaglia a Roma

Per quanto riguarda la rappresaglia ordinata da Golda Meir dopo la strage di Monaco nel settembre 1972, si sa con certezza che il giornalista giordano Wail Zwaiter, ucciso con dodici rivoltellate il 16 ottobre del ‘72 a Roma in via Annibaliano n° 4 vicino piazza Sant’Emerenziana dal commando del Mossad diretto da Mike Harari, non faceva parte di «Settembre nero» né si era mai occupato di guerriglia, anzi le era completamente ostile. Però «il gruppo operativo comandato da Mike Harari, non aveva il compito di distinguere tra colpevoli o innocenti. L’ordine arrivato dalla bocca di Golda Meir era di colpire un certo numero di militanti palestinesi. Che fosse una rappresaglia era chiaro a tutti» (24). Il risultato ottenuto dal Mossad fu di far cessare ogni altra azione di «Settembre nero».

Validità del principio di causalità

Eric Salerno fa una considerazione che mi sembra non priva di fondamento: «Separare la causa dall’effetto significa mantenere nel buio ciò che è molto chiaro e semplice. Non si può fingere di credere che a Monaco, per esempio, vi sia stata un’esplosione di violenza in una situazione di pace: la violenza in Medio Oriente è endemica da più di sessant’anni, precisamente da quando l’Occidente intese assicurare i propri interessi imperialistici a spese di un popolo i cui interessi non furono, allora come oggi, tenuti in considerazione» (25). Vale a dire: senza l’invasione della Palestina nel 1948, non vi sarebbe stata Monaco 1972, «sine causa nullo effectu» direbbe Aristotele.

«Argo 16» e «Lodo Moro»

Nel capitolo XVI del suo libro (pagina 191-198) l’Autore parla dei casi Argo 16 (23 novembre 1973) e Aldo Moro (1973-1978). Argo 16 è il nome dell’aereo italiano con il quale due terroristi, che a Ciampino si accingevano ad abbattere con missili terra-aria l’aereo El Al con a bordo Golda Meir, dopo essere stati rimessi in libertà provvisoria, furono accompagnati il 30 ottobre 1973, clandestinamente, in Libia. Tre settimane dopo, il 23 novembre 1973 alle sette del mattino Argo 16 si schiantò al suolo con i suoi quattro componenti dell’equipaggio. «Lo stesso equipaggio che aveva condotto i palestinesi a Tripoli. Incidente o attentato? (…). Il generale Gianadelio Maletti (…), in presenza del generale Vito Miceli e di altri ufficiali, si disse convinto che si era trattato di un atto di sabotaggio compiuto da agenti del Mossad (26). Anni dopo il generale Ambrogio Viviani, capo del controspionaggio dal 1970 al 1974, sembrava condividere l’ipotesi (…). Sulle pagine del Giornale Miceli afferma: «Fu fatto esplodere». Su Panorama Viviani è ancora più esplicito: «Si è trattato di un avvertimento un po’ cruento dei Servizi d’Israele al governo italiano»» (pagine 192-193). Il giudice della Procura di Venezia Carlo Mastelloni, cui fu affidato il caso, ritiene che l’Argo 16 sia stato sabotato e lega tale attentato oltre al trasporto dei due palestinesi in Libia al patto o «Lodo Moro», ossia all’intesa tra il governo italiano, di cui Moro era allora ministro degli Esteri, e l’OLP.
L’Italia si garantiva l’immunità da attacchi terroristici palestinesi e in cambio chiudeva un occhio sul trasporto attraverso il suo suolo di armi ed esplosivi diretti altrove. «Il patto, ovviamente, non stava bene a Israele. E il sabotaggio di Argo 16 a giudizio di Mastelloni , sarebbe una ritorsione non soltanto per la liberazione dei due palestinesi (…), ma un avvertimento legato al complesso delleconcessioniitaliane ai nemici di Tel Aviv» (pagina 194). Inoltre per quanto riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, secondo ciò che ha rivelato nel 2005 l’ex vice segretario della DC Giovanni Galloni, il Mossad e la CIA si erano infiltrati nelle BR in vista di una «destabilizzazione dell’Italia (…) al fine di indurre lAmerica a vedere Israele come lunico punto di riferimento alleato nel Mediterraneo per averne in tal modo maggiore sostegno in termini politici e militari» (pagina 197).

Conclusione

1) Se qualcuno vuol saperne di più, può acquistare il libro di Eric Salerno ed anche gli altri citati. Ma attenzione a non presumere di poter conoscer tutto delle vicende storiche che hanno agitato l’Italia dal 1945 ad oggi, come del resto tutta la storia dell’umanità della quale molti elementi li conosceremo solo al Giudizio Universale.


2) Il primo terrorismo non è stato quello degli integralisti arabi, ma quello dell’estremismo sionista (Irgun), dietro il quale si è celato spesso il Mossad, che ha colpito in Palestina sin dal 1937 e anche in Italia e a Roma nel 1946, circa trent’anni prima di «Settembre Nero».

3) I governi e i servizi segreti italiani hanno sempre (e non solo nel «dopo-Craxi») giocato la doppia carta di aiutare Israele e di non ostacolare apertamente il mondo arabo.

4) Il terrorismo israeliano si rifaceva a Mazzini e Garibaldi per giustificare lazione armata in vista della libertà di opinione e di possesso della patria dei loro antichi antenati, che nel 135 avevano lasciato la Syria-Palestina: «La Gran Bretagna ha dichiarato guerra a Israele col ‘Libro Bianco’ del 1939 e Israele si difende con azioni di guerra di liberazione».

5) A Roma vi fu una rappresaglia «democratica» nel 1972 contro un giornalista non terrorista, colpevole di perorare la causa palestinese, ma l’unica rappresaglia condannata è quella tedesca del 1944 dopo l’attentato di via Rasella. Tuttavia il «principio di causalità» è universale, quindi dovrebbe valere anche per la «Cave Ardeatine»: senza via Rasella (causa) non ci sarebbero state le Ardeatine (effetto). Invece Harari è un eroe e Priebke un criminale.

6) Gli anni Settanta o anni di piombo in Italia sono stati telecomandati dai servizi segreti israeliani, americani e italiani, che si son serviti anche di bassa manovalanza italiana di sinistra e di destra per destabilizzare l’Italia in modo che gli USA non la considerassero più utile come punto d’appoggio per la politica estera e la guerra fredda, ma si rivolgessero a Israele e lo finanziassero contro il terrorismo comunista e arabo quale unico baluardo dell’Occidente contro il pericolo bolscevico (ieri) e arabo (oggi).

7) Alla larga da servizi segreti, anche non deviati! Sono quelli più pericolosi.

Don Curzio Nitoglia

Le scelte e i rischi nella riduzione del deficit


Un´ondata di austerità fiscale sta per abbattersi sull´Europa e sull´America. La voragine dei disavanzi di bilancio – parimenti all´ampiezza della recessione – ha colto molti di sorpresa. Malgrado le proteste da parte di coloro che fino a ieri sostenevano la deregulation e vorrebbero che il governo restasse passivamente a guardare, la maggior parte degli economisti crede che la spesa pubblica abbia fatto davvero la differenza, e abbia contribuito a scongiurare una seconda Grande Depressione.

La maggior parte degli economisti è altresì concorde nel ritenere che sia sbagliato guardare a un solo aspetto del bilancio (sia nel settore privato sia in quello pubblico). È infatti necessario non limitarsi esclusivamente a considerare di che cosa sia debitore un Paese o un´azienda, ma anche quali siano gli asset di cui dispone.
La spesa pubblica – specialmente con investimenti nell´istruzione, nelle tecnologie e nelle infrastrutture – di fatto può portare a diminuire il disavanzo sul lungo periodo. A scatenare la crisi è stata anche la miopia delle banche, la loro mancata lungimiranza. Ora non possiamo assolutamente permettere che la miopia del governo – pungolato dal settore finanziario – la prolunghi oltre.
Crescita e rendimenti più immediati per gli investimenti pubblici portano a più alti introiti fiscali, e un utile del 5-6 per cento sarebbe già più che sufficiente per controbilanciare i temporanei aumenti del debito pubblico nazionale.

Infine, altro punto su cui concordano gli economisti è che, se si eccettuano queste considerazioni, l´entità più appropriata per un disavanzo dipende in buona parte dallo stato generale dell´economia. Quanto più un´economia è debole tanto più avrà un disavanzo maggiore; l´entità più appropriata per un deficit a fronte di una recessione dipende da circostanze ben precise.
È a questo punto, però, che gli economisti iniziano a essere in disaccordo tra loro. Effettuare previsioni è sempre difficile, e a maggior ragione in tempi di crisi. Ciò che è accaduto (per fortuna) non accade tutti i giorni: sarebbe pertanto sconsiderato guardare al passato per ipotizzare come andrà a finire questa crisi.

In America, per esempio, la percentuale di indebitamento e di fallimenti è a livelli mai visti da almeno 75 anni. Il calo del credito nel 2009 è stato il più consistente dal 1942. Anche i raffronti con la Grande Depressione sono artificiosi, perché l´economia odierna è molto diversa da quella di allora per vari aspetti.
Nondimeno, anche con cospicui disavanzi, la crescita economica negli Stati Uniti e in Europa resta anemica. I rischi sono asimmetrici: se ci sarà una ripresa più robusta, allora naturalmente le spese potranno essere tagliate e/o le tasse aumentate. Ma se le previsioni sono esatte, invece, allora un´uscita prematura dal deficit spending rischia di spingere l´economia nuovamente in recessione.

Questi punti sono pertinenti in particolare alle economie più duramente colpite. Il Regno Unito, per esempio, ha vissuto un´esperienza più difficile rispetto ad altri Paesi per un´ovvia ragione: ha vissuto una bolla nel settore immobiliare e la finanza - che è l´epicentro stesso della crisi – ha rivestito un ruolo più importante nella sua economia di quanta ne abbia avuta in altri Paesi.

La performance più scadente del Regno Unito non è l´esito di politiche peggiori: anzi, rispetto agli Stati Uniti il suo piano di salvataggio in extremis delle banche e le sue politiche per il mercato del lavoro sono state di gran lunga migliori, per molti aspetti.
A mano a mano che l´economia globale ritorna alla crescita, i governi naturalmente dovrebbero tener pronti dei programmi finalizzati ad aumentare le imposte e tagliare le spese. Inevitabilmente, raddrizzare il bilancio sarà al centro di controversie. Principi quali «è meglio tassare le cose cattive che le buone» potrebbero consigliare di varare tasse nel settore ambientale.

Quanto al settore finanziario, ha imposto enormi esternalità sul resto della società. Il settore finanziario americano ha inquinato il mondo intero con i suoi mutui tossici e, in linea con il ben noto e valido principio del «chi inquina paga», le tasse dovrebbero pagarle gli Usa. Oltretutto, imposizioni fiscali ben congegnate nel settore finanziario potrebbero alleviare i problemi provocati da un eccessivo leverage e dalle banche «troppo grandi per fallire». Imporre un prelievo fiscale alle attività speculative potrebbe in definitiva incoraggiare le banche a prestare maggiore attenzione alle modalità con le quali espletano il loro ruolo sociale fondamentale di fornire credito.
Su un più lungo periodo, la maggior parte degli economisti è concorde nel ritenere che i governi dovrebbero preoccuparsi della sostenibilità delle loro politiche. Ma dobbiamo essere prudenti e cauti nei confronti di un atteggiamento feticista verso il disavanzo.

I deficit per finanziare le guerre o gli sprechi nel settore finanziario (come si sono registrati su scala gigantesca negli Stati Uniti) hanno condotto a passività senza asset corrispondenti, imponendo di fatto un gravoso fardello alle generazioni future. Invece, investimenti pubblici redditizi in grado di ripagarsi abbondantemente possono effettivamente migliorare il futuro delle prossime generazioni, e sarebbe quindi doppiamente sconsiderato rifilare loro i debiti nei quali si è incorsi per una spesa improduttiva, e poi tagliare gli investimenti produttivi.

Queste sono questioni che andranno affrontate soltanto in seguito – in molti Paesi le prospettive di una ripresa consistente sono, nel migliore dei casi, lontane ancora uno o due anni. Per adesso, l´economia non lascia adito a dubbi: non vale la pena correre il rischio di ridurre la spesa pubblica.
di Joseph Stiglitz